mercoledì 26 novembre 2014

“Il bosone non basta: c’è ancora da scoprire il 95% dell’Universo”


La conferenza alla Normale di Pisa per la serie “Virtual immersions in science” 
Dall’elettrone alla super-simmetria: perché la storia delle particelle è aperta

Gabriele Beccaria

"La Stampa -TuttoScienze",  26 novembre 2014

A metà della conferenza Riccardo Barbieri, fisico della Scuola Normale Superiore di Pisa, mostra quanto di più vicino ci sia alla rappresentazione del Tutto. Non è un disegno e non è un grafico. È la «slide» di una lunga equazione.
È l’equazione che racchiude tutte le altre, in grado di spiegare il comportamento delle particelle, i «mattoni» di cui l’Universo è fatto e con cui si crea la realtà. «E’ un quadrante della Natura, le cui leggi si possono scrivere in poche righe con precisione assoluta»: la descrive così Barbieri, ricordando che al Cern di Ginevra c’è chi l’ha fatta orgogliosamente stampare sulla t-shirt. Come un manifesto della potenza della ricerca nel XXI secolo.
E allora si arriva al titolo della sua conferenza, organizzata a Pisa il 12 novembre scorso nell’ambito del programma «Virtual Immersions in Science»: «Dall’elettrone al bosone di Higgs: una storia incompiuta?». Risposta. Sì. La storia è ancora aperta. Moltissimo lavoro aspetta i fisici, mentre si aspetta la riaccensione dell’acceleratore «Lhc». Da una parte c’è il Modello Standard - la teoria che racchiude le particelle e le loro interazioni - e dall’altra c’è la cascata delle scoperte delle particelle stesse: dall’elettrone, individuato nel 1897, fino al bosone di Higgs, rilevato nel 2012 proprio al Cern. Ma nel mezzo galleggiano molti interrogativi senza risposta.
«Ci sono delle ragioni fattuali per cui la storia non è affatto conclusa», ha spiegato Barbieri. E queste hanno a che fare con la «torta cosmica»: oggi gli studiosi che indagano l’Universo ne vedono e capiscono all’incirca il 5%. Appena. Il resto è materia oscura ed energia oscura. Un 95% di realtà alternativa che - almeno al momento - non rientra nelle armonie del Modello Standard. Ed è in questo oceano misterioso che il bosone di Higgs si prende il suo ruolo di protagonista, quello che l’ha reso una star sui media del mondo da quando fu annunciata la prova della sua esistenza, due anni fa.
Lo si capisce quando si comincia a descriverlo, seguendo la logica controintuitiva della fisica dell’infinitamente piccolo. Ricordando come nel mondo sub-atomico particelle e onde non siano distinguibili, Barbieri ha spiegato che il bosone di Higgs rappresenta «un campo», vale a dire «una zuppa, estesa in ogni punto dello spazio e in ogni istante del tempo». E il suo «condensato» - così lo si definisce in gergo - dà origine alla massa delle particelle. Il bosone, quindi, è piccolo, piccolissimo, tanto da manifestarsi con una certa riluttanza perfino nelle collisioni all’interno di «Lhc», ma allo stesso tempo è decisivo per tenere insieme il cosmo nella sua vastità, stelle e galassie comprese.
Il bosone di Higgs appare quindi come la colla perfetta per mettere in comunicazione scale di grandezza opposte. Peccato che «il rompicapo» - come lo chiama Barbieri - resti, eccome. «Il valore di questo campo è stato definito nell’esperimento di “Lhc” . Ma, se vogliamo capirlo, spingendoci oltre il Modello Standard, dai calcoli si ottiene un altro valore, decisamente più grande». Il rompicapo va sotto il nome di «Problema della naturalezza» o «della gerarchia» e cerca di spiegare - senza riuscirci - perché la forza gravitazionale sia tanto insignificante nel mondo microscopico rispetto alle forze elettriche. Insomma: «C’è un evidente conflitto tra valori misurati e valori calcolati». Altissimi nel primo caso, piccolissimi nel secondo caso. «Due facce - osserva Barbieri - di una stessa realtà».
A questo punto qual è la strada da imboccare? «Lhc» sta scaldando i suoi iper-tecnologici motori: 27 km di magneti ad anello, che dal 2015 ospiteranno nuove collisioni di protoni. «Vedremo se scoprirà altre particelle. Ogni volta che si aumenta il regime di energia c’è la possibilità di vedere cose nuove. In produzione diretta». Barbieri è uno dei fisici che lavora alla teoria della super-simmetria ed è questa una possibile risposta al rompicapo dei valori troppo grandi e troppo piccoli: se si trovassero altre particelle, «speculari» a quelle già note, ma decisamente più pesanti, si potrebbe dire di aver messo fine al mistero.
«Il meccanismo che ha nascosto fino a oggi le particelle “super-simmetriche” potrebbe essere analogo a quello che spiega un apparente paradosso: mentre nello spazio vuoto le leggi fisiche prevedono che non ci sia distinzione tra elettroni e neutrini, in presenza del campo di Higgs la “simmetria” tra elettroni e neutrini svanisce e di conseguenza i primi e i secondi riprendono una spiccata identità». Ridiventano particelle decisamente diverse. I primi molto comuni e i secondi molto elusivi.
Mezzo secolo dopo, nella stessa sala della Normale dove entrò per la prima volta, Barbieri ha tenuto la sua lezione, spiegando che quando uno scienziato si trova davanti a un pubblico di non specialisti riemerge sempre una domanda, quella finale: «A cosa serve tutto questo?». E le risposte - ha concluso - «sono due. La prima è classica: a molti follow-up, da Internet alla medicina. Ma io preferisco la seconda: Non lo so!». Poi dopo una pausa termina così: «E’ la curiosità per ciò che è superfluo a renderci pienamente umani».



“Anno 2015, viaggio nella materia all’alba del cosmo”

Antonio Lo Campo

E’ un grande momento per la fisica italiana: mentre si festeggia la nomina di Fabiola Gianotti a direttore del Cern, torna a far parlare di sé «Alice», uno degli esperimenti dell’acceleratore «Lhc». I leader storici del test - tra cui l’attuale coordinatore Paolo Giubellino - sono stati insigniti del premio «Lize Meitner» per la Fisica nucleare, assegnato dalla «Nuclear Physics Division» dell’European Physics Society.
Professor Giubellino, perché «Alice» è considerato così importante?
«Ha realizzato un salto di qualità straordinario nella comprensione del comportamento della materia nucleare a densità e temperature estreme».
Che cosa significa in pratica?
«Le ricerche ci portano informazioni essenziali sulle interazioni forti che governano l’Universo, aprendoci la porta su due aspetti-chiave: come si genera dalla massa dei quark quella delle particelle ordinarie, vale a dire di ciò che ci sta intorno? E, quindi, com’era l’Universo nei primi istanti dopo il Big Bang?».
Che cosa avete scoperto?
«Studiando collisioni tra nuclei di piombo a velocità prossima a quella della luce e raggiungendo temperature di 3 mila miliardi di gradi, siamo entrati nel vivo di un programma che ha impiegato mille ricercatori e ora iniziano ad arrivare i risultati. In queste condizioni è possibile osservare la materia primitiva, com’era prima che assumesse le caratteristiche che presenta adesso, in particolare prima che i quark si riunissero a formare i protoni e i neutroni e, da qui, i nuclei degli atomi».
Com’è questa materia?
«I quark e i gluoni, che in condizioni normali sono intrappolati nel nucleo, si “sciolgono” e si liberano in una “zuppa”. Uno dei modelli teorici che descrive il comportamento in questo stato, chiamato “plasma di quark e gluoni”, era stato descritto per la prima volta proprio da due italiani, Giorgio Parisi e Nicola Cabibbo».
E il futuro? Che cosa promette «Alice» per i prossimi anni?
«Nuovi e più importanti risultati. Da febbraio 2015 inizierà la fase “Alice 2.0” che si prolungherà per il prossimo decennio. L’obiettivo è utilizzare come strumento per l’analisi del plasma una sonda d’eccezione: i quark pesanti, noti come “charm” e “beauty”. Hanno una massa così grande che possono essere prodotti solo nei primissimi momenti delle collisioni, quando sono più violente. Si può così disporre di un “tracciante”, che si muove nel plasma e si combina con altri quark per formare le particelle finali. Potremo quindi studiare direttamente la struttura dell’intero sistema. “Alice”, ma anche “Atlas” e “Cms” si preparano attraverso una serie di migliorie agli apparati sperimentali».
Il vostro obiettivo finale?
«Conoscere in modo dettagliato com’era davvero la struttura dell’Universo nella fase iniziale del Big Bang».

«Trovati sulla cometa i primi mattoni della vita»

Luigi Grassia

Il modulo Philae in questo momento è congelato in un crepaccio buio, su una remota cometa dal nome poco poetico (67P/Churyumov-Gerasimenko), in attesa che il corpo celeste, nella sua orbita, si avvicini alla luce e al calore del Sole e che questo risvegli anche Philae. Nel frattempo gli scienziati a Terra valutano la messe di dati scientifici che il modulo e la sonda Rosetta sono riusciti trasmettere. La novità più intrigante è la probabile scoperta di molecole organiche. I ricercatori vanno cauti, ma uno degli enti spaziali coinvolti nel progetto, cioè l’Agenzia spaziale tedesca, riferendosi ai dati preliminari di uno degli strumenti a bordo di Philae, ha fatto sapere che i primi mattoni della vita sarebbero stati rintracciati sulla cometa, anche se «l’identificazione e l’analisi delle molecole è ancora in corso».
L’identificazione di molecole organiche è una delle maggiori aspettative dalla missione Rosetta, perché si ritiene che le comete abbiano avuto un ruolo importante nella comparsa della vita sulla Terra : i componenti chimici delle future cellule si sarebbero formati nello spazio e sarebbero precipitati negli oceani primordiali usando le comete (nei passaggi periodici) come mezzi di trasporto. Le indiscrezioni dell’Agenzia spaziale tedesca sono autorevoli perché proprio alla Germania è stato affidato l’esperimento «Cosac», che consiste nell’«annusare» e analizzare i gas emessi dalla cometa.
Ma Philae regala anche altri risultati. Il suo braccio meccanico vibrante ha verificato che la cometa ha una superficie di 10-12 centimetri di polveri che ricoprono il ghiaccio. La temperatura del suolo è di 170° sotto zero. I sensori sismici, elettrici e acustici confermano che la cometa al momento non è attiva, ma, quando si avvicinerà al calore del Sole, ci si aspetta che si avviino movimenti delle rocce e del ghiaccio: la speranza è che gli strumenti del modulo si risveglino e possano documentare quel che succede
Ma Philae regala anche altri risultati. Il suo braccio meccanico vibrante ha verificato che la cometa ha una superficie di 10-12 centimetri di polveri che ricoprono il ghiaccio. La temperatura del suolo è di 170° sotto zero. I sensori sismici, elettrici e acustici confermano che la cometa al momento non è attiva, ma, quando si avvicinerà al calore del Sole, ci si aspetta che si avviino movimenti delle rocce e del ghiaccio: la speranza è che gli strumenti del modulo si risveglino e possano documentare quel che succede.

