tag:blogger.com,1999:blog-18241306519152425302024-03-13T15:22:54.704+01:00illuminationsilluminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.comBlogger1300125tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-49137578643785108262019-07-15T07:11:00.000+02:002019-07-15T07:11:43.851+02:00Le tre nobildonne decapitate per adulterio<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://1.bp.blogspot.com/-wmIz22fk1sU/XSwJ0fMjUpI/AAAAAAAAFJI/jJl_bL3Ej-gP1jYrXUxWOIxF2M3EDE8mQCEwYBhgL/s1600/Decapitees.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="701" data-original-width="1248" height="356" src="https://1.bp.blogspot.com/-wmIz22fk1sU/XSwJ0fMjUpI/AAAAAAAAFJI/jJl_bL3Ej-gP1jYrXUxWOIxF2M3EDE8mQCEwYBhgL/s640/Decapitees.jpg" width="640" /></a></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><span style="font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;"><br /></span></b></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><span style="font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;"><br /></span></b></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><span style="font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;">AMEDEO
FENIELLO, </span><span style="font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman";">“La Lettura”, 14 luglio 2019<o:p></o:p></span></b></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><span style="color: black; font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US; mso-themecolor: text1;">Italia (poco)
rinascimentale Nel giro di 34 anni, dal 1391 al 1425, le mogli di tre potenti
signori, che governavano Mantova, Milano e Ferrara, vennero giustiziate per
ordine dei loro mariti con l’accusa di averli traditi. Un libro rievoca Agnese Visconti,
Beatrice di Tenda e Parisina Malatesta: costrette a subire matrimoni dinastici,
si ricamarono spazi di vita fatti di lusso e buone letture. Anche procurarsi un
amante, in casi del genere, diventava quasi una scelta di autonomia e di
libertà</span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><span style="color: #333333; font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;">A</span><span style="color: black; font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;">gnese
Visconti: decapitata nel 1391. Beatrice di Tenda: decapitata nel 1418. Parisina
Malatesta: decapitata nel 1425. Tre storie. Un medesimo destino, nell’Italia
rinascimentale. Vicende non sconosciute, che anzi hanno goduto, nell’Ottocento,
di una certa gloria musicale. Parisina venne cantata da Gaetano Donizetti e poi
(su libretto di Gabriele d’Annunzio) da Pietro Mascagni. <i>Beatrice di Tenda </i>è
un’opera di Vincenzo Bellini. Mentre Agnese rivive nel melodramma del maltese
Antonio Nani. Da allora, però, sono cadute nell’oblio, al quale hanno posto
rimedio due storici francesi innamorati dell’Italia, Élisabeth Crouzet-Pavan e
Jean-Claude Maire Vigueur, che hanno dedicato a loro il volume <i>Décapitées </i>(Albin
Michel), in uscita il 1° ottobre da Einaudi. <o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="color: black; font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;"><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">L’azione ci rimanda a un tempo
particolare, tra la fine del Trecento e il primo ventennio del secolo
successivo. All’Italia della formazione degli Stati territoriali, in una
situazione magmatica, non ancora ben fissata nella sua intelaiatura politica,
raggiunta in seguito con la pace di Lodi del 1454. Il racconto si sviluppa tra
le corti di Mantova, Ferrara e Milano, alla ricerca di queste donne, della loro
vita e del loro tragico destino. Sono una sorta di <i>cold case </i>da
dipanare, dicono gli autori, non per rintracciare un ipotetico serial killer,
ma per ricostruire uno scenario unico e originale, legato a un medesimo filo
rosso: l’accusa per tutte e tre di adulterio e la condanna alla decapitazione. In
un contesto di potere, intrighi, gelosie, rancori, arbitrarietà, alta politica
e bassa cucina giudiziaria.<o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="color: black; font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;"><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">Solo per Agnese Visconti ci fu un
processo. Per Beatrice, tortura e sentenza. A Parisina toccò solo un ordine,
rapido e glaciale, del marito. Agnese, moglie di Francesco I Gonzaga, signore di
Mantova, fu la prima, giustiziata alla mattina presto del 9 febbraio 1391. Era
stata sottoposta a un procedimento regolare, con verbali, testimonianze,
giudici e una sentenza di morte, per lei e per il suo amante, il valletto di
camera Antonio da Scandiano: Agnese, che era una nobildonna, ottenne l’onore
della decapitazione; per lui, un semplice servitore, ci fu l’umiliazione dell’impiccagione.
Più complessa è la storia di Beatrice, che fino alla fine giurò di essere stata
fedele al marito e di non<o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="color: black; font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;"><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">avere avuto nessun amante. Nonostante
ciò, venne costretta a posare la testa sul ceppo e ad affidare l’anima a Dio il
13 settembre 1418. Sulla sua presunta colpa, nessuna testimonianza diretta, ma
tutte di seconda mano, lontane dagli avvenimenti, come il racconto dell’umanista
Pier Candido Decembrio, autore della <i>Vita </i>del marito di Beatrice, il
duca di Milano Filippo Maria Visconti. La donna era innocente o no? I più
dicono di sì e aggiungono che la storia dell’adulterio fu inventata di sana
pianta da Filippo, per sbarazzarsi dell’ingombrante presenza di lei.<o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><span style="color: black; font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;">La terza è forse la storia più tragica:
una </span><span style="font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;">donna di 21 anni, Parisina Malatesta, che viene fatta
decapitare, il 22 maggio 1425, da un momento all’altro, di notte, di sorpresa,
dal marito, Niccolò III d’Este, signore di Ferrara, insieme al suo amante. Che
però non è uno qualsiasi, un valletto, un cameriere, un musico. No.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>È addirittura il figlio del precedente
matrimonio di Niccolò, Ugo, il «bel Ugo», di appena un anno più giovane della
ragazza. Condannati anch’essi a morire insieme. Tre storie, una medesima faccia
tragica della medaglia. E un retroscena ricco di particolari, a partire dagli
esecutori, i maschi, i mariti. <o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;"><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">Perché tutte e tre le donne furono spose di grandi
signori italiani, appartenenti a dinastie di primo piano come i Gonzaga, i
Visconti e gli Este. E, per la prima volta in assoluto, vennero punite per un
reato di adulterio con la pena più grave possibile, la morte per decapitazione.
Perché? Che cosa spinse i mariti a prendere una decisione tanto grave? A queste
domande, gli autori rispondono con una spiegazione oltremodo complessa, che
coniuga un insieme di motivi, sotterranei, intimi, irrazionali, legati alla
personalità delle tre donne e dei mariti, alle loro emozioni, alle passioni, ai
rancori, con tanti altri fattori che, pur tuttavia, pesarono: i vincoli
sociali, il senso dell’onore offeso, i calcoli politici, i giochi di potere. <o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;"><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">Tutte e tre le donne appartenevano al medesimo ambiente
aristocratico. Agnese era figlia del grande Bernabò Visconti, signore di Milano.
Beatrice era la meno prestigiosa, ma la più ricca e potente, ereditiera del suo
primo marito, Facino Cane, tra i più temuti signori della guerra italiani.
Parisina era una Malatesta, e il suo zio e tutore, Carlo, le permise di fare un
gran bel matrimonio con il più vecchio e titolato Niccolò d’Este. Donne,
insomma, che non scelgono il matrimonio ma lo subiscono, con decisioni a
priori, fredde e senza sentimenti, secondo strategie precise di una logica politica
che passava molto al di sopra delle loro esistenze. Costrette a una vita
separata, nelle loro stanze, nelle loro dimore, nei loro palazzi, lontane da
mariti spesso indifferenti se non brutali, come Niccolò—uomo dalle mille amanti—o
lo stesso Filippo Maria, evidentemente omosessuale.<o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;"><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">Sono ridotte in una condizione di strumentalità, all’interno
della quale esse si ricamano spazi di vita personali, distaccati, attorniate dal
lusso, in un clima di cultura, di buone letture, di toni musicali. Donne capaci
anche di esprimere il proprio carattere, come nel caso di Beatrice, tanto da
tener testa al marito e forse, proprio per questo, odiata. Dove forse, ed è una
delle chiavi di lettura del libro, l’adulterio si trasforma quasi in una scelta
consapevole di autonomia e di libertà, l’unico spazio di vita non scandito da
altri, ma costruito da loro e per loro. Tre donne, rivelate nel loro destino in
questo libro. Che rivivranno ancora il prossimo settembre nel corso del
festival del Medioevo (dal 25 al 29 a Gubbio), che avrà come tema <i>Donne. L’altro
volto della storia</i>.<o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;"><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><br /></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><a href="https://www.albin-michel.fr/ouvrages/decapitees-9782226435408" target="_blank"><span style="font-size: 12pt;">ÉLISABETH CROUZET-PAVAN - JEAN-CLAUDE
MAIRE VIGUEUR,</span><span style="color: #9f3b31; font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;"> </span></a><span style="color: black; font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;"><a href="https://www.albin-michel.fr/ouvrages/decapitees-9782226435408" target="_blank">Décapitées. Trois femmes dans l’Italie dela Renaissance, ALBIN MICHEL, 2019, Decapitate. Tre donne nell’Italiadel Rinascimento, traduzione di Rossana Lista, EINAUDI, in libreria dal 1° ottobre </a><o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><span style="color: black; font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;"><br /></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-size: 12pt;"><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b>Gli autori <o:p></o:p></b></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-size: 12pt;"><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="color: black; font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;"><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">Nata a Parigi nel 1953, Élisabeth
Crouzet-Pavan insegna storia alla Sorbona ed è una specialista di </span></span><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 12pt;">vicende della Repubblica di Venezia e
più in generale del tardo Medioevo. Jean- Claude Maire Vigueur, nato nel 1943,
insegna Storia medievale all’Università di Roma Tre. Si occupa principalmente
dei Comuni italiani. Tra i suoi libri usciti nel nostro Paese: </span><i style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 12pt;">L’ altra Roma
</i><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 12pt;">(traduzione di Paolo Garbini, Einaudi, 2011); </span><i style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 12pt;">Cavalieri e cittadini </i><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 12pt;">(traduzione
di Aldo Pasquali, il Mulino, 2004). Con Enrico Faini ha pubblicato </span><i style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 12pt;">Il
sistema politico dei Comuni italiani </i><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 12pt;">(Bruno Mondadori, 2010)</span></div>
<div class="MsoNormal" style="mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><span style="color: black; font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;">Inoltre Maire Vigueur ha curato il
volume a più voci <i>Signorie cittadine nell’Italia comunale </i>(Viella, 2013)
</span><span style="color: #9f3b31; font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;">L’epoca </span><span style="color: black; font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: EN-US;">Le vicende ricostruite nel libro <i>Décapitées </i>risalgono
alla fase in cui si andò delineando un equilibrio tra le signorie italiane,
ormai strutturate come entità statali. Il nuovo assetto venne sancito con la
pace di Lodi, firmata il 9 aprile 1454 tra le due principali potenze del Nord:
il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia .</span><span style="font-size: 12.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman";"><o:p></o:p></span></span></div>
<br /></div>
illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-26580978596271119172019-06-14T08:14:00.001+02:002019-06-14T08:14:42.248+02:00C’è un velo su Bisanzio<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://oltrelalinea.news/wp-content/uploads/2019/02/b89b705f840a1f280522f84c7f26ab41-1024x593.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="463" data-original-width="800" height="369" src="https://oltrelalinea.news/wp-content/uploads/2019/02/b89b705f840a1f280522f84c7f26ab41-1024x593.jpg" width="640" /></a></div>
<div style="background-color: white; color: #969696; font-family: Roboto, sans-serif, google; font-size: 16px; text-align: justify;">
<span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px; font-weight: 700;"><br /></span></div>
<div style="background-color: white; color: #969696; font-family: Roboto, sans-serif, google; font-size: 16px; text-align: justify;">
<span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px; font-weight: 700;">Paolo Mieli, </span><span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px; font-weight: 700;">"Corriere della Sera", 11 giugno 2019</span></div>
<div style="background-color: white; color: #969696; font-family: Roboto, sans-serif, google; font-size: 16px; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="background-color: white; color: #969696; font-family: Roboto, sans-serif, google; font-size: 16px; text-align: justify;">
<span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px; font-weight: 700;">Un saggio di Tommaso Braccini (Salerno) sulle antiche vicende della città che poi divenne Costantinopoli e oggi è Istanbul. Un nodo strategico essenziale per i traffici di ogni tipo sulle cui origini non esistono fonti davvero affidabili</span><br style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;" /><span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;">Nel IV secolo a. C. lo storico Teopompo di Chio riferiva di come ai suoi tempi Bisanzio fosse già molto conosciuta. Conosciuta anche come città del vizio, dal momento che gli abitanti si accalcavano per l’intera giornata al porto e al mercato tra postriboli e bettole, in cui affluiva il vino delle navi dirette verso il Mar Nero. Il commediografo Menandro in un frammento riferisce di «mercanti tutti ubriachi». Lo storico Filarco sosteneva che i Bizantini erano soliti affittare agli stranieri le loro stanze da letto, «mogli comprese». Stratonico di Atene alla metà del IV secolo a. C. raccontava che Bisanzio era soprannominata l’«ascella della Grecia» per i cattivi odori che la città emanava, con un probabile riferimento al grande commercio di pesce fresco ed essiccato. Si può dire che all’epoca l’odierna Istanbul fosse già famosissima. In ogni senso.</span><br style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;" /><span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;">La colonia greca Byzantion aveva mille anni di età allorché Costantino, all’inizio del IV secolo dell’era cristiana, fondò la Nuova Roma (questo il nome ufficiale che fu dato a Costantinopoli) sul Bosforo, fa notare Tommaso Braccini, in apertura di <em>Bisanzio prima di Bisanzio. Miti e fondazioni della Nuova Roma</em>, che sta per essere pubblicato da Salerno. Dopo la fondazione di Costantinopoli, «Byzantion, oltre che una città è diventata», sostiene Braccini, «un laboratorio mitografico in piena regola e non ha ancora smesso di esserlo». Ad alimentare questo «laboratorio mitografico» è stata innanzitutto quella che potremmo definire la propaganda ufficiale, ma nel corso dei secoli ha giocato un ruolo importante anche «il bisogno dei suoi abitanti di superare il trauma di una serie di rifondazioni radicali che talora li hanno fatti sentire come alieni in una terra incognita e potenzialmente ostile».</span><br style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;" /><span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;">Le «rinascite», secondo le leggende medievali, «non hanno azzerato quel che c’era prima, ma hanno progressivamente portato a compimento quel che era previsto da sempre». Ragion per cui quello delle origini di Bisanzio-Costantinopoli-Istanbul è un vero rompicapo per gli storici alle prese con un difficile lavoro di distinzione e di integrazione, tra impronte storiche vere e proprie (poche), ricostruzioni mitologiche e tracce archeologiche. A questo proposito Braccini riprende alcuni elementi già presenti nel libro da lui scritto con Silvia Ronchey, Il romanzo di Costantinopoli, edito da Einaudi. Ma qualcosa si può ritrovare anche nello straordinario L’impero che non voleva morire. Il paradosso di Bisanzio (640-740 d.C.) di John Haldon (Einaudi) e nel libro del turco Tursun Bey, La conquista di Costantinopoli, pubblicato da Mondadori.</span><br style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;" /><span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;">Il principale tra gli elementi che contraddistinguono Bisanzio fin dai suoi albori è costituito sicuramente dalla cornice naturale della città, a cavallo tra due continenti: il Bosforo, il Corno d’Oro, il promontorio Bosporio. A questa eccezionale collocazione geografica sono strettamente collegati altri elementi: l’importanza del commercio, la menzione dei viaggiatori (a partire dai mitici Argonauti) e anche gli assedi «che scandiscono di pari passo la storia reale e quella mitica della città». Su questo palcoscenico ideale si susseguono l’uno dopo l’altro i personaggi a cui viene attribuito il merito di aver fondato quella che sarà una «capitale imperiale». All’inizio — in varie fonti antiche come Dionisio — non ci sono «personalità dominanti». Viene evocato «un vero e proprio pulviscolo di colonizzatori provenienti da ogni parte della Grecia», oppure si fa cenno, forse più plausibilmente, a «un gruppo di fondatori megaresi, che si muovono lungo un Corno d’Oro e un Bosforo minutamente ricostruiti in tutti i loro anfratti, nelle calette e negli scogli». Si tratta spesso «di microtoponimi e riferimenti a piccole entità topografiche, che però significavano qualcosa nella vita di chi li vedeva ogni giorno e che, pertanto, nella ricostruzione di Dionisio, sono tutti collegati con miti e storie che spesso sono solo la variante locale di trame ben più diffuse, nell’antichità e oltre».</span><br style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;" /><span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;">In passato, scrive Braccini, si è oscillato tra due interpretazioni contrapposte dei miti di fondazione di questa città, miti «che sono una componente fondamentale di ogni identità pubblica»: in una prima fase, «secondo una prospettiva positivistica, si è creduto che conservassero in ogni caso un nucleo di verità storica e che andassero accuratamente setacciati in cerca di questa sorta di pagliuzze d’oro». Successivamente, con un approccio definito «costruttivistico», si è asserito che si trattasse di mere invenzioni finalizzate a «corroborare e illustrare peculiari istanze sociali e politiche proprie delle epoche e dei contesti culturali nei quali tanti miti furono di volta in volta elaborati».</span><br style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;" /><span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;">Entrambi gli elementi — sostiene Braccini — possono tranquillamente convivere: «Gli scampoli di realtà storica, spesso decontestualizzati e ridotti ai minimi termini, costituiscono altrettanti mattoni che, a fianco di veri e propri “motivi” mitici e folklorici ampiamente diffusi», contribuiscono a edificare una costruzione che non è certo neutra o oggettiva, «ma veicola volutamente l’immagine di sé vagheggiata» da chi l’ha costruita. Anche i «miti di fondazione» della colonia greca di Byzantion e l’«archeologia» relativa al passato di Costantinopoli precedente alla sua conquista da parte di Costantino «si adeguano al contesto nel quale vengono concepiti e raccontati». Alcuni temi o figure («non necessariamente attinenti alla realtà storica», specifica Braccini) si rivelano più resistenti e risultano attestati dall’antichità fino all’epoca ottomana. Altri invece sono più transitori e spesso attingono al patrimonio delle «leggende migratorie» che circolano «nel tempo e nello spazio, al contempo paradigma prestigioso e comodo serbatoio per corroborare e ampliare il passato di una città divenuta improvvisamente capitale di un impero, e successivamente, dopo il trauma di una conquista, di un altro».</span><br style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;" /><span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;">Per orientarsi tra le testimonianze, spesso pochissimo note, di storici, poeti, cronisti ed eruditi distribuiti in oltre un millennio e mezzo, è pressoché obbligatorio attingere alla Patria Costantinopolitana, una collezione di opere storiche compilata attorno al 995, ai tempi del regno di Basilio II. La Patria Costantinopolitana contiene il testo sulla storia di Bisanzio scritto dal pagano Esichio di Mileto nel VI secolo. Quella incentrata sulle antichità di Bisanzio era perlopiù «una microstoria locale, trovatasi inopinatamente su una ribalta mondiale»: troppo «gracile, frammentaria e provinciale perché potesse sostenere da sola il peso di elogi all’altezza del nuovo ruolo». Il problema che si trovarono di fronte i suoi panegiristi, in prosa e in poesia, fu dunque quello «di corroborare questi miti delle origini (anche ricorrendo a “prestiti” più o meno disinvolti) e renderli presentabili». Da un lato si cercò il più possibile di «sganciare le leggende da una madrepatria greca abbastanza oscura e insignificante»; dall’altro «di riorganizzarle e rileggerle sulla falsariga della storia romana… per enfatizzare come il destino di diventare una nuova Roma fosse già fatalmente scritto nell’origine e nella storia di Bisanzio». Discorso di cui si trovavano anticipazioni già nel libro di Gilbert Dagron, edito da Einaudi, Costantinopoli: nascita di una capitale (330-451).</span><br style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;" /><span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;">Lo storico Polibio ricordava come i Bizantini «abitassero un luogo che, per quanto ubicato in maniera non ottimale dalla parte di terra, godeva invece di una posizione invidiabile per sicurezza e prosperità rispetto al mare». Infatti, proseguiva, «la città dominava l’imboccatura del Ponto, al punto che non si poteva né entrare né uscire da esso senza il suo benestare». Dal Ponto giungevano merci utili e pregiate (Polibio le elenca: bestiame, schiavi, miele, cera, pesce secco) e ne conseguiva che i Bizantini ne erano i veri padroni. Lo stesso peraltro si poteva dire dell’olio e del vino che dal Mediterraneo passavano al Mar Nero e del grano che «era soggetto a flussi commerciali alterni».</span><br style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;" /><span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;">Se Bisanzio avesse deciso di bloccare il transito o si fosse schierata con i Galati e soprattutto i Traci, o se non fosse mai stata fondata e il controllo dello stretto fosse stato lasciato ai barbari, ipotizza l’autore, i Greci ben difficilmente avrebbero potuto godere di tali fondamentali commerci. Per questo motivo, conclude Polibio, era giusto considerare i Bizantini benefattori comuni di tutti e non limitarsi a essere loro grati, ma «mostrarsi anche pronti ad aiutarli nel caso di minaccia da parte dei barbari». A proposito dei Traci va aggiunto che sulle origini di Bisanzio ha a lungo gravato il sospetto (Braccini lo definisce lo «spettro») che avesse avuto una parte fondamentale proprio quel popolo considerato bestiale e incivile. Ciò che aveva spesso indotto «a minimizzare (anche se mai a eludere completamente) l’apporto locale alla nascita della futura colonia». Sarebbe stato imbarazzante attribuire ai Traci un ruolo di un qualche rilievo nella fondazione di quella che era destinata a diventare la capitale dell’impero.</span><br style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;" /><span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;">Ma torniamo ai traffici mercantili. Certo è, scrive Braccini, che a partire dal V secolo i diritti riscossi dalle navi in transito lungo il Bosforo costituirono una fonte di rendita sempre più importante al punto da fare gola agli Ateniesi e ad altri. I Bizantini, «liberisti ante litteram», ironizza l’autore, cercarono di ricorrervi il meno possibile, ma talora «finirono per cedere a questa tentazione soprattutto in circostanze di emergenza in cui c’era necessità di “fare cassa” rapidamente come in occasione della crisi causata nel III secolo dalla minaccia dei Galli stanziati nella vicina Tylis».</span><br style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;" /><span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;">Bisanzio fu sottoposta a numerosi assedi. Il primo, riferisce Esichio, fu quello di Odrise, re degli Sciti respinto con il lancio di rettili sull’esercito degli assalitori (dopodiché i Bizantini non fecero mai male ai serpenti come ricompensa per il «servigio reso»). Il più storicamente documentato fu quello di Filippo II di Macedonia (338 a.C.) di cui si parla ampiamente nel saggio di Luisa Prandi Taverne e bevitori di Bisanzio greca: a proposito delle vicende di Leone (pubblicato dalle Edizioni universitarie di Trieste). Il Leone di cui al titolo di questo studio sarebbe stato un oratore di Bisanzio che, da un’improvvisata discussione con il sovrano macedone, ne intuì le intenzioni aggressive e poté aiutare la sua città a resistergli. Il figlio di Filippo, Alessandro Magno, avrebbe poi collocato trombe alimentate dal vento per spaventare i «popoli impuri» di Gog e Magog (i Tatari) e tenerli lontani dalla città.</span><br style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;" /><span style="color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 14px;">L’ultimo assedio sarebbe stato quello di Settimio Severo (sul trono di Roma dal 193 al 211 d.C.). Ne parla Cassio Dione e, secondo Braccini, «il trauma della distruzione e della sanguinosa conquista della futura capitale dell’impero da parte di un imperatore romano rimase sempre vivo al punto che talora, in maniera fantasiosa, si cercò di negare» l’accaduto. Braccini da tutto ciò trae l’impressione «che le costruzioni di poeti, storici ed eruditi in merito al passato più remoto di Istanbul e, ancor prima, di Costantinopoli, siano simili alla nebbia che, nelle testimonianze di tanti viaggiatori, avvolgeva impenetrabile la città». Dal punto di vista dello storico tutto gli è parso come «un velo di affabulazioni, leggero, impalpabile, perennemente mutevole» che «sembra avviluppare gli edifici e il terreno». Qualche elemento naturale o architettonico «pare emergere, più o meno stabilmente, dalla coltre opaca»; ma a volte quello che sembrava concreto «non è che l’ennesimo miraggio». Molto meglio affrontare la «leggenda di Bisanzio» come «una costruzione culturale, spesso consapevole» che cerca di conciliare i racconti mitici «con le specificità in alcuni casi davvero notevoli, dell’antica colonia greca poi divenuta capitale mondiale». Che però conteneva tutta la sua grandezza quando era una colonia greca famosa per la promiscuità sessuale e i mercati maleodoranti.</span></div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-44434077512985378152017-10-30T16:08:00.001+01:002017-10-30T16:08:12.293+01:00Dai Longobardi a Murat, le sliding doors d’Italia<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<a href="https://1.bp.blogspot.com/-XbXFNkScQas/WfdAPm9bJYI/AAAAAAAAD3M/2wCMEySyFO8-pjJaaK5XRHYLhm7KLdafgCLcBGAs/s1600/pisto21.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="440" data-original-width="330" height="400" src="https://1.bp.blogspot.com/-XbXFNkScQas/WfdAPm9bJYI/AAAAAAAAD3M/2wCMEySyFO8-pjJaaK5XRHYLhm7KLdafgCLcBGAs/s400/pisto21.jpg" width="300" /></a></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><br /></span></div>
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: justify;">
<b>Ben prima dei Savoia furono diversi i tentativi di unificare la Penisola, ma le sorti delle armi furono avverse. Le cocenti sconfitte militari del Regno a partire dal 1866, poi, alimentarono il falso mito dell’italiano pessimo soldato</b></div>
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<b>Andrea Santangelo, "Il Fatto", 30 novembre 2017</b></div>
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Gli italiani vengono spesso accusati di avere scarso senso civico, poco amor di Patria e di essere pessimi soldati. Una delle spiegazioni che va per la maggiore è quella della nazione unita da troppo poco tempo. E controvoglia. L’unione fu imposta dalle élite e mai realmente accettata da ampi strati della popolazione. Per questo non ci fidiamo dello Stato e non siamo disposti a sacrificarci per esso, in primis militarmente. In realtà, ben prima dei Savoia ci furono tentativi di unificare politicamente la penisola, solo che la sorte delle armi fu avversa. Quelle battaglie sono diventate dei veri e propri <i>turning point</i> storico militari (o delle <i>sliding doors</i> se preferite la metafora cinematografica).</div>
