domenica 31 marzo 2013

Così si è evoluto Darwin


UNA LEZIONE DI ANTIDOGMATISMO 

Un film di 10 minuti racconta in maniera assai semplice la scoperta che ha rivoluzionato la biologia 

Aldo Di Russo 

"Il Sole 24 Ore - Domenica",  31 marzo 2013

Se Dio è onnipotente ed infinitamente buono perché avrebbe creato i carnivori? Alcuni insetti infieriscono sulle vittime con assurda crudeltà per garantire la sopravvivenza della propria specie, Dio onnisciente lo sa? Erano queste le domande che ci facevamo da ragazzi seduti sul muretto di fronte al mare nel piccolo paese dove sono nato. Questo ricordo mi è tornato in mente quando ho cominciato a lavorare sulla multivisione oggi ospitata al Museo di Scienze Naturali di Torino, cosciente che, luoghi comuni a parte, nel pensiero di Darwin si trovano risposte a molti dei quesiti che ci si pone, almeno una volta, nella vita anche per chi non fosse avvezzo ai problemi dell'evoluzione e dell'origine dell'uomo. 
Il Museo di Scienze Naturali di Torino mi chiese di realizzare un racconto, in multivisione, per i visitatori del padiglione dedicato a Charles Darwin. Andava focalizzato solo uno degli aspetti della complessa figura dello scienziato inglese, in modo da non disperdersi in piccoli frammenti di informazioni superficiali, e incuriosire i visitatori con un racconto. Un racconto che a partire dall'Inghilterra di metà Ottocento, facesse intravedere questioni ancora aperte e attuali. Le parole stesse di Darwin non lasciano dubbi su quali fossero gli "attrezzi" che portò con sé in giro per il mondo: «...amore perla scienza, un'infinita pazienza per riflettere lungamente su ogni argomento, gran diligenza nell'osservare e nel raccogliere dati di fatto e una certa dose di immaginazione e di buon senso». Ma portò anche la sua libertà di giudizio, l'indipendenza da ogni pregiudizio, la sottomissione a una analisi ipotetico-deduttiva, tanto da avere una perfetta coscienza del biasimo che le sue affermazioni avrebbero provocato nell'ambiente dell'Inghilterra vittoriana prima e nel mondo poi. 
L'idea è stata quella di raccontare il travaglio dal quale nacquero le nuove idee darwiniane. Ho intitolato il lavoro: Charles Darwin: un uomo che ha cambiato idea. Essere in grado di cambiare opinione, come Darwin fece al ritorno del viaggio intorno al mondo, è il punto di partenza di una delle pagine più importanti della storia della scienza, ma anche lo specchio della sua personalità e una grande lezione civile. Furono proprio i dati di fatto a modificare le sue convinzioni. Dunque è il racconto di un uomo che cambia idea, cambia idea non senza tormenti e preoccupazioni, ma con la lealtà e l'amore per la scienza che, prima di ogni altra cosa, gli fanno intravedere la rivoluzione nel pensiero e nell'interpretazione della natura e delle sue leggi che di lì in poi avrebbero segnato la nostra vita. 
Dieci minuti di confronto con le idee di Darwin, i suoi pensieri espressi in prima persona e interpretati da Rodolfo Bianchi per riassumere le vicende che alla fine di un lungo percorso hanno visto il trionfo del suo metodo e delle sue intuizioni. Il racconto, in ogni caso, affronta a suo modo anche temi contemporanei a noi, oltre che a Darwin: il senso di indipendenza culturale, ad esempio, il rapporto con l'autorità, il rigore nelle osservazioni e nella raccolta dei dati. Darwin lascia tra le sue pagine una notazione di straordinaria modernità: «L'uomo va scusato se prova un certo orgoglio per essere salito, anche se non per meriti propri, alla sommità della scala dei viventi; e il fatto di essersi così innalzato può dargli la speranza di un destino ancora più elevato in un lontano futuro. Tuttavia qui non ci siamo occupati né di speranza né di timori, ma solamente della verità, per quanto la nostra ragione ci permetta di scoprirla; io ho fatto del mio meglio per fornire prove». Se la ragione e lo studio hanno portato il genere umano a comprendere le ragioni stesse della sua evoluzione resta inteso, sembra volerci dire Darwin, che l'evoluzione futura, nostra e delle altre specie viventi, dipenda esclusivamente da noi. E questa è decisamente una pagina politica, una di quelle affermazioni che i grandi della terra metterebbero di diritto in una Ted conference, una di quelle conferenze che si tengono annualmente sullo stato del pianeta e sulle prospettive future dello sviluppo sostenibile. «Il futuro dipende da noi», sembra esser la conclusione del ragionamento darwiniano, in modo piano e diretto, con un racconto che è una testimonianza e una lezione di vita e di civiltà. Il metodo scientifico è soprattutto questo. 

NUOVA COLLANA Cnr, la scienza parla in ebook 
Charles Darwin: un uomo che ha cambiato idea, è una multivisione della durata di dieci minuti realizzata da Aldo Di Russo e prodotta da Unicity per il Museo di scienze naturali di Torino. Premiata con il Blue Genius all'ultima edizione dell'Internationales Medienfestival è esposta nella sezione «Lo spettacolo della natura» inaugurata lo scorso 8 marzo,. Il Dipartimento di Scienze umane e sociali, patrimonio culturale del Cnr inaugura con un ebook dedicato alla produzione della multivisione, la collana Comunicare la Scienza e l'Arte, che ospita i casi di studio più interessanti nel settore della valorizzazione dei beni culturali in Italia. I libri saranno scaricabili gratuitamente da «apple itunes store» sezione libri, dal sito del dipartimento: www.dpc.cnr.it o dal sito del produttore www.unicity.eu.

A scuola meno pareti e più web. In arrivo i banchi digitali open source e low cost


A scuola meno pareti e più web 
II modello didattico diffuso nel Nord-Europa va oltre il tradizionale concetto di classe. 
Ma servono edifici open space con reti cablate 