domenica 16 novembre 2014

Da Aristotele a Orazio la difficile virtù di aspirare alla normalità


Maurizio Ferraris

"La Repubblica",  16 novembre 2014

«SAINT- Marc Girardin ha detto una frase che resterà: siamo mediocri! Confrontiamola con la massima di Robespierre: chi non crede all’immortalità del suo essere si rende giustizia. Le parole di Saint-Marc Girardin implicano un odio immenso nei confronti del sublime». Così Baudelaire in Il mio cuore messo a nudo. Tuttavia, se de Maistre ha potuto scrivere un elogio del boia non meno sublime della ghigliottina di Robespierre, vale la pena di abbozzare un elogio della mediocrità, questa virtù etica (la mesotes, la medietà di cui parla Aristotele, e che diventerà l’aurea mediocritas di Orazio) così screditata. Girardin, che non era affatto un mediocre, o comunque meno mediocre di tanti teorici dell’eroismo (fu professore alla Sorbona, ministro, giornalista, deputato, e autore tra l’altro di un monumentale Corso di letteratura drammatica), dopotutto, propone il contrario delle sbruffonate alla “armiamoci e partite”. Dice infatti «Siamo mediocri», il che non è banale.
Vale anzitutto la pena di osservare che tra i destinatari dell’esortazione Girardin include se stesso. Cioè non prende le pose magniloquenti dell’Eroe («L’armi, qua l'armi: io solo combatterò, procomberò sol io»), o meglio propone un eroismo diverso, quello di El Héroe di Baltasar Gracián, dove l’eroismo è anzitutto capacità politica di dissimulazione, malizia che aiuta in quella milizia che è la vita, una guerra tanto più spietata quanto meno dichiarata. Ma, anche senza attribuire intenzioni machiavelliche a Girardin, resta che di inni alla mediocrità se ne sono visti pochi, mentre l’elogio dell’eccezionale, della creatività, del sublime, del genio, è la cosa più banale che ci sia. In pratica, non c’è una sola pubblicità che non nasconda una qualche promessa di eccezionalità. Perciò, oltre a un (eventuale) eroismo gesuitico, Girardin manifesta, in forma indubbia, una grande originalità. Non è mediocre, non è da tutti, apostrofare i propri contemporanei con un «Siamo mediocri!».
Ci vuole un bel coraggio, quasi una hybris demoniaca, perché la mediocrità, in senso proprio, è un ideale raro e statisticamente implausibile. Quello con cui abbiamo a che fare è una funzione gaussiana: il 50 per cento del genere umano è al di sopra della media, il 50 per cento è inferiore. Valla a trovare la mediocrità. Ciò che impropriamente chiamiamo “mediocrità” non è né la medietà aristotelica, né la medietà statistica, bensì una escursione perversa al di sopra o al di sotto della media. Viceversa, la mediocrità in senso proprio è il risultato di un esercizio ascetico, l’inseguimento del più regolativo tra gli ideali regolativi: la media statistica. Perciò, additare la mediocrità come ideale è instradare l’umanità (e ognuno di noi con lei) a una meta difficile. Esortarla, invece, alla eccezionalità, significa lasciarla dove era già: siamo tutti al di sopra o al di sotto della media.
Si potrebbe proseguire a lungo su questi ragionamenti, ma è meglio fermarsi su una considerazione che l’esperienza prima o poi rende inevitabile. Non c’è imbecille che in qualche momento della sua vita non si sia identificato con Napoleone. Ma ci è voluta tutta l’arte di Tolstoj per capire che il vero eroe è Kutuzov, il cortigiano che temporeggia e lascia che la grande armata sia battuta dal Generale Inverno. Se c’è una caratteristica infallibile di quello che ossimoricamente potremmo definire “il peggior mediocre” (o il “mediocre cattivo”, per distinguerlo, come nel colesterolo, dal “mediocre buono”) è mirare alla eccezionalità. Perché, leggiamo nel dizionario della Treccani, il mediocre si rivela come tale in «attività che per se stesse richiederebbero doti non comuni d’ingegno e d’intelligenza». Ed è lì che casca l’asino. Ecco perché l’esortazione «Siamo mediocri! » (siamolo per davvero, non presumiamo di noi)è un principio di autocoscienza, una norma di prudenza, e forse persino il massimo coraggio che sia dato a un essere ragionevole circondato da aspiranti al Nobel, all’Oscar e al Telegatto.

sabato 15 novembre 2014

Cancellate il Diario di Montale «Non è opera sua»

Montale con Annalisa Cima alla libreria Cavour di Milano per la presentazione delle poesie della scrittrice.
Foto "Corriere della Sera"

Paolo Di Stefano

"Corriere della Sera", 12 novembre 2014

Una pietra tombale o quasi. Il Diario postumo, pubblicato da Mondadori nel 1996 a cura di Rosanna Bettarini, non è di Eugenio Montale. Stiamo parlando della raccolta di 84 poesie che sarebbero state composte tra il 1968 e il 1979 e che Annalisa Cima avrebbe ricevuto da Montale in 11 buste chiuse. Non c’è (quasi) nulla che faccia pensare a testi autografi. È la conclusione che si trae dal convegno tenutosi ieri alla Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, con gli interventi di numerosi studiosi, non solo letterati. E proprio dai non letterati è d’obbligo partire. La perizia grafologica dell’avvocata Susanna Matteuzzi, consulente del Tribunale di Bologna, pur basandosi su materiali fotocopiati non essendo disponibili gli originali (mai messi a disposizione dalla destinataria), lascia pochissimi margini di dubbio: si registra una netta «incompatibilità tra la grafia del Diario postumo e la grafia del Montale coevo». La patologia neurologica (Parkinson?) di cui soffriva il poeta lo costringeva a un andamento grafico che non si riscontra nei fogli del Diario, in particolare la «micrografia» (corpo ridottissimo delle lettere), la disposizione a cono sul margine sinistro e la difficoltà a mantenere il tratto grafico sul rigo di base. Senza dire di altre differenze nel movimento di una ricca serie di lettere. Va da sé che gli accertamenti sugli autografi sarebbero indispensabili, ma Annalisa Cima non ha mai voluto porre rimedio alla lacuna. 
Venendo al versante letterario, Alberto Casadei ha condotto un esame stilistico che rileva una serie di dettagli lessicali presenti nel Diario ed estranei al Montale autentico: differenze minime ma significative nell’uso di numerose parole. E come se non bastasse, anche l’analisi della metrica, realizzata da Luca Zuliani, mostra difformità rilevanti. La ricostruzione puntuale della vicenda nella sua curiosa trasmissione (con le tante contraddizioni consegnate negli anni dalla Cima a interviste e racconti vari) è stata realizzata dal filologo classico Federico Condello in un corposo studio intitolato I filologi e gli angeli (Bononia University Press). Ma ieri lo stesso Condello ha aggiunto una «postilla» che estende la questione ad altre carte detenute dalla Cima: si tratta di un testo pubblicato su «Nuova Antologia» nel 2009 e presentato da Annalisa Cima come un inedito poetico di Aldo Palazzeschi a lei dedicato. Il «presunto autografo», datato 6 giugno 1972, presenterebbe ancora una volta una grafia «non compatibile» con gli autografi noti palazzeschiani ma soprattutto rivela delle curiose somiglianze col presunto Montale del Diario postumo
La Mondadori non poteva chiamarsi fuori da questo caos, e infatti il direttore letterario Antonio Riccardi è intervenuto a dirsi convinto della tesi dell’apocrifia, pur ritenendo che «qualcosa» di autentico potrebbe esserci e ipotizzando che fosse stato lo stesso poeta a ordire la «beffa»: ma ciò, come ha mostrato Condello, si scontrerebbe con altre inconfutabili prove di fatto. Riccardi ha poi letto due lettere di Rosanna Bettarini, risalenti al 1990, in cui la curatrice consigliava di pubblicare la prima plaquette del Diario sotto Natale perché non si notasse troppo l’uscita: segno che neanche lei doveva essere troppo convinta dell’autenticità. Di eventuali «lapilli» montaliani ha parlato anche Maria Antonietta Grignani, che già all’epoca delle prime uscite del Diario aveva espresso i suoi dubbi pur contro le tesi della sua maestra Maria Corti. I «lapilli» potrebbero essere minimi stralci da conversazioni registrate, poi rimontate a suo modo dalla musa. Il che comporta comunque una conseguenza inevitabile: che il Diario postumo venga espunto dal corpus complessivo delle opere di Montale.