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Dopo l’esperienza unificatrice dell’Impero romano, i primi ad avere un’idea di dominio dell’intera penisola furono quasi certamente i <b>Longobardi</b>. Il Papato glielo impedì, chiamando in Italia i Franchi di Carlo Magno che sconfissero i Longobardi, nel 773, nella battaglia delle Chiuse di San Michele. Il re dei Franchi divise saggiamente in due il suo esercito ed entrò in Italia da differenti percorsi (Moncenisio e Gran San Bernardo), mettendo in difficoltà il sistema difensivo longobardo, imperniato sulle Chiuse della Val di Susa. Dopo un rapido scontro, i Longobardi si ritirarono nella fortificata Pavia, dove poi si arresero. Se re Desiderio avesse sconfitto Carlo, la storia d’Italia avrebbe preso tutta un’altra piega e il Papato sarebbe divenuto un docile strumento al servizio della corona longobarda. Non andò così e lo Stato della Chiesa fu per tutto il Medioevo il principale ostacolo alle mire unionistiche italiane, chiamando spesso a suo supporto potenze estere. Anche diversi pontefici ebbero ambiziosi progetti di espansione, ma senza mai realmente possedere le forze militari per metterli in pratica.</div>
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Occorre attendere fino al <b>Rinascimento </b>per avere nuove possibilità di unificazione, seppur quasi virtuali e utopicamente effimere. Nel 1494, con la calata in Italia del re francese Carlo VIII, i litigiosi staterelli italiani misero da parte le loro rivalità fondendosi in una Lega militare. Il 6 luglio 1495, a Fornovo nel parmense, francesi e italiani si scontrarono lungo il Taro. La pioggia rese difficili le operazioni della Lega italiana, alzando il livello del fiume e rendendo pesante il terreno; il piano troppo complesso di Francesco II Gonzaga si rivelò un fallimento e Carlo VIII riuscì a ritornare in Francia. Agli italiani sembrò di aver vinto, in realtà le loro divisioni politiche e militari (ma soprattutto le loro ricchezze) attirarono l’attenzione di francesi e spagnoli che trasformarono l’Italia nel loro campo di battaglia. Se la Lega avesse distrutto l’esercito francese, forse avrebbe potuto dare agio a qualche stato italiano (Venezia? Una lega di più stati?) di unificare prima o poi il Paese.</div>
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Cinque anni dopo il <i>turning point</i> di Fornovo, il figlio di papa Alessandro VI, Cesare Borgia, costituì un suo ducato in centro Italia grazie ai soldi del padre e all’aiuto militare del re francese Luigi XII. In breve tempo si distaccò dai suoi due ingombranti sponsor e cominciò a guerreggiare di testa sua, attaccando chi gli pareva emettendo insieme anche eserciti assai innovativi tatticamente e in cui l’elemento italiano, e in particolar modo quello romagnolo, era predominante. L’improvvisa scomparsa di Alessandro VI mise in grave difficoltà economica “il Valentino”, che non riuscì più a mantenere sotto le armi tutti i soldati di cui aveva bisogno. E che questi piani contemplassero la gran parte d’Italia ce lo dice un cronista coevo del Borgia, il cesenate Giuliano Fantaguzzi: “volea fare a Cesena: palazo, canale, rota, studio, piaza in forteza, agrandare Cesena, fontana in piaza, duchessa, corte a Cesena, fare el porto Cesenatico et finalmente farse re de Toschana et poi imperator de Roma con castello santo Angello”. Un’Italia unita sotto Cesare Borgia avrebbe dato un bello scossone alla geopolitica del tempo, ma la morte di Rodrigo Borgia è stata la sliding door che l’ha evitata.</div>
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Il dominio spagnolo su gran parte delle penisola sedò ogni ulteriore tentativo di italianità. Tralasciando la folcloristica Disfida di Barletta, bisognò attendere le guerre napoleoniche per avere un nuovo paladino della nazione e una battaglia <i>turning point</i>. <b>Gioacchino Murat </b>re di Napoli e cognato di Napoleone, un progetto di unificazione raffazzonato e vago ma con tanto di proclama agli Italiani letto pubblicamente a Rimini. Si combatté una sanguinosa battaglia a Tolentino, che vide però la netta vittoria degli austriaci. Un’altra sliding door chiusa.</div>
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Fu solo con il Risorgimento di Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini che la porta fu finalmente tenuta aperta e si ebbe l’Italia unita.</div>
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Le prime cocenti sconfitte militari del Regno d’Italia furono il motivo per cui il nostro Paese perse per sempre la possibilità di essere una potenza militare rispettata e temuta e si dovette poi accontentare di ruoli subalterni in politica estera. La battaglia di Custoza del 1866 e quella navale di Lissa, pur combattute in netta superiorità numerica, sancirono l’incapacità italiana di fare la guerra. Il disastro coloniale di Adua, del 1896, ne fu solo l’inevitabile epilogo. Da quel momento, il cosiddetto “mondo civilizzato” ci ha sempre guardato quantomeno con malcelato disprezzo. Ed è nata la storiella che gli italiani non sanno fare la guerra perché troppo occupati a far l’amore, mangiare pizza e pasta, giocare a calcio e fare casino.</div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-45790927478413154802017-10-19T04:26:00.002+02:002017-10-19T04:26:51.546+02:00I Longobardi sono ancora tra noi: l’Italia d’oggi figlia anche dei barbari<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<a href="https://4.bp.blogspot.com/-ug-OfmWsDbM/WegNWtqNfFI/AAAAAAAAD2c/iWxIRVXb8z4xlbSkpc38VmfHo-2BqfPkQCLcBGAs/s1600/Nuova-immagine-20.bmp" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="466" data-original-width="519" height="574" src="https://4.bp.blogspot.com/-ug-OfmWsDbM/WegNWtqNfFI/AAAAAAAAD2c/iWxIRVXb8z4xlbSkpc38VmfHo-2BqfPkQCLcBGAs/s640/Nuova-immagine-20.bmp" width="640" /></a></div>
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<b style="font-family: arial, helvetica, sans-serif;">A Pavia una grande mostra riscopre il popolo che ha dato la sua impronta al Medioevo e ha cambiato per sempre la storia del Paese, nel bene e nel male</b></div>
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><b></b></span><br />
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<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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Maurizio Assalto, "La Stampa", 18 ottobre 2017</div>
</b></span><span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><div style="text-align: justify;">
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Anche uno dei dolci italiani più popolari, la colomba pasquale, pare sia da ricondursi all’arrivo dei Longobardi. La leggenda - tarda rielaborazione di un episodio tramandato nell’VIII secolo da Paolo Diacono nella sua <i>Historia Langobardorum</i> - narra che nel 572, dopo tre anni di assedio, Alboino si accingeva a entrare in Pavia, l’antica Ticinum, fieramente intenzionato a passare a filo di spada la popolazione, quando il suo cavallo si abbatté a terra e non volle più saperne di rialzarsi. Era la vigilia di Pasqua, e un fornaio donò all’invasore il dolce ancora caldo, in cambio della promessa a desistere dall’insano proposito. Allora il destriero si rialzò e Alboino poté fare il suo ingresso trionfale nella città che sarebbe diventata la capitale del nuovo regno barbarico.</div>
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Ma non è soltanto nella fantasiosa tradizione dolciaria che queste genti germaniche, originarie del basso corso dell’Elba, hanno lasciato la loro impronta. E neppure nella realtà tuttora viva della toponomastica e di molti nomi di persona (come quelli che terminano in -<i>berto</i>, da <i>pert</i>, illustre). La loro irruzione nella Penisola segnò una discontinuità, una rottura totale dopo la quale niente sarebbe più stato come prima. E «<a href="http://www.mostralongobardi.it/site/home.html" target="_blank">Longobardi. Un popolo che cambia la storia</a>» è il titolo della mostra, curata da Gian Pietro Brogliolo e Federico Marazzi con catalogo Skira, aperta fino al 3 dicembre al Castello Visconteo di Pavia - dopo di che, integrata di ulteriore documentazione relativa ai ducati del Sud Italia, si trasferirà al Mann di Napoli (21 dicembre-26 marzo) e quindi da aprile a luglio all’Ermitage di San Pietroburgo.</div>
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<b>Fine dell’unità politica</b></div>
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Oltre 300 i pezzi esposti, tra i quali 58 corredi funerari completi, per documentare, con l’ausilio di video e installazioni multimediali, una vicenda che ha diverse assonanze con il presente e lascia aperti gli interrogativi. I Longobardi sono i distruttori dell’unità politica dell’Italia, perduta nel 476 con il crollo dell’Impero romano d’Occidente e parzialmente recuperata sotto il re goto Teodorico, o coloro che cercarono di ricostituirla su nuove basi? Soltanto eversori del vecchio, o anche seminatori del nuovo, un nuovo che giunge fino a noi?</div>
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Gli «uomini dalla “lunga barba”» (<i>langbart</i>) erano penetrati in Italia nel 568, provenienti dalla Pannonia (attuale Ungheria) dove si erano stabiliti nel corso del V secolo. Già impiegati come mercenari nella lunga guerra contro i Goti - una sorta di Vietnam durato 18 anni, dal 535 al 553, in cui l’Impero d’Oriente si era impelagato nel tentativo di riprendere il controllo dell’Italia -, nel caos seguito alla fine del conflitto, con la Penisola spappolata come l’Iraq dopo le guerre del Golfo, avevano capito che la situazione era propizia. Non è chiaro se intendessero fermarsi o semplicemente transitare per spingersi più a Ovest (tracce delle loro presenza sono affiorate a Arles, Avignone e in diverse altre località della Provenza). Di fatto - grazie al non interventismo degli imperiali, che li lasciarono fare in funzione anti-Franchi - poterono scorrazzare per una decina d’anni in tutta l’Italia settentrionale, per poi spingersi al Centro e al Sud, dando vita a quei ducati di Benevento, Salerno e Capua sopravvissuti fino a oltre l’anno Mille, dopo che Carlo Magno nel 774 aveva posto fine al loro regno.</div>
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I Longobardi cambiarono la storia perché portarono i germi di una diversa cultura che fondendosi con quella latina e poi travasandosi in quella dei Franchi avrebbe dato luogo alla «Rinascenza carolingia» e al Medioevo così come lo conosciamo. E cambiarono la storia d’Italia perché il loro avvento comportò una serie di trasformazioni irreversibili. Dalle forme insediative e produttive (con la nascita di nuovi villaggi, i latifondi suddivisi tra gli arimanni - gli uomini liberi che portavano le armi -, la fine dei grandi traffici commerciali a vantaggio delle piccole produzioni locali) agli assetti sociali (con la decapitazione integrale della classe dirigente romana che i Goti, durante il loro predominio formalmente esercitato per conto dell’Impero d’Oriente, avevano coinvolto nella gestione del potere).</div>
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Una consolidata tradizione di studi anglosassoni ha teso a sminuire la natura barbarica e la stessa identità etnica dei Longobardi, intendendoli piuttosto come migranti pacificamente integrati, e a negare la contrapposizione delle culture. I dati archeologici e paleogenetici emersi dagli scavi degli ultimi anni parlano invece di una popolazione di conquistatori dalla marcata identità collettiva, che si mantenne pressoché inalterata per un paio di secoli.</div>
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<b>Un regime di apartheid</b></div>
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Sono davvero Longobardi, e non romani abbigliati da Longobardi, quei guerrieri consegnati all’aldilà con tutte le armi e sovente con i loro cavalli e i cani, come nella sepoltura presentata in mostra, da Povegliano Veronese. Così come sono longobardi i reperti lapidei della Langobardia minor (dai monasteri di Montecassino, San Vincenzo al Volturno e Santa Sofia di Benevento) che attestano l’abbandono dell’arianesimo per aderire nel VII secolo alla fede cattolica.</div>
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Anche se smisero presto di parlare la loro lingua, adottando un latino contaminato, i nuovi padroni non si confusero però con il resto della popolazione. Numericamente minoritari - si stima che non siano mai stati più di trecentomila, contro sette-otto milioni di italiani - vivevano in una sorta di apartheid, soggetti alle proprie leggi consuetudinarie (della prima e più celebre raccolta, l’Editto di Rotari, è esposto il manoscritto redatto in latino nel 643 nel monastero di Bobbio), mentre per le relazioni tra italiani veniva applicato il codice teodosiano. Ma è nel quadro geopolitico che i Longobardi hanno lasciato il segno più duraturo. Con i loro ducati sparsi nella Penisola, formalmente soggetti all’autorità centrale ma di fatto largamente autonomi, anticiparono quelle specificità locali che hanno caratterizzato i secoli successivi. Una frammentazione politica e culturale problematicamente ricucita soltanto con il Risorgimento, ma che periodicamente riaffiora.</div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-19283574169215508892017-10-15T13:12:00.000+02:002017-10-15T13:12:01.681+02:00Gli ideali di Michelangelo<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><br /></span></div>
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://2.bp.blogspot.com/-5Np_qn8TqNE/WeNCMDqqcSI/AAAAAAAAD18/eC2wCXXRe3claQI6RFTso5bVej-y6QP9gCLcBGAs/s1600/david-face.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1167" data-original-width="900" height="400" src="https://2.bp.blogspot.com/-5Np_qn8TqNE/WeNCMDqqcSI/AAAAAAAAD18/eC2wCXXRe3claQI6RFTso5bVej-y6QP9gCLcBGAs/s400/david-face.jpg" width="307" /></a></div>
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<b>L’artista andò a Roma per la sua fama, ma anche per la vorticosa politica di quei decenni in cui il volto di Firenze e della città eterna cambiò sotto i suoi occhi</b></div>
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<b><br /></b></div>
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<b>Massimo Firpo, "Il Sole 24 ore - Domenica", 15 ottobre 2017</b></div>
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Fiorentino tutto d’un pezzo, come risulta anche dalla lingua in cui scriveva, grande ammiratore di Dante Alighieri, allevato alle arti sotto l’egida di Lorenzo il Magnifico, Michelangelo Buonarroti trascorse larga parte della sua vita a Roma, dove lasciò i suoi massimi capolavori: la <i>Pietà </i>scolpita per il cardinale francese Jean de Bilhères alla fine del Quattrocento, firmata «MICHELANGELVS BONAROTVS FLORENTINVS»; i grandiosi affreschi della volta nella cappella Sistina commissionatigli da Giulio II tra il 1508 e il 1512; il <i>Mosè </i>e i <i>Prigioni</i> per la tomba di quest’ultimo, i cui lavori lo tormentarono per anni; e poi sotto Paolo III il <i>Giudizio universale</i> dipinto ancora nella Sistina tra il 1536 e il ’41, la piazza del Campidoglio, palazzo Farnese, gli affreschi della cappella Paolina, la <i>Pietà Bandini</i> e la <i>Pietà Rondanini</i>, la basilica di San Pietro con il disegno della sua immensa cupola; fino ai progetti per la chiesa di San Giovanni dei fiorentini, per Porta Pia, per la risistemazione di Santa Maria degli angeli sotto Pio IV, prima di morire novantenne nel 1564.</div>
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Non v’è dubbio che a condurlo a Roma fu la sua precocissima fama artistica, ma fu anche la vorticosa politica di quei decenni, in cui <b><span style="color: #990000;">Firenze e Roma furono al centro della storia europea, tra le «guerre horrende» d’Italia inaugurate dalla calata di Carlo VIII e l’esplosione della Riforma protestante, tra gli splendori del Rinascimento e le origini della Controriforma. </span></b>Le convulse vicende di quei decenni mutarono profondamente il volto delle due città sotto gli occhi di Michelangelo. Firenze passò dal crollo del regime mediceo all’effimera repubblica savonaroliana, dal gonfalonierato a vita di Pier Soderini alla restaurazione medicea del 1512, quando a governare la città furono Leone X e Clemente VII, al secolo Giovanni e Giulio de’ Medici. E poi ancora la nuova stagione repubblicana seguita al sacco di Roma tra il ’27 e il ’30, il definitivo ritorno dei Medici con Alessandro, investito da Carlo V del titolo ducale, il suo assassinio nel 1537 e la precaria successione di Cosimo, capace tuttavia di estinguere in breve tempo le residue resistenze antimedicee, di costruire un potere assoluto fondato su un’efficiente macchina amministrativa, di conquistare Siena e di ottenere infine da papa Pio V la corona granducale di Toscana. Non meno convulse furono le vicende di Roma, dove la secolarizzazione del potere papale, la corruzione di una curia simoniaca, le sconcezze di papa Alessandro VI, la bellicosa politica di Giulio II, le dilapidazioni festaiole di Leone X furono bruscamente interrotte dalla calata dei lanzi nella primavera del ’27, con un seguito inenarrabile di orrori, violenze, stupri, saccheggi, in un provocatorio inneggiare a Lutero il cui nome fu inciso dalla punta di una spada sugli affreschi di Raffaello nella stanza della Segnatura. Solo vent’anni dopo, tra continue incertezze e aspri scontri interni si sarebbe infine imboccata la strada del concilio di Trento, apertosi nel 1547 e conclusosi nel ’63, l’anno prima della morte di Michelangelo, che in tutti questi eventi fu coinvolto in prima persona.</div>
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Di qui l’importanza del tema affrontato in questo denso saggio di Giorgio Spini, che a oltre cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione resta ancora fondamentale per capire gli orientamenti e le passioni politiche che animavano Michelangelo. La storia dei Buonarroti fra Tre e Cinquecento delineata in queste pagine aiuta a comprendere il senso di appartenenza al suo casato e alla sua città che animò quel sublime «scalpellino», che amava definirsi «cittadino fiorentino, nobile e figliolo d’omo dabbene» e che tale si sentiva intus et in cute. Ad accentuare l’identità e orgoglio che egli ne traeva contribuiva la stessa decadenza, talora ai limiti della povertà, di una famiglia non più in grado come in passato di accedere alle risorse e al prestigio garantito dall’esercizio delle cariche pubbliche, e quindi dalla capacità di muoversi con sagacia tra regimi sempre instabili e frequenti rivolgimenti.</div>
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Quelle forti passioni politiche, del resto, hanno lasciato tracce profonde sulla produzione artistica di Michelangelo. Basti pensare al <i><b><span style="color: #990000;">David</span></b></i> posto nel 1504 (in età soderiniana) a guardia dell’antico palazzo comunale, così diverso dalle precedenti raffigurazioni fiorentine di Donatello e Verrocchio, con il giovinetto trionfante sul capo di Golia ai suoi piedi: <b><span style="color: #990000;">un gigante che non ha ancora scagliato la sua pietra, ma si accinge a farlo contro chiunque si azzardi a violare la libertà repubblicana.</span></b> O al tirannicida <b>Bruto </b>commissionato a Michelangelo da Donato Giannotti e destinato al cardinale antimediceo Niccolò Ridolfi. Ancor più significativo è il fatto che, dopo aver lavorato per i papi medicei alle tombe della basilica di San Lorenzo, alla notizia della nuova restaurazione repubblicana dopo il sacco di Roma Michelangelo accorresse nella sua Firenze per dedicarsi anima e corpo alla progettazione delle difese militari. Fu solo la sua ineguagliabile fama artistica a indurre Clemente VII a perdonarlo, per affidargli i lavori della Biblioteca Mediceo-Laurenziana. Ma <b>dopo il ’34, quando ormai Alessandro de’ Medici era stato proclamato duca di Firenze, egli non mise più piede nella sua amatissima patria </b>per lavorare invece per papa Farnese, nemico giurato di Cosimo de’ Medici e pronto ad accogliere a Roma ogni sorta di fuoriusciti fiorentini, ripagato di ugual moneta dal giovane principe mediceo, che non perdeva occasione di sfogare la sua collera contro «quel traditore del papa».</div>
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Inutilmente Cosimo sollecitò Michelangelo a lavorare per lui, desideroso di appropriarsi dei suoi talenti e della sua fama, nel quadro di una politica di conciliazione e riassorbimento della tradizione repubblicana. E quando morì ne fece trafugare il corpo a Roma e ne celebrò le solenni esequie in San Lorenzo, per affidare poi il compito di costruirne il monumento funebre in Santa Croce a Giorgio Vasari. Quest’ultimo nelle sue <i>Vite </i>ne fece il culmine dell’arte tosco-romana, presentandolo come il sommo artista che proprio con il David di piazza della Signoria era riuscito a raggiungere e superare la bravura degli antichi. Com’è noto, il pittore aretino si professò sempre ammiratore e amico di Michelangelo, ma quando arte e amicizia confliggevano con la sua vocazione cortigiana, il servile «Giorgetto Vassellario» (così lo definì Benvenuto Cellini) non aveva dubbi da che parte stare. Per questo quando gliene venne l’occasione, in un monocromo all’interno di palazzo Vecchio ormai diventato corte medicea, egli raffigurò quella statua in una scena con l’ingresso di Leone X a Firenze nel 1515. Ma la raffigurò con un basamento tanto alto che la testa (quella di David simbolo della libertà, non quella di Golia!) risultasse tagliata, e per di più con un cane che deposita placidamente i suoi escrementi davanti ad essa. Un insulto triviale, tale tuttavia da dimostrare come anche dopo la morte Michelangelo fosse coinvolto nei conflitti e nelle passioni politiche dell’età sua, sia pure degradato a strumento dell’adulazione vasariana.</div>
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<b>Giorgio Spini, <i>Michelangelo politico</i>, prefazione di Tomaso Montanari, presentazione di Valdo Spini, Edizioni Unicopli, Milano, pagg. 148</b></div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-79205712316976968662017-09-24T05:00:00.002+02:002017-09-24T05:00:34.378+02:00Storia letteraria dell’odio<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<a href="http://www.intellectualtakeout.org/sites/ito/files/dante_inferno.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="339" data-original-width="600" height="360" src="https://www.intellectualtakeout.org/sites/ito/files/dante_inferno.jpg" width="640" /></a></div>
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<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><b>Il sentimento più diffuso sui social raccontato dai Grandi di ogni tempo. A partire da Dante</b></span></div>
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<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><b>Stefano Massini, "La Repubblica", 23 settembre 2017</b></span></div>
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Che il cannibalismo sia un hobby dei giorni nostri, è un dato acquisito. I social sono diventati ormai una tavola calda per antropofagi, dove le carni altrui vengono allegramente squartate e servite in spezzatino come nel “Tito Andronico” di William Shakespeare. Se possibile, siamo un passo avanti rispetto all’insulto e alla denigrazione: la miasmatica epidemia d’odio che ci avvolge sembra rispondere a un bisogno fisico, a un istinto come quello della fame, quasi i nostri metabolismi necessitassero ormai di una regolare dose di selvaggina umana. In tempi di diete vegane, riaffiora insomma l’<i>homo carnivorus</i> e dunque cacciatore, sprovvisto di fucile ma armatissimo di account. E nelle foreste del web, il bottino può essere assai lauto, soprattutto se ogni pretesto è buono (dai vaccini all’immigrazione) per travestire odio e invidia dietro uno scudo di apparente legittimità dialettica.</div>
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Nella sua scientifica analisi dell’odio, Erich Fromm — in tempi non sospetti — sosteneva d’altra parte che questo passaggio fosse il più furbo per chi voglia moralmente assolversi, nobilitando i propri travasi di bile in diritti d’opinione. Per cui benvenuti nel grande mattatoio: c’è posto per tutti, e l’odio è la vera password del nostro vivere connessi. Ma nel grande archivio della letteratura, ci sono segnali che possano aiutarci a non perdere la rotta in questa bufera di coltelli? In effetti — saltando indietro di un bel po’ di secoli — un primo efficacissimo ritratto delle nostre risse tutte sbraiti e fiele, lo troviamo nientemeno che nell’Inferno di Dante, canto VIII, dove chi in vita fu adepto dell’odio sta in eterno a sguazzo in una palude fetida, dilaniandosi in una bolgia chiassosa. Non bastasse, traghettati da Flegiàs (becero a sua volta), Dante e Virgilio inorridiscono alla vista di un bullo di quartiere come Filippo Argenti, ora straziato nella broda e infine costretto a mordersi da solo.</div>
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A tentare una risposta ci provò senz’altro Shakespeare, cominciando ad aprire qualche porta fra la stanza dell’odio e quella della frustrazione: Iago visceralmente detesta Otello, trama contro lui tutto il male del mondo, ma è chiaro che tutto nasce solo da un suo complesso d’inferiorità, cosicché la chiave di tutto sta nel fatto — per dirla con Cesare Pavese — che noi odiamo gli altri perché odiamo noi stessi. Tutto insomma — piaccia o meno — ci nasce sempre dentro, anche se poi lo sbraitiamo fuori contro altri (magari in forma anonima sulla app <i>Sarahah</i>): per quanto ci sembri superato, diamoci atto che la fucina dell’odio 4.0 è sempre quel torbido sottosuolo dove Dostoevskij faceva agglomerare la rabbia dei suoi inetti. Se dunque il signor Iago avesse guardato un po’ di più fra i propri rovelli, si sarebbe risparmiato tempo e fatica, persi invece a sfuriare contro il Moro. Già, perché in effetti c’è il dettaglio non secondario che Otello era di carnagione scura, fattore che ti candida da sempre a intercettare gli sbraiti degli irrisolti (ed è impossibile non pensare al monologo impressionante dell’immaturo Monty Brogan che ne <i>La venticinquesima ora</i>, il romanzo di David Benioff diventato un film di Spike Lee, sciorina davanti allo specchio tutto il catalogo dei suoi odi newyorkesi, dai coreani puzzolenti di fritto agli italiani mafiosi, dagli ebrei con la forfora ai negri di Harlem).</div>
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Nelle pieghe della differenza (di religione, di cultura) si annida da sempre il virus dell’invettiva facile, peraltro rafforzata dal suo essere un collante sociale, cioè un invito a gridare insieme. E se v’è da gridare, niente è pretesto migliore che un odio comune o una comune lotta per la sopravvivenza (la definizione è di Lev Tolstoj). Il fatto è che di questi cori beceri non sono però depositarie solo le taverne, bensì ogni punto di ritrovo (anche virtuale) di una borghesia spaesata: già Flaubert nel 1867 si diceva allibito di come i benpensanti vomitassero fiele contro certi bohémien. Pertanto, laddove i conflitti sono stati più forti, ecco nascere un odio cieco, identitario, come quello di miss Quested contro Aziz nel Passaggio in India di Forster. Non stupirà allora che dalla letteratura afroamericana provengano fior di libri su cosa sia l’esperienza non solo di un odio subito, ma anche — per paradosso — di un odio talmente radicato da tradursi in unico metro possibile per misurare le distanze sociali: il giovane protagonista di Paura (spietato romanzo scritto nel 1940 da Richard Wright) è di fatto incapace di vivere senza odiare, e si domanda lui stesso da dove gli nasca questa irresistibile tendenza al male. È il cancro di un odio che genera odio, unendo vittima e carnefice in un tutt’uno, come ci racconta con inaudita crudeltà il grande Herman Melville in Benito Cereno — un libro certamente da riscoprire — in cui è ricostruita la vera vicenda del veliero carico di schiavi il cui equipaggio (bianco) fu interamente massacrato da una rivolta degli africani.</div>
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Fu un’ordalia, fu un tripudio di sangue, fu una mattanza disumanamente compiuta da esseri umani in risposta alla disumanità di altri esseri umani, in quell’assurda pretesa di vendetta che nella spirale dell’odio rende progressivamente spettri (si pensi a I miserabili di Hugo o al Conte di Montecristo di Dumas). È un utile promemoria, per un’epoca come la nostra in cui tutto sembra giocarsi su infinite reazioni ad attentati altrui: la parabola del male che alimenta ulteriore male è più che presente in più di un capolavoro, a partire da Moby Dick in cui la ferocia distruttiva del mostro nutre la sete di morte prima del solo Achab, e quindi dell’intero Pequod. Ed eccoci a un punto decisivo: troppo spesso non ci rendiamo affatto conto di cosa stiamo realmente odiando. L’odio di cui ci riempiamo le bocche è simile a quello descritto da Heinrich Mann nel 1918 nel suo indimenticabile Il suddito: come in quella goffa Germania pre-hitleriana, anche oggi l’odio urlato garantisce una rendita di posizione, da spendersi al mercato delle vacche della comunicazione.</div>
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Questo per i toni. Ma i contenuti? Irrisori. Quel che vale è che in assenza di un’identità, niente illude più che il sentirsi costantemente schierati contro. Contro chi? Boh. Contro cosa? Boh. Conrad descrisse portentosamente questo paradigma di un odio gratuito: ne I duellanti, i due protagonisti trascinano il loro scontro per anni e anni senza che vi sia in realtà un motivo del contendere. Il loro è un odiarsi per odiarsi, un volersi sentire impegnati in una gara di sopravvivenza che dia un senso al loro esistere, indipendentemente dalla posta in palio. Sguainano le spade, si abbandonano all’odio, reclamano per l’altro il puro male. Perché? Boh, intanto duelliamo. Temo che purtroppo siamo noi, davvero.</div>
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©RIPRODUZIONE RISERVATA</div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-28868348422568458932017-07-18T04:48:00.000+02:002017-07-18T04:48:19.246+02:00Medioevalia. Donne ribelli in cerca di libertà<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<a href="https://2.bp.blogspot.com/-2rEkJX9qMPU/WW12YglpaSI/AAAAAAAADmM/pYXznad3c5w-XdhkrDIc_5izfhQgAR2gQCLcBGAs/s1600/sposa.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="380" data-original-width="309" height="320" src="https://2.bp.blogspot.com/-2rEkJX9qMPU/WW12YglpaSI/AAAAAAAADmM/pYXznad3c5w-XdhkrDIc_5izfhQgAR2gQCLcBGAs/s320/sposa.jpg" width="260" /></a></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b>Eliana Di Caro, "Il Sole 24 Ore - Domenica", 16 luglio 2017</b></span></div>