Fabio Di Giammarco 

"Il Sole 24 Ore - Nòva", 31 marzo 2013

La futura scuola digitale - tra ritardi, difficoltà e ristrettezze - prova a battere un colpo. Dopo la partenza sperimentale dei primi due progetti Miur sulla diffusione delle Lim (Lavagne interattive digitali) e per gli ambienti innovativi (Cl@ssi 2.0), ora sembra arrivato il momento del terzo indirizzo: quello dell'editoria digitale per fornire nuovi contenuti didattici da condividere tra ambiente classe e ambienti online. 
Nell'intenzione di spingere l'introduzione del libro digitale nella scuola, il ministro Profumo ha firmato un decreto per l'adozione nelle scuole elementari (prima e quarta), medie (prima) e superiori (prima e terza) di libri di testo in formato misto (digitale e cartaceo) o completamente digitale. Iniziativa che dall'anno scolastico 2014/2015 dovrebbe produrre un taglio netto sui tetti di spesa per le dotazioni librarie degli studenti. Le famiglie interessate potranno risparmiare il 20% se gli istituti scolastici propenderanno per la forma mista e fino al 30% se il formato prescelto sarà solo digitale. Inoltre, il Ministero metterà a disposizione una piattaforma con la quale gli insegnanti potranno «consultare e scaricare online le demo illustrative dei libri di testo in versione mista e digitale ai fini della loro successiva adozione». 
Spinta importante, ma che riporta in primo piano la questione dei ritardi e carenze infrastnitturali: mancato cablaggio in fibra degli edifici scolastici, e scarsa alternativa wifi per la poca copertura degli ambienti scolastici con conseguente oggettiva difficoltà - in assenza di adeguate connessione a internet - nella fruizione di libri digitali. Non solo. Rimane anche al palo l'indispensabile formazione tecnologica dei docenti. E su tutto grava la coperta sempre più corta delle risorse: difficile trovare finanziamenti per la scuola di domani, e per ora nello striminzito bilancio ci sarebbero solo alcune decine di milioni di euro mentre per il solo cablaggio pare ne servirebbero almeno tre, ma di miliardi. 
C'è poi, tra le reazioni al decreto, il disagio degli editori. L'Aie precisa che il Ministro «non ha affatto convinto gli editori della bontà» del provvedimento. L'Associazione italiana editori si è detta non solo preoccupata per la filiera (editori, grafici, cartai, librai, agenti) di un settore come quello dell'editoria scolastica che registra un giro di affari di 650 milioni di euro, ma anche per le note insufficienze tecnologiche (banda larga) della scuola e per i costì in più che le famiglie dovranno sobbarcarsi per dotare i propri ragazzi delle indispensabili attrezzature tecnologiche (portatili, tablet, e-reader eccetera).
Tuttavia, il tassello del libro digitale resta fondamentale e va inserito nella prospettiva più ampia di una rivoluzione in corso della didattica che promette di ridisegnare la "forma della scuola". Parole chiave: didattica digitale e delle competenze. Gli esperti della formazione vi insistono da tempo, e nelle strategie sia Ue che nazionali è al centro dei programmi educativi. Il suo impatto è cosi forte che va oltre i modelli di insegnamento: spinge a trasformare le strutture scolastiche ridisegnandone gli spazi. 
È una didattica dinamica che mette fine alla tradizionale centralità della classe come unità di studio in uno spazio circoscritto. Niente schemi rigidi e chiusi. Il lavoro può articolarsi in gruppi e/o individualmente per poi riconnettersi attraverso le infrastrutture cloud. Lo "spazio scuola" diventa funzionale all'elaborazione, alla manipolazione, alla condivisione, ma anche al rispetto dei tempi e ritmi del singolo fino allo "spazio pausa" dedicato ad attività non strutturate. Il modello architettonico nel quale si estrinseca - già sperimentato nel Nord Europa - è quello dell'open space. Riassumibile in "meno pareti e più cablaggio". E poi "aree connettive" invece di corridoi, spazi comuni, laboratori e soprattutto l'agorà: centro simbolico del nuovo mondo-scuola. Per entrare nel futuro la scuola italiana guarda a questi modelli. Tuttavia, l'introduzione finora in via sperimentale delle Ict nelle aule ha reso consapevoli che la sola innovazione tecnologica non basta se poi non si rimuovono le vecchie strutture che impediscono la fluidità dei processi comunicativi innescati dalla sinergia tra didattica delle competenze e digitale. Arriva allora al momento giusto la proposta strategica dell'Ance (Associazione nazionale costruttori edili) che in uno recente studio ha presentato un piano-paese per una riqualificazione delle infrastrutture scolastiche in linea con le esperienze più innovative in campo internazionale inclusa la dimensione open space



In arrivo i banchi digitali open source e low cost 

Alessandro Longo 

Un computer low cost e open source I I integrato in un banco scolastico, V^y con uno schermo touch. È l'esperimento di scuola digitale in corso da un mese in un istituto professionale di Trapani e che sarà esteso in tre di Roma e in uno di Palermo. Progetto originale, perche finora sono statialtrigli strumenti tecnologici nelle classi italiane: lavagne elettroniche e tablet, soprattutto. 
«Abbiamo preso un Raspberry Pi dall'omonima fondazione, a 25 dollari, e l'abbiamo chiuso m un banco, su cui abbiamo montato una tastiera e uno schermo touch da 7 pollici, coperto da un plexiglass», dice Marco Neri, responsabile del progetto presso Almaviva, azienda di consulenza It e system integrator. «Basta sollevare il plexiglass per usare il banco m modalità digitale. Se no, e un normale banco», spiega. Il Raspberry Pi è un computer grande quanto una carta di credito, architettura Arm (quella degli smartphone), sistema Gnu/Linux. È un'idea nata nell'università di Cambridge proprio per digitalizzare ospedali, scuole. «Il sistema può collegarsi a un portale di servizi cloud: contenuti didattici, i file delle lezioni, ebook, l'applicazione per il registro: è già funzionante nell'istituto di Trapani». Costo totale, «120 euro per banco, ma solo perché ora è in uno stadio di prototipo. Sarà molto più economico, una volta prodotto in serie». Almaviva è in trattativa con vendor internazionali, per questo scopo e conta di vendere l'installazione alle scuole a partire dal prossimo anno scolastico. «Il progetto mi ricorda i banchi informatici sviluppati da Smart Technologies, negli Usa e in Svezia: ma quelli spiega Paolo Ferri, dell'università Milano Bicocca e membro della commissione Scuola 2.0 nominata dal Miur per diffondere tecnologie e modelli didattici. «Gli standard anglosassoni, che stiamo adottando in Italia in alcune scuole pioniere, mettono invece i tablet nelle mani di bambini e ragazzi, che possono portarseli a casa», spiega. Nelle primarie e nelle medie ci sono anche lavagne elettroniche, sostituite pero da videoproiettori interattivi nelle superiori. La grandezza dei tablet cambia con l'età dei ragazzi. «Nelle superiori tendiamo a usare notebook convertibili in tablet». Nelle scuole, viene installato anche un totem per la gestione amministrativa e delle presenze, il wifi e la connessione a internet. Sono una ventina le scuole italiane attrezzate in questo modo, «e l'obiettivo è averne altre due-tre per regione, per un costo di 20omila euro a scuola, compresa la formazione dei docenti», dice Ferri. 

MEETING DELLA SCUOLA DIGITALE MEETING DELLA SCUOLA DIGITALE Bergamo. Si svolgerà il 5 aprile a Bergamo il Primo meeting della scuola digitale vista dagli studenti La manifestazione, supportata da Samsung, prevede workshop e tavole rotonde, ed e stata voluta da una sene di promotori tra cui Centro Studi ImparaDigitale e la rete delle sue scuole http://studenti.imparadigitale.it/

LE DIVERSE FORME DELL'APPRENDIMENTO 

Danimarca. L'0restad Gymnasium di Copenhagen è all'interno di una smart city . Quattro piani piazza "verticale" e un'infrastruttura cloud per tutte le attività della scuola. Il sito della scuola: CLICCA QUI.

Svezia. La scuola Telephonplan utilizza l'edificio originale della carpenteria Ericsson dove si producevano i telefoni 11 segmento scolastico va dai 6 agli 11 anni La filosofia e scuola aperta senza pareti e senza classi grande open-space nella quale si realizzano tutti gli spazi e situazioni m cui insegnanti e studenti fanno lezione Ma c'è anche la "caverna" luogo personale e privato dove ciascuno può riflettere e leggere in silenzio Olanda. 

4het Gymnasium di Amsterdam è un civic center temporaneo e modulare Soluzione improntata alla sostenibilità e riusabilità nel difficile quartiere Outhavens.