domenica 9 novembre 2014

Ciò che sta prima del suono

Arnaldo Benini


"Il Sole 24 Ore - Domenica", 9 novembre 2014

Il silenzio si sente. Mentre tutti gli altri organi di senso trasmettono alla coscienza la presenza di un evento fisico (un odore, la temperatura, un sapore, un colore, ecc.) l'udito trasmette non solo i suoni, cioè le vibrazioni dell'aria, ma anche la loro assenza. Il silenzio non è un'assenza, come l'inattesa mancanza di profumo di un fiore, ma una presenza carica spesso di significati e di emozioni. Presenza di che cosa, se nulla stimola il complesso e sensibilissimo meccanismo uditivo? 
Già diversi anni fa si è visto che l'attività elettrica della corteccia cerebrale uditiva dei lobi temporali cambia, ma non cessa, se la stimolazione proveniente dalle orecchie s'interrompe. Il silenzio è sentito, e non visto, annusato o toccato, perché esso è dovuto a un campo elettrico delle aree della sensibilità acustica, stimolate, sembra, dagli strati superficiali della corteccia della parte dorsale della fessura di Silvio, dalla corteccia parietale e di quella temporale. La stimolazione è costante, per cui, non avendo né timbro né voce, il silenzio, a differenza del suono, non cambia mai. Ancora non chiaro è il movente della stimolazione. La corteccia cerebrale dei lobi parietali e temporali è collegata ampiamente ai centri della memoria e dell'affettività, e quindi della paura, della gioia, della dolcezza, della tranquillità, del desiderio, della speranza, dello sconforto, del rimorso, della rassegnazione, della malinconia, dell'impazienza, degli stati d'animo, cioè, che possono emergere nel silenzio. Il silenzio, diceva Leopardi, «è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell'amore, dell'ira, della maraviglia, del timore» e Robert Musil trovava che nel silenzio «del mare d'estate e dell'alta montagna in autunno v'è una musica più alta d'ogni altra musica terrena». Il silenzio si tinge degli stati d'animo e delle sfumature della vita. La fenomenologia del silenzio è parte stabile e strutturata dei meccanismi della conoscenza, cioè del rapporto col mondo e con la nostra interiorità. 
Di molti aspetti della percezione del silenzio, e non solo del suo ruolo fondamentale nella musica («il silenzio in musica è stato un mistero che mi ha sempre attratto»), il violoncellista di statura internazionale Mario Brunello fa una descrizione di grande acutezza e sensibilità. «La sensazione provata alla fine di ogni esecuzione» scrive «è non rimane altro che il silenzio». In alcuni eventi musicali ciò determina l'emozione della musica in una misura e con una qualità altrimenti inimmaginabili. 
Nel libro ci sono osservazioni acute, sorprendenti e vere. Ad esempio, che in alta montagna il silenzio è verticale, mentre nel deserto è orizzontale. Ciò richiama la differenza fra la profonda e serena percezione del silenzio in chiese paleocristiane, romaniche e gotiche da quella in cattedrali barocche, dove, a volte, il silenzio non si riesce a sentire. Non è sempre facile seguire la guida di Brunello nelle sue esperienze del silenzio, perché la trafila delle emozioni è diversa da persona a persona. La sua elaborata analisi delle emozioni del silenzio è una conferma dei meccanismi cerebrali che l'evoluzione ha selezionato per la loro capacità di contribuire alla coscienza del senso della vita.

lunedì 3 novembre 2014

«Sì all’inglese lingua europea. Allarme rosso per la scuola»

Tullio De Mauro

De Mauro: l’Italia ignora il tema dell’istruzione, specie quella degli adulti
intervista di Paolo Di Stefano

"Corriere della Sera", 3 novembre 2014

Punto primo: l’Europa è, storicamente, un’entità multilingue sia pure con importanti spinte di convergenza. Punto secondo: la questione della lingua in Europa non riguarda solo gli aspetti istituzionali e burocratici, ma è una questione di democrazia, perché è difficile costruire una grande comunità politica democratica se i suoi cittadini non dispongono di una lingua comune. Punto terzo: come tale, la questione linguistica è un problema che riguarda la cultura e che investe la scuola. Punto quarto: gli Stati e l’Ue nel suo insieme se ne disinteressano totalmente. Sono queste, a grandi linee, le tesi che Tullio De Mauro espone nel suo libro, In Europa son già 103, in uscita per Laterza. Sottotitolo: Troppe lingue per una democrazia?. Con i suoi 82 anni portati appassionatamente, in poco più di 80 pagine, coniugando leggerezza e profondità, De Mauro affronta cronologie, mutamenti, contaminazioni, aspetti geopolitici. Senza dimenticare il caso italiano, per molti aspetti esemplare. 
Professore, perché la questione della lingua in Europa è diventata cruciale? 
«Se la prospettiva verso cui vogliamo andare è quella di una federazione di Stati, bisogna che ci sia, come già Aristotele insegnava, un terreno linguistico comune. Non è possibile che uno svedese e un napoletano discutano di politiche finanziarie in lingue diverse. E non è possibile delegare la discussione a un’élite ristretta». 
Il guaio è che il multilinguismo, come lei mostra nel libro, è un tratto distintivo europeo. Come si può conciliare questa storia con l’aspirazione unitaria? 
«Le due cose non si escludono. Ricordo che l’aspirazione all’unità nazionale, statale, intorno all’italiano è stata un filo conduttore della nostra storia. Tanti, compreso qualche linguista, pensavano che l’unità linguistica, raggiunta negli anni Sessanta, avrebbe spazzato via i dialetti, ma non è successo: oggi, dopo cinquant’anni, i dialetti sono ancora vivi. Così, adottando diffusamente una lingua comune in Europa, non è prevedibile che vengano lese le lingue nazionali radicate nella storia e nella cultura». 
Lei si sofferma sulle affinità genetiche tra le lingue indoeuropee, sulla prossimità grammaticale e lessicale. Questo cosa significa? 
«Già il linguista francese Antoine Meillet diceva, a proposito del vocabolario, che a dispetto dei nazionalismi miopi, tra le lingue europee c’è un fondo comune molto superiore alle differenze, che si è creato grazie a una rete fitta di condivisioni. E lo stesso Leopardi nello Zibaldone scrisse che guardando al vocabolario della cultura intellettuale, ci si accorgerebbe che esiste una specie di “piccola lingua” che accomuna, nelle diversità, tutte le lingue europee e che deriva in gran parte dal latino e dal greco. Il vocabolario inglese oggi è composto al 75% di prestiti dal francese o direttamente dal latino. Ci sono consonanze profonde. L’inglese è tutt’altro che vuoto di spessore culturale, e qualcuno l’ha definito una lingua neolatina ad honorem. Anche per questo sostenere che la sua adozione cancelli le identità nazionali è sbagliato». 
Resta il problema della scuola, che in Italia ha già difficoltà a tenere un accettabile livello di formazione nella lingua materna. 
«L’insegnamento della lingua materna resta prioritario. Ma il dato più preoccupante riguarda la popolazione adulta. Anche in Germania o nei Paesi del Nord (e persino negli Stati Uniti) più della metà della popolazione ha gravi difficoltà nel leggere e capire un testo semplice o nell’adoperare banali strumenti di calcolo. In Giappone e in Finlandia si arriva al 38%, in Italia si supera il 70. Direi che è un dato costante l’alto tasso di problemi nell’uso completo delle lingue materne: appena uscite dalla scuola, le persone finiscono per perdere ogni capacità». 
Dal documento del governo sulla «Buona Scuola» si intravedono segnali in questo senso? 
«Semplicemente la “Buona Scuola” ignora il problema linguistico e non fa alcun cenno alla dimensione dell’istruzione degli adulti, che è cruciale per la vita produttiva e per la vita sociale, perché ricade necessariamente sui figli. Una cosa è sicura: il livello di cultura sostanziale in famiglia è determinante sull’andamento scolastico dei ragazzi. Di istruzione degli adulti parlava la legge Berlinguer del 1999, ma da allora è rimasto tutto sulla carta». 
La detrazione fiscale sui libri potrebbe servire? 
«Se ne parla da anni, i tecnici temono che diventi una fonte di microevasione, ma sarebbe certamente utile, anche se ormai una pizza costa più di un Meridiano». 
Al di là della questione lingua, la «Buona Scuola» come le sembra? 
«Lasciamo stare la sovrabbondanza di anglicismi persino ridicoli tipo “gamification”… In sé è un documento accattivante, c’è un’atmosfera scherzosa, nello stile di Renzi, piacevole, con contenuti bizzarri. Io non voglio buttarla sul tragico, ma i problemi della scuola purtroppo lo sono: le strutture edilizie, le lacune del personale tecnico, il rapporto con il mondo del lavoro, le prospettive didattiche… Bisognerebbe rimettere mano all’impianto della scuola media superiore, formare gli insegnanti, che hanno ancora una visione disciplinarista e che invece dovrebbero collaborare tra di loro in funzione di una prospettiva trasversale, sul saper ragionare, argomentare, parlare… La “Buona Scuola” tace su questi argomenti, ma in compenso ne parla la finanziaria, che continua a tagliare sulla scuola, per non dire dell’università che è prossima a defungere». 
Cosa pensa del Clil, cioè quel metodo che prevede l’insegnamento di una disciplina in lingua straniera? 
«Va usato con parsimonia. È già difficile avere dei buoni insegnanti di storia, figurarsi averne pure che parlino bene inglese. Diciamo che è un metodo auspicabile per alcuni insegnamenti universitari, ma per gli altri livelli mi pare poco realizzabile». 
La «Buona Scuola» vorrebbe estendere il Clil alle elementari. 
«La riforma Gelmini prevedeva corsi di formazione inglese, per insegnanti, di 30 ore faccia a faccia e 20 ore via internet: ma con 50 ore complessive non si arriva neanche all’Abc. Le primarie sono le scuole in cui si lavora meglio, in cui le discipline sono strumentali alla maturazione complessiva del bambino. Nei test internazionali i nostri si collocano al vertice: toccare le elementari sarebbe un delitto, perché i guai cominciano dopo. Le analisi Invalsi mostrano che tra i ragazzi usciti dalla media di base e i maturandi lo scarto di competenze è minimo».
L’iniziativa del Politecnico di Milano di adottare solo l’inglese per gli insegnamenti di master la convince? 
«No, neanche nei master si può rinunciare alla lingua materna. Nel mondo ci sono masse di studenti che si spostano, sono i nuovi clerici vagantes: ma è difficile pensare che dei giovani trovino suggestive le università italiane perché offrono corsi in inglese. Quel che conta sono altri fattori: la qualità scientifica e le condizioni dell’accoglienza, ma questi aspetti vengono ignorati». 
Tornando alla Babele europea, lei accenna al modello indiano e a quello del plurilinguismo svizzero. 
«Lo ripeto: sono contro l’immagine catastrofista secondo cui l’inglese diffuso come lingua standard metterebbe a rischio le lingue nazionali. In India, nonostante le diversità etniche e religiose, l’inglese è diventato negli ultimi 60 anni una lingua secondaria affiancata al sanscrito come lingua nazionale: questo però non ha comportato la morte delle parlate locali, l’urdu e l’hindi. In Parlamento si parla in inglese, nei comizi in una delle 45 lingue locali. L’esempio indiano è interessante per l’Europa». 

Il rischio è perdere il patrimonio del latino
di P.D.S.