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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C’erano quelle che fuggivano nei monasteri, per sottrarsi all’oppressione e alla violenza di mariti che non sarebbero mai cambiati; e c’erano coloro che fuggivano dai monasteri, desiderose di conoscere una vita diversa da quella che avevano deciso per loro i genitori, recludendole tra quattro mura in un’atmosfera di tetra solitudine. C’erano le donne il cui tentativo andava a buon fine e quelle che venivano prese e ricondotte a un’esistenza infelice.</div>
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Leggendo l’accurato <i><b><a href="https://www.mulino.it/isbn/9788815271471" target="_blank">Donne in fuga</a></b></i> (il Mulino) di Maria Serena Mazzi, ordinaria di Storia medievale, si partecipa alle traversie di queste coraggiose ribelli, di cui ci è giunta notizia attraverso atti giudiziari, documenti e resoconti redatti naturalmente da uomini, in un’epoca in cui all’altra metà del cielo non è concesso di studiare. All’interno di una famiglia borghese o aristocratica, quando nasceva una femmina si cominciava a pensare ai destini coniugali della neonata: già a dieci anni le nozze erano combinate e a 16 anni l’esperienza della maternità era stata vissuta più volte (con il vivo augurio di figli maschi). Sulle donne povere le testimonianze sono minori e indirette, ma tali da poter dire che in una famiglia di contadini, salariati e artigiani si andava a lavorare da poco più che bambine e l’ipotesi di trovare un marito decente - con una dote misera o inesistente - si prefigurava difficile. Questo significava spesso finire nell’orbita di un uomo di mezza età che aveva bisogno di una serva, avendo già dei figli da crescere poiché per qualche ragione si ritrovava da solo. Insomma un destino non allettante.</div>
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È in questo panorama che si distinguono diverse figure, descritte nel libro. Due, per chi scrive, esemplari. La prima, Eleonora d’Aquitania. Cresciuta alla corte del nonno Guglielmo IX, alla morte dei suoi cari nel 1137 si ritrova ricca e potente, nella contea di Poitou e Guascogna. Sposa Luigi VII di Francia: lei ha 13 anni, lui 16. Ma in 15 anni di matrimonio, arrivano solo due femmine e la successione al trono non è garantita. La “colpa”, inutile dirlo, ricade su Eleonora. Nel 1152 viene sciolto il vincolo matrimoniale e lei, a quel punto preda non da poco, sventa ben due rapimenti e si lega a Enrico, duca di Normandia e futuro re di Inghilterra, cui dà - udite udite- cinque maschi e tre femmine. Di fronte al tradimento reiterato del consorte, Eleonora non abbassa la testa e se ne va, nonostante la Chiesa tuoni contro di lei per l’abbandono del tetto familiare. Una figura orgogliosa e indipendente come poche.</div>
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Il secondo esempio è quello di una donna di cui non ci è giunto neanche il nome, si sa solo che vive con il marito nel vicariato di Anghiari (Arezzo), nel 1416, ma la sua storia è indicativa del destino cui andavano incontro coloro che nascevano in contesti umili. Dai documenti emerge che l’uomo ha una giovane amante con cui intende trascorrere il resto dei suoi anni, e per farlo senza scatenare l’ira della comunità pensa bene di indurre la moglie a lasciarlo rendendole la vita un inferno: botte, umiliazioni, insulti. Ma i pettegolezzi (o la delazione) di un vicino gli intralciano i piani: il vicario condanna il fedifrago e anche - incredibilmente - la moglie per complicità nell’accaduto. Ma lei, nel frattempo, sfinita dalle angherie del marito, era già fuggita!</div>
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Il libro contiene numerosi esempi, dall’immancabile Giovanna D’Arco e le diverse mistiche (Caterina da Siena, Ildegarda di Bingen, Brigida di Svezia) a storie comuni e rivelatrici della prostrazione e della capacità di superarla che queste donne avevano, dalle schiave alle prostitute. Senza dimenticare naturalmente le eretiche e le streghe, «“femmine incantatrici e maliose”, che rendono impotenti gli uomini per vendetta o che li “ammaliano” per sviarli e tenerli avvinti, annullando la loro volontà, facendone strumenti nelle loro mani». Se non fosse che in tante sono andate al rogo, o in prigione, o sono state fustigate, ci sarebbe quasi da sorriderne.</div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-86228499585359570722017-07-16T06:21:00.001+02:002017-07-16T06:21:29.498+02:00Luigi Pirandello: l'insostenibile spinta del destino<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<a href="https://3.bp.blogspot.com/-o0P8KzHcdeM/WWrpmC6vgdI/AAAAAAAADlw/jS1uMvew2nUusF8TPwvn0VjhCFGx-Zg7wCLcBGAs/s1600/Luigi-Pirandello.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="867" data-original-width="1244" height="446" src="https://3.bp.blogspot.com/-o0P8KzHcdeM/WWrpmC6vgdI/AAAAAAAADlw/jS1uMvew2nUusF8TPwvn0VjhCFGx-Zg7wCLcBGAs/s640/Luigi-Pirandello.jpg" width="640" /></a></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b>Luigi Pirandello, tra libri a lui dedicati e iniziative che prendono il volo</b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: justify;">
<b>Ricorrenze. A centocinquant'anni dalla nascita, un percorso critico sulla figura dello scrittore e drammaturgo</b></div>
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<b><br /></b></div>
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<b>Sonia Gentili, "il manifesto", 14 luglio 2017</b></div>
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</span><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: justify;">
«Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui».</div>
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Non deve sembrare incongruo riattraversare oggi la produzione di Luigi Pirandello, autore ben digerito dai manuali scolastici e tuttavia sfuggente alle canonizzazioni per il suo posizionamento rispetto alla nostra tradizione letteraria, partendo dalle severe indicazioni che l’autore vergò su un foglietto in merito alle proprie esequie. La volontà di essere avvolto nudo in un lenzuolo va letta naturalmente come rifiuto di indossare la maschera anche al cospetto della morte: l’attinenza di questa scelta finale con la visione del mondo dell’autore che fece delle Maschere nude il paradosso identitario su cui incardinare il proprio teatro e la propria concezione dell’io è evidente.</div>
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IL VERO DRAMMA della scena e della narrazione pirandelliana non è però di ordine rappresentativo – la cosiddetta destrutturazione dell’io, con le ovvie connessioni al contesto europeo, surrealista, cubista, psicanalitico ecc. – bensì di tipo epistemico, poiché la nudità, cioè la dimensione di verità dell’io, coincide con la negazione della sua conoscibilità. A questa aporia di fondo, che separa non tanto il vestito da chi lo indossa, quanto la conoscibilità dell’abito dall’inconoscibilità di colui che lo porta, deve riconnettersi non solo il tema fondamentale della produzione romanzesca a partire dal notissimo <i>Uno, nessuno e centomila </i>(iniziato nel 1909 e pubblicato nel ’25) ma anche il pessimismo ironico e molto leopardiano con cui Pirandello interroga le opposte certezze della cultura del suo tempo.</div>
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Nella novella <i><b><a href="http://www.classicitaliani.it/pirandel/novelle/02_021.htm" target="_blank">La casa del Granella</a></b></i> (1905), l’avvocato Zummo si trova ad affrontare con gli strumenti «positivi» e scientifici della giurisprudenza il caso che oppone la famiglia Piccirilli, inquilina di una casa infestata da spiriti, al Granella, proprietario della dimora, che nega il fenomeno. L’avvocato, esponente prototipico della cultura del suo tempo sospesa tra culto positivistico della scienza e culto misticheggiante di ciò che alla scienza sfugge, passa dall’una all’altra «fede» scoprendo che il mistero dello spirito, cioè dell’anima immortale, esiste, ma… «potevano quei poveri Piccirilli condividere questo generoso entusiasmo del loro avvocato? Lo presero per matto. Da buoni credenti, essi non avevano mai avuto il minimo dubbio su l’immortalità delle loro afflitte e meschine animelle».</div>
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IL PERCORSO CULTURALE del personaggio Zummo dalla fede nella scienza alla fede nel misticismo dell’anima è sbeffeggiato da Pirandello come banale riscoperta dell’esistenza di ciò che sfugge all’occhio umano, vissuta con la stupida esaltazione della novità. Che questo percorso non sia fantasia, ma pura realtà ideologica di primo Novecento, lo prova uno scritto di Giovanni Pascoli di sei anni precedente, cioè <i>L’era nuova </i>(1899), in cui si teorizza che le evidenze «positive» della scienza hanno provato l’ineluttabilità del nostro destino di morte, ma la fede religiosa ci consente il «riconoscimento e la venerazione» di tale destino.</div>
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L’ITINERARIO DI PASCOLI che parte dalla fede nella scienza per approdare a quella nel mistero della morte è analogo a quello sbeffeggiato nello Zummo pirandelliano. Tanto il misticismo scientistico – religioso di Pascoli è celebrativo e patetico, quanto la sua liquidazione è attuata da Pirandello con asciutta ironia antiprogressiva: agli ex devoti al positivismo poi riscopritori del mistero Pirandello risponde che il cammino del pensiero umano torna circolarmente sulle invarianti esistenziali; l’unica novità è l’entusiasmo, del tutto incongruo, con cui la scoperta di ciò che già si sapeva (o meglio: si sapeva di non poter conoscere) viene compiuta.</div>
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TANTO BASTA a confermare da un lato il nocciolo misticheggiante del socialismo pascoliano, sintesi di scientismo e fideismo che lo scrittore assorbì dal prete modernista Giovanni Semeria, approdato presso entrambi all’esaltazione della morte in guerra (Pascoli in occasione della campagna di Libia del 1911, Semeria come interventista nel 1914) e, dall’altro, a mostrare che l’adesione pirandelliana al fascismo, oggettiva e indiscutibile, resta inconciliabile con la filosofia dell’autore. Pirandello non ebbe un rapporto facile col regime, che al momento opportuno seppe riconoscerne e ostacolarne il formidabile potenziale antiautoritario: nel 1933 vari brani della <i>Favola del figlio cambiato</i>, libretto pirandelliano dell’omonima opera di Malipiero, vennero sforbiciati dalla censura mussoliniana.</div>
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Ma torniamo ancora alla nudità che Pirandello chiese per il proprio corpo defunto e di qui procediamo di nuovo verso la sua opera. Nel mondo pirandelliano la messa a nudo dell’io, cioè la sua verità, risiede nella sua inafferrabilità radicale e assoluta: <i>La vita nuda</i> (1907) è la celebre novella in cui si narra l’impossibilità di ritrarre fedelmente un morto nel monumento funebre a lui dedicato.</div>
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La volontà pirandelliana di sottrarsi alla celebrazione funebre e di consegnarsi nudo alla morte è, infatti, diametralmente opposta alla celebrazione del sepolcro e alla monumentalizzazione della memoria come mezzo di sopravvivenza presso i posteri che conosce nel Foscolo dei <i>Sepolcri </i>e nel culto neoclassico della marmorea eternità dell’arte il suo capitolo più noto. Ma in sostanza tutta la linea maestra della nostra tradizione letteraria corre sul filo del mito di eternità dell’autore attraverso l’opera resa marmorea dal sepolcro e consegnata alla memoria dei posteri.</div>
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POCHI SCRITTORI hanno avuto il coraggio intellettuale di irridere quest’immagine delle opere umane riducendola ad illusione: prima di Pirandello lo ha fatto Leopardi col mausoleo di sabbia sotto cui resta sepolto il protagonista del D<i>ialogo della Natura e di un Islandese</i>; prima ancora lo avevano fatto i rari autori che si usa porre nel solco di Luciano di Samosata, il grande scrittore tardoantico autore dei <i>Dialoghi dei morti</i> che ha inventato lo sguardo sulla terra dalla luna – cioè da un punto di vista altro, che relativizza radicalmente quello umano –preso a modello da Leopardi per la composizione delle <i>Operette morali</i>.</div>
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Ironia leopardiana e umorismo pirandelliano sono le maggiori forze di questa linea autoriale minoritaria eppure capitale, che <b>rifiuta la letteratura come monumento eternatore </b>per praticarla come indagine antropologica sulla natura radicalmente inafferrabile e transeunte dell’umano.</div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-69420538210474437132017-07-08T17:01:00.001+02:002017-07-08T17:01:39.367+02:00Pirandello, il fascino del disinganno dietro a tutto il suo Caos<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<b>Pietrangelo Buttafuoco, "Il Fatto", 8 luglio 2017</b></div>
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<b>150 anni fa in Sicilia nasceva uno dei più grandi letterati della cultura italiana, Nobel nel 1934: i suoi testi tradotti nel mondo</b></div>
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L’involontario soggiorno sulla terra di Luigi Pirandello inizia il 28 giugno 1867, giusto 150 anni fa. L’uomo della distruzione dell’Io – <i>Uno, nessuno e centomila</i> – non gode della totale disillusione di attribuirsi, senza rimorso, il fallimento sul meglio delle sue stesse illusioni.</div>
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E’ l’infelicità – com’è facile a intendersi – a ghermirlo. Nel giorno dopo giorno della realtà, fino all’ultimo – all’ombra della bella pergola sull’incannucciata del Caos, a casa sua – Pirandello gusta lo sfascio del disinganno: “Proprio quell’inganno per cui ora dico a voi che n’avete un altro davanti.”</div>
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Si chiude la porta alle spalle – è ancora bambino, quindi studente a Bonn, poi promettente letterato a Roma, infine è in Svezia, insignito del premio Nobel per la letteratura – e la cupa malia di un destino doppio, il volto e la maschera, gli rende grave il peso di ogni cosa.</div>
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In una dedica – “a Marta Abba, per non morire” – Pirandello fronteggia l’estenuante mutevolezza dell’apparire.</div>
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Lei è l’amore suo mai vissuto, la musa per cui lui scrive, l’attrice che sul palcoscenico del Teatro Argentina, a Roma, durante le prove gli sta accanto al modo che conosce solo lui e nessun altro. E lei però non è adesso polvere accanto a lui, all’ombra del suo pino, ad Agrigento, segnata ai posteri con quella “rozza pietra” che per essere tale – in forma di sepolcro – è di certo chic, non convenzionale, ma è tomba di un’anima sola. E solitaria.</div>
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L’albero, erto a modo di Croce, lascia passare in silenzio la morte ma non certo l’angoscia i cui artigli invisibili – dal dicembre del 1961, quando dal cimitero del Verano le ceneri di Pirandello, vengono traslate in Sicilia – sussurrano ansia alle scolaresche in gita d’istruzione. E’ un’inquietudine che solo il sentimento del contrario, visitando la casa dello scrittore, può sciogliere nell’esito tutto umoristico di un foglio esposto, una reliquia tutta di comicità.</div>
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Ecco la storia: è il nove novembre 1934 e Luigi Pirandello – Accademico d’Italia – apre l’uscio e accoglie in casa una moltitudine di cronisti, operatori di ripresa dell’Istituto Luce, fotografi, funzionari di polizia e autorità prefettizie.</div>
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L’Agenzia Stefani comunica la notizia appena diramata dalla Casa Reale di Svezia, l’autore di <i>Novelle per un Anno</i>, di <i>Maschere Nude</i>, del <i>Fu Mattia Pascal</i> e di tante altre opere apprezzate nella scena internazionale, è insignito del premio Nobel per la Letteratura.</div>
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Affollati all’entrata, stanno ad attendere con facce ridenti gli accompagnatori, gli autisti, i curiosi e i vetturini che hanno lasciato le loro carrozzelle dove la traversa si veste di spuntoni e siepi. La petulanza degli entusiasti è insoffribile e Pirandello, che acconsente alla richiesta di fabbricare un’istantanea e un filmato che lo colga “dal vero”, così da raccontare al mondo la giornata operosa del sommo artista, batte sui tasti della macchina da scrivere – pesta al modo suo, proverbiale, con un solo dito – e per 27 volte, senza che né i fotografi e neppure i cameraman se ne accorgano, scrive la parola pagliacciate (con 24 punti esclamativi, un “paglia”, due tentativi di “pppp” e qualche “pagliaxxtte”).</div>
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L’unico filmato “dal vero” è quel foglio. L’esistere oltre l’apparire. La maschera, nella finzione, svela l’estraneo inseparabile che vive la condizione di ognuno. E a ciascuno, nel teatro visibile della storia, spetta esserci e sembrare contemporaneamente. E’ quel sentirsi vivere, oltre le convenzioni sociali, nella vita che non conclude.</div>
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La realtà d’oggi è l’illusione di domani. La parola ad Anselmo Paleari, la teoria della lanterninosofia, da <i>Il Fu Mattia Pascal</i>: “Nell’improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi va di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s’aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d’accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicaio, otturata per ispasso da un bambino crudele”.</div>
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L’illusione di oggi non è mai la realtà di domani. Alla rappresentazione s’affianca sempre un suo riflesso: la rappresentazione della rappresentazione. Ben tre corde – quella seria, quella civile e quella pazza, e sono quelle del <i>Berretto a Sonagli </i>– si fanno carico dell’intera coscienza giusto a impedire agli uomini quello che incombe sugli animali: l’immediata risoluzione del bramare. Pirandello – l’uomo che nel distruggere l’io diventa aggettivo – indica nella messa in scena pirandelliana la strada sbagliata da cui non c’è più uscita.</div>
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Chi scansa l’ora, scansa il pericolo, e Leonardo Sciascia, in Alfabeto Pirandelliano, alla voce psicoanalisi – dove Michel David lamenta nel pur cervellotico don Luigi un ritardo rispetto agli sviluppi delle scienze – può ben rallegrarsi. “Nel caso di Pirandello il proverbio è di splendente verità: l’avere scansato l’ora di Freud è stato un bel colpo di fortuna.”</div>
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Pirandello, di formazione culturale germanica, più che francese, rasenta infatti quegli stessi Holzwege (I sentieri interrotti di Martin Heidegger) che nella seconda metà del Novecento inoltrano l’estetica e la teoretica nell’aurora esistenzialista e nella fenomenologia.</div>
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Acuto scandagliatore dei segni, Pirandello non si sottrae all’incontro con Walt Disney, e tutto quel suo teatro – il suo prodigarsi perfino da capocomico, a farsi complice di Angelo Musco, ossia il supremo artista del riso a lui contemporaneo – non è un solco dove lui sta da epigono ad altri, fosse pure Carlo Goldoni o William Shakespeare, bensì dimora, luogo che dà origine.</div>
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Ancora una citazione dall’Alfabeto di Sciascia, giustappunto la voce teatro: “‘Cominciando, si era fermato su due parole ignote; nessuno, nell’ambito dell’Islam, aveva la più piccola idea di quel che volessero dire’. Le parole sono ‘tragedia’ e ‘commedia’: e Borges immagina lo smarrimento di Averroè quando, traducendo la Poetica di Aristotele, vi si imbatte. Come poteva penetrare il significato di quelle due parole, se tutto l’Islam non aveva nozione del teatro? Così – come ancora nell’Islam di cui Agrigento era parte – Pirandello il teatro lo inventa. Dirà Pitoëff: ‘Il teatro era in lui, egli era il teatro’”.</div>
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È teatro, dunque, il Pirandello che disegna il profilo elegante di Rossella Falk nell’allestimento dei <i>Sei personaggi in cerca d’autore</i> del 1954, con lei c’è – un monumento – Romolo Valli, ed è canone quello che si genera dall’orchestrazione di regia, parola e disinganno.</div>
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Com’è facile intendere, il fallimento sul meglio delle nostre stesse illusioni è nell’attesa, nell’assenza, nell’istante, nel compimento degli addii, nello struggimento di bellezza e grazia e nel mai più.</div>
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Il cervello nulla può, è come un mulinello, e l’amore muta in disperazione, fa bottino del cuore e lo incatena. A Marta Abba, “per non morire”, Pirandello destina quel che riserva a se stesso. Il mai più. Lo esprime in <i>Romanza di Liolà</i> ed è la più bella delle serenate.</div>
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Con Nicola Piovani, i versi, hanno trovato uno spartito dove poter volare (l’esecuzione più bella è quella del Maestro Antonio Vasta, la voce definitiva nel canto è quella di Mario Incudine) e fa così:</div>
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<i>D’un regnu di biddizzi e di valuri</i></div>
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<i>Avia essiri almenu na regina</i></div>
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<i>Chidda ca m’avia a vinciri d’amuri</i></div>
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<i>Chidda ca m’avia vinciri lu cori</i></div>
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<i>Chidda ca m’avia a mettiri a catina</i></div>
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<i>Ppi ciriveddu haiu un firrialoru</i></div>
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<i>Lu ventu sciuscia e mi lu fa girari</i></div>
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<i>E quannu sciuscia gira tuttu a coru</i></div>
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<i>E non c’è versu ca si po fermari</i></div>
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<i>L’amuri avi quattru arbuli ciuriti</i></div>
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<i>Unu d’aranciu e l’autru di lumìa</i></div>
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<i>Unu di gelsuminu spampanati</i></div>
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<i>L’autru ca è a rama di la gilusia</i></div>
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<i>Ca fa tutti l’amanti disperati</i></div>
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<i>Ppi ciriveddu haiu un firrialoru</i></div>
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<i>Lu ventu sciuscia e mi lu fa girari</i></div>
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<i>E quannu sciuscia gira tuttu a coru</i></div>
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<i>E non c’è versu ca si po fermari</i></div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-8595340416147680582017-06-20T14:51:00.001+02:002017-06-20T14:52:40.543+02:00Saba, un Ulisse incompreso a Trieste<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<a href="https://2.bp.blogspot.com/-_EqHRc_Hj84/WUkaYawQLNI/AAAAAAAADk4/x71sTJ8YVuc_UxYMsVzAof913hLppAhMACLcBGAs/s1600/Saba-mare-11.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="644" data-original-width="640" height="320" src="https://2.bp.blogspot.com/-_EqHRc_Hj84/WUkaYawQLNI/AAAAAAAADk4/x71sTJ8YVuc_UxYMsVzAof913hLppAhMACLcBGAs/s320/Saba-mare-11.jpg" width="318" /></a></div>
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<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><b>Si rifugiava nel mito e nella psicoanalisi, </b></span></div>
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<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><b>entrò nel canone e ne scivolò fuori: tempo di rivalutazione</b></span></div>
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<b>Paolo Di Stefano, "Corriere della Sera", 20 giugno 2017</b></div>
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A sessant’anni dalla morte, Umberto Saba rimane un poeta per tanti aspetti misterioso e incompreso, per non dire sottovalutato. Come se il suo progetto di una «poesia onesta», piana, autobiografica e domestica, per di più proveniente da una zona di frontiera («arretrata») com’è Trieste, lo avesse penalizzato. Tanto più rimane in ombra il suo valore di scrittore in prosa, nelle forme variegate del saggista, del narratore autocritico, dello scrittore d’invenzione o sapienziale. Ora, la nuova monografia su Umberto Saba, scritta da Stefano Carrai (<i>Saba</i>, Salerno Editrice), studioso di letteratura medievale e rinascimentale oltre che di Novecento (Montale, Sereni, Fortini, Raboni…), si sofferma su diversi luoghi ancora oscuri della sua biografia, della sua opera e della relazione tra la «calda vita» con i suoi traumi, il contesto storico e l’opera. Su questa via, Carrai si avvale delle acquisizioni filologiche, dei materiali epistolari, di puntuali analisi metrico-stilistiche.</div>
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«L’infanzia per i poeti — dice Carrai — è quasi sempre un affioramento che provoca dolore, ma nel caso di Saba equivale a una serie di nodi irrisolti che diventano un vero e proprio groviglio esistenziale. I contrasti in mezzo ai quali la sua infanzia e la sua adolescenza si dipanarono rimasero fino all’ultimo vivi e cocenti anche nell’adulto, come traumi e ferite insanabili. Il ragazzo infatti apparteneva a una famiglia dimidiata perché il padre l’aveva abbandonata ancor prima che lui nascesse. L’acrimonia e le recriminazioni della madre nei confronti dell’assente furono una costante angosciosa. Inoltre Umberto si sentiva estraneo alla cultura chiusa e ottusa del ghetto ebraico in cui crebbe. Questi elementi di disagio sarebbero bastati a far maturare in lui la sensazione di essere un diverso e un originale».</div>
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E poi si aggiunge il complicato rapporto con l’amata Peppa, la contadina slovena che gli fece da nutrice e che scatenò la gelosia della madre…</div>
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«La presenza della balia ha contribuito a complicare ulteriormente il quadro psicologico: un rapporto in parte letteraturizzato per l’influenza di una poesia dedicata alla nutrice da d’Annunzio, ma fondato su un affetto vero e profondo, perdurato fino all’età matura, in contrapposizione alla anaffettività della madre naturale. E naturalmente va messa in conto anche la scoperta del sesso, l’esperienza dell’omosessualità o della bisessualità descritta in Ernesto , che sottintende una incertezza nella definizione della propria identità anche sessuale appunto. Sono tutti temi che tornano, spesso come sofferenza, in ogni stagione della poesia di Saba».</div>
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In che forma si presenta l’«ulissismo» di Saba?</div>
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«Ulisse è un eroe molto caro all’inquietudine novecentesca. Nella poetica di Saba il suo mito serve a trasfigurare la sensazione di non essere di casa in nessun luogo, con l’eccezione certo dell’amata Trieste, che ha costituito sempre un rifugio, specie dopo l’acquisizione della sua libreria antiquaria. Però anche qui l’umoralità e la suscettibilità esasperate di Saba facevano sì che fosse spesso ferito e urtato dagli altri, persino dai suoi amici più cari, come se anche negli affetti fosse costretto ad una peregrinazione continua. Dai circoli letterari fiorentini e romani nei quali ambiva a essere accolto, poi, non si è mai sentito accettato. Ecco, anche questo è stato vissuto da Saba come una sindrome di Ulisse».</div>
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Si ha continuamente l’impressione di un pendolarismo intimo tra marginalità (Trieste) e centro (il rapporto difficile con Firenze, e poi Milano, Parigi). Saba sembra un uomo profondamente solo ma circondato da tantissimi amici sempre pronti ad aiutarlo (non soltanto Montale).</div>
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«Sì, anche per il suo narcisismo estremo Saba ha sofferto di non essere adeguatamente considerato e riconosciuto come poeta, specie agli inizi, quando Slataper, con un vero e proprio equivoco critico, pensò di fare di lui un semplice emulo di Gozzano. Poi con gli anni Venti, grazie soprattutto a Debenedetti, Solmi, Montale, le cose cambiarono e tra le due guerre la sua fama si consolidò. Certo però rimaneva sempre un poeta appartato nella sua Trieste, dove era al centro di un cenacolo artistico numeroso e dove molti giovani andavano per conoscerlo, ma pur sempre un poeta che solo ogni tanto si faceva vedere negli ambienti che contavano. Tuttavia quanto fosse stimato e amato si vide dopo le leggi razziali e soprattutto dopo l’otto settembre del ’43, quando sarebbe certo finito in una camera a gas se non avesse potuto contare sull’aiuto di amici come Montale, Vittorini e altri».</div>
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Nonostante la depressione che lo coglie in tarda età, e nonostante i messaggi ultimativi (minacce di suicidio e minaccia di smettere precocemente di scrivere), Saba lavora fino all’ultimo o quasi. Da cosa nasce l’idea di tornare sul «Canzoniere» e di commentarlo?</div>
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«Storia e cronistoria del Canzoniere è uno straordinario esempio di autocommento, nato dalla convinzione di essere incompreso dalla critica del Dopoguerra e dagli alfieri dell’ermetismo. Si potrebbe perfino dire che un’opera straordinaria come questa, che più che spiegare il senso delle poesie costruisce un autoritratto dell’autore fra versi e prosa, sia nata inizialmente per impulso del complesso di persecuzione di Saba. E poi fino all’ultimo Saba ha scritto anche poesie: da “Mediterranee” a “ Sei poesie della vecchiaia” le appendici al Canzoniere vero e proprio regalano al lettore gli estremi gioielli della poetica sabiana».</div>
