lunedì 20 ottobre 2014

«L’arte è ciò che rende straordinario l’ordinario. Soltanto l’uomo ne è capace»

Makapansgat Pebble

Desmond Morris: Se crea, la scimmia non è una scimmia

"Corriere della Sera", 20 ottobre 2014

OXFORD (Inghilterra) «Per esempio...». Oh! Scusi solo un attimo. 
Ecco, la verità è che per fermare un fiume di passione come Desmond Morris non c’è altro modo. Zoologo, etologo, scrittore, giornalista, pittore surrealista nonché «viaggiatore» attraverso centosette Paesi da un capo all’altro del globo («Finora!», se la ride) quest’uomo di 86 anni vissuti sotto il segno dell’Acquario sta parlando da neanche un’ora, nel giardino della sua casa di Oxford, e di esempi ne avrà fatti già cinquanta. Uno più curioso e personale dell’altro. Tutti per spiegare con ironica e britannica pazienza il concetto attorno al quale ha costruito, sotto forma di una storia universale dell’arte dalle origini al presente, le 320 pagine e centinaia di immagini del suo ultimo libro: The Artistic Ape, uscito in Inghilterra l’anno scorso e appena tradotto per l’Italia da Rizzoli (La scimmia artistica). A quasi mezzo secolo dal suo bestseller che fu un caso mondiale, quella Scimmia nuda in cui esplorava la natura umana rispetto a quella dei primati, Morris torna ora sull’argomento per dire che cosa invece ci rende veramente unici rispetto a tutto il creato: e cioè l’arte, appunto. 
Perdoni ancora, poi continuiamo: senta come suona in italiano la fine del suo libro. 
«Inventando quella che chiamiamo arte abbiamo trovato il modo di migliorare la nostra vita e di arricchire il breve tempo che ci è concesso di trascorrere su questo pianeta tra la luce della nascita e la tenebra della morte». 
Le piace? 
«La vostra lingua mi è sempre piaciuta, e chiunque ami l’arte non può non amare l’Italia. Lo sa che il nostro più grande lessicografo, Sir James Murray, scrisse l’ Oxford English Dictionary proprio in questo giardino? Purtroppo arrivò solo alla lettera T... Sedeva proprio lì». 
Torniamo al suo esempio. Stava parlando del suo amico , il pittore Francis Bacon. 
«Un mio grande amico, sì. Dicevo di come sono fatti gli artisti. Francis era un genio, ma insicuro su tutto. Una volta aveva dipinto quello che secondo lui doveva essere un babbuino arrabbiato, con le fauci aperte verso il cielo. Lo aveva copiato da una foto, come faceva sempre. Mi chiese un parere da etologo: è realistico? In realtà il babbuino della foto stava solo sbadigliando. Ma non glielo dissi: avrebbe distrutto il quadro con lo stesso taglierino con cui nella sua vita ne distrusse centinaia». 
Ma l’arte, lei dice, è ciò che ci rende unici. 
«Beh, molti lo spiegherebbero con la bellezza. In realtà bisogna partire dalla caccia». 
Cioè? 
«Da un punto di vista biologico non c’è alcuna differenza estetica tra la Cappella Sistina, un tatuaggio, o una semplice piuma decorativa tra i capelli: nessuna di queste attività è essenziale per la nostra sopravvivenza fisica quanto lo sono cibo, acqua, un riparo». 
E allora? 
«Ma l’uomo è diventato quello che è diventato, grazie al proprio cervello. Si è affermato come cacciatore non perché più forte degli altri, ma perché più intelligente. E anche il cervello va nutrito. Così dopo la caccia, anziché dormire come i leoni, l’uomo è l’unico che ha sentito il bisogno di festeggiarla. Danzando, cantando, dipingendola e raccontandola. Premiando il cervello, oltre alla pancia, l’uomo gli ha dato un nuovo piacere. Ha scoperto che poteva rendere la realtà più intensa». 
Ed è per questo, lei scrive, che il nostro cervello ha orrore dell’inattività. 
«Non a caso essere rinchiusi in una cella da soli è considerata una punizione tra le più brutali». 
E cosa dice allora di Congo, di Sophie, insomma delle scimmie «artiste» di cui parla nel suo libro? 