Anche le nuove ondate migratorie contribuiscono a cambiare le 103 varietà linguistiche presenti in Europa: gli arabofoni in Francia, i turchi in Germania, i romeni in Italia, i cinesi a Londra, a Manchester, a Parigi, a Berlino, a Prato... Il panorama linguistico europeo presenta una fisionomia eccezionale: i circa 740 milioni di persone dei 50 Stati dall’Atlantico agli Urali usano 62 lingue ufficiali. Di queste, 50 hanno lo status di lingue nazionali ufficiali, altre sono lingue di minoranza. Ricorda De Mauro che, al di là delle differenze, c’è un patrimonio comune che va valorizzato: «Mentre in India c’è una ripresa molto forte dello studio del sanscrito, mentre nelle zone arabofone resta importantissimo lo studio dell’arabo classico e in Israele c’è un rilancio dell’ebraico biblico, nei Paesi europei si tende a trascurare la tradizione latina. È un’autentica sciocchezza, perché la conoscenza del latino classico resta indispensabile per tutti, anche per gli anglofoni». In quella che De Mauro definisce l’«innovatività permanente» di ogni realtà linguistica, intervengono oggi, come si sa, i linguaggi tecnologici. A questo proposito, dal 6 all’8 novembre si terrà a Firenze, organizzato dall’Accademia della Crusca, la VII edizione della Piazza delle Lingue su «L’italiano elettronico». Per informazioni sul convegno www.accademiadellacrusca.it. (p.d.s.)

domenica 2 novembre 2014

Berlino. 1989-2014


Berlino. La caduta del muro che cambiò le vite degli altri
La scrittrice Schadlich: “Non sapevamo fare la spesa, c’era troppa scelta”

Carlo Antonio Biscotto

"Il Fatto",  2 novembre 2014

C’era una tale quantità di prodotti e di marche nei supermercati che era impossibile fare la spesa. Ricordo che accompagnai mia madre subito dopo aver sentito alla televisione la notizia”, rievoca oggi la scrittrice Susanne Schadlich che ha trascorso l’infanzia nella Germania comunista, l’adolescenza in quella capitalista e ha finito per non sentirsi a casa propria né nell’una né nell’altra. Poco tempo prima suo padre, lo scrittore Hans Joachim Schadlich, era caduto in disgrazia per aver difeso pubblicamente il cantautore Wold Biermann che aveva osato criticare il regime e tutta la famiglia era finita nel mirino della polizia politica.
Sembrano giorni lontanissimi. Il 9 novembre i tedeschi festeggeranno il 25° anniversario della caduta del Muro di Berlino che consentì la riunificazione del Paese e determinò la fine di un regime che per moltissimi cittadini era diventato un incubo. Alcune cicatrici non si sono ancora rimarginate, ma le differenze tra Est e Ovest si sentono sempre di meno, specialmente tra i giovani. Lo conferma il responsabile dell’archivio della Stasi, la temuta polizia segreta della DDR: “Quando parlo con i giovani non fanno mai riferimento alla ex DDR o alla Germania dell’ovest; mi dicono semplicemente che sono tedeschi e in quale quartiere di Berlino abitano”.
QUALCUNO RICORDA i 100 marchi che il governo di Bonn dava come regalo di benvenuto ai cittadini della Germania orientale. “Lo ricordo benissimo quel giorno. Andai con mio padre a vedere cosa stava succedendo. Avevo appena otto anni e mi colpì vedere gente che si abbracciava e che cantava. Non che capissi, ma mi rendevo conto confusamente che stava accadendo qualcosa di eccezionale”, ricorda Katharina Marggraff, giovane pediatra di Berlino ovest che ha trascorso l’infanzia in un’isola occidentale circondata dal cosiddetto “socialismo reale”. Da piccola le sembrava normale vivere in una enclave, in una sorta di città-isola, oggi ha un atteggiamento diverso: “Non vedo significative differenze tra noi cresciuti a ovest e i tedeschi cresciuti a est. Ci divideva un muro, niente altro”.
Comunque sia, trionfalismi a parte, di differenze ce ne sono ancora e le promesse del Cancelliere Kohl ai cittadini della DDR nel corso della campagna elettorale del 1990 sono state mantenute solo in parte. Malgrado i progressi nell’ex DDR, permane una differenza del 6% circa in termini di PIL tra i cinque Land orientali e il resto del Paese. Inoltre i territori orientali hanno perduto il 20% circa della popolazione trasferitasi a ovest in cerca di migliori opportunità di lavoro. “È vero che non siamo ancora arrivati alla totale uguaglianza, ma non si sono nemmeno avverate le previsioni pessimistiche secondo cui l’ex Germania dell’Est sarebbe diventata una regione cronicamente sottosviluppata”, dice lo storico Heinrich August Winkler. Due nomi sono stati l’esempio emblematico della riconciliazione: quello della cancelliera Angela Merkel e quello del presidente Joachim Gauck, entrambi nati e cresciuti nella DDR.
È molto difficile incontrare un tedesco dell’Est che non ricordi con immenso piacere la caduta del Muro e la riunificazione delle due Germanie. Secondo una indagine condotta recentemente da Focus, il 75% degli abitanti dell’ex DDR si dichiarano soddisfatti del processo di riunificazione e della loro attuale condizione. Tra i giovani la percentuale supera il 96%. Ovviamente meno entusiasti del processo di riunificazione sono gli occidentali e infatti solo il 50% di loro considera un “buon affare” per la Germania la riunificazione del Paese. “Siamo una democrazia compiuta, ma il passato non ci consente di sentirci del tutto “normali”. Pesa ancora sulla Germania la maledizione di Auschwitz, un crimine con il quale dovremo sempre convivere”, sottolinea lo storico Winkler che proprio in questi giorni sta per dare alle stampe il terzo volume della sua monumentale storia dell’Occidente: Dalla guerra fredda alla caduta del Muro.
“ABBIAMO GUADAGNATO molte cose, ma abbiamo perso quel sentimento di solidarietà che provavamo nella DDR”, assicura Peter Steglich, ex ambasciatore trovatosi disoccupato alla caduta del Muro. Sua moglie, Mercedes Alvarez, spagnola, la prende con senso dell’umorismo: “Tempo fa mio marito parlando con un amico che aveva fatto il suo stesso lavoro per la Germania occidentale, gli disse quanto guadagnava. Alla settimana? rispose quello quando sentì la cifra. No, al mese. E scoppiarono a ridere”. Ovviamente non mancano i nostalgici. “Avevamo una sensazione di sicurezza. Non vivevi con la continua paura di perdere il lavoro, di finire in mezzo alla strada, di non poterti guadagnare da vivere. Ricordo la faccia di mio figlio quando per la prima volta vide un barbone a Berlino ovest. Non riusciva a capire per quale ragione in pieno inverno dormisse su una panchina”, dice Dagmar Enkelmann eletta deputata per il PDS alle prime elezioni del dopo-comunismo. “Nella DDR c’erano problemi di alcolismo, ma non sapevamo cosa fosse la droga”. La scrittrice Susanne Schadlich si ribella: “Argomenti risibili. I nostalgici in realtà rimpiangono la loro giovinezza. È ovvio che anche io ho dei buoni ricordi. Ma le cose positive esistevano malgrado il regime, non grazie al regime”.
Manfred Roseneit, uno degli ultimi ad abbandonare la DDR prima della costruzione del Muro, batte sul tasto della situazione economica: “Volevo semplicemente un lavoro migliore e meglio pagato e sono passato all’Ovest. Purtroppo per tanti anni non ho potuto vedere mia madre e mia sorella”. Anche la vita di Eric Pawlitzky cambiò completamente in quel fatale giorno di novembre del 1989. Aveva militato nel Partito socialista unificato, che però aveva abbandonato essendosi convinto che non era possibile cambiare il regime dall’interno.
Dopo la caduta del Muro ebbe la possibilità di leggere il dossier redatto su di lui dalla Stasi. Lo si descriveva come “nemico dello Stato socialista e diffamatore”. “È la prima volta che gli archivi dei servizi segreti vengono messi a disposizione dei cittadini comuni”, dice Eric. “Hanno potuto leggerli due milioni di tedeschi orientali e in questo modo i crimini del regime sono diventati di dominio pubblico”.


Diario del 9 novembre 1989
Quei giorni al centro dell’universo la libertà era una maglietta dei Clash

Francesco Ridolfi

Quel contrasto tra i cittadini di Berlino Est me lo porterò nel cuore per tutta la vita: chi era cresciuto in una città senza muro guardava il foro in quella barriera dell’anima, scrutava la parte ovest, con gli occhi bagnati di gioia; chi invece era nato nella parte sovietica e ora si affacciava nell’occidente - che aveva visto solo gettando gli occhi al di là della barriera - aveva lo stupore di chi scende su un altro pianeta. Una cosa però era comune a tutti: quella gioia immensa che è la libertà. Avevo appena finito il servizio militare e con due amici ci imbarcammo in auto nel viaggio verso il luogo che sapevamo essere il centro dell’universo. Era da poco passato il 9 novembre, ancora non era stata fatta l’unificazione politica. Ma quella che la propaganda chiamava antifaschistischer schutzwall (barriera di protezione antifascista) era stata forata per sempre. Per arrivare a Berlino bisognava percorrere un centinaio di chilometri di una autostrada fatta a lastroni e con le torrette per le sentinelle, che spaccava la Ddr in due. Nessuna pompa di benzina lungo il tragitto. In quei giorni non si vedeva una macchina. Ci fermammo in qualche cittadina, dormendo in tenda per i campi. Alberghi neanche a parlarne. Gli abitanti della provincia non avevano mai visto un turista. Ti scrutavano, si radunavano attorno all’auto. Difficile comunicare. E nei bagni non c’era la carta igienica, ma i giornali di partito. Ogni tanto capitava anche una pattuglia della polizia della Ddr che ti seguiva e spiava da lontano, con una certa nostalgia. A Lipsia, per dire, città che con la “manifestazione del lunedì” del 9 ottobre 1989 diede uno scossone agli equilibri dell’epoca, c’era un improbabile ufficio turismo. Una stanza con un sonnolento impiegato che parlava solo il dialetto locale.
ENTRARE A BERLINO era come fare un tuffo nella vita. La gente si muoveva attorno al muro elettrizzata dall’euforia. Di varchi aperti ce n’erano pochi e per passare da una parte all’altra della città bisognava fare lunghe file in auto: da un lato quelle occidentali, dall’altra le squadrate Trabant, rigorosamente uguali. E colpiva il contrasto tra i vestiti colorati degli occidentali e il grigiore uniforme degli abitanti dell’est, quello tra i neon e le piatte insegne dei negozi della parte russa. Contrasti che si univano in abbracci spontanei e nello scambio di oggetti (molti ragazzi dell’est ti chiedevano le magliette dei Clash o dei Joy Division). Un contrasto ben rappresentato dall’installazione tridimensionale che si trova a Checkpoint Charlie, il posto di blocco del settore a controllo americano, oggi divenuto luogo della memoria.
In quei giorni il muro attraeva come una calamita. Gli artisti accorsi da ogni parte del mondo (molti dell’accademia di Berlino) stavano dipingendo quel chilometro di muro che diverrà un museo a cielo aperto, la East Side Gallery. Pitture come il bacio tra il segretario del Pcus, Leonid Brenev e l’ex leader della Ddr Erich Honecker. Oppure quello che rappresenta la Trabant che squarcia il muro. Intorno a quei 155 km di barriera si accalcavano i mauerspechte (in tedesco significa letteralmente “picchi del muro”), ossia persone che staccavano pezzi di muro da tenere come souvenir. Ho continuato a tornare a Berlino regolarmente, l’ho vista fiorire e trasformarsi nella New York d’Europa. Una città viva e frizzante, tollerante e colta. Una città che ha dato una lezione al mondo.