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L’opera di scarnificazione e di semplificazione è solo reazione alla retorica fascista?</div>
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«L’avversione al fascismo (dopo un’iniziale, momentanea simpatia) fu costante in Saba, anche se nel 1938 fu costretto al gesto umiliante di supplicare Mussolini perché risparmiasse lui e la sua famiglia, per meriti poetici, dall’applicazione delle leggi razziali. Una vera ossessione, da comunicare solo agli amici più stretti, fu la roboante propaganda del regime, odiatissima per l’invadenza ma anche per la tronfia retorica. E penso di sì, che non sia un caso se proprio negli anni Trenta la sua poesia prende la strada di una concisione linguistica, che tuttavia risentiva dichiaratamente del fascino esercitato da modelli come Ungaretti e Montale, in parte anche il giovane Penna».</div>
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Saba fu il primo poeta a confrontarsi con l’inconscio: quali conseguenze ebbe la «scoperta» della psicoanalisi?</div>
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«La psicoanalisi fu per Saba una scoperta totalizzante, cui si abbandonò con un’adesione quasi fideistica, al punto da interpretare ogni fatto della vita alla luce delle teorie di Freud. Dopo la cura intrapresa, tra il ’29 e il ’30, con lo psicanalista triestino Edoardo Weiss, che era stato allievo di Freud a Vienna, Saba accordò ancor più importanza ai traumi infantili che fin dalla prima giovinezza aveva ritenuto responsabili della propria inguaribile infelicità. Le poesie dei primi anni Trenta, raccolte nella sezione “Il piccolo Berto” del Canzoniere , sono incentrate proprio sulla scoperta dell’inconscio e del ritorno del rimosso, perciò pongono al centro la drammatica rappresentazione di uno strappo: la madre naturale che per gelosia lo sottrae con violenza, all’età di tre anni, all’amore di una madre più vera, cioè della balia, che il ragazzo tornerà a cercare nell’adolescenza. Ecco, la psicoanalisi ebbe, in fondo, l’effetto di convincerlo definitivamente che a causa delle ferite subite nella prima infanzia era destinato a scontare un’infelicità senza rimedio».</div>
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Come mai il romanzo, quel tipo di romanzo che è «Ernesto», arriva solo alla fine?</div>
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« Ernesto non è soltanto la struggente confessione di una iniziazione sessuale anomala, ma è anche la rievocazione di una stagione della vita e di un’epoca tramontata, inimitabile, all’alba del Novecento. Saba non poteva arrivare a scriverlo che con la libertà e col disincanto della senilità: è un piccolo capolavoro e c’è da rammaricarsi del fatto che oltre che anziano egli fosse allora troppo provato dalla malattia nervosa e minato nel fisico dall’eccesso di farmaci per riuscire a condurlo a termine».</div>
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Come si colloca la «funzione Saba» all’interno della poesia novecentesca? E con quali peculiarità?</div>
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«È vero, c’è nella poesia del Novecento una funzione Saba che si tende forse a sottovalutare. Un certo sabismo è evidente in poeti come Penna, Caproni, Bertolucci, Giudici, ma anche in Sereni è forte. Direi che se mettiamo insieme cantabilità del verso e fuga dall’enfasi del poetichese abbiamo già una tonalità in qualche misura sabiana».</div>
<div style="text-align: justify;">
Quando si pensa al meglio della poesia novecentesca, purtroppo pochi pensano a Saba. Nonostante la sua «leggibilità» e il notevole successo critico, qualcosa gli ha impedito (e ancora gli impedisce) di ottenere quel che meriterebbe. Come si spiega?</div>
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«Questa è la domanda più difficile di tutte. D’istinto direi che Saba non è mai stato, a differenza di altri poeti, un buon manager di se stesso. Una vera consacrazione l’ha ottenuta solo col premio Viareggio nel 1946 (peraltro ex aequo con un narratore viareggino come Silvio Micheli che oggi nessuno ricorda più), cioè quando aveva già sessantatré anni. Gli undici anni che gli restavano da vivere furono segnati dalla dipendenza dalla morfina e dai ripetuti ricoveri per crisi depressive. Quando ero ragazzo Saba era considerato uno dei classici della poesia del Novecento al pari di Ungaretti e Montale. Poi, è vero, la sua fortuna editoriale è un po’ calata, la sua fortuna critica è scesa ancora di più. Spero che il mio libro contribuisca a rendere giustizia a uno tra i massimi poeti italiani della modernità».</div>
</span></div>
illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-63462943283248303032017-06-19T16:28:00.000+02:002017-06-19T16:28:13.541+02:00Machiavelli per principianti<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<a href="https://4.bp.blogspot.com/-L3p08ExFWqg/WUffZaBc9XI/AAAAAAAADkU/SOTiXQNf6rA6m88UxGyHP32p4g0CctJdwCLcBGAs/s1600/quoteprince.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="250" data-original-width="960" height="83" src="https://4.bp.blogspot.com/-L3p08ExFWqg/WUffZaBc9XI/AAAAAAAADkU/SOTiXQNf6rA6m88UxGyHP32p4g0CctJdwCLcBGAs/s320/quoteprince.jpg" width="320" /></a></div>
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<a href="https://3.bp.blogspot.com/-L3p08ExFWqg/WUffZaBc9XI/AAAAAAAADkU/bs68fjWxf5k_qiKW1pTVDLBCKiZ4PMgiACEwYBhgL/s1600/quoteprince.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="250" data-original-width="960" height="166" src="https://3.bp.blogspot.com/-L3p08ExFWqg/WUffZaBc9XI/AAAAAAAADkU/bs68fjWxf5k_qiKW1pTVDLBCKiZ4PMgiACEwYBhgL/s640/quoteprince.jpg" width="640" /></a></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: justify;">
<b>Erica Benner, “La Repubblica”, 18 giugno 2017</b></div>
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Se sei un outsider della politica e vuoi arrivare in fretta alla carica più alta in una democrazia, che cosa devi fare? Puoi cominciare andando a rovistare in un libro scritto cinquecento anni fa da un pubblico funzionario italiano in ristrettezze economiche. Il modo più veloce, dice, è avere la Fortuna dalla tua parte fin dal principio, con dovizia di soldi ereditati e amicizie di famiglia. Se mentire e infrangere i giuramenti ti torna utile per sgominare i tuoi avversari, fallo pure. Fai del Popolo il tuo migliore amico: prometti di proteggere i suoi interessi contro la voracità delle classi dominanti e contro gli stranieri. Fomenta gli odi partigiani in modo da far apparire che solo tu ti ergi al di sopra di essi, come un Salvatore della Patria.</div>
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Il libro è <i>Il principe</i>, il suo autore è Niccolò Machiavelli. Al netto della televisione e di Twitter, sembra che le tecniche degli ambiziosi “ principi nuovi”, come li chiama lui, non siano cambiate di una virgola. Ma perché Machiavelli scrisse un libro intero su costoro, disseminandolo di esempi di uomini ascesi al potere corrompendo e sfruttando le debolezze altrui (Giulio Cesare, il papa Alessandro VI, Cesare Borgia)?</div>
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Molti oggi danno per scontato che il pensatore fiorentino non si fosse limitato a descrivere i loro metodi. Abbiamo sentito dire innumerevoli volte che era il consigliere di questi “principi nuovi”, il prototipo del machiavellismo, il primo professore onesto di una politica disonesta. Oltre all’informazione, anche la cultura popolare porta legioni di politici machiavellici nelle nostre case, rendendoli umani e divertenti: Tony Soprano, Frank e Claire Underwood di <i>House of Cards</i>, Lord Petyr Baelish del <i>Trono di Spade</i>. Questi machiavellici sono dei farabutti, ma sagaci: i farabutti degli intellettuali. Guardando le loro macchinazioni sullo schermo noi, come le loro vittime, non riusciamo a fare a meno di sentirci sedotti da tanta perversa abilità. Perciò non ci sconvolge più pensare che un uomo di grande intelligenza vissuto cinque secoli fa, in tempi che ci immaginiamo di gran lunga più crudeli dei nostri, passasse una notte dopo l’altra nella campagna toscana, con la moglie e i figli che dormivano nella stanza accanto, a redigere il manuale dei cinici populisti e autoritari dei giorni nostri.</div>
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Ma se invece ci fossimo lasciati sfuggire i messaggi meno evidenti di Machiavelli, se non avessimo colto le sue intuizioni più profonde sulla politica? Fino più o meno a un decennio fa non mi era mai venuto in mente di pormi questa domanda. Parte del mio lavoro consisteva nell’insegnare la storia del pensiero occidentale, da Platone ai giorni nostri, e Machiavelli sbucava verso l’inizio dell’anno, incastrato fra Sant’Agostino e Hobbes. Come migliaia di professori sovraccarichi di lavoro, avevo i miei espedienti. Prendendo <i>Il principe </i>o i <i>Discorsi</i>, evidenziavo tutte le frasi di Machiavelli che restano più impresse e il resto lo trattavo sommariamente. I compendi accademici mi dicevano che Machiavelli era consacrato al benessere della sua città natale, Firenze, e del suo Paese, l’Italia, in un’epoca in cui entrambi erano devastati dalle guerre. Sì, ha offerto giustificazioni piuttosto inquietanti alla violenza e all’ipocrisia. Ma le sue ragioni erano patriottiche, umanistiche, benevole.</div>
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Eppure più leggevo, più mettevo in discussione questa versione. Cominciai a notare che gli scritti di Machiavelli parlavano con voci diverse in momenti diversi. A un certo punto sembra applaudire gli uomini che infrangono i giuramenti a loro piacimento e si curano poco della rettitudine. Ma dice anche — in un passaggio che molti studiosi trascurano — che “le vittorie non sono mai sì stiette, che il vincitore non abbia ad avere qualche respetto, e massime alla giustizia”. Per ogni precetto cinico del pensatore fiorentino, ne trovo due o tre che lo contraddicono.</div>
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Cominciai a dubitare che Machiavelli credesse veramente nei consigli che forniva. Questi dubbi si rafforzarono quando cominciai a scavare nella sua vita e nella sua epoca, cercando di capire cosa lo spingesse a dire le cose che diceva. La versione tradizionale recita che <i>Il principe </i>fu scritto in un momento in cui Machiavelli cercava di accreditarsi come consigliere della famiglia più illustre di Firenze, i ricchissimi Medici: in pratica, una richiesta di assunzione. Ma nelle sue vesti di alto funzionario incaricato degli affari esteri e della difesa, Machiavelli era stato uno dei più accaniti difensori della Repubblica, contro i Medici stessi. Solo un anno prima del completamento della prima bozza del suo “ opuscolo” i Medici erano tornati tumultuosamente a Firenze con un colpo di Stato che aveva contato sull’appoggio di potenze estere, dopo aver trascorso anni in esilio. Non si fidavano per nulla di Machiavelli: lo revocarono dai suoi incarichi e poi lo fecero imprigionare e torturare, sospettandolo di complottare contro di loro.</div>
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Se davvero Machiavelli inviò <i>Il principe</i> ai Medici, cosa che sembra improbabile, non poteva aspettarsi che prendessero i suoi “consigli” — arrivare al potere corrompendo, imbrogliando e assassinando — come doni di amichevole saggezza. Né avrebbe giovato alla sua causa rivolgersi ai Medici, nella dedica, chiamandoli “principi”, e insistere sulla loro lontananza dal popolo. La famiglia dominante di Firenze desiderava tenere in piedi la finzione che loro erano semplicemente i “ primi cittadini” della Repubblica di Firenze, non monarchi o tiranni. Chiamarli principi era un atto di audacia. Non c’è da stupirsi che lettori di altre epoche del Principe — filosofi come Francis Bacon, Spinoza e Rousseau — non avessero il minimo dubbio che l’opera di Machiavelli fosse un’ingegnosa denuncia dei tranelli messi in atto dai principi, un manuale di autodifesa per cittadini. “ Il libro dei repubblicani”, lo etichettò Rousseau.</div>
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Non giudicate sulla base della reputazione o delle apparenze. “Non accettate nulla in virtù dell’autorità”. È una fra le massime meno conosciute di Machiavelli, e dovremmo applicarla alle sue stesse parole. Se ci soffermiamo di nuovo sul modo in cui conduceva la sua vita, e come quella vita plasmava i suoi pensieri, l’impressione che si ricava è che Machiavelli non l’abbiamo capito.</div>
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Ed è tempo che lo capiamo, perché nessuno scrittore contemporaneo è in grado di guidarci con la sua stessa efficacia per interpretare e affrontare il nostro mondo politico. Come segretario della Repubblica e attraverso i suoi scritti — che includono risme intere di poesie, commedie scollacciate e una storia di Firenze di sommessa tragicità — trascorse la vita a difendere il Governo repubblicano della sua città contro le minacce interne ed esterne. Fu una lotta dura, con battaglie su molti fronti. Lo condusse in un lungo viaggio attraverso la Francia con re Luigi XII, e alla corte di Cesare Borgia, dove trascorse mesi sfibranti a cercare di dissuadere il violento giovanotto dall’attaccare Firenze.</div>
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Ma Machiavelli era convinto che le vere minacce alla libertà venissero dall’interno, dalle macroscopiche disuguaglianze da un lato e dalla partigianeria estrema dall’altro. Vedeva con i suoi occhi con quanta facilità, in condizioni simili, l’autoritarismo poteva mettere radici e prosperare, perfino in repubbliche come quella fiorentina, che andavano fiere della loro tradizione di autogoverno del popolo.</div>
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La storia tempestosa della sua città insegnò a Machiavelli una lezione che cerca di trasmettere ai lettori futuri: nessun uomo può sopraffare un popolo libero se quest’ultimo non glielo lascia fare. “Sono tanto semplici li uomini”, ci dice, “e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare”. A ognuno di noi, Machiavelli dice: non diventare chi si lascia ingannare. I cittadini devono capire che quando si fidano troppo dei leader e troppo poco di se stessi creano con le proprie mani i loro incubi politici. “Io vorrei loro la via dello Inferno per fuggirla”, scriveva al Guicciardini negli ultimi anni della sua vita.</div>
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Oggi, ancora una volta, le democrazie vecchie e nuove stanno lottando per la loro sopravvivenza. Tra le sue righe a doppio taglio, Machiavelli spiega chiaramente perché un Governo del popolo, regolato dalla legge, è sempre meglio di un Governo autoritario: “Un popolo che può fare ciò che vuole, non è savio”, ma “un principe che può fare ciò ch’ei vuole, è pazzo”. La sua vita e le sue parole ci ispirano a diventare persone capaci di leggere più acutamente i segnali di allarmi politici, e disposte a lottare senza quartiere per difendere le nostre libertà. ?</div>
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TRADUZIONE DI FABIO GALIMBERTI</div>
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<b>L’autrice</b></div>
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Erica Benner ha scritto due volumi dedicati a Machiavelli: <i><b><a href="https://books.google.it/books?id=pjclDwAAQBAJ&pg=PT1&lpg=PT1&dq=Esser+volpe.+Vita+di+Niccol%C3%B2+Machiavelli&source=bl&ots=i1MMtqTQI4&sig=Vw_K_cYy46-7jmCQ7w3LE7yZkpk&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjh24f9jcrUAhUFahoKHTwoBYkQ6AEILTAC#v=onepage&q=Esser%20volpe.%20Vita%20di%20Niccol%C3%B2%20Machiavelli&f=false" target="_blank">Esser volpe. Vita di Niccolò Machiavelli</a></b></i> è arrivato in queste settimane in libreria per Bompiani. Benner è stata ricercatrice in Filosofia politica a Yale e ha insegnato per molti anni a Oxford e alla <i>London School of Economics.</i> Il testo pubblicato è la rielaborazione di un articolo uscito sul <i><b><a href="https://www.theguardian.com/books/2017/mar/15/be-like-a-fox-by-erica-benner-machiavelli" target="_blank">Guardian</a></b>.</i></div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-85721132793276978092016-12-07T18:21:00.001+01:002016-12-07T18:21:53.143+01:00“Tra eros e potere le nostre vite in rosso”<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<img alt="Risultati immagini per rosso rothko" height="640" src="http://www.doppiozero.com/sites/default/files/styles/nodo767x/public/17b_-_mark_rothko_untitled_1970_acryllic_on_canvas.jpg?itok=DfLLKngF" width="608" /></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><span style="color: #990000;"><br /></span></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><span style="color: #990000;">Intervista a Michel Pastoureau, </span></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><span style="color: #990000;">che studia la civiltà attraverso le sue variazioni cromatiche</span></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><span style="color: #990000;">“Da simbolo del potere imperiale ai red carpet, </span></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><span style="color: #990000;">ecco la storia del più evocativo dei colori”</span></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: center;">
<b>Anais Ginori, "La Repubblica", 7 dicembre 2016</b></div>
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<b><br /></b></div>
</span><div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">È il colore archetipico, il primo che l’uomo abbia usato in pittura e poi padroneggiato in tintoria. Dal sangue di Cristo alle fiamme dell’Inferno, il rosso ha avuto sin dal Medioevo una connotazione religiosa, ma anche fortemente profana. Evoca seduzione, bellezza, trasgressione e rivolte politiche. «È stato a lungo il simbolo del potere e della guerra» ricorda Michel Pastoureau, autore di </span><b style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><i><a href="http://www.ponteallegrazie.it/scheda.asp?editore=Ponte%20alle%20Grazie&idlibro=9374&titolo=Rosso" target="_blank">Rosso, storia di un colore </a></i></b><span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">(Ponte alle Grazie), che analizza il tema partendo dalle prime tracce risalenti a trentaduemila anni fa, con le pitture rupestri nelle grotte paleolitiche di Chauvet, in Ardèche. «Osserviamo già una forte varietà di toni rossi, ricavati per lo più dall’ematite, uno dei minerali di ferro più diffusi in Europa» racconta Pastoureau nella casa vicino al Bois de Boulogne, divani bianchi e un tavolo ricoperto da un telo verde, il suo colore preferito: «Non saprei spiegare perché, l’ho scelto da piccolo e non ho mai più cambiato».</span></div>
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: justify;">
Lo storico francese continua così un’opera originale e unica sviluppata in quasi mezzo secolo: raccontare l’evoluzione dell’umanità attraverso quella dei colori come filo conduttore culturale e sociale dell’Occidente. «Solo da noi il colore è diventato un’idea, qualcosa di astratto, da aggettivo a sostantivo, mentre in Africa o in Asia centrale resta solo materia». Dopo <i>Blu, Nero, Verde</i> e questo quarto volume, lo storico francese annuncia che finirà la serie con il giallo.</div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Se è il colore archetipico perché non aver incominciato il suo lavoro proprio dal rosso?</b></div>
<div style="text-align: justify;">
«La storia del blu era più semplice per iniziare. Oggi è il colore preferito in Occidente ma nell’antichità contava poco, al contrario del rosso che per millenni è stato dominante sia nella cultura materiale, che nei codici sociali e nei sistemi di pensiero».</div>
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<b>Come nasce questa egemonia?</b></div>
<div style="text-align: justify;">
«Per questioni materiali visto che è il colore i cui pigmenti sono più facili da trovare in natura e da fabbricare, con una vasta gamma di tonalità. Come sempre, al dato materiale si aggiunge quello simbolico. È il colore ambivalente, ispirato al sangue, dunque alla vita ma anche alla morte, o a un elemento distruttore come il fuoco».</div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Quali sono le altre accezioni del rosso?</b></div>
<div style="text-align: justify;">
«Già durante il paleolitico viene considerato come un colore che protegge. I capi se lo cospargono sul corpo, viene messo nei sepolcri con blocchi d’argilla. Nell’antica Roma solo l’imperatore ha il diritto di vestirsi interamente di porpora. Anche i Papi per secoli sono stati ammantati di rosso, solo dopo il Medioevo è comparso il bianco. Ancora oggi la simbologia degli onori sociali è legata a questo colore: si dice per esempio “stendere il tappeto rosso”. È anche un accessorio della bellezza, dei primi trucchi, tra l’altro anche maschili. Fino al Diciottesimo secolo, i nobili si truccavano il viso di rosso».</div>
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<b>È diventato anche il colore della contestazione.</b></div>
<div style="text-align: justify;">
«È l’evoluzione più recente, con la storia della bandiera rossa sventolata come simbolo di pace durante una manifestazione della Rivoluzione francese, nel 1791. Allora l’esercito sparò lo stesso e con i martiri quel drappo è diventato emblema politico della rivolta popolare, poi della sinistra. Quando ero giovane nelle sfilate del Maggio ’68 la bandiera rossa era scavalcata da quella nera degli anarchici, considerata ancora più estremista».</div>
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<b>E poi c’è l’amore?</b></div>
<div style="text-align: justify;">
«In ogni sua forma, da Cristo che versa il suo sangue per salvare l’umanità, alla passione, l’erotismo, il peccato. Nel Medioevo, le prostitute dovevano portare qualcosa di rosso per farsi riconoscere».</div>
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<b>In quale momento il blu prende il posto del rosso?</b></div>
<div style="text-align: justify;">
«A partire dal Dodicesimo secolo il blu soppianta il rosso nell’aristocrazia, nei tessuti più pregiati. Il colpo di grazia arriva però con la riforma protestante che mette al bando i colori troppo accesi, il giallo, il verde ma soprattutto il rosso, colore del Papa e dei cattolici all’epoca. Nella Ginevra di Calvino qualcuno che porta un abito porpora rischia la pena di morte. La controriforma non riuscirà più a riportare in auge questo colore soprattutto negli ambienti maschili. Il rosso che per secoli appariva virile, marziale, diventa più legato all’immagine femminile. Ma per esempio nelle battaglie femministe di inizio Novecento è il viola il colore prediletto».</div>
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<b>Il rosa è stato a lungo un colore neutro?</b></div>
<div style="text-align: justify;">
«Per molto tempo gli uomini non sono riusciti a fabbricare questo colore che non aveva neppure un nome, si chiamava semplicemente incarnato, in italiano. Il rosa dei fiori veniva rappresentato in pittura come una sfumatura del giallo. Solo alla fine del Diciottesimo secolo è apparso un codice sociale secondo cui il rosa è per le bambine e l’azzurro per i maschi».</div>
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<b>La percezione dei colori è cambiata nei secoli?</b></div>
<div style="text-align: justify;">
«Il dibattito è iniziato alla fine dell’Ottocento quando alcuni studiosi hanno osservato che i romani e i greci parlavano raramente del blu. Qualcuno allora ne ha dedotto che era un colore che vedevano male. Oggi quest’ipotesi è superata. Credo però che la percezione visiva non sia solo neurobiologica ma anche culturale. In Africa, le persone riconoscono diverse tonalità di marrone, con vocaboli appositi, che l’occhio francese o italiano fatica a distinguere. In Europa abbiamo modificato i nostri pregiudizi su alcuni abbinamenti. Nel Medioevo l’accoppiamento di rosso e verde era considerato abbastanza dolce mentre per noi oggi è violento».</div>
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I</div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-74024719046266860202016-12-04T08:23:00.000+01:002016-12-04T08:23:10.964+01:00Il culto di Petrarca (per se stesso)<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<a href="https://1.bp.blogspot.com/-JHTUCq0bAgg/WEPEJJfqJfI/AAAAAAAADME/cCodovCIyR0cbXk9VyFB5chGHLXXKXnVgCLcB/s1600/Giusto%2Bdi%2BGand%2B%2BPetrarca%2Bnel%2Bsuo%2Bstudio%2B%2BPalazzo%2BDucale%2BUrbino.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="400" src="https://1.bp.blogspot.com/-JHTUCq0bAgg/WEPEJJfqJfI/AAAAAAAADME/cCodovCIyR0cbXk9VyFB5chGHLXXKXnVgCLcB/s400/Giusto%2Bdi%2BGand%2B%2BPetrarca%2Bnel%2Bsuo%2Bstudio%2B%2BPalazzo%2BDucale%2BUrbino.jpg" width="386" /></a></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b>Annotava tutto, registrava, chiosava. Senza distinguere tra vita e letteratura</b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: center;">
<b>Marco Santagata, "Corriere della Sera", 3 dicembre 2016</b></div>
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<br /></div>
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Centinaia e centinaia di lettere, un’autobiografia <i>Ad posteritatem</i>, un dialogo introspettivo, il <i>Secretum</i>, dominato per intero dal proprio io, una miriade di note e di postille depositate sugli autografi, sui margini dei libri, una cura maniacale, diciamo pure nevrotica, a segnare le date — giorno, mese, spesso l’ora — di eventi della sua attività di scrittore, di studioso, di uomo pubblico e perfino privato, fino al punto da giungere ad annotare anche i giorni nei quali aveva ceduto ai piaceri della carne: insomma, una costante esibizione di sé sorretta e avvalorata da un imponente apparato documentario. Una tale mole di informazioni ci consente di dire che di nessun personaggio prima di Petrarca conosciamo la biografia in modo più dettagliato.</div>
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Il problema è che tanti dettagli faticano a comporsi in un ritratto coerente e, soprattutto, fondato. Essi, infatti, ci vengono tutti da lui, e perciò, in quanto autobiografiche, sono già di per sé testimonianze da prendersi con le molle. Nel suo caso, poi, la prudenza è quanto mai necessaria, e per molte buone ragioni. Per esempio, una non da poco è che la sua necessità di fissare il tempo con puntuali indicazioni cronologiche si accompagna a una vera e propria coazione a riscriversi e a cancellare il già scritto, il che rende spesso aleatori anche paletti che sembrerebbero certi. Insomma, anche quando ci illudiamo di camminare su un terreno solido, ben presto scopriamo di essere incappati nelle sabbie mobili.</div>
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La ragione principale, però, è che Petrarca mente, o meglio, mescola in modo inestricabile realtà e finzione, verità e mistificazione, dati certi e affermazioni arbitrarie. Non per il gusto di mentire, ma si potrebbe perfino dire per necessità culturale: convinto che non ci sia alcun diaframma tra vita e letteratura e intenzionato a trasmettere di sé un ritratto ideale, un modello, ecco che costruire un’opera complessiva che abbracciasse insieme esperienze di vita ed esperienze letterarie e che fornisse una lettura unitaria del suo essere uomo, intellettuale e poeta diventava per lui una strada obbligata. Il problema è tutto nostro, di noi che, irretiti nel suo gioco, cerchiamo a fatica di decifrarne i meccanismi, di distinguere ciò che lui non voleva distinguere. Ecco perché le pur pregevoli biografie in circolazione non possono non disperdersi in ridde di ricostruzioni minute e ipotetiche, un labirinto nel quale spesso si perdono il senso dei dati biografici e culturali e, in ultima analisi, viene a svanire la vera identità di Petrarca, sommersa da quella che lui intendeva imporci.</div>
<div style="text-align: justify;">
Forse ci voleva proprio uno studioso come Francisco Rico per fornirci un’agile biografia che con mano sicura sceverasse il certo dall’incerto, ciò che è della vita e ciò che è del progetto petrarchesco di rilettura della propria vita. Rico lo fa, in collaborazione con Luca Marcozzi, nella seconda parte del dittico in cui è suddiviso <i><b><a href="http://www.adelphi.it/libro/9788845931031" target="_blank">I venerdì del Petrarca </a></b></i>(Adelphi). Il loro ritratto essenziale restituisce l’immagine più vicina all’originale, come se uscisse da un restauro. Molti tratti ci erano noti, ma altri emergono con inusuale nitidezza: penso, ad esempio, a quanta attenzione Petrarca abbia dedicato per tutta la vita ai rapporti con i protettori e i mecenati e alla sua abilità nel procurarsi sostanziose fonti di sostentamento. Rico era la persona più adatta a operare il restauro, perché, più di ogni altro, mettendosi nella scia di Giuseppe Billanovich, ha innovato il modo di leggere Petrarca. Si deve proprio a lui, a cominciare da un libro che ha segnato una svolta negli studi petrarcheschi, quel <i>Vida u obra de Petrarca</i>, uscito in Italia, da Antenore, nel 1974, in castigliano, e di cui si desidererebbe come di pochi altri una traduzione in italiano, si deve a lui la ricostruzione più affascinante delle strade tortuose lungo le quali Petrarca si è costruito come personaggio mescolando vita e letteratura, lasciandoci sempre nel dubbio se ciò che leggiamo sia vita o letteratura.</div>
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Rico ha il dono, oggi sempre più raro, di coniugare rigore filologico e inventività, solidità erudita e ardire interpretativo. Sotto la sua penna la filologia diventa militanza. E la sua filologia militante ha il pregio ulteriore di cercare nuove frontiere, di misurarsi con ipotesi che la stanca filologia dei nostri tempi nemmeno saprebbe formulare. Assodato che nei suoi scritti Petrarca «non mira tanto a narrarsi quanto a costruirsi, a esibire l’immagine ideale che vorrebbe darsi di se medesimo, o al limite l’immagine che lui ha di se medesimo», ecco che Rico, quasi mettendosi in gara, lui filologo con gli amici romanzieri e il loro culto dell’immaginazione, si chiede se per Petrarca, in non pochi momenti e comportamenti, «i fatti abbiano lo stesso valore di un testo letterario, anzi funzionino come tale, lo sostituiscano».</div>