L'invenzione del Rinascimento


Viaggio a Padova tra collezioni patrizie e mostre d'arte 

Raffinatezze e galanterie alla ricerca della classicità 

ALBERTO ARBASINO

"Corriere della Sera", 31 MARZO 2013 

A Padova, tre contemporanee esposizioni eccellenti mostrano vive e autentiche le profonde radici nell'antichità classica, non di una beneducata società di Corte, ma di un ambiente patrizio illuminato e coltissimo, bene inteso a recuperare la migliore tradizione antica con i mezzi più adatti, dopo una fioritura di monumenti romanici e gotici. 
In fondo, come a Oxford e Cambridge, dove addirittura si pubblicano curatissimi a caro prezzo gli epistolari di figure assai secondarie del primo Novecento quali Edmund Blunden e Siegfried Sassoon, e vengono letti nelle biblioteche, e commentate sui settimanali letterari. 
Lo si riscontra qui alla Loggia e all'Odeo Cornaro, ove il patrizio Alvise Cornaro era un raffinato imprenditore agricolo nonché amico di architetti e artisti, da Falconetto a Sustris. Fra calchi e gessi, e iscrizioni, dunque, e affreschi di paesaggi lagunari e grottesche, dialoghi con citazioni latine e recite dialettali del Ruzante, in un contesto di metope e triglifi e stucchi. Senza influenze o fisime di Marchese o Duchesse o Cardinali, come a Ferrara o a Mantova o a Urbino o al Vasto. Una conversazione colta, insomma, classicistica e paritaria, tra frammenti antichi ormai appartenenti all'ambiente. 
Come del resto si viveva e conversava in villa, a Mamiano di Traversetolo (oggi aperto al pubblico, come l'Odeo Cornaro) durante le visite a Luigi Magnani, squisito collezionista con vasti redditi dalle fattorie. E amico dei coetanei Roberto Longhi, Cesare Brandi, Mario Praz.
E là, questa raccolta mirabile: acquistando dai Ruspoli fiorentini lo spettacolare Goya col fratello del re a tavola insieme alla famiglia e al Boccherini; dalle monache di Bagnacavallo il Cristo di Dürer segnalato da Longhi. Dagli Odescalchi romani sfumò l'acquisto di uno stupendo Caravaggio (Caduta di Saulo, e pensare che per Luigia Pallavicini caduta da cavallo il Foscolo se la sbrigò con una Ode), perché la consorte di un coerede ottenne la somma pattuita dal padre notaio. I magnifici Morandi vennero scelti uno a uno. E inoltre nel grande salone si ammirava la spinetta di Beethoven, accanto a una grande tazza marmorea di manifattura imperiale russa… Nonché un indimenticabile Amleto (con fantasma) di Füssli. E una ragguardevole Madonna con Bambino e Santi tizianesca, ancora dalle collezioni dei Balbi genovesi.
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Analogamente, in questa magnifica mostra padovana su «Pietro Bembo e l'invenzione del Rinascimento». Con illustri contributi saggistici, al disopra d'ogni laudatio giornalistica: Guido Beltramini, Cesare Segre, Lina Bolzoni, Sergio Momesso, e parecchi altri preclari. Può così tornare in mente l'insigne «Henrica» Malcovati, antica maestra di classicità all'Università pavese, nel secolo scorso. O magari, davanti al giovanile De Aetna, composto alla fine del Quattrocento a Messina, certe filastrocche per i più piccini rammemorate nella tarda età. 
«Il vulcaaano, è un gran monte! Che vomita fffoco!... Ed erutta! lava e polve! lapilli, lapilli e terror! Zum! Zum!». 
Al termine, forse un problema a causa del grande San Sebastiano del Mantegna, già nella raccolta del sommo anatomo pavese Antonio Scarpa. Non è un ragazzotto riccioluto e indifferente con le gambe un po' corte come nel Tiziano della famosa pala «della Lattuga». Appare adulto e longilineo, con una espressione ambigua tra piacere e dolore. Ma se la sofferenza fisica si deve naturalmente alle sedici freccette molto superficiali, l'equivoco godimento si deve alla prossimità del Paradiso o a una normale soddisfazione sadomaso? 
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«Gli Asolani sono opera di un poeta e di un retore, non di un filosofo». «Sempre, nella vita del Bembo, il calcolo pratico e l'adattabilità alle circostanze si accompagnano a un estremo rigore mentale». «Le ambizioni poetiche del Bembo non andavano al di là dell'esperimento, della prova di forza: restavano ai margini di un interesse critico». «Al di là del Petrarca e del Boccaccio, era, secondo il Bembo, la decadenza». Ecco alcune sentenze di Carlo Dionisotti, nella sua famosa introduzione alle Prose e Rime del Bembo. Ma quell'otium tra ville e Corti risulta qui laboriosissimo, fra lo studio dei geroglifici egiziani, il ragionare sull'Amore platonico e neoplatonico, l'esame delle proporzioni degli ordini architettonici — basi, colonne, capitelli, dettagli di profili — secondo Vitruvio e Leon Battista Alberti…
E il culto delle antichità romane, fra monete e iscrizioni illustri, teste marmoree sommamente espressive, bronzetti locali del Riccio, da scrivania o comodino. E ritratti contemporanei di giovani languidi, estremamente romantici prima di ogni Romanticismo… 
Ma soprattutto, coetanei e colleghi e vicini come nelle stagioni migliori di Londra, Parigi, Vienna, Hollywood. Duchi e marchesi regnanti e poetanti, pontefici medicei e latinisti, madame rilevantissime quali Caterina Cornaro, Lucrezia Borgia, Elisabetta Gonzaga, Vittoria Colonna, Isabella d'Este, Emilia Pia, il cardinal Bibbiena con la sua stufetta… E il genitore Bernardo Bembo acquirente di Memling a Bruges, e a Firenze amatore di Ginevra de' Benci ritratta da Leonardo…
Intorno, intanto, tutta una vasta galanteria. «Amor, speme, piacer, tema e dolore». Nonché «senno, valore, bellezza, leggiadria, natura et arte»… E gli Asolani come ossessione concettuale e concettosa dei «ragionamenti d'amore» distaccati da ogni carnalità. E l'organizzazione grammaticale e sintattica della «volgar lingua», secondo le dottrine in ogni secolo… Altro che otium
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La cultura antiquaria più raffinata trionfa anche agli Eremitani, dove accanto al Crocefisso di Giotto e alla Collezione Capodilista si stende una vasta mostra su «L'incanto del libro illustrato nel Settecento veneto». Fra le preziosità massime, qui, ecco una serie di schizzi tenebrosi, burrascosi, minacciosi: Scherzi e Capricci evidentemente esoterici di un Tiepolo non già «rosa» ma nero, nerissimo. Macché grazie o delizie o Angeliche e Medori, in queste decadenze sofisticate. Macché benigna Notte. «Lungo il cammino stramazzar sovente», piuttosto.
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Che fior di pittore si mostra intanto Giuseppe De Nittis, al Palazzo Zabarella. Almeno in tre diverse maniere, eccelle. 
Strade di polvere in ampie prospettive frontali, fra una masseria e un'altra, nella Puglia originaria. Ah, Barletta, dove si trova la sua Pinacoteca; e dove lui non arrivò in tempo a ritrarre i cinema dentro i vecchi teatri, con giovani pescherecci commossi dal ragazzo Gianni Morandi che cantava «Fatti mandare dalla mamma, a prendere il latte». 
Le Parigine eleganti, disinvolte e snelle, una generazione dopo l'altra immutabili, alle corse di Auteuil o slanciate e sorridenti lungo gli itinerari dello shopping. 
Anche dopo il Secondo Impero, a Parigi, sontuosi ricevimenti negli opulenti saloni della principessa Matilde Bonaparte, dove fra dame e cavalieri in toilette da sera non sarà certamente mancato il mondanissimo conte Gegè Primoli. Fiori a mazzi in primo piano, baluginare di argenterie, pizzi e merletti e passamanerie in abbondanza. Che sfarzo. Che lusso. Che tendaggi. Che chic.