La ragazza dell’Est che sognava le ostriche
La parabola di Angela Merkel, simboilo dell’unificazione
Dall’Università Karl Marx di Lipsia al ruolo di primo piano nel governo Kohl
Per il cancelliere era “La mia bambina”

Mattia Eccheli

Berlino Una birra dopo la sauna. Niente di strano, lo fanno in molti, i finlandesi anche durante. Ma era la notte del 9 novembre e la città era Berlino, sul versante occidentale dove i primi tedeschi della ormai ex DDR si stavano riversando dopo aver superato il muro. Fra loro c’era Angela Merkel, la prima donna cancelliera, che lo scorso luglio ha festeggiato il sessantesimo compleanno. E che fra qualche giorno celebrerà anche i 25 anni di quella simbolica caduta. Che ha cambiato la storia del mondo, non solo la sua. “Era una birra in lattina”, ricorderà Merkel. E poiché era giovedì - “e il giovedì andavo sempre a fare la sauna” - la futura cancelliera aveva mantenuto l’appuntamento con una amica. Mentre il paese implodeva. Con la madre scherzava: “Se mai il muro non ci dovesse più essere – diceva – andiamo a mangiare le ostriche al Kempinski”. Un quarto di secolo più tardi, le due donne ancora non hanno onorato l’impegno.
L’UNIFICAZIONE è costata almeno 2000 miliardi di euro. Il che spiega come mai il 75% dei tedeschi dell’Est la giudichi positivamente (solo il 48% all’Ovest), anche se lo sviluppo economico è ancora un terzo sotto il livello della parte occidentale del paese e il salario medio lordo è di 3.094 euro da una parte e 2.317 dall’altra. Le differenze non finiscono qui.
Nata ad Amburgo, nella Germania Federale, Angela Dorothea – un destino nel secondo nome, lo stesso della storica corrente moderate della DC italiana – è cresciuta nella Germania Democratica. Dove, insinuano anche gli autori del libro Das erste Leben von Angel Merkel (La prima vita di Angela Merkel), godeva di ottime entrature negli ambienti politici, tanto da poter studiare all’università Karl Marx di Lipsia, una facoltà d’élite; faceva anche parte dell’organizzazione Freie Deutsche Jugend, il movimento della Libera gioventù tedesca del partito socialista della DDR occupandosi, secondo alcune fonti, della propaganda. L’adesione era volontaria.
L’EX GERMANIA dell’Est che si “riscatta” ha il suo volto, proprio quello della Merkel, anche se la cancelliera sorride raramente. E sempre con contegno. Conduce un’esistenza ritirata, confessa ancora di sentirsi “brandeburghese” e parla perfettamente il russo. La caduta del muro ha sancito la fine improvvisa di promettenti carriere. Non è stato il suo caso: Merkel fu protagonista di Risveglio Democratico (Demokratische Aufbruch), il partito nato in quel periodo nella ex DDR, finendo quasi subito a lavorare per il numero uno, Wolfgang Schnur, un avvocato “bruciato” di lì a poco quando emerse che per 24 anni era stato collaboratore del Ministero per la sicurezza. La giovane fisica non risente dello scandalo e pochi mesi dopo diventa la portavoce del nuovo presidente del consiglio dei ministri transitorio della DDR, Lothar de Maizière, cugino di Thomas, attuale fidato ministro degli interni e in precedenza alla difesa del gabinetto Merkel. Non due dicasteri qualsiasi.
Poi l’incontro con Helmut Kohl, il padre della riunificazione – recentemente apparso alla Fiera del libro di Francoforte in una affollatissima conferenza stampa per la riedizione di un suo libro, accompagnato dalle polemiche con il suo “biografo” - e la definitiva consacrazione nel firmamento della politica: nel 1991 è già ministro. Per l’allora imponente cancelliere – incarico svolto per 5 volte per un totale di 16 anni – lei era “mein Mädchen”, la “mia bambina”. Che ha sostenuto e incoraggiato.
Chi l’ha sottovalutata, è stato Gerhard Schroeder, cancelliere socialdemocratico al quale Merkel è succeduta: “Gliel’ho detto che prima o poi lo metterò all’angolo come lui ha fatto con me. Ho solo bisogno di tempo, ma quel giorno arriverà”.
Figlia della Germania “povera”, Angela Merkel guida ora quella “ricca”, che tira le redini dell’economia e della finanza europea. È la versione tedesca del “sogno americano”, anche se lei non era proprio “figlia di nessuno”.
Il padre, Horst Kasner, era un teologo della chiesa evangelica, destinato in missione oltre cortina, a Quitzow, assieme alla moglie, un’insegnante di inglese.

Hegel e lo spirito del (nostro) tempo


Il filosofo Remo Bodei interroga le radici profonde del pensiero del grande tedesco. 
E spiega come ha agito. La «civetta» non basta più

Remo Bodei

"Il Sole 24 Ore - Domenica", 2 novembre 2014

Per comprendere il pensiero di Hegel nel suo sviluppo sistematico sono partito dalla forza di suggestione ancor oggi esercitata da alcune metafore e dalla cascata di luoghi comuni, pregiudizi ed errori che sono derivati dalla loro interpretazione. Mi sono soffermato, in particolare, sulla più famosa, quella della «civetta di Minerva», intesa come emblema della filosofia al suo crepuscolo, quando il processo di formazione della realtà appare ormai concluso. La civetta ha, tuttavia, un antagonista-collaboratore nella «talpa», che testimonia come la storia non finisca con il tramonto di un'epoca e come la filosofia non concluda affatto il suo cammino. L'immagine dominante di un sistema chiuso o di un atteggiamento politico sostanzialmente rinunciatario nello Hegel della maturità, poggia, appunto, anche sul fascino di queste fortunate metafore. Ma quale è il rapporto fra la "civetta" della filosofia, che interpreta in maniera vigile e cosciente le modificazioni prodotte dall'epoca, e la "talpa" dello "spirito", che trasforma inconsciamente l'epoca stessa mediante un lavorio cieco ma rivolto a un fine sconosciuto ai contemporanei? Fra la filosofia, che sembra vedere e non fare, e il movimento storico, che sembra fare e non vedere? 
Hegel sarebbe stato davvero un folle se avesse creduto di essere l'ultimo filosofo o che si fosse di fronte alla «fine della storia». Riteneva, invece, di essere un ordinatore sistematico di concetti ed esperienze, un filosofo che non inventa niente, ma che è chiamato a dare forma intelligibile a un'intera fase storica ormai al tramonto, agli anni «più ricchi che la storia universale abbia avuto». In questo senso si paragonava implicitamente ad Aristotele, che presentò la sua summa alla fine dell'Atene classica. A sua volta, la storia del mondo per lui ovviamente continuerà, ma – soprattutto quella europea – dovrà superare una fase critica i cui esiti imprevedibili sono provocati dal sotterraneo scavare della "talpa".
Lo mostrano con abbondanza di documentazione i corsi di Heidelberg e di Berlino che continuano a essere pubblicati da alcuni decenni. In essi si descrive, ad esempio, la mutata funzione dello Stato e della società civile in un periodo storico in cui i processi di globalizzazione non avevano ancora raggiunto le proporzioni attuali, ma in cui le crisi economiche avevano già mostrato un altro volto nei loro contraccolpi sulla precarizzazione dell'esistenza di individui e popoli. Interessato fin dalla gioventù all'economia politica, lettore di giornali e riviste inglesi, scozzesi e francesi, legato alle discussioni sui sansimoniani, egli analizza le idee di lavoro, disoccupazione e miseria in una civiltà dominata dalle macchine e dal Kapital, un «animale selvaggio» che si sottrae a qualsiasi tentativo di addomesticamento. Osserva come la ricchezza si concentri sempre più in poche mani, con la conseguente creazione di una enorme massa di «lavoratori disoccupati», di esseri umani sospinti nella miseria più spaventosa e umiliante che li abbrutisce e alla quale si cerca inutilmente di porre rimedio con dei "palliativi", come l'emigrazione nelle colonie. Giunge a dire che tale estrema miseria rende lecito a chi la subisce anche il furto per la propria sopravvivenza: «tale azione è illegale, ma sarebbe ingiusto considerarla come un furto comune. Sì, l'uomo ha diritto a tale azione illegale». Il tramonto di un'epoca è per lui sostanzialmente legato all'insolubilità di conflitti come questi. 
Ho posto inoltre una serie di domande cruciali e ineludibili, a partire dalla definizione hegeliana della filosofia come «il proprio tempo appreso col pensiero»: Cosa significa pensare il proprio tempo? Come si configura la concretezza del presente attraverso la sua trascrizione in concetti, mediati da una approfondita conoscenza dell'analisi infinitesimale e delle scienze naturali (fisiologia, zoologia, chimica, geologia), frutto del serrato confronto con gli scienziati del tempo, da Lagrange a Bichat, da Lamarck a Cuvier o da Wener a Hutton? Qual è il senso dell'isomorfismo fra la struttura sistematica della sua filosofia e il campo dei mutamenti storici? Perché, in polemica con i romantici, Hegel disprezza il mondo della natura a favore di un patriottismo dell'umanità e della civiltà, fino al punto da definire il cielo stellato una «eruzione cutanea luminosa» e «il pensiero criminale di un malfattore è più grandioso e sublime delle meraviglie del cielo»? Perché il sistema pretende ora di essere la forma suprema della filosofia come scienza rigorosa?
Se Hegel si fosse limitato ad attribuire alla filosofia la natura di filia temporis, o se anche (per citare Ruge e Marx) avesse osato «metterne in piazza il segreto» e farla retrocedere da messo celeste a Zeitungskorrespondent, a inviato speciale di un'epoca, in fondo non avrebbe compiuto alcuna mossa teorica particolarmente scandalosa. Perfino un filosofo relativamente modesto come Karl Leonhard Reinhold aveva scritto nel 1801 un'opera intitolata Lo spirito dell'epoca come spirito della filosofia. Fichte, poi, era giunto nei Tratti fondamentali dell'epoca presente a caratterizzare la propria età come un fronte che avanza dall'oscuro dominio dell'«istinto della ragione» al trasparente autogoverno della «scienza della ragione», come un momento storico «in cui si scontrano e si combattono mondi fra loro assolutamente ostili» e in cui, nel medesimo «tempo cronologico», possono «incrociarsi e scorrere l'una accanto all'altra, in diversi individui, epoche differenti»; soltanto il «tempo del concetto» era per lui in grado di correlare e di esprimere questi dislivelli nella storia dei singoli e dei popoli.
Nessuno, prima di Hegel, aveva, tuttavia, osato tradurre integralmente e consapevolmente lo svolgimento del proprio tempo sul piano di un organico sviluppo di forme del pensiero, di un sistema che avesse l'ardire di raffigurare, nel «semplice fuoco» del concetto, l'immagine virtuale dell'epoca. Nessuno aveva dato tanta importanza alla storia e costruito una «rete adamantina» di categorie volta a rappresentare l'orizzonte massimo di intellegibilità di un'epoca che pretende di includere in sé, telescopicamente, i principi delle epoche antecedenti; nessuno, tranne – a suo modo – Montaigne, aveva svuotato il preconcetto che attribuiva alla «natura umana» un'essenza metastorica, mostrando come «la natura vivente è eternamente altro che il suo concetto, per cui quello che per il concetto era semplice modificazione, pura accidentalità, qualcosa di superfluo, diviene necessario, vivente, forse ciò che unicamente è naturale e bello». In un appunto che aveva preparato poco prima di morire per l'introduzione al corso di filosofia del diritto del 1831-1832, al posto tenuto dalla civetta nella Prefazione del 1820, compare ora la «talpa», quasi a significare che l'avvenire è segnato dalle oscure forze dell'istinto e che l'unica cosa che gli occhi della civetta sembrano ora cogliere è proprio l'incertezza del futuro. Il mondo ha di nuovo accelerato il suo movimento inconscio, costringendo la filosofia a portare i propri "lumi" in un crepuscolo su cui incombe lo «spirito nascosto, che batte alle porte del presente». Il lavoro di decifrazione della realtà effettuale attraverso il pensiero non può, dunque, giungere a compimento.