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È una domanda complementare e opposta a quella che ha guidato l’indagine sul Petrarca che impone ai fatti l’interpretazione letteraria. Ne esce l’ipotesi di un’autobiografia segreta della quale farebbero parte «non poche pagine che il poeta non scrisse affatto, ma che piuttosto visse come se ne stesse scrivendo, oppure come se stesse ricalcando ciò che effettivamente aveva o avrebbe scritto». L’ipotesi è felicemente sperimentata nel primo dei due dittici, quello che dà il titolo al libro. Appurato che il riferimento a questo giorno della settimana si presenta con insistenza negli scritti petrarcheschi, Rico si chiede cosa rappresentasse il venerdì per Petrarca.</div>
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A partire da questa domanda si snoda un percorso tra archetipi culturali e privati investimenti emotivi, un viaggio critico che costeggia alcuni dei miti più tenaci dell’immaginario petrarchesco. Il viaggio, zigzagante e imprevedibile, tiene avvinto il lettore. Alla fine (ma Rico la anticipa all’inizio) emerge la risposta: <b><span style="color: #134f5c;">«Il venerdì del Petrarca non è il venerdì nefasto della superstizione popolare, né solamente il venerdì devoto del cristiano: è il giorno che non passa inosservato, senza far sentire la propria singolarità... È uno degli archetipi e termini di paragone che servono a Francesco per situarsi nel mondo»</span></b>. Non una bizzarria, sia chiaro, né un vezzo, ma una necessità psicologica. Come negli scritti Petrarca cerca di proteggere la propria identità di depresso «dissimulandola sotto quella di un modello prestigioso», cioè costruendosi in personaggio, così, parallelamente, nella vita ricorre «a fissazioni, riti, schemi e paradigmi temporali». Il venerdì è uno di questi.</div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-27919326831205617772016-11-08T04:11:00.001+01:002016-11-08T04:11:45.557+01:00La letteratura e il suo destino<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<a href="https://4.bp.blogspot.com/-iQx1XdfWAlU/WCFCTF9LGpI/AAAAAAAADJY/mq1VOkjN50MuCsUucKA2B0lwwWH-L5EIQCLcB/s1600/alighiero-boetti--madre-napoli.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://4.bp.blogspot.com/-iQx1XdfWAlU/WCFCTF9LGpI/AAAAAAAADJY/mq1VOkjN50MuCsUucKA2B0lwwWH-L5EIQCLcB/s1600/alighiero-boetti--madre-napoli.jpg" /></a></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: center;">
<b>Walter Siti</b></div>
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<b>"La Repubblica", 6 novembre 2016</b></div>
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Il Nobel a Bob Dylan e la contemporanea scomparsa di Dario Fo, ultimo Nobel italiano per la letteratura, hanno portato i media a discutere (per poco, fosse mai che ci si abitua) sulla natura del testo letterario: <b><span style="color: #990000;">la canzone e il teatro sono da considerarsi letteratura?</span></b> E perché no allora il cinema, perché non assegnare il Nobel a Woody Allen, o a Almodóvar, o a Tarantino? Le sceneggiature di Pasolini stanno nei “Meridiani” Mondadori e già il <i>graphic novel </i>si è affacciato allo Strega… Passata la buriana delle rivendicazioni campanilistiche, dei rosicamenti, delle reciproche accuse di pedanteria parruccona e dei vi-piace- vincere-facile, forse ci si può riflettere con più calma.</div>
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Per la maggior parte della sua storia (e della sua geografia) la letteratura è esistita nell’integrazione con altre forme espressive: con la musica prima di tutto, dai tamburi alla lira, dall’accompagnamento alla melodia, dalla suggestione sentimentale alla trance. Per molti secoli la letteratura è stata orale e la voce del cantore (o dell’attore, o del retore) era elemento essenziale del testo; per non parlare dell’integrazione figurale con le immagini, dalle calligrafie orientali ai codici medievali e umanistici fino alla moderna poesia visiva o ai libri di Breton e di Sebald. Il cinema ci ha aggiunto il movimento, il teatro la presenza del corpo vivo. La seduzione dell’opera d’arte totale, che coniughi tutte le umane potenzialità espressive, ha sempre agito sottopelle e ora la tecnologia sembra renderla possibile (testi multimediali, proiezioni in 3D, trasmissione a distanza di sensazioni tattili e olfattive…).</div>
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<b><span style="color: #990000;">La letteratura fatta di parole, che da sole si incarichino di evocare tutto il resto, è stata l’eccezione di poche isole culturali di cui la più vistosa è quella occidentale degli ultimi cinquecento anni; la lunga durata non esime da una possibile fine</span></b>, e dunque c’è da chiedersi oggi perché la “letteratura solo scritta” sembra non bastare più. È solo un problema di logoramento, di consunzione per eccesso, di smania di novità ? È la mondializzazione che, tendendo a svalutare le lingue nazionali, privilegia i messaggi che non hanno bisogno di traduzione? (La musica è universale, quante volte l’abbiamo sentito dire, e vale più un’immagine che mille parole, e simili sciocchezze). O invece c’è, sotterranea, una rimozione che deriva dalla paura?</div>
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Quando, al tempo di Cavalcanti e Dante, le poesie diffuse epistolarmente smisero di essere per forza accompagnate dalla musica, la loro musica interna divenne una necessità. Quando molto prima, all’epoca dei santi Ambrogio e Agostino, si smise di leggere ad alta voce, le parole risuonarono <i>in interiore homine</i> e favorirono l’autoanalisi. E quando molto dopo, nel fiorire del romanzo moderno, le donne ebbero finalmente una stanza tutta per sé, cominciò l’uso di sognare a libri aperti immaginando mondi alternativi a partire dalla parola scritta. La poesia divenne quasi un surrogato del sacro e i romanzi si trasformarono in luoghi di riflessione filosofica incarnata nel quotidiano. <b><span style="color: #990000;">Scegliendo di fare da sola, la “letteratura solo scritta” alzò l’asticella di quel che si poteva chiedere alle parole. Giocare con le parole può essere molto rischioso: le parole non appartengono mai completamente a chi le scrive, hanno una storia sociale che prescinde dall’individuo e un corpo arbitrario che prescinde dalla ragione. </span></b>Le parole, unendosi insieme, fanno emergere ciò che è represso sia nell’individuo che nella società; se la repressione è cattiva, tirannica, la letteratura veicola un’esigenza di libertà – se la repressione è giusta, utile alla vita associata, la letteratura diabolicamente insinua elementi asociali e distruttivi. Quando Sartre invitò la letteratura a “impegnarsi” ne esentò non a caso la poesia, presupponendo un divario incolmabile tra poesia e romanzo; mentre ogni romanzo è anche poesia, e (quasi) viceversa.</div>
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<b><span style="color: #990000;">Nell’attuale tramonto della “letteratura solo scritta” io leggo un rifiuto dell’ambiguità della parola</span></b>: il che può sembrare paradossale, perché niente è più ambiguo della musica o di un’immagine. Ma il fatto è che la musica, la recitazione il movimento creano, assai più che la nuda parola stampata su un foglio, entusiasmo e condivisione. In un momento di crisi e mutazione come il nostro, può sembrare che l’arte abbia un compito di positività coatta – che tutto ciò che isola e deprime sia da rifiutare per un imperativo morale. Se la parola, o le note, o i colori, presi autonomamente possono giocarsi l’ambiguità in funzione critica, tutti insieme appassionatamente e frastornati dal rumore mediatico organizzano una festa di confermazione. Più che integrare la parola con altri mezzi, spesso ho l’impressione che si cerchi di diluirla. E lo stesso probabilmente accade con le altre arti.</div>
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Non è possibile fare discorsi estetici che non siano anche politici: l’accento che si mette oggi sui “fatti talmente forti che non c’è bisogno di inventarli”, la sensazione di molti artisti di trovarsi come in trincea, al punto che giocare con le parole appare un esercizio futile se non riprovevole, dire che la verità storica o giornalistica è la vera bellezza, tutto questo “integra” la missione profonda della letteratura come la integrano la musica o l’immagine. E allo stesso modo, con l’intenzione di rafforzarla, la indebolisce. Il Nobel alla Aleksievic è solidale con quello a Bob Dylan. Se immediatezza, efficacia pratica, coinvolgimento a tutti i costi sono i criteri, è ovvio che le convenzioni letterarie siano troppo strette. Ma si dimentica che le convenzioni, se non le ammetti e le discuti apertamente, finiscono per imporsi in modo occulto; e l’ambiguità rifiutata nella sua versione consapevole, ritorna inconsapevole e passiva. Quando una cosa fa paura, in genere ce ne liberiamo ridendo; è significativo che la licenza di giocare con le parole sia concessa oggi soltanto ai comici – chiedo ufficialmente l’assegnazione del Nobel per la letteratura a Alessandro Bergonzoni.</div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-64143470679423683502016-11-06T16:23:00.001+01:002016-11-06T16:23:55.039+01:00Spari del poeta innamorato<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<a href="https://4.bp.blogspot.com/-mu1nBrYftwQ/WB9K6i4AvxI/AAAAAAAADJI/JCwk-B0uSW4jG5Cqf7CEbFD3RFI7D9SzwCLcB/s1600/rimbaud_latour.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="640" src="https://4.bp.blogspot.com/-mu1nBrYftwQ/WB9K6i4AvxI/AAAAAAAADJI/JCwk-B0uSW4jG5Cqf7CEbFD3RFI7D9SzwCLcB/s640/rimbaud_latour.jpg" width="510" /></a></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b>La mattina del 10 luglio 1873 Verlaine compra un revolver a Bruxelles. Alle 14.30 fa fuoco contro Rimbaud</b></span></div>
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: center;">
<b>È l’apice di una tormentata, tragica, chiacchierata storia di passione e passioni</b></div>
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<b>Il prossimo 30 novembre la sede parigina di Christie’s metterà all’incanto la pistola. La stima è intorno ai 60 mila euro</b></div>
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<b>Vanni Santoni</b></div>
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<b>"Corriere della Sera - La Lettura", 6 novembre 2016</b></div>
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Se la letteratura avesse mantenuto la propria preminenza nell’immaginario popolare, esisterebbero forse nelle città turistiche dei «café» simili a quelli in cui si espongono memorabilia del rock, ma con le bacheche consacrate agli oggetti di scrittori e poeti. Il mondo è andato in un’altra direzione, e il feticcio letterario trova rilievo solo quando riguarda gli autori massimi. Raramente, tra dipinti e preziosi, le grandi case d’aste ne vedono passare uno, quasi sempre destinato a collezioni private: nel 2010 Christie’s batté la macchina da scrivere di Kerouac (20.296 euro); quattro anni fa da Sotheby’s passarono un anello di Jane Austen (169.322 euro) e il portasigarette di Agatha Christie (6.247 euro); lo scorso settembre Julien’s ha battuto le ceneri di Truman Capote (39.475 euro). Se, fra tutti, vi è un autore che viene facile considerare «massimo», anzi rispetto al quale si è sempre in ritardo, come se il suo grido «bisogna essere assolutamente moderni» si fosse posizionato oltre il tempo, quello è Arthur Rimbaud: non stupisce allora l’interesse intorno all’incanto, previsto il 30 novembre presso la sede parigina di Christie’s, della pistola con cui Verlaine, al culmine di una tragica storia d’amore, gli sparò contro.</div>
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Il revolver che Paul Verlaine acquistò la mattina del 10 luglio 1873 all’armeria Montigny di Bruxelles, per 23 franchi. L’arma con cui minacciò di uccidersi e poi fece fuoco due volte, cogliendo Rimbaud al polso sinistro (il secondo colpo andò a vuoto, prendendo il caminetto della camera dell’Hôtel à la Ville de Courtrai in cui alloggiavano durante l’ennesimo, tormentato incontro). L’arma alla quale, di nuovo, mise mano nel pomeriggio, portando Rimbaud a denunciarlo. Denuncia ritirata qualche giorno più tardi, ma sufficiente a portare il giudice a farsi qualche domanda circa la reale natura di un’amicizia così burrascosa, e costringere Verlaine a umilianti esami pseudoscientifici atti a scoprire se il suo corpo recasse i segni del vizio. La commissione stabilì di sì, e il poeta fu sbattuto in carcere per 2 anni e condannato a pagare un’ammenda di 200 franchi. La pistola fu sequestrata e se ne persero le tracce, finché non fu scoperta presso un privato ed esposta per la prima volta alla mostra Verlaine, cella 252 a Mons, in Belgio, nel 2015.</div>
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La pistola di Verlaine, dunque. Eppure, se desta immediato e globale interesse (e un’attesa minima di vendita intorno ai 60 mila euro) è certo per via di Rimbaud.</div>
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Rimbaud è sempre feticcio (chi non possiede una sua raccolta comprata negli anni del liceo per l’idea che egli incarnava, prima che per le poesie?); Rimbaud è sempre mito. «Si dice che Vitalie Rimbaud, nata Cuif, partorì Arthur Rimbaud» scrive Pierre Michon nella biografia più fortunata del poeta, Rimbaud il figlio , e con quel «si dice» lo posiziona subito nel campo della leggenda. Come tale, Rimbaud sfugge alle categorie, a ogni facile fissaggio, ed è per questo che ogni ritrovamento, ogni foto sbiadita che esce dal baule di un antiquario, finanche la scoperta di un singolo verso (nel 2009 l’ultimo: «L’eternel craquement des sabots dans les cours», riportato sul «Gaulois» del 23 febbraio 1885) è un evento. I <i>memorabilia </i>rimbaudiani hanno infatti un compito ulteriore: tentare di fermare, almeno nella storia, lo sfuggente. Il simbolo stesso dell’irriducibilità. Rimbaud non si fissa, non si categorizza, non si possiede. Non lo si può sottomettere — i parnassiani e gli zutisti, primi circoli poetici con cui entrò in contatto a Parigi, e lo stesso Verlaine, comunque «principe dei poeti», erano destinati a venire bruciati come dal passaggio di una cometa — ma neanche si riesce a bloccarlo posizionandolo all’apice di qualcosa. Definito, negli anni, padre del decadentismo, del simbolismo, del surrealismo («l’essere più straordinario che abbia solcato la terra» per Cocteau), del modernismo (per l’intuizione dell’intertestualità nel Battello ebbro ), della psichedelia (da Ginsberg, per la Lettera del veggente : «Bisogna essere veggente , farsi veggente , attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi »), antesignano del punk e del femminismo (da Patti Smith, per il suo rifiuto di ogni convenzione, inclusa la volontà di avere un futuro, e per le sue affermazioni circa la necessità di una liberazione di genere), inventore dell’identità gay moderna per il biografo Graham Robb (e sotto sotto anche per Edmund White, autore del godibile La doppia vita di Rimbaud ); precursore addirittura del postmodernismo per la fuga improvvisa e mai rinnegata dalla letteratura, intesa essa stessa come atto artistico, come scrive, tra gli altri, Jamie James nel <i>Rimbaud a Giava</i>, di recente pubblicazione per Melville Edizioni, e finanche della singolarità tecnologica («La scienza, la nuova nobiltà! Il progresso. Il mondo cammina! Perché non dovrebbe svoltare? È questa la visione dei numeri. Andiamo verso lo Spirito...»).</div>
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Ovunque lo si collochi, Rimbaud è già un passo avanti: il caso più stupefacente e insolubile della storia della poesia, come ebbe a scrivere Palazzeschi, fa parte a sé, senza le parentele che tutti i poeti hanno fra di loro, e sfugge quindi a ogni definizione che non sia iperbolica. Così è un attimo esagerare: ecco la critica Edith Sitwell a definirlo iniziatore della prosa moderna, ecco René Char che parla del primo poeta di una civiltà non ancora nata, e ancora Fénéon che lo mette «al di fuori e al di sopra di ogni letteratura», Mallarmé che parla di un «dio della mitologia», Camus di «oracolo sfolgorante»... Quasi senza accorgercene ci ritroviamo con Jim Morrison a definirlo «salvatore della razza umana», e senza sentirci esagerati.</div>
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Questo è Rimbaud. Se ha qualche parentela, sono quelle da lui stesso indicate: diciassettenne, riconosce un solo re, Baudelaire, e un solo vero poeta subito sotto, quel Paul Verlaine che lo avrebbe invitato a Parigi, certo del suo genio, che se ne sarebbe innamorato, che da lui avrebbe tratto lo strappo necessario anche alla propria grandezza, che invano avrebbe tentato di trattenere a sé. «Venite, cara grande anima, vi chiamiamo, vi aspettiamo», scrive Verlaine nell’agosto del 1871, in risposta alle lettere e alle poesie del diciassettenne Arthur. «T’insegno io a volertene andare» urla lo stesso Verlaine due anni più tardi, mentre fa fuoco. In mezzo si è consumata la loro storia d’amore, il cui scandalo avrebbe distrutto il matrimonio del primo e fatto odiare il secondo da quegli stessi circoli parigini che si erano inchinati al suo arrivo. Braccati dalle maldicenze (e dalla moglie di Verlaine, Mathilde, che, quando inizia la relazione con Rimbaud, gli ha appena dato un figlio), le loro fughe si sono fatte sempre più goffe e rocambolesche, e l’abuso di assenzio non aiuta. L’ultima li ha portati prima a Londra, poi a Bruxelles.</div>
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Sono le 14.30 del 10 luglio 1873 quando Verlaine, dopo l’ennesima lite, fa fuoco. Così si arriva alla pistola. Al revolver Lefaucheux 7 millimetri <i>pet de lapin </i>(ovvero «cucciolo di coniglio» — tutto, in Rimbaud, riverbera: il francesista penserà al coniglio dei versi di Festa galante , scritti da Verlaine e ricomposti in altra forma da Rimbaud; il biografo vedrà un lampo del destino di mercante d’armi del Rimbaud adulto; il visionario coglierà un segno nel fatto che si tratta dello stesso modello con cui 17 anni dopo si sarebbe ucciso Vincent van Gogh).</div>
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Due colpi esplosi, un terzo colpo minacciato. Verlaine usa l’arma per trattenere Rimbaud, per fissarlo. Il risultato è opposto. Rimbaud si separa dall’amante e si chiude in un granaio della natia Charleville per scrivere <i>Una stagione all’inferno</i>. Ha solo diciannove anni ma è il suo testamento: dopo di esso partirà. Lo troviamo scaricatore a Livorno, soldato e disertore a Giava, poi a Vienna, Colonia, Brema, al seguito di un circo a Amburgo, e ancora a Stoccolma e Copenaghen, a Cipro, nello Yemen e infine in Etiopia, dove si ferma ad Harar facendosi mercante. Ogni momento della sua vita è buono per irradiare storie e le moltissime biografie lo testimoniano, ma il momento dello sparo è quello decisivo — non ne manca infatti una, ottimamente documentata, che parte proprio da lì: <i>Una sconosciuta moralità</i> di Giuseppe Marcenaro, uscita per Bompiani nel 2013 —, è la lacerazione da cui nasce l’abbandono, prima di Verlaine e poi della letteratura: «La mia giornata è compiuta — scrive Rimbaud in <i>Una stagione all’inferno</i> —: lascio l’Europa. L’aria marina mi brucerà i polmoni; i climi remoti mi abbruniranno». Così il poeta, artefice ultimo del proprio destino, si consegna al mito, all’impossibilità di qualunque irreggimentazione, e dona a ogni oggetto che lo riguardi, che sia testo autografo, fotografia o pistola d’amante, un’aura da cui si irradia la sua storia, ogni volta in modo diverso e atto ai tempi — e così sarà per chi si aggiudicherà la Lefaucheux 7mm, ma Rimbaud, a quel punto, sarà già altrove.</div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-63962585896836945592016-07-10T11:41:00.002+02:002016-07-10T11:41:42.090+02:00Il senso di David Bowie per la scienza delle stelle<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://3.bp.blogspot.com/-UktB7tQ8Puk/V4IX4yY9kNI/AAAAAAAACC4/tkYivCLLpZMx2CYxLJaJ6YurwhIIEHb7ACLcB/s1600/davidbowieco.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="398" src="https://3.bp.blogspot.com/-UktB7tQ8Puk/V4IX4yY9kNI/AAAAAAAACC4/tkYivCLLpZMx2CYxLJaJ6YurwhIIEHb7ACLcB/s640/davidbowieco.jpg" width="640" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><a href="http://phys.org/news/2016-01-david-bowie-constellation-truth.html" target="_blank">La costellazione Bowie</a></td></tr>
</tbody></table>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<b style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">Dalle letture giovanili di Philip Dick alla passione per Tesla e per i viaggi spaziali fino al testamento pitagorico Ritratto non in musica di una rockstar</b></div>
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<b>Piergiorgio Odifreddi, "La Repubblica", 9 luglio 2016</b></div>
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Negli anni Cinquanta, quando David Jones era un bambino, uscirono due libri di fantascienza che da adolescente lo fecero sognare, come fece d’altronde tutto il genere, perché sembravano parlare proprio di lui: “Starman Jones” di Robert Heinlein (1953) e “Il mondo che Jones creò”, di Philip Dick (1956). Il primo è un romanzo di formazione che racconta di un ragazzo che voleva diventare un astronauta, e di un “cucciolo ragno” che sapeva giocare a scacchi. Il secondo è un romanzo distopico in cui compaiono mutanti umani ermafroditi che si guadagnano da vivere nell’industria dello spettacolo. Quei romanzi prefiguravano ciò che negli anni Settanta il giovane lettore David Jones sarebbe diventato, dopo aver cambiato il proprio nome in David Bowie: una scelta ispirata al pioniere James Bowie, morto nella battaglia di Alamo, e noto per il coltello da duello chiamato appunto “il Bowie”. Oltre che nella fantascienza e nel West, il futuro cantore delle stelle trovò la sua ispirazione anche in opere musicali come <b><a href="https://www.youtube.com/watch?v=Isic2Z2e2xs" target="_blank"><i>I pianeti </i>di Gustav Holst</a></b> (1918): già con uno dei suoi primi gruppi, il <i>Lower Third</i>, Bowie ne interpretò il brano <i>Marte, portatore di guerra</i>.</div>
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Nel 1969 l’ancora sconosciuto cantante era ormai pronto per il proprio lancio spaziale, che scelse oculatamente (o furbescamente) di effettuare la settimana prima della missione dell’Apollo 11. Nei giorni in cui il razzo Saturno V decollava da Capo Kennedy e il modulo lunare Aquila allunava nel Mare della Tranquillità, il maggiore Tom decollava nel brano Space Oddity, “Stranezza spaziale”, lasciando però presagire una storia con un finale meno lieto, che sarebbe stata raccontata a spizzichi in seguito: in <i>Ashes to Ashes</i> (1980), <i>Hello Spaceboy </i>(1995) e <i>Blackstar </i>(2015).</div>
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Nonostante la semplicità del suo stile letterario e musicale, e un video rudimentale che scimmiottava il Kubrick di <i>2001 Odissea nello spazio</i> (1968), Bowie catturò lo spirito del tempo dei voli spaziali, almeno per gli ingenui giovani dei “favolosi anni Sessanta”. E quasi cinquant’anni dopo la canzone originale è ancora lì, cantata dall’astronauta <b><a href="https://www.youtube.com/watch?v=KaOC9danxNo&list=PLrUznNCJJJzCDF9IUES9QBCMNo7sGR051" target="_blank">Chris Hadfield </a></b>fluttuante nello spazio nel 2013, in un superbo video che è stato visto da trenta milioni di persone, e citata dal cardinal Gianfranco Ravasi in un <i>tweet </i>nel 2016, il giorno della morte del cantante.</div>
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Ma David Bowie non si accontentava di impersonare un astronauta: voleva diventare un extraterrestre, anche se per elevarsi nello spazio celeste dovette scendere nei bassifondi terrestri e prendere ispirazione da artisti maledetti come Iggy Pop e Lou Reed. Mescolandoli insieme sintetizzò nel 1972 <i>Ziggy Stardust</i>, che divenne per un paio d’anni il suo indistinguibile alter ego, e lo fece letteralmente uscire di senno. Bowie, accompagnato dal gruppo <i>I ragni di Marte</i>, raccontò <i>L’ascesa e la caduta di Ziggy Stardust </i>in un disco e una lunga serie di concerti, l’ultimo dei quali divenne un film.</div>
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Nel 1976 iniziò poi una carriera di attore cinematografico, che nel corso degli anni l’avrebbe portato a impersonare personaggi come il governatore Ponzio Pilato nell’<i>Ultima tentazione di Cristo </i>(1988), l’artista Andy Warhol in <i>Basquiat </i>(1996), e lo scienziato Nikola Tesla in <i>The prestige </i>(2006). Quest’ultimo nel film interviene per costruire una stupida macchina che produce sosia degli uomini, secondo la vulgata pop che lo presenta come uno scienziato pazzo che sfornava appunto sciocche idee, ma nella realtà è stato un fior di inventore e un pioniere dell’elettricità e della radio.</div>
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Nel suo primo film, <i>L’uomo che cadde sulla Terra</i>, Bowie interpretò semplicemente sé stesso, o almeno quello che ormai credeva di essere: un alieno di nome Thomas Newton, venuto sul nostro pianeta in missione (nella fattispecie, per cercare un modo di portare acqua al suo inaridito pianeta), ma rimasto intrappolato quaggiù. In una sorta di resa di favori, questa volta fu Bowie a ispirare un’ormai pazzo Philip Dick, arrivato a credere di essere scivolato nella California dei propri tempi dalla Roma dei tempi di Cristo: nel suo romanzo autobiografico Valis (1981) compare infatti una rockstar simile a Bowie. Dopo quasi dieci anni di can- zoni che un acuto John Lennon definì “rock’n’roll col rossetto”, di video e film che mescolavano astronavi e pianeti con il travestitismo bisex, di prese di posizioni filonaziste e di dipendenza dalla cocaina, nel 1977 Bowie si ripulì nell’anima e nel corpo e produsse insieme a Brian Eno due dischi di musica minimalista e strumentale: <i>Low </i>e <i>Heroes</i>. In seguito il compositore Philip Glass scoprì che essi contenevano «brani complessi mascherati da canzonette» e ne trasse due sue sinfonie omonime. Negli anni Novanta Bowie era ormai diventato un prodotto industriale, e il banchiere d’investimenti David Pullman lo immise nel mercato delle obbligazioni. In cambio di un pagamento anticipato di 55 milioni di dollari, Bowie cedette i diritti su tutta la sua produzione passata per dieci anni, e il banchiere emise dei <i>Bowie bonds</i>, che pagavano interessi più alti dei buoni del Tesoro decennali (7,9% contro 6,4%).</div>
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Memore del suo diploma all’Istituto Tecnico-Artistico ottenuto da ragazzo a Keston, in un sobborgo di Londra, Bowie sperimentò non soltanto con l’elettronica, ma anche con l’informatica. Poco dopo gli inizi di Internet, nel 1998, la <i>BowieNet </i>offrì per una decina d’anni ai propri utenti non solo un accesso tramite modem alla rete e un servizio di mail, ma anche una serie di contenuti musicali specifici, quali interviste, video e canzoni di Bowie disponibili solo in rete, in quello che fu uno dei primi social network musicali. Diventato ormai una stella pure lui, il cantante ritornò all’ispirazione delle sue origini nelle ultime opere. Anzitutto la canzone <i><b><a href="https://www.youtube.com/watch?v=gH7dMBcg-gE" target="_blank">The Stars Are Out Tonight </a></b></i>(2013), le cui protagoniste sono appunto le stelle, che vivono e muoiono mentre gli uomini le osservano da lontano. E soprattutto l’album <i><b><a href="https://www.youtube.com/watch?v=kszLwBaC4Sw" target="_blank">Blackstar </a></b></i>(2016), il cui titolo è un triplo senso che allude non solo a una stella astronomica, ma anche a una stella pitagorica a cinque punte raffigurata sulla copertina, e all’espressione che i medici usano per indicare una lesione cancerosa. Il lungo video che illustra l’omonima canzone mostra un pianeta sconosciuto sul quale ha trovato la morte un astronauta. E un Bowie bendato e atterrito canta autobiograficamente di una candela che si spegne, e del giorno dell’esecuzione di una stella nera che è anche una stella del pop e una stella del cinema, com’erano appunto sia il maggiore Tom che lui. Nel video della canzone <i><b><a href="https://www.youtube.com/watch?v=y-JqH1M4Ya8" target="_blank">Lazarus</a></b></i>, invece, lo stesso Bowie bendato giace e si libra su un letto di un ospedale-obitorio, cantando tormentato di essere ormai in Paradiso, di avere ferite invisibili e di essere in pericolo, ma di non avere più nulla da perdere e di essere ormai libero.</div>
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<a href="https://4.bp.blogspot.com/-TCP5_ZOCHYo/V4IYKpk8UXI/AAAAAAAACC8/fg6yvv6VDecb8BJ_ifkDQXPD5YvbGyPcgCLcB/s1600/3-davidbowieco.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="640" src="https://4.bp.blogspot.com/-TCP5_ZOCHYo/V4IYKpk8UXI/AAAAAAAACC8/fg6yvv6VDecb8BJ_ifkDQXPD5YvbGyPcgCLcB/s640/3-davidbowieco.jpg" width="534" /></a></div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-58224512073818527122016-06-27T06:40:00.000+02:002016-06-27T06:40:35.154+02:00C’è vita nell’universo, molta vita<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<a href="https://2.bp.blogspot.com/-yTZmbGwmbL0/V3Ct8lhPMqI/AAAAAAAACAc/WvpufbJEXXA_EGjkqnjXp913l18Jp4xHQCLcB/s1600/tavola%2Bperiodica%2Besopianeti.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="384" src="https://2.bp.blogspot.com/-yTZmbGwmbL0/V3Ct8lhPMqI/AAAAAAAACAc/WvpufbJEXXA_EGjkqnjXp913l18Jp4xHQCLcB/s640/tavola%2Bperiodica%2Besopianeti.jpg" width="640" /></a></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: justify;">
<b>Gli scienziati di Kepler, un grande telescopio lanciato in orbita nel 2009, hanno da poco annunciato di avere scoperto 1.284 nuovi pianeti extra-solari (o esopianeti), cioè pianeti che ruotano attorno a una stella diversa dalla nostra. Tutto fa immaginare che ce ne siano miliardi, alcuni «ospitali». Il mondo sta entrando in una nuova epoca</b></div>
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<b>Guido Tonelli, "Corriere della Sera - La Lettura", 26 giugno 2016</b></div>