America, provincia estrema


Immagini di sangue fra carri Amish e scorci alla Hopper 

America, provincia estrema assediata dalla violenza che entra in casa dalla Tv

DACIA MARAINI

"Corriere della Sera", 31 Marzo 2013 

La campagna americana è coperta di neve. Nelle città si accumula  lungo i marciapiedi, nera e butterata. Strana questa provincia  statunitense che gli italiani in visita conoscono poco, attratti come sono dalle grandi metropoli come New York, Boston, Los Angeles, San Francisco. Un mondo di piccole comunità agricole, spesso nate attorno a coraggiose università private, a centri di scambio e di raccolta emigrati.
Sono ospite in una casa del 1747 tutta in legno, con tante scale, i letti altissimi da terra, i mobili panciuti, i ritratti di illustri accademici appesi alle pareti foderate di carta colorata,  tappeti, specchi, ninnoli, tende ricamate. Sembra di abitare in un museo antropologico. 
Il lavoro dei campi è ormai meccanizzato e la tecnologia si rinnova in continuazione assorbendo sempre piu energia e cacciando via sempre più manodopera. Salvo gli Amish  che ogni tanto si incontrano per le strade con i loro carretti, i loro pantaloni alla zuava, le loro gonne lunghe, le cuffie bianche in testa, i loro cavalli da tiro. I prodotti che portano in città sono molto apprezzati perché gli Amish non adoperano pesticidi e ogni vegetale ha un sapore antico. Sono anche amati dai negozianti perché, non usando carte di credito né assegni, hanno l'abitudine di pagare tutto in contanti. Non sono poveri. Guadagnano bene coi loro prodotti di artigianato e spesso si comprano terreni e case. Presentandosi al venditore con borsellini gonfi di dollari.
Passeggio su strade vuote improvvisamente illuminate da scintillanti bar d'angolo dalle ampie vetrate illuminate e mi sembra di fare capolino in un quadro di Hopper. C'è qualcosa di misterioso e di sospeso in questi paesaggi urbani che stanno a metà fra l'estrema  meccanizzazione e un cocciuto attaccamento alla memoria della conquista. Da qui la passione
diffusa per le armi. A volte questi americani della provincia sembrano ritenersi ancora fermi in quel tempo eroico in cui ogni giorno si conquistavano lembi di territorio selvaggio, alle prese  con bestie feroci, indiani dalle frecce avvelenate, torrenti in piena, montagne dalle rocce aguzze e inospitali.
Ogni tanto la strada viene attraversata da un cervo pensoso e sognante. Sono bellissimi a  guardarsi. Ma ce ne sono troppi, dicono, e c'è chi vuole sterminarli. Anche perché li accusano di avere introdotto una speciale minuscola zecca che ha la capacità di arrampicarsi su per le gambe dei passanti portando una grave malattia chiamata lime disease
L'insofferenza per l'industria del cibo che produce troppi sprechi e causa malattia e obesità sta sviluppando una estesa catena di imprese ecologiche che si diffondono rapidamente per tutti gli Stati Uniti. Ma fin a che punto si può invertire la rotta? Quasi schizofrenico appare il  rapporto fra i media che rovesciano ogni giorno nelle case degli americani montagne di immagini di guerre sanguinose, di sparatorie, di omicidi, di incidenti, di stupri, di violenze di ogni genere e la calma sospesa di questi campus dove le case, anche le più ricche, non sono mai circondate da fili spinati, dove le finestre si aprono su giardini fioriti, senza grate, senza persiane.  
Le televisioni, anche quelle più serie, come la Cnn, raccontano in continuazione storie di sesso
e di sangue. Una delle più seguite, in questi giorni, riguarda una ragazza, Jodi Arias, che ha ucciso a coltellate il suo fidanzato e dice di non ricordare assolutamente niente di quello che è
successo, pur confessando il delitto. Ogni sera giornalisti diversi si alternano per spiegare, giudicare, analizzare la storia. La redazione intanto mette in mostra i corpi nudi dei due  fidanzati che si fotografavano a vicenda. Vengono interrogati psichiatri, medici, opinionisti per spiegare come mai una ragazza bella, serena, appagata, abbia sentito il bisogno di accoltellare il suo amato, finendolo poi con un colpo di pistola alla nuca, come se volesse assicurarsi che fosse veramente morto. Jodi Arias, dai lunghi capelli bruni che circondano una faccia atona e dolce, sostiene che lui la costringeva a fare sesso in modi perversi. «Ma tu ci stavi!», le grida l'avvocato accusatore. E lei risponde che sì, lo amava, ma era esasperata da quelle richieste, sempre più estreme e avvilenti. La ragazza piange e una giornalista si accanisce puntandole addosso il dito: «Ma piangevi forse mentre gli cacciavi il coltello nel petto? Piangevi quando gli sparavi alla testa?». La ragazza singhiozza. La giornalista la chiama pubblicamente «mostro».
Strano che invece, per il caso Pistorius, che ha occupato le serate di molte televisioni per oltre
due settimane, fino alla sua liberazione su cauzione, non ci sia stato lo stesso accanimento. I giornalisti hanno dimostrato molto più rispetto e simpatia per il giovane atleta sudafricano che ha ucciso la fidanzata e poi si è giustificato dicendo che l'aveva presa per un ladro. Le ha sparato al di là di una porta, senza sapere se veramente fosse un ladro, senza chiedersi da dove fosse entrato visto che la casa era vigilata da agenti in armi e cani feroci. Inoltre, quando ha sparato il primo colpo, non ha sentito la ragazza che urlava al di là della porta? Ma gli eroi sono eroi, e il giovanotto che già un'altra volta è stato fermato con armi in pugno e accusato di
avere minacciato un rivale, è stato lasciato libero di tornarsene a casa. 
Dovendo fare un breve confronto fra le nostre televisioni e quelle americane, direi che le nostre sono molto più offensive per quanto riguarda la reificazione del corpo femminile. Gli americani da questo punto di vista sono piu sobri. Ma per quanto riguarda la violenza, certamente ci battono. Sparatorie, sangue, ferite, rantoli, non si finisce mai di rappresentare l'odio e la vendetta compiuta attraverso le armi. Mi chiedo se questo quotidiano racconto di morte non sia, oltre a un modo per esorcizzarla, anche un incentivo sotterraneo a farsi giustizia da soli, a vedere in ogni vicino un insidioso vampiro.
Gli italiani in queste parti del grande Paese sono tantissimi. Ci sono intere comunità di abruzzesi a Boston e spesso gli anziani non parlano che il dialetto dei loro villaggi. Raro il caso
di persone come Elvira Di Fabio che, nonostante le difficoltà dell'adattamento, ha imposto a tutta la famiglia l'italiano, l'ha insegnato per anni all'università di Harvard e e oggi lo pretende anche dai nipotini. In generale la fatica per integrarsi è stata tale che, chi ce la faceva, costringeva i figli a parlare solo l'inglese. Ma i figli dei figli cominciano a mostrare curiosità per
le radici comuni e sono felici di imparare l'italiano. Da qui la nascita di nuove scuole private e pubbliche dove si insegna la nostra lingua. Nonostante i tagli e le nuove ristrettezze, persone come Graziella Parati, come Tania Convertini, come Catherine Sama, come Anne Boylan,  come Giovanna Lerner, come Maria Cappello e come Gian Maria Annovi che insegna a Denver e sembra il fratello dei suoi studenti tanto è giovane e americanizzato, portano avanti lo
studio dell'italiano con tempi e ritmi nuovi, consapevoli di tutte le contraddizioni delle attuali  convivenze linguistiche. Questi non sono figli di emigranti con la valigia di cartone, ma emigranti essi stessi, con la laurea in tasca, fuggiti dall'Italia per mancanza di lavoro e di prospettive. 
Ma eccoci alla giornata delle donne. Che viene festeggiata all'università di Rhode Island con incontri e discussioni in mezzo a un mare di studenti, sotto lo sguardo bonario della vivacissima decana, Winnie Brownell. Un panel organizzato dall'efficiente e appassionato Michelangelo La luna, raduna donne di diversi continenti: Cina, Italia, Corea, Romania, Messico, Stati Uniti.  Senza peli sulla lingua le giovani donne raccontano i guai che subiscono le donne in varie parti del mondo. Come quei milioni di aborti di feti femminili, ragiona Ping Xu, che hanno creato uno scompenso grave fra il mondo degli uomini e quello delle donne, scompenso che viene controbilanciato da un largo uso di prostituzione e materiale pornografico. O indagano, come fa Jody Lisberger, sui muri invisibili che separano ancora oggi negli Stati Uniti le donne dal mondo delle grandi decisioni. O riferiscono (Jeanne Salomon), delle difficoltà che abitano una società basata soprattutto su una competizione feroce. O imputano molte delle pene femminili  (Tommasina Gabriele) ai contraddittori rapporti fra madri e figlie. O studiano (Anna Cafaro) le spine del relativismo culturale. O rivelano (Donna Hughes) gli orrori della «Modern slavery», ovvero il commercio internazionale di corpi femminili, che pare raggiunga la terribile cifra di 27 milioni in tutto il mondo. E di queste una buona metà è costituita da minorenni. O narrano, come fa Mary Cappello, con uno stile fantasioso e lirico, dei linguaggi dimenticati che hanno attraversato il mondo delle donne. 
Il mio viaggio finisce col ritorno a Boston da una Denver irta di meravigliose rocce rosse in mezzo all'altipiano del Colorado. A Cambridge, nella grande sala dell'American Academy of Arts and Sciences si festeggia la memoria di Rita Levi Montalcini. Ci sono le autorità: il console Pastorelli, i grandi professori di Harvard, ci sono le studentesche incuriosite, ci sono le
bandiere, quella italiana e quella americana che si intrecciano addosso alla parete. Fuori si  segnalano cinque gradi sotto lo zero. La neve si sta ghiacciando. Dentro, il riscaldamento è anche eccessivo. È bello poter parlare della nostra grande scienziata in mezzo a tanti studenti.
Per una volta non ci saranno domande sulla presunta nipote di Mubarak, sulla vendita dei  senatori, sul basso livello della nostra classe politica.
 Gli ex studenti di Rita, il professor Emilio Bizzi, del Mit e il professor Elio Raviola della Harvard Medical School, nonché un suo lontano nipote americano, George Sacerdote, la ricordano come una «donna severa ma gentile, pronta a qualsiasi sacrificio pur di portare avanti i suoi  esperimenti». Una donna che andava in giro con i topolini in tasca, divisa fra la tenerezza e il rigore degli studi. Una donna che è stata perseguitata dal fascismo, ma non si è chiusa nel suo
guscio. Ha partecipato come medico alla liberazione del Paese, assieme agli alleati. Ha studiato con generosità e accanimento il cervello umano. Ha attraversato un intero secolo, senza mai perdere di lucidità e di impegno.
Forse non ci rendiamo conto che la nostra credibilità all'estero non consiste solo nel livello di indebitamento pubblico, ma soprattutto nella capacità di proporre all'attenzione dei giovani  persone come Rita Levi Montalcini, che rivelano una Italia seria, creativa, instancabile e dalla schiena dritta. 