Ogni coscienza ingenua, del pari che la filosofia, riposa in questa persuasione; e di qui appunto procede alla considerazione dell'universo spirituale, in quanto universo naturale. Se la riflessione, il sentimento o, qualsiasi aspetto assuma, la coscienza soggettiva riguarda il presente come cosa vana, lo oltrepassa e conosce di meglio, essa allora si ritrova nel vuoto; e, poiché soltanto nel presente v'è realtà, essa è soltanto vanità. Se, viceversa, l'idea passa per essere soltanto un'idea, una rappresentazione in un'opinione, la filosofia al contrario garantisce il giudizio che nulla è reale se non l'idea. Si tratta allora di riconoscere, nell'apparenza del temporaneo, e del transitorio, la sostanza che è immanente e l'eterno che è attuale. Invero, il razionale, il quale è sinonimo di idea, realizzandosi nell'esistenza esterna, si presenta in un'infinita ricchezza di forme, fenomeni e aspetti; e circonda il suo nucleo della spoglia variegata, alla quale la coscienza si sofferma dapprima e che il concetto trapassa, per trovare il polso interno e per sentirlo appunto ancora palpitante nelle forme esterne. Ma i rapporti infinitamente vari, che si formano in questa esteriorità con l'apparire dell'essenza in essa, questo materiale infinito e la sua disciplina, non è oggetto della filosofia [...].
Cosí, dunque, questo trattato, in quanto contiene la scienza dello Stato, dev'essere null'altro, se non il tentativo d'intendere e presentare lo Stato come cosa razionale in sé. In quanto scritto filosofico, esso deve restar molto lontano dal dover costruire uno Stato come dev'essere; l'ammaestramento che può trovarsi in esso non può giungere a insegnare allo Stato come deve essere, ma, piuttosto, in qual modo esso deve esser riconosciuto come universo etico.
Del resto, per quel che si riferisce all'individuo, ciascuno è, senz'altro, figlio del suo tempo; e anche la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero [...].
Questo, anche, costituisce il significato concreto di quel che sopra è stato designato astrattamente come unità di forma e di contenuto; poiché la forma, nella sua piú concreta significazione, è la ragione, quale conoscenza che intende, e il contenuto è la ragione, quale essenza sostanziale della realtà etica, come della realtà naturale; l'identità cosciente delle due è l'idea filosofica. È una grande ostinatezza (ostinatezza che fa onore all'uomo) non voler riconoscere nei sentimenti nulla che non sia giustificato col pensiero: e questa ostinatezza è la caratteristica dei tempi moderni, oltre che il principio proprio del Protestantesimo. Ciò che Lutero iniziò come credenza nel sentimento e nella testimonianza dello spirito, è la cosa stessa che lo spirito, ulteriormente maturato, s'è sforzato di comprendere nel concetto, e cosí di emanciparsi nel presente e quindi di ritrovarsi in esso. Come è divenuto detto celebre quello che una mezza filosofia allontana da Dio - la medesima superficialità ripone la conoscenza in un'approssimazione alla verità è ma che la vera filosofia conduce a Dio; cosí è lo stesso con lo Stato [...].
Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev'essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell'e fatta. Questo, che il concetto insegna, la storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima l'ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, còlto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo.
G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1965, pagg. 14-17

Tradurre gli scrittori italiani


Primo Levi l’Americano

Mentre negli Stati Uniti è attesa la traduzione delle sue opere complete, 
oggi a Torino l’annuale Lezione dedicata allo scrittore 
affronta la difficoltà di volgerlo in un’altra lingua

Ernesto Ferrero

"La Stampa",   30 ottobre 2014

«In un’altra lingua», la sesta «Lezione Primo Levi» che Ann Goldstein e Domenico Scarpa tengono oggi a Torino, coincide con l’annuncio di un doppio evento di speciale rilievo nella storia della ricezione delle opere di Primo Levi. Nell’autunno 2015 è attesa negli Stati Uniti la traduzione inglese delle Opere complete in tre volumi, presso la Norton Liveright. È la prima volta, non solo in America, che un’impresa del genere viene dedicata a un autore italiano, non a caso tra i più letti e tradotti, e in continua ascesa nella considerazione critica. La Goldstein, che firma la curatela complessiva, oltreché le versioni di singoli testi, è l’esperta traduttrice dell’impervio Petrolio di Pasolini, di Bilenchi, Calasso e da ultimo della Ferrante, e fa parte dell’eroico team che ha volto in inglese nientemeno che lo Zibaldone di Leopardi. Negli stessi mesi del 2015 esce presso Einaudi anche una nuova edizione delle Opere, ormai la terza in ordine di tempo, a cura di Marco Belpoliti, con un numero consistente di pagine disperse, non ancora riunite in volume.
Calvino diceva che scrivere è nascondere qualcosa affinché poi venga scoperto. Se Levi, maestro di understatement, nasconde, è per una sorta di pudore espressivo, per non esibire la ricchezza e complessità dei temi e dei riferimenti su cui lavora con la precisione di un orologiaio. Sotto la superficie di un dettato di cristallo, continuiamo a scoprire giacimenti che sollecitano indagini sempre più approfondite, di cui le «Lezioni» torinesi (che poi diventano altrettanti volumetti Einaudi, con traduzione inglese a fronte) hanno sin qui offerto delle campionature di grande valore.
La storia aggrovigliata della traduzione dei libri di Levi ha proprio negli Stati Uniti uno degli snodi essenziali. Le edizioni inglese e americana di Se questo è un uomo erano uscite nel 1959, un anno dopo la nuova edizione Einaudi, passando pressoché inosservate. Il titolo era stato banalizzato in Survival in Auschwitz, come se si fosse trattato di una sorta di «action movie» a lieto fine. Era un fraintendimento piuttosto vistoso anche il titolo americano di La tregua, diventato The Reawakening, «Il risveglio», che contraddice il timbro inquietante dell’originale: se guerra è sempre, la fine delle ostilità rappresenta solo un momento di requie. Invano Levi aveva proposto all’editore un diverso titolo, desunto da un verso dell’amato Coleridge: Sopra un oceano dipinto, dove l’oceano era quello della bizzarra navigazione del ritorno a casa.
Bisogna aspettare il 1984 perché con Il sistema periodico l’America si accorga che Levi è un grande scrittore, non solo l’insuperabile analista della Shoah. Saul Bellow ne parla come di un libro «necessario», dove tutto è essenziale e nulla superfluo, in cui si è immerso con «piacere e gratitudine». L’autorevole giudizio, corroborato da una serie di recensioni molto favorevoli, propizia una messe di nuove traduzioni. L’anno dopo esce la traduzione di Se non ora, quando? con un’introduzione di uno storico come Irving Howe; segue un viaggio promozionale (Boston, New York, Los Angeles), con incontri e conferenze in sedi universitarie. Nell’autunno 1986 Philip Roth viene a Torino per rendere omaggio allo scrittore che ha scoperto grazie a Claire Bloom, allora sua moglie. Una sua lunga intervista, sottesa da un’ammirazione affettuosa, esce sulla New York Review of Books e viene ripresa dalla Stampa. Roth vuol sapere tutto del nuovo amico, visita la fabbrica di vernici a Settimo e la casa di corso Re Umberto: «Bisogna saper restare ancorati alle radici come hai fatto tu: lavoro, città, famiglia», gli dice. A cena con lui al Cambio conversa allegramente, vuole farlo sorridere con le sue imitazioni del vecchio Singer. È l’ultima grande soddisfazione della vita di Primo.
Levi tradotto, Levi traduttore. È facile pensare subito alle pagine memorabili in cui ad Auschwitz si sforza di tradurre Dante per l’amico Jean Samuel detto Pikolo. La sua competenza linguistica è sistemica (padroneggia bene francese, inglese e tedesco, traduce Heine, Kafka, Lévi-Strauss), va ben oltre la pura sensibilità o il gusto delle etimologie: è nutrita di memoria storica, comporta un continuo raffronto tra sistemi differenti, si spinge sino a inventare codici con cui comunicare con il mondo animale. Osserva Domenico Scarpa, che contribuisce da par suo all’edizione Norton per la parte storico-critica: «Così come il linguaggio cambia peso e valore con la Rivoluzione industriale (civiltà di massa, metropoli, grandi numeri), allo stesso modo torna a cambiare dopo la comparsa di Auschwitz. Che è la morte moltiplicata dall’industria. Levi è il testimone più consapevole (e professionalmente ferrato) di questa natura industriale del Lager, e della necessità di farvi aderire un linguaggio. Scopre una nuova forma della modernità, che è difficile ma non impossibile convertire in espressione: sono queste le sue affinità con Baudelaire. Non inventa i fatti, costruisce la resa letteraria dei fatti, ma anche la loro resa acustica. Quando ribattezza Pikolo, con la kappa, Jean Samuel, vuole trasformare una gentile voce italiana in una consonante dura, violentemente intrusiva, per restituirci la barbarie anche fonetica di Auschwitz».
Così come è riuscito a riprodurre, reinventandolo, il «suono» barbaro del Lager, il Levi trasmutatore di linguaggi ha saputo consegnare alla grande letteratura l’italo-piemontese degli artigiani-artisti, i virtuosi della manualità come Tino Faussone; l’ebraico-piemontese dei suoi avi miti e tabaccosi, lo yiddish delle bande partigiane partite dal cuore della Russia per arrivare in Italia. Non c’è suono o parola che sfugga alla sua creatività di demiurgo anche verbale. Se ogni traduzione è un arricchimento per entrambe le parti, presto sapremo quanto - grazie ad Ann Goldstein e ai suoi sodali - l’inglese si sia arricchito del magistero anche linguistico di Primo Levi.