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Stiamo entrando in una nuova epoca e nessuno sembra rendersene conto. Di tanto in tanto giornali e televisioni riportano qualche notizia; se ne parla per un paio di giorni poi tutto viene macinato dal tritacarne dell’attualità. L’ultima, di qualche settimana fa, riguarda Kepler, una sonda della Nasa che prende il nome dal grande astronomo tedesco. La sua missione è la scoperta di esopianeti, o pianeti extra-solari, che orbitano cioè attorno ad altre stelle; il fine ultimo è quello di identificare pianeti abitabili, simili alla nostra Terra.</div>
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Le primissime ricerche risalgono addirittura agli anni Quaranta, ma utilizzavano tecniche di osservazione piuttosto grossolane. Usando i migliori telescopi allora disponibili si cercavano nuovi sistemi solari sperando di osservare una perturbazione periodica nella posizione della stella-madre. È ben noto che, per le leggi della gravitazione, in presenza di un pianeta la stella-madre non sta ferma, ma compie anch’essa una piccola rotazione intorno al centro di massa del sistema. Tanto più massiccio è il pianeta tanto maggiore è lo spostamento periodico della stella. Il metodo, detto astrometrico , non ha portato a risultati di rilievo; sono stati identificati un gruppo di potenziali candidati ma nessuno è mai stato confermato.</div>
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Risultati molto più interessanti si sono avuti con il metodo della misura della velocità radiale . Il principio è lo stesso, si cerca di osservare il minuscolo spostamento periodico della stella-madre, ma la tecnica è basata su misure spettroscopiche che consentono maggiori precisioni. Si analizza lo spettro di emissione luminosa della stella e si controllano nel tempo le righe corrispondenti alle varie frequenze. Se la stella presenta un piccolo movimento orbitale causato dalla presenza di un pianeta, si misura una piccola variazione periodica in frequenza della sua emissione luminosa dovuta all’effetto Doppler. Quando la stella ha una velocità radiale positiva — cioè si avvicina al nostro punto di osservazione sulla Terra — le righe di emissione si spostano verso il blu, per poi passare dal lato opposto, verso il rosso, quando la stella si allontana. È lo stesso metodo che ci permette di riconoscere, dal suono della sirena, se un’ambulanza si sta avvicinando o si sta allontanando. Con la misura della velocità radiale della stella possiamo calcolare il periodo del moto orbitale del pianeta e la sua massa.</div>
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I primi pianeti extra-solari sono stati scoperti, con questo sistema, negli anni Novanta. Si trattava di enormi corpi celesti, simili al nostro Giove. Giganti caldi, per lo più gassosi, che gravitavano molto vicini alle loro stelle-madri e avevano quindi una temperatura superficiale spaventosa.</div>
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Il metodo della velocità radiale è limitato dal fatto che si deve osservare una stella per volta ed è efficace solo per stelle relativamente vicine a noi, si fa per dire, entro una distanza di circa 160 anni luce, mentre la stragrande maggioranza delle stelle della nostra galassia sta a distanze maggiori.</div>
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La vera rivoluzione nella caccia ai pianeti extra-solari è venuta da quando è stato messo a punto il metodo dei transiti . È una tecnica basata sulla fotometria di precisione, cioè si tiene sotto controllo la luminosità della stella e si misura la lievissima attenuazione della luce prodotta dal pianeta che le transita davanti. Anche in questo caso si richiede che la perturbazione, il segnale di transito, abbia carattere periodico. La forma caratteristica del disturbo permette di misurare le dimensioni del pianeta e questa informazione, combinata con la misura della velocità radiale che dà la massa, permette di conoscerne la densità.</div>
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In questo modo, da alcuni anni, la ricerca di nuove «Terre» ha ricevuto un impulso incredibile e si sono identificati i primi pianeti rocciosi simili al nostro.</div>
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Il grande vantaggio del metodo dei transiti è che si possono tenere sotto osservazione, in contemporanea, centinaia di migliaia di stelle e la sensibilità raggiunta dagli strumenti più moderni è tale che il campo d’azione si può estendere fino a distanze di migliaia di anni luce. La sensibilità del metodo è talmente spinta che si possono identificare pianeti addirittura più piccoli di Mercurio. Occorre poi considerare che, nel caso che il pianeta abbia una atmosfera, la luce della stella-madre giunge fino a noi dopo averne attraversato gli strati superiori. Misure accurate della polarizzazione della luce emessa dalla stella permettono quindi di ricavare informazioni essenziali sulla presenza di atmosfera nel pianeta.</div>
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L’unico problema del sistema dei transiti è che, per produrre segnali il punto di osservazione deve appartenere al piano delle orbite, cosa che statisticamente avviene solo per una frazione delle stelle osservate. Se poi si cercano pianeti simili alla Terra, che hanno una massa compresa fra metà e due volte quella del nostro pianeta, e che compiono una rivoluzione completa intorno alla loro stella in circa un anno, occorre aspettare molti anni per essere sicuri di avere visto un transito periodico.</div>
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Kepler è un grande telescopio lanciato in orbita nel 2009, che sorveglia da anni una piccola zona del cielo compresa fra le costellazioni del Cigno e della Lira. L’apparato tiene sotto controllo circa 150 mila stelle della nostra galassia, distribuite in una regione di dimensioni paragonabili a quella che copriamo con il palmo della nostra mano, se tendiamo il braccio verso il cielo.</div>
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La zona di osservazione copre un cono di circa duemila anni luce intorno al nostro Sole che si trova in Orione, un piccolo braccio secondario della spirale che costituisce la nostra Via Lattea. Il telescopio è ottimizzato per misure di fotometria e utilizza un sistema di camere fotografiche molto sofisticate, da 95 milioni di pixel, ma concettualmente simili a quelle che usiamo nei nostri cellulari.</div>
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Un mese fa gli scienziati di Kepler hanno annunciato di avere scoperto 1.284 nuovi pianeti extra-solari. La maggior parte dei nuovi corpi celesti sarebbero posti assolutamente inospitali, caratterizzati da atmosfere molto dense, composte essenzialmente da elio e idrogeno, e temperature torride alla superficie. Ma la novità davvero eclatante è la scoperta che pianeti simili alla Terra sono corpi celesti molto comuni fra quelli che orbitano intorno alle stelle. Fra i nuovi venuti almeno nove dovrebbero essere pianeti rocciosi che si trovano nella fascia cosiddetta abitabile, cioè a una distanza dalla stella-madre tale da consentire temperature simili a quelle che abbiamo qui da noi. Se un pianeta roccioso si trova nella fascia abitabile e contiene acqua, questa potrebbe formare laghi e oceani come quelli che sono così diffusi sulla nostra Terra. Ecco che, di colpo il numero dei nostri potenziali cugini è quasi raddoppiato. E la cosa sorprendente è che Kepler ha osservato soltanto una piccola porzione della nostra galassia. Si stanno già preparando nuove missioni e nuove campagne di osservazioni e nel prossimo futuro si costruirà una mappa sempre più dettagliata delle «nuove Terre». Nel giro di un paio d’anni sarà lanciato un nuovo telescopio per tenere sotto osservazione le 200 mila stelle più vicine a noi fra le quali ci si aspetta di scoprire 500 pianeti rocciosi simili al nostro.</div>
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La nostra Via Lattea contiene circa 200 miliardi di stelle ed è soltanto una fra cento miliardi di galassie che popolano il nostro universo. I numeri fanno impressione: se soltanto una stella su diecimila ospitasse pianeti rocciosi nella fascia abitabile dovremmo accettare l’idea che il numero di «Terre» della nostra galassia, quindi astronomicamente vicine a noi, potrebbero essere decine di milioni. Se si considerano i 100 miliardi di galassie dell’Universo intero si potrebbe raggiungere la cifra fantastica di miliardi di miliardi. Insomma c’è pieno di pianeti abitabili intorno a noi ed è molto probabile che ci sia abbondanza di forme di vita nell’universo. Non c’è alcun motivo di credere che acqua e materia organica siano componenti ultra rari.</div>
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Fra qualche tempo saremo in grado di analizzare la composizione dell’atmosfera dei nuovi pianeti che orbitano nelle fasce abitabili per cercare eventuali composti organici, chiari indizi della presenza di forme di vita simili a quelle che ci sono familiari.</div>
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Non mi interessa qui discutere il problema delle distanze e neanche la tecnologia con cui potremo stabilire una comunicazione o un contatto. Sarebbe sciocco argomentare oggi intorno a questioni che, ne sono sicuro, faranno sorridere gli scienziati del futuro.</div>
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Vorrei invece sottolineare la necessità di prepararsi a quello che sarà sicuramente un grosso choc culturale. Un’umanità che fa fatica a convivere con se stessa, sarà in grado di superare la crisi di valori legata alla scoperta di altre forme di vita? Che rapporti instaureremo fra noi, per prepararci a queste prime forme di contatto con «gli altri»? Noi che nella colonizzazione della terra non siamo stati capaci di praticare altro che depredazione e spoliazione delle popolazioni con cui siamo venuti in contatto, accetteremo di essere «i primitivi» al cospetto di civiltà che si sono sviluppate qualche milione di anni prima di noi? E viceversa, quali relazioni saremo in grado di instaurare con forme di vita, magari simili alle nostre, ma che ci potranno apparire a un livello di sviluppo primordiale? È pensabile che si cominci a ragionare dei problemi etici connessi a questo passaggio? Noi che non siamo in grado di gestire l’integrazione di alcuni milioni di rifugiati o di emigranti che sfuggono la guerra o precarie condizioni di vita, con quali strumenti culturali arriveremo a questo appuntamento che ci chiama a un salto di civiltà?</div>
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I nostri pronipoti vedranno un mondo che noi, oggi, possiamo solo immaginare. Riusciremo ad attrezzarci nel giro di qualche generazione a questo cambio di paradigma sul piano antropologico?</div>
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<a href="https://4.bp.blogspot.com/-Q-MzJ-_7-oU/V3CuEwyHcXI/AAAAAAAACAk/oNFtPR9VPY0YxlNGIfFnEMGDlZa68NO8gCLcB/s1600/477a34878b35eebf8aa6d7b048a463ee_XL.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="640" src="https://4.bp.blogspot.com/-Q-MzJ-_7-oU/V3CuEwyHcXI/AAAAAAAACAk/oNFtPR9VPY0YxlNGIfFnEMGDlZa68NO8gCLcB/s640/477a34878b35eebf8aa6d7b048a463ee_XL.jpg" width="482" /></a></div>
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<b>Obiettivo Alfa: un altro Sole un’altra Terra</b></div>
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<b>Christophe Galfard</b></div>
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Sapete cos’è un pianeta? Pensiamo tutti di saperlo, ma sapreste darne una definizione, ad esempio parlandone a un bambino? Stranamente non è poi così semplice. Prima del 2006 — dunque dieci anni fa, non un secolo fa — non esisteva neppure una definizione ufficiale. Solo la parola. Pianeta. Parola che abbiamo ricevuto in eredità dai nostri antenati greci. Per loro questa parola aveva un significato particolare, legato a una strana osservazione, che possiamo fare ancora oggi.</div>
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Immaginate di trovarvi all’aperto, in una notte d’estate. Volgete tranquillamente il vostro sguardo verso il cielo e sognate le stelle. Vi proiettate per qualche istante nell’immensità del cosmo, un’immensità che ci invade, ma che, tutto sommato, ci fa del bene. Talmente bene che ritornate il giorno dopo, e quello dopo ancora, e tutti i giorni seguenti, alla stessa ora, per poter continuare il vostro sogno. Da fini osservatori, vi rendete rapidamente conto che alcuni dei punti che luccicano nella notte al di sopra delle vostre teste non si muovono come tutti gli altri. Quasi tutte le stelle si spostano tranquillamente da est a ovest, come fossero attaccate a una sfera trasparente che ruota intorno alla Terra.</div>
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In realtà non si muovono affatto, certo. È il movimento della Terra che, girando su se stessa, ci dà questa impressione. Ma non tutte obbediscono a questo movimento collettivo. Alcuni di quei punti luminosi non sembrano affatto attaccati a quella sfera. Alcuni addirittura tornano indietro nel loro cammino e disegnano un anello nel cielo prima di riprendere il loro corso. Questi strani corpi celesti venivano chiamati dai greci stelle viaggianti, o vagabonde. In greco vagabondo si dice plànetes , che nella nostra lingua diventa «pianeta».</div>
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Questi punti luminosi che non ruotano come gli altri sono Giove, Saturno, Marte e Venere (quelli che possono essere visti a occhio nudo) e Nettuno, Urano e Mercurio. Non sono stelle. Non brillano di luce propria. Se li vediamo nel cielo è perché riflettono la luce del Sole, il quale sì, è una stella. C’è stato poi bisogno di un certo periodo di tempo per realizzare che la Terra sulla quale noi viviamo è anch’essa un pianeta. E abbiamo dovuto attendere il 2006 — appunto — perché l’Unione Astronomica Internazionale si mettesse d’accordo su una definizione fisica del significato di questo termine.</div>
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Dal 2006, dunque, devono essere soddisfatte tre condizioni per far sì che un corpo celeste possa ambire al titolo di pianeta. Eccole. La prima è che il candidato in questione deve girare attorno al Sole e non attorno a qualcos’altro. La Luna, ad esempio, gira attorno alla Terra. Quindi non è un pianeta. È una luna. La seconda condizione per parlare di pianeta è che deve essere tondo. Gli asteroidi, quelle rocce che galleggiano nello spazio vuoto, con la loro forma di patata, non sono pianeti. Sono asteroidi. E che cosa deve succedere perché un corpo celeste sia tondo? È necessario che abbia una massa sufficiente. È la gravità, se sufficientemente forte, con la sua capacità di attirare ogni cosa verso il centro, che trasforma tutto in una palla. La terza condizione per essere un pianeta è che il candidato, rotondo e che gira attorno al Sole, deve aver liberato la sua orbita da tutti i residui che potrebbero essere rimasti. Polveri, rocce, eccetera devono essere scomparsi. Non è così per Plutone, ad esempio, che è tondo, gira attorno al Sole, ma non ha ripulito la sua orbita. Per questo motivo non è più un pianeta. Si dice che è un pianeta nano, o uno pseudopianeta. C’è chi ha trovato la cosa triste, ma se Plutone è stato declassato è perché non è il solo. Oggi conosciamo cinque pianeti nani, ufficialmente riconosciuti come tali. Si chiamano Eris, Ceres, Plutone, Haumea e Makemake. Probabilmente ce ne sono decine d’altri che ancora devono essere scoperti. Alla fine, solo otto astri a noi noti obbediscono ai tre criteri necessari per essere chiamati pianeti. Sono Mercurio, Venere, la Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Alla fine, dunque, non sono molti. Ma se facciamo a meno del primo criterio, se non esigiamo più che l’astro in questione ruoti attorno al Sole, allora ci attende una sorpresa.</div>
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Si entra nella categoria degli esopianeti. Un esopianeta è come un pianeta, ma non gira attorno al Sole. La sua (o le sue, se ce n’è più d’una) stella è diversa dalla nostra.</div>
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Altri mondi</div>
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Da molto tempo — e intendo secoli — i nostri antenati si sono posti la seguente domanda: esiste un’altra (o molte altre) Terra da qualche parte nello spazio? È possibile che altri mondi orbitino intorno a stelle diverse dal Sole. Naturalmente i nostri antenati non usavano questi termini, ma tra loro c’era chi era già convinto che sì, là in alto esistevano altri mondi, da qualche parte nell’immensità del cosmo. Alcuni di questi visionari coraggiosi ricevettero come ricompensa il privilegio di essere arsi vivi. Eppure avevano ragione.</div>
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Oggi ne abbiamo le prove. Sono stati due astronomi svizzeri — Michel Mayor e Didier Queiroz — ad avvistare un esopianeta per la prima volta nella storia dell’umanità. L’hanno chiamato 51 Pegasi b. Era il 1994. Ventidue anni fa. Noi siamo quindi la prima generazione umana a poter affermare con tanto di prove che sì, esistono altri mondi. Oggi, mentre sto scrivendo queste righe, sono noti 3.272 esopianeti. E ce ne sono altri 4.696 in attesa di conferma, il che significa che per questi sono necessarie osservazioni aggiuntive prima di poter affermare la cosa con certezza. Ma questa cifra non dà un’idea accurata del numero di esopianeti esistenti, dal momento che naturalmente non li abbiamo ancora scoperti tutti. La tecnologia impiegata finora per osservare gli esopianeti non ha indagato che un’infima porzione del cielo. Ci sono stelle che non hanno esopianeti nelle loro orbite, ma ce ne sono altre che ne hanno molti. Prendendo in considerazione ogni cosa, contando quelle che ne hanno molti e quelle che non ne hanno affatto, gli scienziati oggi stimano che nella nostra galassia dovrebbero esserci, in media, un po’ più di due pianeti per stella. Questo porterebbe a supporre la presenza di circa 600 miliardi di esopianeti. Solo nella nostra galassia. E di galassie ce ne sono miliardi.</div>
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Carl Sagan, il celebre astronomo, ha scritto: «Se siamo soli nell’universo, che posto disordinato deve essere!».</div>
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Ma concentriamoci solo sugli esopianeti che conosciamo già e poniamoci un’altra domanda: potremmo mai raggiungere uno di questi mondi un giorno, o inviare un satellite per poterlo osservare da vicino e, magari, scoprire se ospita la vita? Finora nessuno è stato abbastanza pazzo da pensare di poter spedire un oggetto qualsiasi verso un’altra stella. Le distanze, davvero fenomenali, sembrano invalicabili. Ma tutto questo potrebbe essere sul punto di cambiare.</div>
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Il primo viaggio interstellare</div>
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Nello spazio ci sono stelle ovunque. Deve per forza essercene una che si trovi più vicina al Sole rispetto alle altre. Si chiama Proxima Centauri. Proxima Centauri è una stella minuscola, di un tipo che gli scienziati chiamano nana rossa. Le nane rosse sono molto meno calde del Sole, ma vivono molto, molto più a lungo. Il nostro Sole è una stella solitaria; Proxima Centauri invece fa parte di un piccolo gruppo di tre stelle, chiamato Alfa Centauri. Gli altri due membri del gruppo sono ben più brillanti e ben più vicine tra loro rispetto a Proxima. Si possono vedere bene di notte dalla Terra. Formano un punto, il terzo più brillante del cielo, osservabile però solo dall’emisfero australe.</div>
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Attorno alla più piccola di queste due stelle sono stati osservati due esopianeti. Non sono così diversi per dimensioni rispetto alla Terra, ma le loro orbite li rendono piuttosto inospitali: sono troppo vicini alla loro stella e hanno dunque temperature davvero troppo elevate perché si possa sperare di trovarci la vita, almeno così come la conosciamo qui sulla Terra. Ma il fatto stesso che ne abbiamo trovati due, apre l’eccitante prospettiva di trovarne altri, che potrebbero magari avere delle temperature di superficie più clementi.</div>
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Se fosse così, non si potrebbe trovare un luogo migliore per iniziare le nostre ricerche sulla vita extrasolare.</div>
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Ma è un luogo lontano.</div>
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Molto lontano.</div>
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Con le attuali tecnologie, con le velocità che al giorno d’oggi possiamo imprimere ai nostri satelliti, dovremmo prevedere un viaggio di circa 30 mila anni.</div>
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Ed è qui che Stephen Hawking e Yuri Milner entrano in gioco. Il 12 aprile scorso, in occasione del cinquantacinquesimo anniversario del primo volo spaziale di Yuri Gagarin, Yuri Milner (che si chiama così in omaggio al primo Yuri) ha annunciato il suo progetto — denominato Breakthrough Starshot — di inviare un satellite proprio lì, e con un viaggio di soli vent’anni. Ora la cosa diventa molto più interessante. L’idea, naturalmente, non è quella di usare un normale satellite, bensì un satellite che pesa... meno di un grammo. Un nanosatellite.</div>
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È chiaro che la tecnologia per farlo ancora non esiste. Ma non dobbiamo inventare proprio tutto. Ad esempio, esistono già delle macchine fotografiche che pesano quasi nulla, come quelle che si trovano nei nostri telefoni cellulari. Si tratterebbe solo di migliorarle. Per contro, ci sono altri problemi completamente inediti. Eccone uno: come fare a fabbricare un motore a razzo che pesi così poco? La risposta tecnologica che è stata proposta è sconcertante: non utilizziamo alcun motore. L’idea di Milner e Hawking per raggiungere Alfa Centauri è quella di imprimere la spinta al nanosatellite direttamente dalla Terra utilizzando un laser superpotente.</div>
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Il nanosatellite, con la sua batteria e la sua macchina fotografica, verrebbe montato su una specie di vela di 4 metri per 4, che verrebbe spinta da un laser, costruito su una montagna dell’emisfero australe, come se ci soffiasse dentro, fino a che l’apparato non raggiunga una velocità prossima ai 160 milioni di chilometri orari. È terribilmente veloce. C’è da sperare di non trovare delle rocce lungo il cammino. D’altra parte, fare la cartografia di tutti i potenziali pericoli del tragitto fa parte dello scopo della missione. E accade che — che colpo di fortuna! — per raggiungere Alfa Centauri il nostro minuscolo satellite non dovrà neppure attraversare il Sistema solare, bensì uscirne, per rendere le cose semplici, in verticale. Attorno al Sole non c’è altro che pianeti che girano in tondo e innumerevoli zone di polvere e rocce. Ma tutti questi oggetti, potenzialmente catastrofici per una simile missione, sono più o meno distribuiti come su un piatto, all’interno di una specie di disco centrato sul Sole; e il sistema di stelle di Alfa Centauri non si trova su questo piano. Ne sta al di sotto. Il nanosatellite, quindi, potrà (e dovrà) abbandonare subito la zona più pericolosa.</div>
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Una volta fuori, non c’è che il vuoto interstellare e ci sono ben poche probabilità che incontri delle polveri più grosse dello spessore di un capello. E comunque, per ovviare anche a questa eventualità, la squadra di ingegneri incaricata di portare a compimento il progetto dovrà trovare delle soluzioni che, visto il peso massimo dell’apparato, non risulteranno affatto semplici. A 160 milioni di chilometri all’ora una collisione, per quanto piccola, non perdona. Immaginando che la missione veda la luce e che tecnicamente riesca a svilupparsi, sarebbe la prima volta nella storia dell’umanità che un oggetto umano raggiunge un’altra stella. Si sarebbe così aperto il cammino dei viaggi interstellari, anche se si tratterebbe — è chiaro — di un viaggio di sola andata. Spedire degli esseri umani laggiù è tutto un altro paio di maniche.</div>
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Ma se quel nanosatellite trovasse, per caso, un pianeta abitabile, allora, secondo me, le tecnologie per spedire anche degli uomini e delle donne non tarderebbero a fiorire.</div>
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(traduzione di Michele Luzzatto)</div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-85866937039518567692016-06-26T13:50:00.002+02:002016-06-26T13:50:52.005+02:00L’invenzione del Medioevo<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://3.bp.blogspot.com/-hhRPKCmrGsM/V2_Ba2oN-xI/AAAAAAAACAM/SXg1nLbbDGA2NOL875rqPzYeH_89BCsUgCLcB/s1600/cavaliere_di_prato_miniatura_pacino_di_buonaguida_carmina_regia_1335.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="624" src="https://3.bp.blogspot.com/-hhRPKCmrGsM/V2_Ba2oN-xI/AAAAAAAACAM/SXg1nLbbDGA2NOL875rqPzYeH_89BCsUgCLcB/s640/cavaliere_di_prato_miniatura_pacino_di_buonaguida_carmina_regia_1335.jpg" width="640" /></a></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b>All’inizio furono Ludovico Ariosto, Hieronymus Bosch e Walter Scott. </b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b>Da ultimi sono arrivati «Il Signore degli Anelli» e «Il Trono di Spade», </b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b>film e videogiochi: </b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b>«Dungeons </b></span><b style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">and Dragons», «Ghost Rider», «Dante’s Inferno». </b></div>
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: center;">
<b>Così sono cambiate la percezione </b><b>e la fascinazione verso una stagione </b></div>
<div style="text-align: center;">
<b>che ha rivoluzionato architettura e urbanistica, commerci e professioni, </b></div>
<div style="text-align: center;">
<b>fino agli studi (universitari) e alla stessa<i> forma mentis </i>della società</b></div>
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<b><br /></b></div>
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<b>Marcello Simoni, "Corriere della Sera - La Lettura", 26 giugno 2016</b></div>
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Se parliamo di Medioevo, l’equivoco più insidioso — quello capace di far rizzare i capelli a qualsiasi storico — consiste nell’attribuire i valori più autentici di quest’epoca alla narrativa <i>fantasy</i>. Accade soprattutto di questi tempi, galeotto il successo di serie televisive e cinematografiche che hanno riportato in auge non solo il fascino dei cosiddetti secoli bui, ma anche una sottocultura popolare basata sulla moda gotica, sulle leggende del Graal e sui giochi di ruolo. Ingigantendo l’equivoco. Benché saghe di grande fascino come <i>Il Signore degli Anelli</i> e <i>Il Trono di Spade</i> si avvalgano di ambientazioni appartenute a epoche passate, le utilizzano infatti per plasmare una fiction in cui la verosimiglianza si indebolisce e i riferimenti storici esprimono soltanto un’idea imprecisa di tempi remoti. Per inciso, i romanzieri e i registi contemporanei non sono i primi ad aver operato un simile esperimento. Basti pensare a Ludovico Ariosto, a Matteo Maria Boiardo, a Luigi Pulci e agli epigoni del ciclo bretone e carolingio. Il conte Orlando con la sua spada incantata, il gigante Morgante, mago Merlino e re Artù vivono nel nostro immaginario da circa ottocento anni, quasi quanto la favola di Cappuccetto Rosso.</div>
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Allo stesso modo, i draghi della conturbante Daenerys Targaryen di R. R. Martin e quelli del film post-apocalittico <i>Reign of Fire </i>con Christian Bale nascono dalle remote icone di san Giorgio «cavaliere» intento a trafiggere il <i>draco </i>serpentiforme, dapprima senza ali e poi con quelle di pipistrello, a imitazione dei più antichi demoni cinesi.</div>
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Se poi ci allontaniamo dalla fiction e prendiamo come riferimento il quotidiano, ci rendiamo conto che il nostro immaginario collettivo, forgiato da genealogie di figure eroiche e di mostruosità, continua ad attingere senza sosta dalle pitture visionarie di Hieronymus Bosch, per mezzo del quale il bestiario medievale s’intreccia alle diavolerie alchemiche che ancora oggi attribuiamo all’evo di mezzo. Eppure non tutto è vero. Le streghe, per esempio, appartengono più alle ossessioni dell’età moderna che a quelle del Medioevo (durante il quale si bruciavano per lo più gli eretici), mentre l’Inquisizione (romana e spagnola) attraversa il suo periodo più cupo tra il Cinque e il Seicento. Attenzione pertanto a distinguere il Medioevo vero da un suo miraggio idealizzato. E attenzione, per dirla tutta, al carrozzone «protomassonico» dei nuovi Templari, degli Illuminati, del Priorato di Sion e compagnia bella, che per la maggiore consiste in un revival di elementi morti e sepolti, interpolati o addirittura inventati di sana pianta.</div>
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Torniamo quindi all’equivoco iniziale, ovvero alle ragioni che oggigiorno sovvertono la percezione del Medioevo, banalizzandolo a una partita di <i>Dungeons and Dragons</i>. Non possiamo ricercarne le origini nel <i>fantasy</i>, né tantomeno nella creatività di un qualsivoglia autore contemporaneo intento a mettere in scena castelli tenebrosi o macabre pestilenze. Più che cause scatenanti, queste sono conseguenze di un effetto farfalla proveniente dall’Ottocento.</div>
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È da questo secolo, infatti, che giunge a noi la fascinazione narrativa dell’età feudale, strumentalizzata dal romanzo storico per dare voce agli ideali del Romanticismo. Il capostipite di questa tendenza è <i>Ivanhoe </i>di Walter Scott (1819), seguito da <i>Adelchi </i>di Manzoni (1822) e da <i>Notre-Dame</i> di Victor Hugo (1831). Queste opere rappresentano il punto d’origine di un delta letterario che, aprendosi, sfocia nell’attuale babele dell'<i>historical fiction</i>. E si badi bene, i loro personaggi incarnano la stessa mentalità che vibra nel melodramma wagneriano di Tristano e Isotta e nelle saghe nordiche del popolo germanico. Sono più patriottici che verosimili, più «romantici» che medievali.</div>
