martedì 9 dicembre 2014

Saper vedere oltre il deforme. L’amore adulto che vive in Bella


Roberta Scorranese

"Corriere della Sera", 9 dicembre 2014

L’amore di Bella per Bestia arriva improvviso e la sorprende «come il sole ad est/quando sale su», canta Gino Paoli ne La Bella e la Bestia. Come un cono di luce che squarcia un bosco rorido, ferino, umido. È un amore che nasce non a prima vista, come in Biancaneve o nella maggior parte delle fiabe: nasce con la consapevolezza, la frequentazione, la conoscenza dell’altro. Diciamolo: si consolida con l’abitudine, spesso glutine di amori decennali. 
Un sentimento maturo, nato da una scelta? Nella fiaba di Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve, Bella si offre volontaria per andare ad affrontare Bestia. Poi resta, declinando con dolcezza le sue proposte di matrimonio. Torna dal padre, ma subito dopo si rende conto che quella presenza le era diventata indispensabile. Nonostante la mostruosità, le corna, la capigliatura animale, il ghigno e il pelame. Così Bella sceglie. 
Uccide (metaforicamente) il padre e decide di affrontare il bosco, l’oscuro, l’ignoto. Non a caso, nel suo celebre studio sulle fiabe popolari, Stith Thompson pone Bestia nella categoria dello «sposo animale», dove (all’opposto del principe azzurro) la parte maschile è ancora incompleta, mancante. Ambigua, perché sospesa tra le virtù invisibili e un aspetto ripugnante. Aspetta la donna capace di riscattare questa immaturità deforme. Retaggio forse, in questo caso, di La Belle et le Monstre , un’altra fiaba nordeuropea, simile a quella poi giunta fino a noi e approdata al musical. Ma Bella no. 
Bella muove le fila della storia con la sua decisione. Decide di affrontare l’altro e di accettarlo per così come è, negando se stessa e, in questo modo, annullandosi in nome di un sentimento più forte di entrambi, compie il miracolo. L’unico, possibile miracolo amoroso. 
Lo ha scritto anche il raffinato psicanalista Bruno Bettelheim (1903–1990), grande esegeta di favole, nel suo Il mondo incantato - Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (Feltrinelli, 1977): Bella è capace di «creare un legame con un’altra persona (l’ io senza il tu vive un’esistenza solitaria)». Significa essere a un tempo se stessi e parte dell’altro. 
«Un amore maturo — dice Marta Corradi, psicologa milanese, nonché protagonista di una serie di incontri sull’amore nelle fiabe, tra cui La Bella e la Bestia — e purtroppo oggi non facilmente realizzabile. In questo momento storico siamo sommersi di stimoli, oggetti, cose che ci chiedono una soddisfazione istantanea, immediata. L’amore di Bella invece si prende il tempo di crescere. Di rendersi conto». Il passo avanti della ragazza infatti è quando, tornata a casa, comprende che a mancarle non sono i vestiti, i gioielli e i comfort che Bestia le donava per tenerla ancorata a sé. «No, le manca l’uomo — dice Corradi, che sul suo sito www.martacorradi.it parla anche di questi temi — e non vede più la mostruosità: ha affrontato il bosco e l’ha capito».
Il bosco. Che cos’altro è Bestia se non l’incarnazione della boscaglia che insidia Cappuccetto Rosso? E che, stando a molte letture critiche, rappresenta anche la sfida sessuale? Per Bettelheim, Bestia incarna «quel misto di ripugnanza e di attrazione che caratterizza nei bambini la scoperta del sesso». 


Niente principe, ma un mostro

La bella che ama la bestia è un’attrazione senza tempo 

Valeria Crippa

Chiamala, se vuoi, attrazione fatale. Lei: una ragazzina che bussa all’adolescenza con tutta la grazia del caso, virtuosa per qualità morali, intellettuali ed estetiche tanto da meritarsi il nome di Belle. Lui, la Bestia. Corna da capro, criniera da leone, coda luciferina da lupo mannaro, zanne ricurve da predatore: mix degno di una creatura mitologica, ma antropomorfa come suggerisce la postura eretta ingentilita da movenze regali. In realtà è un bel principe che ha peccato di hýbris , per gli antichi greci la superbia punita dall’ira di una divinità (qui è una fata travestita da vecchina): incalzato da una rosa che sfiorisce, potrà liberarsi dell’incantesimo e riprendere sembianze umane solo grazie al vero amore. 
Definire B&B una strana coppia è eufemismo. Eppure il loro è uno dei matrimoni più longevi dell’immaginario fiabesco. L’esordio è lì da sfogliare, nelle Metamorfosi di Apuleio (II secolo d.C.), lei si chiama Psiche, figlia di re e sfacciatamente bella, fa ingelosire la dea Afrodite che si vendica e invia il figlio Amore in missione: scoccherà una freccia che farà innamorare la ragazza di un mostro e la toglierà di mezzo. Peccato che Cupido si trafigga un piede e rivolga su se stesso l’amore di lei. 
Da allora, Bella chiama Bestia, con varianti sul tema, pittoriche da Bosch a Van Dyck e Füssli, letterarie in Shakespeare (nel Sogno di una notte di mezza estate la regina Titania, bevuto un filtro galeotto, si innamora di Bottom, il buffone deforme con testa d’asino), Calvino (in Fiabe italiane trascrive il racconto calabrese Il Re serpente e quello toscano Bellinda e il Mostro), gli immancabili fratelli Grimm (Pelle d’orso e Hans Porcospino). 
Corsi e ricorsi delle fiabe. A dipanare l’intreccio delle suggestioni ci pensano i catalogatori (Aarne-Thompson elenca centosettantanove racconti con lo stesso soggetto) che nel canone 425 individuano il tema della fanciulla che va in sposa a una creatura mostruosa dalle sembianze animali. 
La prima a fissare il canone fu Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve, autrice di Les Contes marins, ou la Jeune Américaine pubblicato nel 1740 in Olanda, una raccolta di fiabe narrate da una dama di compagnia alla sua giovane padroncina durante il Gran Tour d’Europa: tra i racconti, La Bella e la Bestia ci arriva con tutta la tensione erotica sprigionata dalla convivenza forzata dei due futuri amanti (Bella accetterà di accoppiarsi alla Bestia e lo libererà dall’incantesimo) e con un’implicita critica alle convenzione sociale dei matrimoni combinati e alla sofferta condizione della donna. 
Non c’è da stupirsi che a questa versione sia stata preferita quella molto più breve e addomesticata di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont data alle stampe nel 1756 in «Magasins des enfants, ou dialogues entre une sage gouvernante et pleusieurs de ses élèves». A Madame de Beaumont ha attinto la Disney, nel ’91, per il film di animazione Beauty and the Beast (il primo del genere a essere nominato come migliore pellicola), Oscar per la colonna sonora e la migliore canzone originale composte da Alan Menken e Howard Ashman, con regia di Kirk Wise e Gary Trousdale, sceneggiatura di Linda Woolverton. 
Rispetto alle fonti letterarie il cartoon si prende qualche libertà: vengono aggiunti il personaggio di Gaston, bellimbusto tutto muscoli, e una gustosissima corte di servitori della Bestia trasformati dall’incantesimo in oggetti. 
Squadra vincente non si cambia e ritroviamo Woolverton e Menken (al compianto Ashman, deceduto per Aids, subentrò Tim Rice) tra i nomi che firmano la versione teatrale tratta dal cartoon che la Disney presentò nel 1994 a Broadway, dove restò in scena per 13 anni.

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