Intervista ad Ann Goldstein, 
da vent’anni la più importante traduttrice americana dei nostri scrittori 
“È un momento felice per il vostro Paese”

“Leopardi, Levi e la Ferrante così negli Usa si legge l’Italia”

Simonetta Fiori

"La Repubblica",  30 ottobre 2014

«PRIMA il successo di Elena Ferrante, ora la traduzione integrale di Primo Levi. È decisamente un momento felice per la cultura italiana a New York'. Per tirarsi un po’ su bisogna fare una telefonata al New Yorker, sofisticata icona della Manhattan intellettuale. All’altro capo del filo è Ann Goldstein, responsabile del Copy Department e voce americana di molti scrittori italiani. La settimana scorsa ha festeggiato i quarant’anni di lavoro dentro la rivista. La sua avventura tricolore cominciò nel 1992, quando Saul Steinberg portò in redazione il manoscritto di un suo amico ed Ann era l’unica capace di tradurlo.
Si trattava di Cecov a Sondrio di Aldo Buzzi. Da allora sono passati due decenni e migliaia di pagine tra lo Zibaldone e il Petrolio postumo, i romanzi di Baricco e Piperno, la fortunata polifonia della Ferrante. E ora l’opera multiforme dello scrittore chimico, a cui Norton dedica in primavera un’edizione in tre volumi, Complete Works, a cura della Goldstein.
Perché Levi? Cosa piace al pubblico americano?
«L’idea è stata di un editor di Norton-Liveright, Robert Weil, assai appassionato di Levi. Ci ha messo più di cinque anni per acquisire tutti i suoi diritti, e poi sono entrata io nel progetto. Quando abbiamo cominciato a leggerne le traduzioni inglesi, ci siamo accorti che non era stato rispettato l’assetto voluto dallo scrittore. Abbiamo deciso di risistemare i libri nella forma originale, rimettendo mano anche alle traduzioni ».
Nella sua prima apparizione, Se questo è un uomo fu presentato al pubblico americano con il titolo di Survival in Auschwitz e La tregua con Reawakening, il risveglio. Titoli molto rassicuranti.
«Titoli orribili, scelti dalle case editrici per vendere copie».
A Primo Levi non piacevano perché gli sembrava che annacquassero la tragedia nel lieto fine.
«Noi siamo stati fedeli all’originale: If this Is a Man e The Truce.
Per noi il criterio fondamentale è stato quello di seguire le indicazioni di Levi, anche nel tentativo di restituirne tutta la poliedricità. Vorremmo darne un’immagine più completa, non più schiacciata testimone dell’Olocausto».
Ad aprirgli il successo negli Stati Uniti, alla metà degli anni Ottanta, fu un’opera non solo testimoniale come Il sistema periodico .
«Sì, probabilmente influì anche il giudizio di Saul Bellow che presentò quei racconti come un capolavoro. “Non c’è niente di superfluo”, scrisse, “ogni cosa è essenziale”. Di questo parla lungamente Weil nel suo saggio sulla fortuna di Levi in America».
Racconta anche dell’amicizia con Philip Roth. Lo scrittore americano andò a trovare Levi a Torino nel 1986, poco prima della scomparsa.
«Sì, era stato incaricato dalla New York Times Book Review di farne un ritratto sullo sfondo della sua vecchia fabbrica. Roth rimase molto colpito dalla sua capacità di ascolto, dall’intensità dell’attenzione. E tra tutti gli artisti del Novecento, tra quelli intellettualmente attrezzati, gli appariva come il più adatto a cogliere la totalità della vita intorno a sé. Il suo saggio sarebbe uscito un mese prima della morte di Levi».
Domenico Scarpa, che l’ha studiato a lungo, fa notare un’eccezionalità: di solito, nel passaggio dall’italiano all’inglese, i testi si restringono. Nel caso di Levi succede il contrario. Il suo italiano risulta più sintetico dell’inglese.
«Sì, Mimmo dice questo, e forse ha ragione. Ma io non ho contato le parole!».
E con l’yddish di una banda partigiana? È vero che l’yddish usato da Levi è apparso agli americani poco convincente?
«Sì, sapevo anche io di queste perplessità. Forse perché abbiamo una memoria culturale più ricca, e molti termini yddish fanno parte della nostra lingua».
La sua radice ebrea ha inciso nella traduzione di Levi?
«Non credo. In realtà sono un’ebrea cresciuta senza alcuna educazione religiosa. La mia è una delle tante famiglie che si è voluta assimilare a tutti i costi».
Ma dar voce al dolore di Se questo è un uomo non l’ha toccata nel profondo?
«Forse sì, ma in modo del tutto inconsapevole».
Provare empatia per un autore facilita la traduzione?
«Per un verso sì. Se ami uno scrittore le cose vanno più speditamente… finché non ci si stufa. Ma anche nei testi più insidiosi c’è sempre qualcosa da imparare. Mi è capitato con Petrolio, che è stato il mio secondo lavoro di traduzione. E più tardi con Leopardi. Tradurre significa anche scoprire».
Con chi si è divertita di più?
«Con Elena Ferrante, specie in questo suo ultimo ciclo napoletano. Sono rimasta catturata dall’amicizia tra Elena e Lila narrata nella tetralogia — il terzo volume Storia di chi fugge e di chi resta è appena uscito a New York. Sul tema del sodalizio femminile non è stato scritto granché. E la Ferrante ha la capacità di analizzarlo con un’intensità incredibile, direi quasi con brutalità. In un’intervista a Vogue ha dichiarato che nella finzione è possibile spazzare via tutti i veli dell’ipocrisia. Scrivere è un modo per evitare di mentire».
Ma è per questo che piace così tanto ai lettori americani?
«Chissà, per me è un mistero. Certo conta la sua capacità di creare un mondo che tiene prigioniero il lettore. Una volta entrati, è difficile scappare. Le confesso una cosa: quando finisco di tradurre un suo libro, mi sento svuotata. Dov’è finita tutta quella gente? Mi manca l’amicizia tra Elena e Lila, in fondo sono diventata intima anche io».
Elena Ferrante potrebbe essere un uomo?
«No, impossibile. Escludo che un uomo possa capire con quella profondità i rapporti tra le donne, le loro emozioni. Uno scrittore che lavora al New Yorker, D. T. Max, ha detto che, se prima poteva anche pensare che si trattasse di un talento maschile, dopo aver letto la tetralogia napoletana non ha dubbi. È una donna».
Il suo stile è un po’ cambiato.
«Sì, ma non credo in un passaggio di mano: ritorna sempre il vissuto dell’autrice, soprattutto la sua verità emotiva».
Il successo della Ferrante e ora la traduzione di Primo Levi. È un buon momento per la cultura italiana a New York?
«Sì, mi sembra una stagione felice. È stata importante l’opera svolta da Europa Editions, la casa americana di Sandro e Sandra Ferri, che sono gli editori di e/o: oltre a Ferrante, hanno messo in circolo molti autori italiani. Così come si dà molto da fare l’Italian Academy dentro la Columbia University. E uno straordinario lavoro è stato fatto da Renata Sperandio, che dirigeva l’Istituto Italiano a New York».
A leggere il New Yorker si ha l’impressione che la cultura italiana sia ancora il Rinascimento, i grandi classici e l’alta moda. Con poche eccezioni tra gli autori contemporanei.
«Mettiamola così: per il grande pubblico l’Italia è cucina e turismo. Però per una ristretta cerchia di lettori sono importanti anche Italo Calvino e Umberto Eco. E più recentemente Andrea Camilleri: oltre alla trama poliziesca, non escludo che il pubblico apprezzi anche gli arancini di Montalbano».
Da voi c’è anche un problema di traduzione: gli editori sono abbastanza diffidenti verso la letteratura non in lingua inglese.
«Ha presente il quesito sull’uovo e la gallina? I lettori sono sospettosi verso le traduzioni. Così le case editrici — soprattutto i grandi gruppi — evitano di farle perché temono di non vendere. Ma finché non le proponi al pubblico, è impossibile creare la domanda. Per fortuna ci sono i piccoli marchi come Europa Editions, Archipelago, New York Review Books. Da giudice del premio Pen sono rimasta sorpresa dalla quantità delle loro traduzioni ».
Da quale parte del mondo arrivano oggi le idee più interessanti?
«Da Internet. Sembra che ormai tutto succeda lì. Anche il New Yorker ha abbracciato questa filosofia. E sul nostro sito c’è sempre qualcosa di nuovo, di cui io non so niente».