"Le pietre e il popolo" se il patrimonio è democrazia


Il libro-denuncia dello storico dell'arte Tomaso Montanari: i nostri tesori artistici e architettonici ridotti a puri oggetti di sfruttamento turistico e commerciale. 
"A rischio è la cittadinanza stessa"

Silvana Mazzocchi

"La Repubblica", 29 marzo 2013

Il mercato trasforma il nostro patrimonio artistico in uno strumento di lucro e la sua tutela viene messa a rischio. E non solo: la conoscenza, il primo strumento di crescita di ogni democrazia, viene umiliata e ignorata. Così, il diritto a godere dell'arte e della storia, anziché un bene comune garantito dalla Costituzione, diventa un bene di mercato, trasformando i nostri centri storici in un grande "luna park a pagamento". E' il senso della denuncia lanciata dallo storico dell'arte, Tomaso Montanari, nel suo ultimo libro Le pietre e il popolo, il cui sottotitolo si fa slogan d'impegno: restituire ai cittadini l'arte e la storia delle città italiane (Minimum fax). 
Perché viene negato il valore civico dei monumenti a favore del loro potenziale turistico? E perché avidi usufruttuari mettono a reddito il patrimonio per produrre denaro? Tomaso Montanari, già autore di altri graffianti pamphlet (tra questi, La madre di Caravaggio è sempre incinta, Skira) parte dall'analisi del presente e risponde attraverso un viaggio "critico" nel nostro paese che tocca Siena, Venezia, Roma, Firenze, Napoli L'Aquila e altre città . E che racconta come, ovunque, vengano messi in atto esempi di quella "nuova "politica" che, di fatto, nega il valore civico dei monumenti a favore della loro rendita economica, a prova che non si vogliono "cittadini partecipi, ma consumatori passivi." Dalla fantasia inquinante che immagina, a Roma, piste di sci al Circo Massimo, a Firenze con gli Uffizi resi scenario per le sfilate di moda. Fino all'Aquila, dove nel centro storico la devastazione del terremoto si declina tuttora al presente.
Con il suo Le pietre e il popolo, Montanari denuncia lo sfruttamento dei luoghi d'arte; cita episodi e circostanze, e i rischi e i danni che producono. Ma, soprattutto, ricorda che la funzione civile del nostro patrimonio, storico e artistico, è uno dei principi basilari della nostra democrazia. E che, dunque, di fronte al pericolo che vinca la logica del mercato, non c'è che una soluzione: resistere, resistere, resistere.

Il nostro patrimonio artistico è ormai considerato "il petrolio d'Italia? Se è così, come è potuto accadere?
"Se la nascita del Ministero per i Beni culturali (1974) ha comportato la simbolica sottrazione del patrimonio alla sua altissima missione educativa (che era invece esplicita nell'unione con la scuola in seno alla Pubblica Istruzione), la politica culturale dagli anni ottanta craxiani in poi è stata guidata da un micidiale cocktail ideologico nel quale erano mescolati (in percentuali variabili, a seconda del singolo ministro) tre principali ingredienti: la dottrina del patrimonio come 'petrolio d'Italià (secondo la quale esso dovrebbe mantenersi da solo, o addirittura produrre reddito), la religione del privato con l'annesso rito della privatizzazione, e (specie dopo il ministero di Veltroni) lo slittamento 'televisivò per cui il patrimonio non ha più una funzione conoscitiva, educativa, civile, ma si trasforma in un grande luna park per il divertimento e il tempo libero. Chi prova a resistere alla privatizzazione del patrimonio viene bollato come un talebano ideologico. Ma è vero esattamente il contrario: è stato un cieco furore ideologico quello che ha scardinato il sistema di valori che la Costituzione aveva costruito intorno al patrimonio".

Città storiche, monumenti, che cosa si è perso e che cosa sta avvenendo?
"Per secoli la forma dello Stato, la forma dell'etica, si è definita e si è riconosciuta nella forma dei luoghi pubblici. Le città italiane sono sorte come specchio, e insieme come scuola, per le comunità politiche che le abitavano. Le piazze, le chiese, i palazzi civici italiani sono belli perché sono nati per essere di tutti: la loro funzione era di permettere ai cittadini di incontrarsi su un piano di parità. Oggi accade il contrario: le attività civiche vengono espulse da chiese, parchi e palazzi storici, in cui ora si entra a pagamento, mentre immobili monumentali vengono privatizzati o trasformati in attrazioni turistiche. Come in un nuovo feudalesimo, le nostre città tornano a manifestare violentemente i rapporti di forza, soprattutto economici. Tutto questo non mette a rischio solo le città di pietra, condannate ad un rapido ed irreversibile declino. Ad essere distrutta è in primo luogo la cittadinanza come condizione morale, intellettuale, politica. La quasi totalità dei nostri desideri e del nostro immaginario è asservita al mercato. Se pieghiamo a questo stesso, unico fine anche il poco che resta libero e liberante ci comportiamo esattamente come il Re Mida del mito e delle favole: ansiosi di trasformare tutto in oro, non ci rendiamo conto che ci stiamo condannando a morire di fame". 

Quale dovrebbe essere la funzione culturale del nostro patrimonio, e quale quello della storia dell'arte?
"Mentre è ormai ben chiaro - soprattutto per merito di Salvatore Settis - che la tutela del paesaggio è legata a doppio filo ai diritti fondamentali della persona, come per esempio la salute fisica e mentale, per quanto riguarda il patrimonio una simile consapevolezza non è stata ancora raggiunta. È sacrosanto voler difendere Pompei, gli Uffizi o la Pinacoteca di Brera perché sono 'belli', o anche perché rappresentano la nostra memoria collettiva. Ma forse è più importante fa comprendere che il vero motivo per cui la Costituzione li tutela e per cui noi li manteniamo con le nostre tasse, è che essi sono una scuola di cittadinanza, uno strumento di liberazione culturale, un mezzo per costruire l'eguaglianza in tutte le sue accezioni. In pratica questo significa non solo che il patrimonio (come la scuola) non può essere asservito al mercato, ma anche che la tutela deve essere funzionale alla ricerca e alla sua diffusione, perché la conoscenza è il più importante strumento per costruire la democrazia".