«Ah, Congo... Quello scimpanzè cui mettemmo in mano matita e colori nel ‘56 fu in effetti impressionante. Più ancora della gorilla Sophie che sarebbe venuto dopo. Congo mostrava alcune caratteristiche simili a quelle dei bambini alle primissime armi: disegnava senza uscire dal foglio, i suoi segni avevano una certa coerenza, per esempio tracciava linee trasversali rispetto a una griglia data e che in qualche modo potevano essere lette come “variazione su un tema”, il più umano dei giochi estetici. Se gli toglievi la matita prima che avesse “finito” si infuriava. Ricordo una seduta, forse la ventiduesima, in cui raggiunse il suo vertice: tutti i disegni di quel giorno furono addirittura comprati in seguito da collezionisti privati. Uno lo acquistò persino Picasso!». 
Oddio, allora non siamo così unici... 
«E invece sì. Perché il vertice dell’espressione “artistica” a cui può arrivare una scimmia non è che il primo, elementare gradino da cui un bambino parte per esprimere la sua. L’arte fa parte di noi, perché ne abbiamo bisogno. E non ha necessariamente a che vedere con la bellezza». 
Ma se noi uomini siamo tali in quanto tutti siamo «artisti», perdoni la banalità, cosa distingue allora lo scarabocchio di un bambino dall’«Ultima Cena»? C’è un criterio? 
«Eh, lei mi fa la solita vecchia domanda di quelli che vogliono sapere che cos’è l’arte... Le risponderò mettendoci insieme anche le altre due cose che in realtà, a mio avviso, distinguono l’uomo dal resto. Mi riferisco naturalmente alla scienza e alla religione». 
Ebbene dica. 
«È quello che scrivo nel libro. L’arte è ciò che rende straordinario l’ordinario, per divertire il cervello. La scienza è ciò che rende semplice il complesso, per capire l’esistenza. La religione è ciò che rende credibile l’incredibile, per mitigare la paura della morte». 
E la bellezza non c’entra. 
«C’entra lo stupore. La famosa “meraviglia”, no? L’uomo è quell’animale che trasporta pietre gigantesche dove non c’erano per fare Stonehenge nella preistoria, che mette insieme cento milioni di tessere e due tonnellate d’oro per fare mille anni fa il mosaico pazzesco del Duomo di Monreale, ma anche quello che cuce i costumi del carnevale di Rio o che dipinge i caravan degli zingari. La molla è sempre la stessa». 
E perché quell’animale ha deciso, a un certo punto, che un orinatoio poteva valere milioni di dollari? 
«La questione della finanza e dell’arte è un’altra cosa, certo. Oggi il valore commerciale di un oggetto artistico è un concetto difficile da spiegare con criteri solo artistici. Una cosa vale milioni nel momento in cui qualcuno è disposto a pagarla milioni, punto. Se dico che voglio un miliardo per un sasso e qualcuno me lo dà, ecco, quel sasso vale un miliardo. Non piace neanche a me, ma è così».
E l’arte nel frattempo? 
«L’arte è sempre lì, e proprio opere come la Fontana del mio amico Duchamp sono una conferma di quel che dicevo. L’arte non ha a che vedere sempre con la bellezza, ma con lo stupore sì. E lo stupore nasce anche dal contesto: per esempio prendendo un orinatoio e mettendolo in un museo». 
Diciamo che per chi vedeva un Caravaggio era più facile distinguere. 
«Ma guardi che in un certo senso era più facile anche per Caravaggio! L’arte prima imitava la realtà, punto. Ampliandola, cambiandola, ma insomma sempre copiandola. Dopo la fotografia, che cosa potevano inventare gli artisti per stupire? La stessa contraddizione, peraltro, vale al contrario: l’arte non è mai stata tanto “visibile” da tutti come oggi, e allo stesso tempo mai tanto “difficile” da capire. Finiamo con una cosa buffa?» 
Certo che sì. 
«In realtà non abbiamo inventato niente: la prima opera d’arte riconosciuta come tale, risalente a tre milioni di anni fa, è un ciottolo di fiume conosciuto come Makapansgat Pebble. Somigliava a una faccia, ma era solo un sasso. Però un nostro antenato lo raccolse e lo portò nella grotta in cui gli archeologi lo trovarono. In quel momento diventò un’opera d’arte».

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