Il mondo nella rete “Da Seul a New York tre miliardi di persone connesse a Internet”


È una delle innovazioni con il più alto tasso di crescita: 
vent’anni fa solo l’1% della popolazione era online, oggi è il 40%
Al top Corea del Sud e Canada dove navigano nove abitanti su dieci

Riccardo Luna

"La Repubblica", 1 novembre 2014

SIAMO tre miliardi. Tre miliardi di persone connesse a Internet.
Il record è stato toccato in qualche istante ieri. Ed è un record pesante. Se si pensa che il primo miliardo è stato raggiunto nel 2005, il secondo nel 2010. E adesso siamo tre. Tanti? Pochi in fondo. Appena il 40 per cento degli abitanti della Terra ma è un dato che nasconde differenze sostanziali: nove su dieci in Corea del Sud e in Canada, seguono Stati Uniti e Regno Unito mentre in Africa le percentuali sono infinitamente più basse se si fa eccezione per il Sud Africa (46 per cento) e la Nigeria (37). Ma sono tanti, se si considera che solo vent’anni fa meno dell’1 per cento della popolazione mondiale era in rete. Internet si sta rivelando una delle innovazioni tecnologiche con un tasso di diffusione più rapido della storia: più dell’automobile e del telefono, la crescita ha un andamento simile a quello che ebbe la radio.
Eppure quando è nato nessuno o quasi se ne è accorto. Anche perché non c’è stato un vero momento eureka , un attimo in cui il mondo è rimasto con il fiato sospeso e poi ha esultato. Anche perché non c’è stato nessun attimo: si può anzi dire che l’invenzione di Internet è iniziata negli anni ‘60 e dura ancora oggi con una task force mondiale di ingegneri informatici che ragiona su come sviluppare una rete che ha tre miliardi di umani ma alcuni triliardi di oggetti connessi. Internet insomma non è stato come mandare il primo uomo sulla luna. È stato l’esperimento finanziato con soldi pubblici del governo americano ma nei fatti clandestino, perché condotto nel disinteresse dell’opinione pubblica, di un gruppo di pionieri che sognava un mondo connesso. Ma rileggendo i documenti dell’epoca appare chiaro che nemmeno loro avevano idea di quello che davvero stavano facendo. Ha scritto per esempio uno dei padri della rete, Vint Cerf, in occasione di uno dei tanti compleanni (non essendoci un vero momento di nascita, il compleanno di Internet viene festeggiato praticamente ogni anno): «Non ci fu nessun festeggiamento, non c’era nemmeno un fotografo. L’unica cosa che ricordo era la spilletta che indossavamo con la scritta Sono sopravvissuto al trasferimento della rete ».
E lo stesso è accaduto una decina di anni dopo, con la nascita del world wide web che è stato il vero motore della diffusione, a quel punto sì, rapidissima della rete. In questo caso la scena si sposta in Europa al Cern di Ginevra, ai tempi guidato dal Nobel Carlo Rubbia, ma non si deve a lui l’intuizione di un linguaggio che rendesse Internet comprensibile e usabile a tutti. Si deve a uno studente di fisica inglese che era lì per fare altro e che si mise a lavorare ad uno strumento che consentisse alle persone di collaborare attraverso Internet, per condividere lavori e conoscenza. Si chiamava Tim Berners Lee e assieme all’informatico belga Robert Caillau ha fatto una delle cose più rilevanti per la storia della innovazione quasi senza accorgersene: «Non avevamo capito la portata di quello che avevamo creato». In verità all’inizio non lo aveva capito quasi nessuno: persino Bill Gates, il fondatore di Microsoft, nel suo curriculum ha anche una profezia totalmente sballata su quello che sarebbe stato l’impatto della rete. Questo per dire che era difficile immaginare quel che sarebbe accaduto perché in fondo tutti si sono fatti ingannare dall’apparenza, ovvero il fatto che Internet sia (soltanto) una rete di computer, di cavi sotterranei, di dati che viaggiano alla velocità della luce. Ma Internet è soprattutto una rete di persone che in questo modo hanno trovato una strada diversa per informarsi, apprendere, condividere, partecipare, creare, inventare, consumare e persino curarsi. E per questo ha cambiato e sta cambiando così profondamente la società in cui viviamo. Certo, un lato oscuro esiste e non è soltanto il fatto di non essere connessi come disse una volta il profeta digitale Nicholas Negroponte: è l’uso spregiudicato che alcuni governi e molte agenzie pubblicitarie fanno dei nostri dati personali. Ma in definitiva resta valido quello che una grande neuroscienziata, Rita Levi Montalcini, disse nel 2009 quando compì 100 anni: «La più grande invenzione del ‘900? E me lo chiede? Internet!».

La tecnica guida del mondo sostituirà tutte le ideologie


Qualsiasi governo è destinato ad essere superato dal potere dell’innovazione

Emanuele Severino

"Corriere della Sera", 1 novembre 2014

Alcuni mesi fa ho pubblicato sul «Corriere della Sera» un articolo: Il destino della tecnica, battere le ideologie (29 luglio). Il suo destino è cioè di porsi alla guida dei popoli: diventare tecnocrazia. Il presidente Renzi ha ribadito, anche in questi giorni, il suo rifiuto della tecnocrazia nostrana ed europea e il primato della politica. Nei due casi, che sembrano contraddirsi, la parola «tecnocrazia» ha però un significato profondamente diverso. Avevo chiarito l’equivoco anche alla fine del governo Monti («Corriere», 19 gennaio 2013), che voleva essere «governo tecnico» proprio nel senso a cui Renzi si riferisce volendosene però distanziare. La tecnica destinata a dominare il mondo è abissalmente diversa dalla tecnica dei «governi tecnici». La politica diventerebbe grande politica se lo capisse. 
Il capo del governo dice di non interessarsi delle «ideologie», ma di voler risolvere i problemi concreti dell’economia e della società italiana. Ma uno dei tratti caratteristici della tecnica che i «governi tecnici» si propongono di valorizzare è appunto questo: il disinteresse per la gestione ideologica dei problemi. Il disinteresse di Renzi procede dunque in direzione di quella gestione tecnologica dei problemi alla quale egli crede di voltare le spalle. 
Ma a questo punto va anche detto che sia un «governo tecnico» come quello di Monti (o quello che si ritiene oggi dominante in Europa), sia un «governo politico-non tecnico», come quello che Renzi intende promuovere, sono chiaramente e robustamente ideologici. C’è bisogno di ricordare che anche il capitalismo è un’ideologia? Sì, nonostante tutto ce n’è un gran bisogno! Il capitalismo non è la «legge naturale eterna» dei rapporti economici. Nonostante la crisi attuale, esso è l’ideologia vincente in grandi aree del Pianeta, ma non per questo i suoi principi (ad esempio autonomia e libertà dell’individuo, proprietà privata, uso della merce per aumentare il profitto, dipendenza dei consumi della gente e della ricchezza delle nazioni dall’iniziativa privata) sono verità assolute. 
Ebbene, sia i «governi tecnici», sia i governi «politici non tecnici» oggi in circolazione si propongono di adottare le misure più idonee per guarire il capitalismo dalla malattia che lo sta affliggendo: per guarire ciò che è percepito come la dimensione che da ultimo determina e configura i rapporti sociali e la stessa sorte dei governi. Che quindi — siano di destra oppure di sinistra — si combattono in famiglia. L’ideologia capitalistica stabilisce pertanto anche il modo in cui la tecnica deve essere usata e usata anche dai «governi tecnici». Sì che, in quanto regolata dal capitalismo, anche la tecnica è un’ideologia. 
In Italia, poi, tutti quei tipi di governo sono chiaramente e robustamente delle ideologie anche perché, oltre ad esser guidati dall’economia di mercato, sentono fortemente l’influenza dell’ideologia della Chiesa cattolica. Se poi si rifiuta la tecnocrazia e si vuole che alla guida della società stia la politica, allora il carattere ideologico dell’esecutivo cresce ulteriormente, perché la politica stessa (la politica come «arte» politica) è ideologia. Ho osservato altre volte che un agire economico è capitalistico solo se, oltre ad un insieme di altri fattori, è un agire a rischio (tanto che nel rischio la scienza economica individua uno dei principali motivi che giustificano il profitto e la sua entità); e il rischio caratterizza in modo essenziale anche la decisione di credere in un’ideologia. Ma quanto si sta dicendo del carattere rischioso dell’intrapresa capitalistica va detto anche della politica in quanto tale. Il politico rischia come l’imprenditore. Le sue decisioni non sono garantite da una competenza tecno-scientifica, anche se la tecno-scienza fornisce alla politica i mezzi con cui essa può realizzare le proprie decisioni. Sono decisioni a rischio; quindi eminentemente ideologiche. 
Si può osservare che queste considerazioni sono ben poco utili a risolvere i problemi attuali, come ad esempio quello della regolamentazione del lavoro. Ma se i popoli non pensano di essere alla fine della loro esistenza, allora, ancora più decisivi dei «problemi attuali» e «concreti» sono quelli relativi alla direzione verso cui il mondo sta andando. Appunto rispetto a questo tema si fa avanti il carattere decisivo della differenza abissale tra la tecnica quale oggi si presenta sul Pianeta e ciò che essa è destinata a diventare: tecnocrazia
Un termine, questo, da intendere tuttavia in senso del tutto diverso da quello in cui la tecnocrazia è stata concepita a partire da Saint-Simon, e poi da Thorstein Veblen fino alle analisi curate da Hansfried Kellner e da Frank W. Heuberger. In queste prospettive si ignora l’inevitabilità del processo (indicato anche in quei miei articoli) in cui la tecnica, da mezzo delle ideologie che intendono servirsene per realizzare i loro scopi, diventa il loro scopo e dunque le domina — una tematica, questa, che è stata apprezzata anche da Fabrizio Pezzani, professore di Programmazione e controllo nelle pubbliche amministrazioni all’Università Bocconi ( È tutta un’altra storia, Università Bocconi Editore, 2013). 
Inoltre, le forme di sapienza della tradizione obiettano alla tecnocrazia quale è comunemente intesa che non tutto ciò che essa può fare è lecito farlo; e la tecnica, come tale, non possiede oggi una risposta capace di risolvere l’obbiezione. Infatti la risposta adeguata presuppone che la tecnica sia capace di ascoltare e di capire la voce dell’essenza (peraltro tendenzialmente nascosta) della filosofia degli ultimi due secoli, che mostra l’impossibilità dell’esistenza di Limiti assoluti all’agire umano e quindi all’agire tecnico — giacché solo la filosofia, non la scienza, può mostrare tale impossibilità e autorizzare la destinazione della tecnica al dominio. 
Va richiamato anche un ulteriore motivo di tale destinazione. La gestione della produzione industriale è ideologica (capitalistica o spuria come quella cinese o araba). Servendosi della tecnica per realizzare i propri scopi, tale gestione sta distruggendo la Terra. Oggi si riconosce che questo è il pericolo maggiore per l’umanità. Ma la gestione ideologica dell’economia, distruggendo la Terra, distrugge se stessa. Quindi o va incontro all’autodistruzione, oppure, per evitarla, assume come scopo la capacità della tecnica di produrre energie alternative non inquinanti. Rinuncia cioè ai propri scopi. E anche in questo caso va incontro all’autodistruzione. 
Alla guida dell’agire del mondo si pone la tecnica, l’ideologia vincente che sostituisce il capitalismo alla guida del mondo e ha come scopo l’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi. L’ultimo Dio.