Da Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, Minimum fax: Firenze, città nemicaanticipazione.
"Il Fatto Quotidiano". Il blog di Tomaso Montanari.

... everything you always wanted to know about Jews


L'artista israeliano Ido Porat siede all'interno di una scatola di vetro allestita al Jewish Museum di Berlino per la mostra "The whole truth, everything you always wanted to know about jews''. Porat sarà il primo a dare vita alla performance che prevede un colloquio tra artista e visitatore sul tema dell'ebraismo. Per due ore al giorno, fino ad agosto, all'interno della scatola rimarranno seduti uomini e donne che potranno rispondere alle domande dei visitatori sulla cultura ebraica [Fonte "La Repubblica"].

sabato 30 marzo 2013

La pagella mondiale dell'inglese


È stato pubblicato l’English Proficiency Index, uno studio condotto da EF – Education First che rappresenta una sorta di pagellone globale della conoscenza della lingua inglese tra gli adulti lavoratori. L’EPI calcola il livello medio di conoscenza della lingua utilizzando i dati provenienti da tre test sostenuti ogni anno da centinaia di migliaia di adulti, raccolti in un arco di tempo che va dal 2009 al 2011. LEGGI TUTTO...

Fitzgerald, tenero è il ritorno con DiCaprio


Mentre l’attore incarna un nuovo Gatsby 
un’ondata di titoli (fuori diritti) dello scrittore che raccontò  il tramonto dell’Occidente

CLAUDIO GORLIER

"La Stampa - Tuttolibri", 27 marzo 2013

«La sua voce era piena di denaro». «Economicamente, sei un ragazzo, non una ragazza». Sono due citazioni a mio avviso decisive ricavate da romanzi di Francis Scott Fitzgerald. La prima fa parte, direi folgorante, del ritratto di Daisy in Il grande Gatsby; la seconda la si incontra in Tenera è la notte : è la madre di Rosemary rivolta alla figlia. In entrambe letteralmente esplode una delle linee di forza di tutta la narrativa di Fitzgerald: la forza insopprimibile, risolutiva e, se si vuole, tragicamente bifronte del denaro, appunto. La nuova versione del Grande Gatsby  con Leonardo DiCaprio, che arriva sugli schermi (sarà al Festival di Cannes), rilancia un personaggio già amato dal cinema. In più si sono esauriti i diritti di tutta l’opera fitzgeraldiana. Ecco allora un’ondata di ristampe. Il Grande Gatsby è uno dei primi titoli del nuovo ciclone editoriale dei volumetti a 0,99 (qualche mese fa la Newton Compton aveva già proposto in un «Mammut» l’opera omnia dello scrittore americano). Torna Tenera è la notte per Bur e Minimum Fax (la versione di Vincenzo Latronico è particolarmente brillante), si ricostruisce la dolente storia d’amore con Zelda in graphic novel... 
Le due citazioni possono servire come ideale punto di partenza. Intendiamoci: non è soltanto il denaro, la ricchezza, l’unico referente cruciale nell’opera di Fitzgerald. Un penetrante critico americano; John K. Roth, ne ha estrapolata per lo meno altri due: gioventù e bellezza fisica, ai quali si oppongono altri imperiosi opposti: l’età incalzante, la bruttezza, la povertà. Affiora così, e gradualmente si impone; il principio non soltanto estetico della «doppia visione», definita per primo da Malcolm Cowley: due modi di essere, due modi di rappresentare. 
Si impone in tutta l’opera di Fitzgerald un rapporto inesauribile tra realtà e simbolo, tra fattualità e disegno allegorico, che raggiunge il vertice supremo, esemplare, nel Diamante grande come l’Hotel Ritz.Come nessun altro, Fitzgerald rappresenta la crisi fatale del cosiddetto American Dream, il mito del Sogno Americano, ma a ben vedere stiamo assistendo al disfacimento fatale di tutta la civiltà occidentale, della sua illusione di Grandezza. Curiosamente, la valenza simbolica inizia con il suo stesso cognome. Fitzgerald, infatti, era di origine irlandese, e in gaelico «Fitz» significa «Figlio», magari illegittimo. 
Il simbolo forse più assoluto, esemplare, è l’orologio del Grande Gatsby, nella stanza ove Gatsby e Daisy si incontrano quando l’uomo spera di riconquistarla: l’orologio, momentaneamente fermo, rappresenta il tentativo di riconquistare il tempo, ma cade e si frantuma sul pavimento, e dunque sanziona la fine inesorabile del sogno. Più che mai, la vicenda individuale, privata, acquista una valenza decisamente simbolica, fatale. 
Con Tenera è la notte la problematicità della vicenda si riflette nella struttura del romanzo. Si arricchisce la prospettiva persino geografica, con lo spostamento degli Stati Uniti nella Riviera francese, mentre la sequenza temporale rinnega qualsiasi linearità, così come il gioco sui diversi punti di vista attraverso gli occhi dei personaggi. A sua volta, la sessualità muove tra tormento e innocenza, raggiungendo non di rado una peculiare ambiguità. «Si parla di ferite cicatrizzate... ma non esiste niente del genere nella vita delle persone», impara il protagonista, nelle parole stesse del narratore. Bellezza, danaro, si trasformano in malattia e fallimento morale. È il destino dei personaggi, è il destino dell’Occidente. 
È il momento supremo della tragedia, che non esiterei a definire dostoevskiana, nell’ultimo, incompiuto romanzo di Fitzgerald, The Last Tycoon, l’ultimo magnate. Gratuita, se volete, come nelle pagine iniziali, sanzionate del gratuito. Pensate: un aereo deve interrompere il suo volo per la California a Nashville, nel Tennessee, e i passeggeri visitano di notte, in ordine sparso, l’Hermitage, la splendida dimora del Presidente Jackson. Qui, in apparenza senza autentico motivo, uno di loro si uccide. È il preludio alla catastrofe finale. 
Mi perdonerete se vi dico che volli visitare una volta l’Hermitage al tramonto, e fu come rileggere le pagine del romanzo, come riflettere sulla vita e sulla morte. Tenera è la notte, in particolare, ci svela il senso della metamorfosi della vita umana, ma anche di una società che la tormenta. Credeteci o no, è la nostra, senza limiti di tempo. E allora, invece di preoccuparvi delle inquietanti graduatorie di Standard & Poors, leggete, o rileggete, Fitzgerald.

LO CHIAMAVANO IMPERO


Davide Coppo

Rivistastudio.com

Andare in Etiopia, alla ricerca di una storia, della propria storia, del passaggio di una nazione, alla ricerca di qualcosa da raccontare. L’ha fatto nel 2012 Vincenzo Latronico, scrittore, autore dei romanzi Ginnastica e rivoluzione e La cospirazione delle colombe (entrambi Bompiani). L’ha accompagnato, per il corredo fotografico, Armin Linke, fotografo. Ne è uscito un libro, si chiama Narciso nelle colonie. Un altro viaggio in Etiopia, il primo prodotto della neonata casa editrice Humboldt Books, fondata a Milano da Giovanna Silva; Humboldt si propone di rispolverare la letteratura di viaggio, quella, per dirla con una frase che forse non è del tutto sincera, “come si faceva una volta”. Cosa hanno fatto Latronico e Linke, dunque? Semplice: un viaggio. LEGGI TUTTO...