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Non è soltanto questo, tuttavia, il retaggio che il Medioevo lascia al XXI secolo. Non quello autentico, per lo meno. Potrei dare enfasi a questa affermazione descrivendo l’impianto urbanistico di borghi antichi come Assisi, Urbino o Soncino, alla presenza di edifici portentosi come il Duomo di Ferrara, Castel del Monte, la Sagra di San Michele. Preferisco tuttavia andare alla ricerca di un Medioevo più «sottile», quello che permea la vita di tutti noi ogni volta che ci mettiamo a ragionare. Perché è qui che affondano le radici della nostra <i>forma mentis</i>. Dobbiamo essere grati alle scuole di Toledo e del sud Italia, meritevoli d’aver salvato le opere di Aristotele e di altri filosofi dell’antichità, traducendoli dall’arabo dopo secoli di oblio. Ma siamo grati pure a teologi della levatura di Agostino d’Ippona, Tommaso d’Aquino e Pietro Lombardo, che assimilando quel sistema di pensiero lo trasmisero al Medioevo biblio-monastico — da Montecassino a Cluny, da Pomposa a San Gallo — prosperato fino ai nostri giorni.</div>
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La <i>forma mentis</i> di cui parlo, tuttavia, vanta anche un’origine laica sviluppatasi in seno al Duecento, di pari passo all’affermazione di un nuovo ceto, «borghese», rappresentato da schiere di mercanti, notai, medici e banchieri sempre più istruiti e consapevoli di sfilacciare le maglie del vecchio ordinamento sociale fino ad allora suddiviso in chierici, guerrieri e contadini. In un simile contesto — e solo in Occidente — nascono le università, che accrescendo nel corso dei secoli la loro importanza formeranno generazioni di studenti fino a plasmare il volto del mondo odierno.</div>
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Non fu da meno l’apporto di singoli pensatori come Michele Scoto, che nel XIII secolo frequentò lo <i>Studium </i>di Bologna, di Parigi e di Oxford per poi diventare <i>magus</i>, <i>medicus </i>e consigliere presso Federico II. Tenendosi sempre in contatto con il mondo arabo, egli fu impegnato a saziare la smisurata curiosità dell’imperatore svevo. A tal fine scrisse un <i>Liber introductorius</i> che descriveva la natura dei vulcani, la profondità dei mari e, al contempo, vagheggiava su macchine in grado di esplorare gli abissi e di innalzarsi fra le nuvole. Il più grande apporto di questo <i>magus </i>al pensiero contemporaneo fu però nel campo dell’astronomia, che all’epoca veniva considerata un tutt’uno con l’astrologia e importante quanto la teologia, dacché insegnava a cogliere i segni di Dio nella disposizione delle costellazioni. Ebbene, Scoto fu il primo a definire il movimento degli astri rigettando lo schema tradizionale delle stelle fisse, paragonandolo a una moltitudine di carri che solcano i cieli seguendo delle orbite ellittiche.</div>
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L’evo di mezzo è giunto fino a noi anche sotto altre, impensabili forme. È a quei tempi che appartengono l’invenzione dell’orologio, degli occhiali da vista, del gioco degli scacchi, della polvere da sparo, del rosario, dei tarocchi, del mulino a vento e persino del gioco del calcio (in Francia detto <i>soule</i>). Grazie ad autentici geni come Papa Silvestro II e Leonardo Fibonacci importammo l’uso dei numeri arabi, la geometria e l’algebra. Sempre nel Medioevo si può riconoscere l’infanzia dei comuni (sorti a partire dal Duecento) e, secondo Le Goff, della stessa Europa.</div>
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Esiste d’altro canto un Medioevo popolaresco, ancora riconoscibile in famose ricorrenze come il carnevale di Ivrea o la Corsa dei Ceri di Gubbio (tenuta ogni anno il 15 maggio in ricordo dell’assedio di Federico Barbarossa), ma anche un Medioevo sacro. Da quest’ultimo provengono la festività del Corpus Domini, l’impostazione della preghiera a mani giunte, la concezione del Purgatorio e il culto di santi ancora molto venerati, come Francesco d’Assisi, Benedetto da Norcia e Antonio da Padova. E Nicola di Mira, le cui reliquie furono traslate dalla Turchia a Bari nel 1087 in seguito a uno di quegli avventurosi <i>furta sacra </i>descritti nei <i>legendarii </i>vergati dai monaci amanuensi. Da allora la figura del patrono barese si è scissa, dando origine da un lato — per via nordica — alla figura di Santa Claus e dall’altra a quella di Cola Pesce, tanto cara al trovatore tolosano Raimon Jordan e, più di recente, a Italo Calvino.</div>
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È proprio Calvino, con il suo Medioevo surreale e fiabesco parallelo a quello di Queneau (<i>I fiori blu)</i>, a far approdare sui nostri lidi il volto di un’epoca fatta di curiosità, labirinti e misteri. Si pensi alla trilogia degli «antenati» e al <i>Castello dei destini incrociati</i>, ma soprattutto alle <i>Città invisibili</i>. È proprio tra queste pagine che incontriamo un Marco Polo disincantato e sognatore, un semiologo dell’effimero che racchiude dentro di sé lo spirito del Marco Polo realmente vissuto, insieme all’affabulazione di Rustichello da Pisa, lo scrittore che conobbe in carcere il mercante veneziano e probabilmente lo aiutò a mettere nero su bianco, nel Milione , le sue esperienze e le sue fantasie.</div>
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È precisamente da questo, dall’ambizione narcisistica di scrivere di noi stessi tramutando l’io vero in io narrativo, consapevoli che ciascuno di noi sia diverso dal prossimo, proprio da questo, dicevo, che scaturisce la rivoluzione antropologica del pensiero medievale. Quella che più di ogni altra cosa sopravvive dentro di noi contemporanei: la libertà di essere ciò che vogliamo, a costo di reinventarci, di mentire, di scavalcare i confini che separano il reale dalla fantasia. Oppure di calarci nei baratri più profondi e spaventosi dell’oltretomba come fece Dante, padre delle visioni più sublimi, dell’arte del simbolo ma anche delle nostre paure ultraterrene. Neppure l’Alighieri, d’altro canto, è sfuggito all’odierno gusto del kitsch che fagocita ogni cosa e la sputa trasmutata, o riciclata, quasi ci trovassimo davanti a uno di quei <i>Gorgoneion </i>intenti a masticare i dannati nei Giudizi Universali. Risorto infatti in un celebre videogame, <i>Dante’s Inferno</i>, fa il verso a un Medioevo visionario, ferocissimo e tutto sommato godibile.</div>
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Del resto, in un gioco distorto che ha visto cadere quest’epoca tanto bistrattata persino nelle mai di Sam Raimi (<i>L’armata delle tenebre</i>), non ci si stupisca troppo di veder comparire tra gli albi a fumetti anche i cavalieri delle apocalissi gotiche. Ora cavalcano destrieri d’acciaio rombante e si fanno chiamare <i>Ghost Rider</i>, ma non lasciatevi ingannare: come accade da secoli, sono avvolti dallo zolfo delle leggende medievali.</div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-78586623405572577482016-06-19T14:13:00.001+02:002016-06-19T14:13:40.096+02:00Non solo di scarti è fatta la vita ma di eros e amore<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<div class="post-footer" style="-webkit-text-stroke-width: 0px; background-color: white; color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 13px; font-style: normal; font-variant: normal; font-weight: normal; letter-spacing: normal; line-height: 1.6; margin: 1.5em 0px 0px; orphans: auto; text-align: start; text-indent: 0px; text-transform: none; white-space: normal; widows: 1; word-spacing: 0px;">
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://3.bp.blogspot.com/-KmHQzS2kxHY/V2aMKME8FmI/AAAAAAAAB-8/5a868M7mHMkIaaDOyAx1WuqHe5lCRrc4gCLcB/s1600/Unswept-Floor21.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="298" src="https://3.bp.blogspot.com/-KmHQzS2kxHY/V2aMKME8FmI/AAAAAAAAB-8/5a868M7mHMkIaaDOyAx1WuqHe5lCRrc4gCLcB/s640/Unswept-Floor21.jpg" width="640" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="background-color: white; color: #444444; font-family: "News Cycle", sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18px; text-align: start;">Michelle Weinberg, Art in public space</span></td></tr>
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<b><span style="font-size: x-small;">La storia della civiltà umana è costellata di rifiuti. </span></b></div>
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<b><span style="font-size: x-small;"><br /></span></b></div>
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<b><span style="font-size: x-small;">Già Tommaso D’Aquino dichiarava che i suoi scritti non erano altro che letame</span></b></div>
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<b><span style="font-size: x-small;">Ma è il nostro tempo, il tempo dominato dalla cultura del consumo che segna l’avvento dell’accumulo della spazzatura</span></b></div>
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<b><span style="font-size: x-small;">Viviamo in case piene zeppe di cose morte. Tra le nuove sindromi c’è quella di coloro che non riescono a liberarsi degli oggetti acquistati</span></b></div>
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<b>Non è vero però che tutto è sempre da buttare</b></div>
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<b>Massimo Recalcati, "La Repubblica", 19 giugno 2016</b></div>
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Quello che scartiamo, che gettiamo nella spazzatura, i rifiuti che ogni civiltà umana accumula non sono solo oggetti che hanno esaurito la loro utilità o che si sono decomposti, ma indicano anche ciò che noi stessi siamo. È questo il lato più inquietante – il tabù – della spazzatura. Essa ci riguarda da vicino perché la nostra natura finita ci accomuna al suo destino. È il risvolto umanissimo dell’ampia problematica della gestione dei rifiuti nella storia della civiltà umana. Non siamo forse tutti noi – nonostante quanto affermi, sia detto da parte mia senza la benché minima ironia, Emanuele Severino – destinati a finire, a decomporci? Il nostro viaggio non è dall’essere al nulla, dall’esistenza alla polvere?</div>
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Eppure il rifiuto non può mai essere smaltito del tutto; qualcosa resta, indistruttibile, ponendo, drammaticamente, il problema del suo smaltimento. Non accade anche in politica dove il “riciclato” è lo spettro del rifiuto che ritorna incessantemente come un incubo resistendo ad ogni tentativo di rottamazione? È un fatto: non esistono civiltà senza fogne. Ma se così è, se questo è il destino mortale che ci attende e ci costituisce come esseri umani, tutto è davvero da buttare? Tutto, la vita stessa, assomiglierebbe ad una immondizia da gettare via? Non è questo l’insegnamento di una vita come quella di Giobbe che conosce in una progressione malefica la trasformazione di tutti i suoi beni – compreso quello del proprio corpo – in rifiuti, in scarti indecenti?</div>
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«I rifiuti sono quello che rimane quando non rimane nient’altro», scrive Alberto Zaccuri,</div>
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scrittore e saggista di raffinata intelligenza in un ricchissimo recente libro dedicato al tabù dei rifiuti: Non è tutto da buttare. <i><b><a href="http://www.lascuola.it/it/home/scheda_sagg?sc=2765&fc=SPE_003536" target="_blank">Arte e racconto della spazzatura </a></b></i>(La Scuola). L’eccedenza da smaltire dei rifiuti si coniuga con il problema della mancanza. Il rifiuto è simbolo di entrambe: è qualcosa che ci assedia e che esige un collocamento, ma è anche qualcosa che segnala l’inappagamento del nostro desiderio. Ogni oggetto non è mai in grado di estinguere la mancanza. Il discorso del capitalista enfatizza non a caso la rapidità della metamorfosi delle cose in spazzatura. Gli economisti la chiamano obsolescenza: in tempi sempre più accelerati le cose scadono mostrando dietro alla gloria effimera della loro esistenza la loro radice mortale. La cultura del consumo è una grande cultura dello scarto. Le nostre case sono piene zeppe di cose morte. Lo stesso DSM-V (<i>Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali</i>) ha recentemente aggiunto tra le nuove sindromi quella di coloro che non riescono a liberarsi degli oggetti acquistati accumulandoli cimiterialmente e caoticamente nella propria casa (“disturbo di accumulo” o “disposofobia”).</div>
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Alla fine della sua vita Tommaso d’Aquino – ricorda Lacan – dichiara tutti i suoi scritti null’altro che “sicut palea”, scarto, letame. Il lustro narcisistico dell’immagine del grande filosofo al culmine della sua fama, lascia il posto al suo destino mortale, al suo essere “niente”. Egli non cerca rifugio nel culto nevrotico della bellezza come reazione difensiva di fronte alla marea montante dei rifiuti, non crede nella bella forma che dovrebbe salvarci dal rischio della contaminazione con l’informe. Non resta, sembra dire il filosofo, che l’humus umano, spazzatura, immondizia, <i>palea</i>. Eppure, come insegna con forza la parola di Cristo, è solo sulla “pietra di scarto” che si può edificare una possibile liberazione dell’uomo dall’assillo della sua fine. Cristo si fa egli stesso “scarto” – muore come un delinquente comune sulla croce – per liberare la vita dall’idea nichilistica che essa non sia altro che una orrenda casualità. Cristo è uno scarto che ci libera dal destino di diventare degli scarti. Ma il nostro tempo è il tempo della “morte di Dio”: tutto è andato in frammenti, tutto è a pezzi, tutto manca di senso, “tutto è vano e inutile”, come predica l’indovino- Schopenhauer in <i>Così parlo Zarathustra</i> di Nietzsche. Questo significa che tutto è diventato scarto, che tutto è un insieme informe di macerie, scorie, detriti? Il mondo stesso non sarebbe altro che una grande fogna?</div>
<div style="text-align: justify;">
La risposta si trova nel finale poetico della riflessione di Zaccuri. Si tratta di un aneddoto autobiografico. Anche un amore può nascere lungo la strada che conduce alla pattumiera. Gli accadde un’estate di diversi anni fa. Nel tragitto per buttare la spazzatura di una casa vacanze in montagna due giovani si incontrano, si conoscono e si innamorano. In amore, come ci ricorda Leonard Cohen in <i>Suzanne</i>, “tutto accade da qualche parte, non si sa dove, tra i fiori e la spazzatura e i fiori”. Ma cosa resiste alla spazzatura, alla tentazione di buttare via tutto? Per Freud il gioco della vita consiste nel ritardare la fatalità inaggirabile della morte. Questo gioco è possibile solo grazie ad Eros: complicare, allungare, rendere più tortuoso, il cammino che ci farà diventare palea, polvere. È solo il gioco di Eros che può fare della vita qualcos’altro da una orrenda montagna di rifiuti. Qualcosa resiste. Non tutto è da buttare. Qualcosa può accadere tra la spazzatura e i fiori. È quello che avvenne diversi anni fa a due giovani e che continua ad avvenire. “L’amore”, scrive Zaccuri, è ciò che davvero “resiste”.</div>
</span><div class="post-body entry-content" id="post-body-3580588485637796321" itemprop="description articleBody" style="-webkit-text-stroke-width: 0px; background-color: white; color: #444444; font-family: Verdana, Geneva, sans-serif; font-size: 13px; font-style: normal; font-variant: normal; font-weight: normal; letter-spacing: normal; line-height: 18.2px; orphans: auto; position: relative; text-align: start; text-indent: 0px; text-transform: none; white-space: normal; widows: 1; width: 936px; word-spacing: 0px;">
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-8821329309735452822016-05-15T17:02:00.000+02:002016-05-15T17:02:06.545+02:00Il traduttore cambia l’italiano<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<img src="http://cdn.floptv.tv/image/e41efd2c-3bb3-4ee7-8341-f4b5945e90d0/trans-maxw-651.jpg" /></div>
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<b style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">Cristina Taglietti, "Corriere della Sera", 15 maggio 2016</b></div>
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: justify;">
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L’italiano cambia, anche attraverso le traduzioni dei romanzi. È uno dei temi che l’«Autore Invisibile», il ciclo di seminari curato da Ilide Carmignani, ispanista e traduttrice di autori come Gabriel García Márquez, Roberto Bolaño, Luis Sepúlveda, in questi giorni sta affrontando. Questa mattina il linguista Gianluigi Beccaria parlerà di «Italiano che va e italiano che viene» e in questi cambiamenti della lingua ha un ruolo anche quello che leggiamo, considerato che più del 60 per cento della narrativa viene dall’estero. «L’italiano è una lingua ancora vitale — dice Beccaria — che magari per strada perde pezzi ma ne acquista di nuovi. Una volta venivano dal basso, oggi vengono soprattutto dalla lingua imperiale, l’inglese. In generale, un tempo la nostra narrativa poggiava su basi molto tradizionali, oggi anche la lingua si va globalizzando, forse anche si appiattisce un po’. Lo sanno bene i nostri narratori, che infatti scrivono in un italiano già pronto per essere tradotto. Diciamo che, forse, oggi, un Gadda non potrebbe esserci nella nostra letteratura».</div>
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Quando si parla di italiano letterario la traduzione è un punto di riferimento fondamentale, anche se spesso sottostimata. «Quindi — dice Ilide Carmignani — la domanda è: quando traduco <i>La gabbianella e il gatto </i>di Sepúlveda a quale italiano faccio riferimento? All’italiano dell’uso? Ma io sono toscana e ogni casa editrice ha una sua idea di italiano letterario. Per esempio: come traduco <i>cool</i>? Per la casa editrice romana dovrei usare fico, per quella milanese figo. Io metterei ganzo. Se faccio una traduzione fedele e letterale, non uso un buon italiano, ma un incrocio tra la mia e l’altra lingua». Le regole di revisione delle case editrici e la loro provenienza contano più di quanto si creda. «Il passato remoto si sta indebolendo per esempio — continua Carmignani —. Contribuiscono le traduzioni da una lingua come l’inglese che ha una sola forma di passato e l’editing di molte case editrici del Nord, dove è usato molto meno rispetto ad altre zone d’Italia. Per me è un impoverimento, si perdono sfumature».</div>
<div style="text-align: justify;">
A cambiare l’italiano non sono solo le traduzioni dei romanzi, ma anche quelle delle serie tv. Lo spiega Stefano Arduini, docente di Linguistica generale all’Università di Urbino dove organizza, con Carmignani, le <i>Giornate di traduzione</i>: «L’italiano che usiamo passa anche da lì. Anzi, sui giovani è forse quello che ha più influenza. Ora sta andando in onda <i>Il Trono di Spade</i>, in contemporanea con l’America. È chiaro che la traduzione dei sottotitoli e del doppiaggio non può essere così accurata e infatti si nota la differenza con le precedenti serie. Oltretutto parliamo di un programma che ha creato un suo sistema linguistico. Comunque, è certo che la letteratura non ha più la funzione di riferimento culturale che aveva in passato».</div>
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Le serie, ma anche i romanzi di genere, soprattutto i noir, sono alla base di certi calchi dall’inglese. «“Assolutamente”, “rilassati”, “dacci un taglio”, “fottuto”, “dannato” — aggiunge Ilide Carmignani — provengono da lì. Così come l’uso di frasi molto brevi, paratattiche. Si ritrovano nei testi di molti scrittori italiani, da Ammaniti a De Carlo. Una semplificazione che non è necessariamente un male, dipende da quanto l’autore la integra in uno stile personale». Quando viene male, il linguista Giuseppe Antonelli la chiama «traduttese»: «Era molto diffusa una decina di anni fa, adesso mi sembra che sia un po’ diminuita». Antonelli ieri ha parlato di punteggiatura ai partecipanti del seminario di traduzione. Perché anche in quel settore la lingua dei romanzi ha esportato qualcosa: «Come l’uso del trattino che non si chiude. In italiano se ne usano due a indicare un inciso. È curioso che il primo ad accorgersene sia stato Leopardi che se la prende con il traduttore di Byron, paragonandolo a un ciarlatano di piazza che, in quel modo, vuole dirci: guardate quanto sono bravo. D’altronde anche Sandro Veronesi, in un libro del 2001 tutto dedicato alla punteggiatura, ha scelto il trattino. La grammatica italiana non lo accetta, ma lui ne fa un manifesto». Certo non si può parlare di un’unica lingua. «L’ultimo bestseller — aggiunge Arduini — non può avere lo stesso tipo di traduzione di un lavoro autoriale. Si va dal linguaggio sofisticato dei grandi traduttori, attenti a riprodurre la voce degli scrittori, a quello rivolto a un mercato di consumo più immediato e veloce, su cui, magari, lo stesso editore non investe molto. Lo scrittore interessante è quello che prende i materiali, anche più bassi, di una lingua e li tempra, cambiandone il valore».</div>
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Paolo Nori, che ieri ha animato uno degli incontri dell’«Autore Invisibile», è diventato traduttore, dal russo, dopo aver pubblicato i suoi primi romanzi. È convinto che la traduzione debba parlare ai lettori di oggi con il loro linguaggio, per cui i contadini delle <i>Anime morte</i> di Gogol imprecano in dialetto modenese. «Molti amici russi mi dicono: ma perché traduci Tolstoj? L’hanno già fatto molti altri. È vero, però se un russo lo legge trova una lingua contemporanea, invece la traduzione di Landolfi, per esempio, è datata. Ma questa è proprio una caratteristica della nostra lingua. Se un bambino russo legge il romanzo in versi di Puškin <i>Evgenij Onegin</i>, capisce tutto. Io ho letto a mia figlia il <u>5 maggio</u> di Manzoni e lei ha capito che qualcuno giocava a <i>memory </i>respirando».</div>
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illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-8524838576003210082016-04-25T11:36:00.001+02:002016-04-25T11:36:22.693+02:00Tabù del mondo: “Perché ci coglie la paura di fronte alla pagina bianca” <div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<img src="http://www.undo.net/Pressrelease/foto/1267458317b.jpg" /></div>
<div style="text-align: center;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
<div style="text-align: center;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b>MASSIMO RECALCATI</b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b>"La Repubblica", 24 aprile 2016</b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">Chi non ha mai fatto l’esperienza traumatica dell’incontro con la muraglia insuperabile della pagina bianca? Nelle scuole coi primi temi, nelle prove degli esami, nella lettera inviata a un padre, a un figlio o all’amata. Ogni volta la pagina bianca si è eretta di fronte a noi come una montagna impervia che non si lascia scalare. Gli scrittori, i pittori e i musicisti conoscono forse meglio di tutti la dimensione spietata di questa muraglia. Van Gogh scrive al fratello Theo che può passare ore di fronte al ghigno feroce e beffardo della tela bianca sentendosi paralizzato, incapace di agire. Flaubert, Kafka o Beckett hanno descritto l’esperienza del trovarsi schiacciati di fronte alla nudità impossibile da violare della pagina bianca. Philip Roth ne L’umiliazione descrive la fine di una magia che ha caratterizzato il rapporto di un attore di teatro col palcoscenico. Il suo declino è iniziato quando, prima di recitare, comincia a pensare di recitare. L’impeto che gli consentiva di superare la parete insidiosa del silenzio perde così il suo vigore per lasciare il posto a una sequela di dubbi: «Non ce la farò, non ne sarò capace, mi hanno dato una parte sbagliata, sto facendo il passo più lungo della gamba, sono un impostore, non so nemmeno recitare la prima battuta».</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">Perché la pagina, la tela bianca o il silenzio di un teatro possono trasformarsi in incubi, in tabù impossibili da violare? In realtà noi sappiamo che la pagina, la tela e il silenzio non sono luoghi vuoti, puri spazi insaturi da riempire. Noi sappiamo che questi luoghi sono strapieni, farciti di segni, di storia, di sapere, di tutto ciò che è già avvenuto prima. Come si può scrivere ancora dopo Proust? Come si può dipingere ancora dopo Picasso o dopo Burri? È un fenomeno che in forma meno altisonante intercettiamo nelle storie di quei giovani che pur avendo avuto percorsi scolastici brillanti si schiantano di fronte al compito di scrivere la loro tesi di laurea. Qualcosa impedisce loro di oltrepassare le colonne d’Ercole della pagina bianca. Cosa? Quale è il nome di questo spettro paralizzante?</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">Freud e Lacan hanno ricondotto l’inibizione intellettuale che impedisce il gesto della creazione a una fissazione libidica allo “stadio anale”. Nella fase anale il bambino fa esperienza della possibilità per lui inedita di trattenere o rilasciare le proprie feci. Questo potere decisionale rovescia il rapporto di subalternità che aveva sino a quel momento condizionato i rapporti con i suoi genitori. Trattenendo le feci egli scopre che la madre aspetta il prodotto dei suoi sforzi con trepidazione. Mentre nella fase orale il bambino appare subordinato alla madre alla quale domanda quello che gli manca e che desidera — il seno — , in quella anale è la madre che invoca la cacca del suo bambino. Rilasciare le feci significa allora dare soddisfazione alle attese dell’Altro. «Ma che bella la tua cacca! Davvero speciale! Sembra oro!». Così una madre (o un padre) possono gratificare il proprio cucciolo nell’atto davvero “prodigioso” — il primo in assoluto — di creare qualcosa da sé, con le sue proprie forze. Ma rilasciare le proprie feci significa anche per il bambino sottoporsi al giudizio dell’Altro, ovvero perdere tutto quel potere che il trattenerle gli attribuisce, innanzitutto quello di coltivare una immagine ideale di sè. Inizia così il tempo della ruminazione dubbiosa: «E se poi non fosse davvero “oro”?». È questo il tarlo che affligge il bambino che resta fissato alla fase anale e che ritorna a scuoterci quando ci troviamo di fronte allo spazio placido e orribile della pagina bianca.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;">Una volta che scrivo, una volta che rompo il ghiaccio e decido di prendere la parola, una volta che rinuncio al privilegio di trattenere il mio prodotto presso me stesso, sono obbligato ad entrare nello scambio e nel commercio con l’Altro. Non potrò più evitare di essere sottoposto al suo giudizio. In questo senso restare inchiodati al di qua della soglia della pagina bianca permette all’allievo inibito come al grande scrittore, di preservare l’illusione infantile di generare delle feci d’oro. Infatti, sino a che si asterrà dall’atto creativo, egli potrà coltivare il sogno di produrre un materiale unico, impeccabile, ovvero di trasformare, come un novello re Mida, i propri escrementi in oro coltivando una immagine ideale di sé. Se invece cedesse si esporrebbe alla dimensione senza rete dell’atto e la sua intera vita potrebbe davvero correre il rischio di essere scoperta come una misera cosa. Ma è proprio nel disperato tentativo di evitare il sortilegio maligno che il creatore inibito finisce per restare imprigionato in una cella. In questo senso più si è vittima della propria immagine ideale più cresce l’inibizione intellettuale. Servirebbe allora assumere la verità scabrosa con la quale Lacan traumatizzò positivamente Umberto Eco: «Mangia il tuo <i>Dasein</i>!», gli disse una volta di fronte a uno strano dessert, ovvero mangia le feci di cui sei fatto, non restare prigioniero della tua immagine ideale. In fondo, come recita Fabrizio De André, <i>dai diamanti non nasce niente; è dal letame che nascono i fiori</i>.</span></div>
</div>
illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-13454317278433548102016-02-07T15:41:00.000+01:002016-04-25T11:47:37.654+02:00Il primo zero<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://4.bp.blogspot.com/-XT_Ybn1cwAY/Vx3nEBZohJI/AAAAAAAAB88/8PMXWYSAnB4abpI7SGdMOiyoBiP9TvHIgCLcB/s1600/iscrizione%2Bzero%2Bparticolare.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="426" src="https://4.bp.blogspot.com/-XT_Ybn1cwAY/Vx3nEBZohJI/AAAAAAAAB88/8PMXWYSAnB4abpI7SGdMOiyoBiP9TvHIgCLcB/s640/iscrizione%2Bzero%2Bparticolare.JPG" width="640" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="background-color: white; line-height: 27px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit; font-size: small;">L’iscrizione, originariamente collocata sulla porta del tempio pre-angkoriano di Sambor, vicino al fiume Mekong, è ritenuta la più antica testimonianza dello zero. </span></span></td></tr>
</tbody></table>
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<div style="text-align: center;">
<b style="background-color: white; font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; line-height: 18.2px; text-align: left;">
</b></div>
<div style="text-align: center;">
<b style="background-color: white; font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; line-height: 18.2px; text-align: left;"></b><br />
<div style="display: inline !important; text-align: justify;">
<b style="background-color: white; font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; line-height: 18.2px; text-align: left;"><b style="line-height: 18.2px;"> La testimonianza archeologica più antica è in Cambogia</b></b></div>
<b style="background-color: white; font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; line-height: 18.2px; text-align: left;">
</b></div>
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><b style="background-color: white; line-height: 18.2px;"></b></span><br />
<div style="text-align: center;">
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><b style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><b style="line-height: 18.2px;">Ma le radici filosofiche sono in India</b></b></span></div>
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><b style="background-color: white; line-height: 18.2px;">
</b><b style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: center;">
<b style="line-height: 18.2px;">E l’elaborazione più raffinata si deve agli studiosi musulmani</b></div>
<div style="text-align: center;">
<b style="line-height: 18.2px;"> che inventarono l’algebra</b></div>
</b><b style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: center;">