Quell’ora di sonno in meno e l’idea di tempo che se ne va


Da Sant'Agostino a Mann: la percezione dello scorrere dei giorni

Anna Meldolesi

"Corriere della Sera",  30 marzo 2013

Nonostante le ore di luce guadagnate, domani mattina sarà difficile liberarsi dalla fastidiosa sensazione che ci abbiano sottratto sessanta minuti. Come quando voliamo verso Est: più ci allontaniamo più il fuso orario sembra scipparci un pezzetto di vita. Dove finisce il tempo perduto?
Da nessuna parte, ovviamente. È tutta un'illusione percettiva. Minuti, ore e giorni ticchettano e passano imperturbabili, sfidando la nostra comprensione. «Cos'è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so. Se desidero spiegarlo a qualcuno che lo chiede a me, non lo so», scriveva Sant'Agostino.
I più fortunati trascorreranno i prossimi giorni senza lavorare. Una volta liberati da scadenze e cartellini da timbrare, forse sarà più facile sincronizzare l'orologio che portiamo al polso con quello interiore, che i neuroscienziati non sono riusciti con precisione a mappare. Forse. Perché la psicologia contempla anche un «effetto vacanze», che sembra farci sfuggire il tempo tra le dita, almeno nell'immediato. Come aveva intuito Thomas Mann, nel suo La montagna incantata, andare in villeggiatura gioca strani scherzi alla percezione del tempo. Aspettiamo quel momento per mesi ma, quando arriva, vola via in men che non si dica. Sono le novità che, interrompendo la routine, cambiano il ritmo dell'orologio mentale. Se ascoltiamo una serie di note uguali a eccezione di una (do-do-do-sol-do-do-do), il sol ci sembra più lungo. Lo spiega bene la psicologa dell'Università di Boston Claudia Hammond in Il mistero della percezione del tempo, appena pubblicato da Einaudi: quando l'attenzione si sposta, il meccanismo di tempificazione si rompe.
Paradosso per paradosso, avete notato che quando viaggiamo l'andata sembra più lunga del ritorno? Il bello è che le vacanze tornano a dilatarsi a distanza di tempo, nei ricordi. Ripensandoci abbiamo fatto così tante cose diverse dal solito, che il metro di misura normale ci restituisce il tempo apparentemente scomparso. Le valutazioni temporali in prospettiva e retrospettiva non quadrano più. Oddio, penserà qualcuno, è già Pasqua un'altra volta. «Ogni anno le feste arrivano prima, ogni anno sembra più corto».
In gioventù il tempo cammina, poi accelera fino a correre. Minuti e giornate restano uguali, ma gli anni si contraggono. Nabokov, lo scrittore, credeva che fosse una questione di proporzioni matematiche: se hai solo 20 primavere, un anno è un ventesimo della tua vita, ma diventa una frazione via via più piccola man mano che invecchi. Forse l'età ha un effetto telescopio: gli avvenimenti sembrano più vicini del vero. Ma il fenomeno potrebbe essere dovuto, almeno in parte, al fatto che molti dei nostri ricordi risalgono al periodo in cui si forma l'identità, quando tutto è nuovo, tra i 15 e i 25 anni. Il picco della reminiscenza, lo chiamano. Poi la vita diventa ripetitiva, e la rarefazione delle nuove esperienze disconnette prospettiva e retrospettiva.
È proprio questa la chiave di molti dei misteri del tempo, possiamo sfruttarla a nostro vantaggio? Di certo non sappiamo far girare indietro le lancette dell'orologio come racconta Lewis Carroll in Sylvie e Bruno, né possiamo invertire la freccia del tempo come hanno immaginato Martin Amis e Philip Dick. Vivere La vita all'incontrario, ringiovanendo fino a scomparire con un orgasmo nel ventre materno, è il surreale esperimento del pensiero cantato da Simone Cristicchi.
Ma il tempo psicologico, come si fa a domarlo? Gli psicologi hanno dimostrato che la paura e l'infelicità lo frenano, ma lo scambio non è allettante. Forse un tempo lento è meno desiderabile di quel che pensiamo, sostiene Claudia Hammond. Probabilmente è meglio accontentarsi di allungarlo in retrospettiva, vivendo in modo più intenso e più vario per accumulare ricordi come in una perenne villeggiatura. Oppure no, mettiamoci in poltrona e rilassiamoci. Non ne serberemo memoria, ma forse è anche di tempo perso che abbiamo bisogno.

Una Fondazione per Zanzotto


Nasce un centro di poesia dedicato ai giovani 
nella casa d’infanzia del poeta trevigiano

Angela Pederiva

"Corriere del Veneto", 28 marzo 2013

«Provavo qualche cosa di infinitamente dolce ascoltando cantilene, filastrocche, strofette, non in quanto cantate, ma in quanto pronunciate o anche semplicemente lette, in relazione ad un’armonia legata proprio al funzionamento stesso del linguaggio, al suo canto interno ». Così nel suo Autoritratto, inserito fra Le poesie e prose scelte (a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Mondadori, 1999), Andrea Zanzotto ricordava con struggimento i suoni della sua infanzia. Come si sarebbe compiaciuto di quel racconto papà Giovanni, il pittore che nel suo primogenito avrebbe tanto voluto coltivare un talento musicale, non sapendo ancora quanto invece il dono del componimento avrebbe reso Andrea un grande del Novecento. Ma proprio alla musicalità dei versi, nell’essere scritti e nell’essere declamati, sarà dedicato il «Centro di poesia» che sorgerà a Pieve di Soligo in memoria del suo concittadino più illustre. «Una struttura dinamica, viva, aperta ai giovani».
Ad immaginare così il futuro «Museo Andrea Zanzotto», anche se «più che ad una struttura espositiva penso ad un circolo letterario», è il presidente del consiglio regionale Clodovaldo Ruffato. Un articolo della Finanziaria, approvato a larghissima maggioranza dall’assemblea di Palazzo Ferro Fini, prevede infatti lo stanziamento di 150 mila euro a favore della costituzione di una Fondazione che porti il nome del letterato. In particolare la somma servirà al recupero della sua casa natale. Se infatti l’abitazione di Zanzotto poeta si trova in via Mazzini, cenacolo in cui trionfavano gli amati libri e gli adorati gatti, la dimora di Zanzotto bambino sorge in contrada Cal Santa, centro del suo mondo fin dalla tenerissima età. «L’idea è nata sostando davanti a quel vecchio edificio - spiega Ruffato - subito dopo aver fatto visita al maestro per consegnargli il Leone del Veneto». Era il 10 ottobre 2011: quel dì Zanzotto compiva novant’anni e nessuno poteva sapere che otto giorni dopo sarebbe morto. «Proprio la sua improvvisa dipartita - riprende Ruffato - ci ha consegnato un dovere morale: trasformare l’emozione suscitata dalla visione di quel piccolo ma bellissimo rustico, pieno di testimonianze e oggetti legati alla sua vita, in una realtà che ne tramandi le opere alle presenti e alle future generazioni. In questo senso è stata immediata la nostra decisione di individuare un percorso che consentisse di acquisire l’immobile, salvaguardandone destinazione e funzione».
Il progetto è appena partito. Della nuova Fondazione «potranno far parte enti e istituzioni che nel tempo hanno riconosciuto la figura del poeta e promosso la sua opera»: dunque la Regione, ma anche il Comune, «naturalmente in accordo con la famiglia». La vedova di Zanzotto, Marisa Michielli, per ora non si sbilancia sul progetto, si riserva di approfondire il programma: «Vedremo più avanti». Il sindaco di Pieve Fabio Sforza invece è già pronto: «Aspettiamo solo indicazioni da Venezia dove, pur in un momento molto difficile per i bilanci degli enti pubblici, è stato dato un segnale di significativa importanza rispetto alla grandezza del poeta Zanzotto. Fra l’altro condividiamo l’impostazione secondo cui non dovrà essere realizzata una sede museale fine a se stessa, ma una struttura che permetta la fruizione e la diffusione delle opere di Zanzotto». Per il momento nessuno se la sente di azzardare tempi di apertura del centro di poesia. Ma sul fatto che debba essere un polo vitale, vero e proprio cuore pulsante dell’indagine sulla poetica zanzottiana e autentica fucina di una nuova produzione culturale, nessuno ha dubbi. «Chiamiamola pure casa-museo, ma quella dedicata a Zanzotto dovrà essere viva, come vive erano e rimangono le sue poesie», sottolinea ancora Ruffato, che lancia un appello: «Occorre il sostegno di tutti, anche degli imprenditori».