<b style="line-height: 18.2px;">Finché il giovane pisano Leonardo Fibonacci non lo portò in Europa</b></div>
</b><b style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: center;">
<b style="line-height: 18.2px;"><br /></b></div>
<div style="text-align: center;">
<b style="line-height: 18.2px;">Amedeo Feniello, "</b><b style="line-height: 18.2px;">Corriere della Sera - La Lettura", 7 febbraio 2016</b></div>
</b></span><span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;"><br /></span></div>
<span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">L’uomo, nella sua storia, di rivoluzioni ne ha viste tante. Una, però, stupisce più delle altre. Talmente grande che, ai nostri occhi, quasi svanisce. Perché ormai banale. Scontata. La rivoluzione dei numeri. Una rivoluzione tutt’altro che rapida. Ma lenta e tortuosa. Capace di avviluppare, nel corso dei secoli, tre continenti: Asia, Africa ed Europa. Regalandoci nove cifre e, con esse, lo zero. Il tutto, ben combinato, rende possibile l’impossibile. Rappresentare — e calcolare — qualunque tipo di numero di qualunque grandezza, minima quanto incommensurabile. Con grazia. Con facilità. Brevi linee che, per parafrasare Shakespeare, mescolate tra loro permettono a semplici sgorbi di trasformarsi in milioni di miliardi. Tendenti all’infinito.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Dove comincia questa storia? Non nell’Impero romano, in cui l’idea dello zero era assente e l’elaborazione del calcolo arcaica e farraginosa. Ma lontano. In un Oriente magnifico, fantastico, semisconosciuto. Ma di preciso? L’itinerario è vasto. Va dalla Mesopotamia all’India fino alla Cambogia. Là dove, racconta Amir D. Aczel nel suo libro <b><a href="http://www.lastampa.it/2014/11/25/cultura/una-lapide-a-angkor-dimostra-che-lo-zero-nato-in-oriente-qxmfp2CaDdva85saGRv51K/premium.html" target="_blank"><i>Caccia allo zero</i> </a></b>(Raffaello Cortina), a Sambor Prei Kuk negli anni Venti del Novecento il francese Cœdès portò alla luce la prima testimonianza archeologica dello zero, che anticipa almeno di due secoli quella indiana di Gwalior, risalente al IX secolo della nostra era.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Tracce archeologiche. Evidenti. Che ci riportano al nostro Medioevo. Ma il cammino è tanto più antico. A partire proprio dalla penisola indiana. Dove il cuore di tutto è lo Shunya . Che in indiano significa zero. Termine legato all’idea buddhista di nulla, che viene definito infatti Shunyata . Insomma, lo zero, il numero e il nulla buddhista — lo scopo della meditazione e un ideale cui aspirare per raggiungere il Nirvana o illuminazione — sono una cosa sola. Figli dello stesso concetto filosofico. Profondo, ricco di simboli e di implicazioni. È lì la matrice di ogni ragionamento.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Nella pratica, il nuovo sistema che nasce si basa su tre idee chiave: le notazioni per le cifre, il valore posizionale e lo zero. Sistema che viene elaborato nel Brahmasphuta Siddhanta di Brahmagupta (VII secolo), che, per primo, descrive lo zero come il risultato che otteniamo quando sottraiamo un numero da se stesso. Ma se dottrina filosofica e matematica si fondono nel mondo indiano, è la concretezza dei mercanti dell’economia-mondo musulmana altomedievale che mette in moto questa macchina fatta di cifre facili da adoperare nelle transazioni. Con una raffinatezza di calcolo che si accentua di momento in momento, di anno in anno. Attraverso elaborazioni che prevedono percentuali, frazioni, risoluzioni algebriche, progressioni ecc.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Un’onda che secoli prima del Mille conquista Bagdad e l’intero Nord Africa. Con matematici straordinari. Tra i più grandi? Al-Khwarizmi, vissuto probabilmente tra il 750 e l’850, dal cui nome volgarizzato in latino deriva il termine algoritmo. L’autore dell’ Al-Kitab , il trattato su quella che noi oggi chiamiamo l’algebra, nel quale è presente un approccio sistematico alla soluzione delle equazioni lineari, con un’ampia spiegazione di come si risolvano quelle polinomiali fino al secondo grado. Un mondo in cui lo zero espande la sua influenza e gli vengono conferiti attributi per sottrarlo all’opacità della sua essenza di Niente che, aggiunto a qualcosa come un numero, si trasforma in Tutto. Attributi che fioccano: lo chiamano il Nulla o il Vuoto o il Vento: <i>Sifr</i>, termine che designa la cifra per eccellenza. Parola derivata verosimilmente da <i>Zephirus</i>, da cui zero.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Per l’Europa, la storia dello zero e dei suoi nove compagni comincia molto dopo. E lontano dalle sue coste. Si parte dalla città nordafricana di Bugia di Barberia, dove, alla fine del XII secolo, un giovane pisano, Leonardo Fibonacci, come racconta lui stesso nel <i>Liber abaci</i>, viene istruito fin dall’infanzia da maestri musulmani «nell’abaco al modo degli Hindi» e a conoscere le «nove figure dei numeri usati dagli indiani». Va detto che Leonardo non era il primo occidentale a conoscere questa numerazione. In realtà, altri avevano assorbito dalla Spagna musulmana la conoscenza delle nuove cifre. Basti pensare al <i>Codex Vigilanus</i>, del 976. Oppure a Gerberto d’Aurillac, Papa Silvestro II, che, circa negli stessi anni, cerca di migliorare l’efficienza dell’abaco, usando simboli che adoperano una forma primitiva di cifre indo-musulmane.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Tuttavia, prima di Fibonacci nessuno in Occidente aveva compreso le potenzialità dei numeri indo-musulmani da applicare in maniera costante sia al mondo del commercio sia nella vita quotidiana. È a partire da lui che si comincia a sfruttare al meglio questa innovazione, trasformandola in qualcosa di eccezionale. Però, non fu una passeggiata. Per Guglielmo di Malmesbury i numeri non sono altro che pericolosa magia saracena. Firenze, alla fine del Duecento, ha paura dello zero, cifra oscura e segreta, e lo proibisce. Un pregiudizio che dura a lungo: ad esempio all’Università di Padova i bibliotecari erano tenuti a scrivere i prezzi dei libri «non per cifras sed per litteras claras». Nel 1494 il sindaco di Francoforte ancora dava istruzioni ai suoi capi contabili di «astenersi dal calcolare con le cifre». Addirittura nel 1549 un canonico di Anversa ammoniva i mercanti a non usare i numeri nei contratti e negli affari.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Ma si tratta di scorie, in una società dove avanza a grandi passi la razionalità contabile delle compagnie internazionali italiane ed europee. E l’intuizione, nata nelle foreste della Cambogia e dell’India, ha ormai mutato pelle, in profondità: non più patrimonio di pochi iniziati, avvezzi ai simboli e alle pratiche filosofico-numeriche, ma strumento rivoluzionario di conoscenza e di controllo della realtà. Emblema della nuova epoca rampante, inarrestabile e aggressiva del capitalismo e dell’egemonia occidentale.</span></div>
</span></span></div>
illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-18552969428271646272016-02-07T15:33:00.000+01:002016-02-07T15:33:15.187+01:00Nudo, il (non) comune senso del pudore<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://3.bp.blogspot.com/-l-xo0zXNN_g/VrdVm2LAwdI/AAAAAAAAB50/sfed9c9aDLo/s1600/man_ray_venere_restaurata.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="640" src="https://3.bp.blogspot.com/-l-xo0zXNN_g/VrdVm2LAwdI/AAAAAAAAB50/sfed9c9aDLo/s640/man_ray_venere_restaurata.jpg" width="539" /></a></div>
<div style="text-align: center;">
<b style="background-color: white; font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; line-height: 18.2px;"><br /></b></div>
<div style="text-align: center;">
<b style="background-color: white; font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; line-height: 18.2px;"><br /></b></div>
<div style="text-align: center;">
<b style="background-color: white; font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; line-height: 18.2px;">Arturo Carlo Quintavalle, </b></div>
<div style="text-align: center;">
<b style="background-color: white; font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; line-height: 18.2px;"><br /></b></div>
<div style="text-align: center;">
<b style="background-color: white; font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; line-height: 18.2px;">"</b><b style="background-color: white; font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; line-height: 18.2px;">Corriere della Sera - La Lettura", 7 febbraio 2016</b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b style="background-color: white; font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; line-height: 18.2px;"><br /></b></div>
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;"><br /></span></div>
<span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Lo sappiamo, i greci inventano, nel V secolo a. C., il corpo nudo come proporzione, armonia. Eppure la <i>Venere capitolina</i>, Venere Pudica perché si copre seni e sesso, copia romana dalla Afrodite cnidia di Prassitele, la <i>Leda col cigno </i>da Policleto, il <i>Dioniso</i>, sono state censurate ai Musei Capitolini di Roma in occasione della visita del presidente iraniano il 26 gennaio.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">La vicenda ha molti precedenti. Il più noto: alla fine del Concilio di Trento, appena morto Michelangelo, Daniele da Volterra, nel 1565, copre le nudità del Giudizio Universale .</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Ma la presenza dei corpi umani, anche nudi, dipende dalle ideologie. Infatti, delle «religioni del Libro» la ebraica, salvo che agli inizi, rifiuta le immagini e quella islamica permette solo di raffigurare alberi, animali: così i mosaici nel cortile della Grande Moschea di Damasco o quelli della Moschea di Omar a Gerusalemme. Maometto, che alla Mecca aveva distrutto tutti gli idoli, suggerisce nella XXIV Sura detta «della luce»: «Dì alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle, e si coprano i seni d’un velo e non mostrino le loro parti belle che ai loro mariti o ai loro padri o ai loro suoceri o ai loro figli… o ai loro servi maschi privi di genitali».</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Difficile il passaggio delle immagini del nudo dal mondo romano al mondo cristiano. Le antiche statue femminili conservate nei musei in genere sono state scoperte in età moderna, per questo sono scampate alla falcidie voluta dai cristiani di migliaia di opere, atleti e divinità, retori e imperatori che illustravano teatri e anfiteatri, fori e templi da Occidente a Oriente.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Certo, dal XV secolo in poi, il nudo antico diventa meta del collezionismo a Roma e in Occidente. Così la <i>Venere di Milo</i> (130 a. C.) ora al Louvre, scavata nel 1820 e portata in Francia nel 1821; così la <i>Venere dei Medici</i>, ora agli Uffizi, di fine I secolo a.C., che nel 1803 viene portata al Louvre e restituita nel 1815: era tale la sua importanza che, per sostituirla, viene dato incarico ad Antonio Canova di scolpire una nuova Venere, battezzata <i>Venere Italica</i>, ora a Pitti (1804-1812).</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Eppure proprio quel mondo cristiano che ha distrutto i nudi dell’antico rappresenta il nudo in almeno due momenti precisi del proprio racconto: i <i>Progenitori nel Paradiso terrestre</i> e il <i>Giudizio Finale</i>. Quando Wiligelmo scolpisce a Modena (1099-1110 circa) le sculture della Genesi mostra la <i>Cacciata dal Paradiso di Adamo ed Eva</i>. Scrive la Bibbia: «Il signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: dove sei? Rispose: ho udito il tuo passo nel giardino, ho avuto paura perché sono nudo, e mi sono nascosto». Dunque la vergogna della nudità è prova della trasgressione; del resto Maometto nella Sura VII «del Limbo» scrive: «(e Satana) li trascinò in errore, e quando ebbero gustato i frutti dell’albero, apparvero le loro vergogne e presero a coprirsi con foglie del Giardino».</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">I nudi dei Giudizi Finali del medioevo cristiano sono diversi: nudo composto nella resurrezione dalle tombe dei beati; nudo scomposto, segnato dalla violenza dei castighi, quello dei dannati. L’Occidente cristiano è ricco di questi Giudizi, dal tempo romanico al gotico, da Torcello a Sant’Angelo in Formis, dal Battistero di Firenze a Chartres, da Notre-Dame al Giotto degli Scrovegni a Padova.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Nel XV secolo l’antico viene recuperato come modello e, attraverso Vitruvio, l’idea della proporzione del corpo come ordine del mondo si impone in Toscana da Donatello a Leonardo a Michelangelo nel suo <i>David</i>, mentre Leon Battista Alberti, nel <i>Della Statua</i> (1450 circa) intende l’atto creativo come rappresentazione dell’Idea platonica.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Ma scolpire è anche racconto e la rivoluzione ha una data, il 1506, quando a Roma viene scoperto il gruppo ellenistico del <i>Laocoonte </i>e subito pittori e scultori mettono in scena quel modello, prima Michelangelo nella volta della Sistina, quindi Raffaello nella Cacciata di Eliodoro nelle Stanze Vaticane. Perché, come scrive Ascanio Condivi nella sua Vita di Michelangelo (1553), «più volte (egli) ha avuto in animo, in servigio di quelli che vogliono dare opera alla scultura e pittura, far un’opera che tratti di tutte le maniere de’ moti umani e apparenze» — dunque dipingere, scolpire, è rappresentare le passioni, come nei nudi <i>Prigioni </i>di Michelangelo per la tomba di Giulio II in San Pietro, mai finita, come nel <i>Giudizio </i>della Sistina.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Dopo la Controriforma la rappresentazione della figura scolpita diventa funzionale e di classe: un certo tipo di nudo viene riservato alla privata raccolta del committente, il cardinale Scipione Borghese che nel 1623-25 fa scolpire al Bernini <i>Apollo e Dafne</i> dove mondo vegetale e figura umana si fondono; e il nudo torna come evocazione dell’antico nella Fontana dei fiumi a Piazza Navona (1648-1651). Bernini poi, ai nudi contrappone la figura vestita, ma densa di sensuale tensione erotica, dei monumenti destinati alla pietas dei fedeli, come quello alla Beata Ludovica Albertoni di San Francesco a Ripa a Roma (1673-1674).</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">In pittura, si propone una storia diversa dalla proporzione toscana. Così Jan e Hubert van Eyck nel <i>Polittico dell’Agnello Mistico</i> a Gand scavano, con analitico realismo, i corpi di Adamo ed Eva; così Albrecht Dürer, nei due <i>Progenitori </i>al Prado (1507), mette a frutto il viaggio a Venezia e inventa un nuovo spazio. In Italia invece, ancora agli inizi del Cinquecento, domina la riflessione neoplatonica: ecco dunque Giorgione proporre nella <i>Venere di Dresda </i>(1508) conclusa da Tiziano, un cosmico rapporto fra natura e figura, come fa Leonardo nei suoi pochi, densissimi dipinti, mentre lo stesso Tiziano, nella <i>Venere di Urbino </i>(1538) esalta il nudo femminile creando una scena diversa, laica, veritiera che Velázquez trasforma nella sua <i>Venere allo specchio</i> di Londra (1650) in sottile, controriformistico <i>memento mori</i>.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Questa rivoluzione nel racconto del nudo che, da sublimato, diventa dolorosamente corrotto, aveva avuto un nuovo inizio con Caravaggio, ad esempio nella <i>Deposizione </i>dei Musei Vaticani (1604) che diventa modello per la pittura europea mentre Rubens, ad esempio nell’<i>Ercole </i>della Sabauda a Torino, evoca la statuaria antica con i colori di Veronese e Tintoretto. E nell’Ottocento proprio Veronese viene citato, con Tiziano, nei nudi di Renoir mentre Degas, per le sue ballerine, dialoga con l’arte del Seicento, quella di Vermeer.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">La fine del mito del nudo all’antica la segna Picasso con le <i>Demoiselles d’Avignon</i> (1907), lui che prima meditava, nei dipinti del Periodo Rosa, sul classicismo di David. Oggi il nudo si propone in modo ambivalente: da una parte la foto di cronaca con la violenza sui corpi e i serial americani che li mostrano sui tavoli di dissezione; dall’altra il consumo del nudo nelle pubblicità e nei reality alla ricerca di improbabili Adami ed Eve su un’isola dei famosi.</span></div>
</span></span></div>
illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-80857753350357697252016-02-07T15:25:00.001+01:002016-02-07T15:25:43.964+01:00Siamo tutti Don Chisciotte<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://1.bp.blogspot.com/-N2zOnk-osLM/VrdTn73VHDI/AAAAAAAAB5o/rRJRPpJG988/s1600/omaggio_a_cervantes.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="400" src="https://1.bp.blogspot.com/-N2zOnk-osLM/VrdTn73VHDI/AAAAAAAAB5o/rRJRPpJG988/s400/omaggio_a_cervantes.jpg" width="400" /></a></div>
<div style="text-align: center;">
<b style="background-color: white; font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; line-height: 18.2px;"><br /></b></div>
<div style="text-align: center;">
<b style="background-color: white; font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; line-height: 18.2px;">Cervantes è morto quattrocento anni fa, </b></div>
<div style="text-align: center;">
<b style="background-color: white; font-family: Arial, Helvetica, sans-serif; line-height: 18.2px;">il suo eroe invece è vivo e si nasconde nella nostra parte migliore</b></div>
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: center;">
<b style="background-color: white; line-height: 18.2px;">È colui che, lancia in resta, ogni giorno ha una nuova battaglia da perdere trasformando il quotidiano in epica e crogiolandosi nell’impossibile</b></div>
<b style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: center;">
<b style="line-height: 18.2px;">Cavalca al confine tra visionarietà e illusione. </b></div>
<div style="text-align: center;">
<b style="line-height: 18.2px;">E spesso trascina con sé nel fango uno scudiero che gli si mette appresso per fede</b></div>
<div style="text-align: center;">
<b style="line-height: 18.2px;"><br /></b></div>
</b><b style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: center;">
<b style="line-height: 18.2px;">Gabriele Romagnoli, "La </b><b style="line-height: 18.2px;">Repubblica", 7 febbraio 2016</b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b style="line-height: 18.2px;"><br /></b></div>
</b><div style="text-align: justify;">
<span style="background-color: white; line-height: 18.2px;">Miguel Cervantes è morto quattrocento anni fa, ma Don Chisciotte, la sua creatura, è vivo e lotta insieme a noi, o contro di noi. Lo incontriamo ogni giorno: nei tg che parlano di politica, nelle cronache sportive, in tribunale, in chiesa e, inevitabilmente, allo specchio. È quello lancia in resta, ogni giorno una nuova battaglia da perdere. Sa definirsi solo attraverso gli avversari, ammassandone quantità e qualità con lussuria da combattimento. Trasforma il quotidiano in epica. Si crogiola nell’impossibile e ambisce, più di ogni altra cosa, alla sconfitta, nella cui nobiltà si riconosce e, seppur per poco, riposa. Cavalca al confine tra visionarietà (prodromo di grandezza) e illusione (sintomo di miseria). Trascina con sé nel fango (che proclama dorato) uno scudiero, anche più. Questo gli si mette appresso per fede, ci resta per pietà e, infine, perché non gli resta altra vita che all’ombra di quel sole spento: almeno di follia bruciò. Don Chisciotte non era un personaggio, ma un prototipo. Ha generato una filiera, gli epigoni sono qui, anche se nessun Cervantes li racconta perché in letteratura vale solo la matrice, il resto sono copie, imitazioni, realtà.</span></div>
<span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">In politica esistono molti esempi, due tra tutti: uno in Italia e l’altro negli Stati Uniti. Il primo è Marco Pannella. Da decenni, armato di sigaretta, si batte per tutto e tutti. Protesta, digiuna, s’imbavaglia. Scioglie e ricostituisce. Battezza e scomunica. Mai che acconsenta o riconosca. Se all’inizio le sue cause erano chiare e condivise, con il tempo il fumo si è alzato anche lì e dai gloriosi referendum che hanno portato a vere conquiste nel campo dei diritti civili si è passati a terreni più friabili, sui quali era difficile seguirlo. È valso anche per gli scudieri che, a differenza di Don Chisciotte, si è divorato uno a uno, disconoscendoli, trasformandoli in nemici, attaccandoli, in attesa del duello finale con la propria ombra.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Il secondo, il fratello americano, è Ralph Nader, quello che si candidava alla Casa bianca per perdere e far perdere. Mister due per cento, felice e contento. Il leader della nicchia e guai se si allarga. Se avessero un inno sarebbe Figlia, la canzone di Roberto Vecchioni che dice: «Vincere significa accettare e questo, lo dovessi mai fare, tu questo non me lo perdonare».</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Nudi e senza meta. Forse un po’ profeti di questo tempo rovesciato in cui tra i possibili candidati alla presidenza degli Stati Uniti l’eventuale indipendente (Michael Bloomberg) è un mulino a vento e il vero Don Chisciotte è quel democratico (Bernie Sanders) che pur di assicurarsi la sconfitta si dichiara socialista, come uno che ai controlli dell’aeroporto Kennedy, nell’apposito modulo, alla domanda «Intende svolgere attività terroristiche?» rispondesse barrando la casella del sì.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">C’era un Don Chisciotte femmina davanti ai cancelli della Casa Bianca. C’è stata per oltre trent’anni: dal 1981 al gennaio scorso. Si chiamava Concepcion Picciotto, detta Connie. Le avevano portato via la figlia adottiva, almeno così sosteneva. E allora, «in nome di tutti i bimbi del mondo », protestava chiedendo il disarmo nucleare. Con un casco in testa, non ha mai mancato un giorno. Altri si sono uniti: il suo scudiero, tale William Thomas, morì dopo 25 anni di avanti e indietro sul marciapiede. Lei continuò. Alla sua morte un’agenzia di stampa ha scritto: «Molti la consideravano un’eroina, altri dubitavano della sua sanità mentale. La verità probabilmente sta nel mezzo». Esattamente dove cavalca Don Chisciotte.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Se si fosse fermato su una panchina avrebbe assunto le sembianze di Zdenek Zeman e si sarebbe lanciato contro l’invincibile, svelato magagne. Avrebbe comminato uno schema di gioco splendente e perdente, si sarebbe beato del 5 a 4, in favore o a sfavore, senza distinguere. Esattamente quel che ha fatto il boemo, senza mai cambiare una virgola di sé, mai adattarsi, continuando sempre ad attaccare, con o senza palla. Accusando, accusando. Spesso a ragione, ma come si faceva poi a distinguere il torto, l’infondatezza?</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Non è un caso che un suo assist sia stato raccolto dal magistrato Raffele Guariniello della procura di Torino, il Don Chisciotte dei procedimenti penali. Dopo essersi dimesso, nel dicembre 2015, ha annunciato “donchisciottescamente” di voler fare l’avvocato «al fianco dei più deboli ». Di lui Wikipedia sobriamente scrive: «È spesso comparso sui giornali per eclatanti inchieste». Talora finite con archiviazione, prescrizione o trasferimento del fascicolo, ma lui non si è mai arreso: era già sul prossimo caso, su una nuova prima pagina. I suoi mulini a vento sono stati: la Fiat, le farmacie del calcio, la Sanità, il metodo Di Bella, il metodo Vannoni, la Thyssen, l’Eternit. Alcuni erano veri draghi, qualcuno è riuscito perfino a infilzarlo. Con lo stesso spirito con cui Erin Brokovich, legale dilettante, impersonata sullo schermo da Julia Roberts, infilzò la multinazionale che contaminava con il cromo le acque di una cittadina americana e da allora si dedica a questa battaglia ovunque nel mondo. È uno dei pochi casi in cui Don Chisciotte vince. Un altro è quello di Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2006 che ha osato sfidare addirittura il sistema bancario internazionale con l’idea del microcredito (manco una lancia, una forchetta). Poi l’hanno trascinato nella polvere ma questo accadde anche al paladino di Cervantes.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Se guardiamo la cronaca recentissima, quella della settimana appena trascorsa, non sarà difficile individuare i due sommi discendenti del cavaliere spagnolo. Uno è Julian Assange, anarchico, libertario, hacker in nome della libertà d’informazione, della trasparenza di tutti i poteri e rifugiato politico, confinato nel perimetro della sua esistenza digitale. L’altro è papa Francesco, il parroco che vuol cambiare la Chiesa di Roma, moralizzare chi parla in suo nome e per conto, diffondere nel mondo, addirittura, la misericordia.</span></div>
</span><span style="background-color: white; line-height: 18.2px;"><div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 18.2px;">Esempio alto, ma strada facendo non c’è lettore che non si sia identificato, per un tratto, una causa, una romantica disperazione, in Don Chisciotte. Incluso qualche Sancho Panza e molti, moltissimi mulini a vento.</span></div>
</span></span></div>
illuminationshttp://www.blogger.com/profile/06384878071821488075noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1824130651915242530.post-58742416217523477422016-01-27T18:47:00.000+01:002016-01-27T18:47:52.391+01:00Lo sforzo autolesionista di demolire la nostra lingua<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
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<img src="http://www.affaritaliani.it/static/upl2014/mari/0006/marina_militare_secolo-2-670x274.jpg" /></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b>Adolfo Scotto di Luzio</b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b>"Corriere della Sera", 27 gennaio 2016</b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><b><br /></b></span></div>
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<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><div style="text-align: justify;">
<a href="http://digital.library.unt.edu/ark:/67531/metadc609/m1/1/med_res/" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="400" src="http://digital.library.unt.edu/ark:/67531/metadc609/m1/1/med_res/" width="266" /></a><i>Join the Navy</i>, «entra in marina». L’invito non viene da Annapolis, Maryland, dove ha sede la più importante accademia navale degli Stati Uniti d’America. Più domesticamente, da Roma. Lo slogan compare sui manifesti che in questi giorni annunciano nelle nostre città la nuova campagna di reclutamento della Marina militare italiana. Dopo il «Be cool and join the Navy» del 2015, qualcosa che in italiano suona come «Fai il fico ed entra in marina», lo Stato maggiore insiste con un giovanilismo di maniera che si pretende dinamico e internazionale ma che, riferito a un’istituzione militare della Repubblica italiana, suona alquanto privo di senso.</div>
<div style="text-align: justify;">
Non c’è dimensione pubblica del nostro Paese, ormai, che non sia affidata a pubblicitari e creativi di ogni risma per i quali l’uso dell’inglese è diventato una specie di tic nervoso. Clamoroso è lo slogan inventato per Roma, <i>RoMe & You</i>, «Roma, Io e Te», che ha finito per renderne irriconoscibile finanche il nome. Un paradosso non da poco per chi, dovendo vendere un marchio, lo confonde sotto un gioco grafico e linguistico buono, forse, per una paninoteca dalle parti di Campo de’ Fiori.</div>
<div style="text-align: justify;">
Non fa eccezione a questo andazzo sciatto e autolesionistico il ministero della Pubblica istruzione. Da tempo nella scuola italiana circola un nuovo latinorum che mescola alle vecchie formule della burocrazia un gergo monotonamente ripetitivo degno di un call center. Basta prendere il piano della scuola digitale del Miur e aprirlo a caso. È un succedersi di <i>Acceleration Camp</i>, percorsi di accelerazione per stimolare lo spirito di intrapresa nei giovani. Ci sono i <i>Contamination Lab</i>, luoghi di contaminazione interdisciplinare. Le studentesse patiscono i <i>confidence gap</i>, il pregiudizio di genere in ambito scientifico e tecnologico. Il ministero risponde con «Girls in Tech & Science». Su questo linguaggio c’è poco da dire, se non che è refrattario a qualsiasi elaborazione intellettuale.</div>
<div style="text-align: justify;">
Ma che dire, invece, dello obbligo d’insegnare in lingua straniera una materia non linguistica imposto nelle scuole superiori, in quinta? È il famigerato Clil, acronimo inglese, che sta per apprendimento integrato di lingua e contenuto. Nasce dalle escogitazioni multilinguistiche di un esperto di origini australiane che fa base in Finlandia. Si prefigge il conseguimento di un livello di estrema generalizzazione linguistica al di sopra delle differenze «dialettali» fra cittadini europei. Un progetto di vasta portata, per chi lo ha concepito; un’idea, invece, da pezzenti culturali a ben vedere. Non si danno più ore alle lingue straniere. Né si assumono insegnanti specialisti. Niente di tutto questo.</div>
<div style="text-align: justify;">
Si sottraggono, invece, al dominio dell’italiano contenuti culturali importanti e insieme si svilisce il valore di questi stessi contenuti, riducendoli a mero supporto della lingua straniera. Soprattutto, se il ministero presuppone negli insegnanti certificazioni linguistiche che di fatto non posseggono, dà per scontato che gli studenti siano in grado di prendere attivamente parte a lezioni in lingue che non padroneggiano. Gli effetti semplificatori sui contenuti saranno, inevitabilmente, disastrosi.</div>
<div style="text-align: justify;">
La lingua, tanto quella straniera che l’italiano, qui è concepita come un mero strumento e non come un terreno sul quale sorgono, nel tempo, pensieri e idee, sentimenti. In questo modo gli italiani vengono educati, fin dalle aule scolastiche, a formarsi un’ immagine opaca del mondo per mezzo di parole generiche e vuote.</div>
<div style="text-align: justify;">
Da qualche tempo si sente ripetere che l’Italia è tornata protagonista. Per il momento sembra più che altro sommersa dalla fuffa.</div>
</span></div>
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