"Quelli che..."


Enzo Jannacci

I nuovi analfabeti


La metà degli italiani non capisce un bugiardino o un foglio di istruzioni. 
È un Paese di illetterati di ritorno. Complice la tecnologia

SIMONETTA FIORI

"La Repubblica", 29 marzo 2013

E' esagerato sostenere che siamo un popolo di analfabeti? Immaginiamo di essere convocati da un'équipe di studiosi, davanti a noi un questionario da compilare sotto lo sguardo vigile degli esaminatori. Livello uno. La prima domanda riguarda un certo farmaco: per quanti giorni al massimo è possibile assumerlo? Il foglio riproduce l'etichetta del medicinale, che indica con esattezza il numero dei giorni. Non ci sono altre informazioni: solo il numero dei giorni, niente altro.
Livello due. Questa volta bisogna scrivere che cosa accade a una pianta ornamentale se viene
esposta a una temperatura minima di 14 gradi o meno. Basta leggere un brevissimo articolo, sotto il capitoletto Come curarla: «Se la pianta è esposta a temperature di 12°-14° perde le foglie e non fiorisce più». L'informazione è chiara, conia sola differenza rispetto al livello uno che è preceduta da un'altra notizia sulla pianta.
Livello tre. C'è una pagina di un manuale di biciclette e viene chiesto cosa si deve fare perché il sellino sia nella posizione giusta. La risposta è contenuta in un paragrafo intitolato Messa a punto della bicicletta. Non è la sola informazione contenuta nella pagina. In sostanza, si tratta di farsi largo tra quattro o cinque informazioni diverse e scegliere quella giusta.
Gli esiti dei questionari nel nostro paese?Solo il 20 percento di italiani è in grado di superare il terzo livello, ossia mostra competenze sufficientemente sicure. Per il resto, il 5 per cento della popolazione non sa rispondere alla domanda sul farmaco, ossia non supera le prove minime di competenza. 
Quasi la metà degli italiani si smarrisce davanti alla pianta ornamentale, mostrando una competenza alfabetica molto modesta, «al limite dell'analfabetismo», recita il rapporto All. E il 33 percento non è capace di sistemare il sellino della bicicletta, ossia denuncia «un possesso della lingua molto limitato». E le cose non vanno meglio nell'esecuzione dei calcoli matematici e nella lettura di grafici o tabelle: anche in quest' ambito l'80 per cento degli italiani fa molta fatica. Siamo un popolo di illetterati, che però non sa di esserlo. E forse non vuole neppure saperlo. 
L'analfabeta del nuovo secolo mostra caratteristiche assai diverse dal più malmesso progenitore, che non sapeva leggere né scrivere. La versione più aggiornata può vantare una pur minima scolarizzazione talvolta anche molto più che minima che però è andata polverizzandosi nel tempo, spazzata via da crescenti difficoltà nella comprensione di un testo elementare o nella più semplice delle operazioni. Ma se un tempo l'analfabeta assoluto era disposto anche ad uccidere pur di nascondere la sua vergognosa condizione, l'illetterato contemporaneo galleggia nella totale incoscienza, includendo nel proprio status categorie sociali al di sopra di ogni sospetto, anche felicemente confortate da buoni redditi. Un'illusione
di civiltà destinata tra poco a essere infranta dall'Ocse, che renderà pubblica in ottobre la grande inchiesta internazionale sull'Italia (per la prima volta inclusa la popolazione immigrata) e altri ventiquattro paesi, tra Europa e America, Asia e Australia.
Le anticipazioni certo non rallegrano. L'indagine pilota promossa da Piaac-Ocse conferma l'alto tasso di illetteralismo italiano - più o meno i recenti dati riportati sopra - ma con un nuovo rischio rispetto al passato, ossia la minaccia che il fenomeno possa drammaticamente contagiare le nuove generazioni.
Il rapporto reso ora pubblico dall'Isfol - realizzato tra aprile e giugno 2010 e con un valore ancora parziale - ci dice in sostanza che, oltre al tradizionale serbatoio di pensionati e casalinghe (attenzione: non vecchietti e vecchiette, visto che il target va dai 16 ai 65 anni), la fascia più vulnerabile è quella che include i disoccupati dai 26 ai 35 anni. Finita la scuola, le competenze tendono a diminuire, specie quando non vengono avviati nuovi processi di apprendimento legati al lavoro. E l'analfabetismo di ritorno minaccia di inghiottire le leve più giovani, proprio quelle a cui è affidato il futuro del paese. Ma chi sono gli illetterati italiani? E dove si concentrano? Lo zoccolo duro coinvolge le fasce anagraficamente più elevate, distribuito soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole, nei piccoli centri più che nelle grandi città. Male inchieste condotte da Vittoria Gallina - la studiosa che con pazienza certosina da oltre dieci anni monitorizza il popolo italiano - ci dicono che gli analfabeti di ritorno si annidano anche Ira i piccoli imprenditori del Nord Italia, in Lombardia più che in Piemonte. E se la Campania è certo più in basso rispetto alla media nazionale, l'operosa Padania non si innalza più di tanto dalle cifre della vergogna italiana, che nelle zone industrializzate si concentra tra disoccupati e operai con le mansioni più basse ma non esclude i padroncini di aziende con qualche dipendente.
Anche un'inchiesta del Cede di qualche anno fa disegnava il profilo dell'analfabeta benestante, con un reddito personale superiore a 40 mila euro e proprietà di famiglia oltre i 140 mila. Persone che vivono come una minaccia l'invito allo studio perché nonne avvertono la necessità. Una tendenza che viene favorita dalla tecnologia, soccorrevole nel colmare-e dunque nel nascondere le enormi lacune degli italiani somari. Non siamo più in grado di leggere una mappa stradale° di fare un calcolo? Navigatore e calcolatrice sono lì per aiutarci.«Il benessere economico ti risolve ogni problema», sintetizza Arturo Marcello Allega, autore del documentato saggio Analfabetismo. Il punto di non ritorno (Herald Editore). «Se devo far dei conti, vado dal commercialista. Se devo evadere il fisco, mi consulto con il mio notaio. E peri documenti mi rivolgo a un'agenzia di servizi. Questo è il nuovo modello di adulto e di felicità». Che si realizza però quando il reddito lo consente. E l'illetteralismo ci  aggiornano i sondaggi ai tempi della crisi è un impedimento gravissimo, non più tollerato da una società complessa. 
Il nuovo analfabetismo «funzionale» ci riporta a quel 70 per cento di analfabetismo assoluto che segnò il principio della nostra storia nazionale, miracolosamente battuto nell'arco di un secolo e mezzo. Un trionfale grafico dell'Istat disegna il crollo dai livelli altissimi del 1861 - 80 per cento perle donne, 70 per cento per gli uomini - all'attuale uno per cento. Sembra definitivamente archiviata l'immagine del contadino che firma tracciando una croce. «Ma è molto difficile che un vero analfabeta ammetta di esserlo», obietta la professoressa Gallina, propensa a contenere gli entusiasmi. «Più verosimile che tenda a nasconderlo, affidando ad altri la compilazione del questionario». La letteratura gialla è ricchissima di omicidi perpetrati da analfabeti disposti a tutto pur di celare la propria condizione. Qualche anno fa il linguista  Massimo Vedovelli si prese la briga di catalogarli e nella gran parte della storie da Ruth Rendell a Bernard Schlink l'analfabetismo  assurge a generatore di morte, non solo e non tanto individuale ma del sistema sociale.
Quello di nuovo conio è invece socialmente accettato, anche perché protetto dall'inconsapevolezza. Chi è analfabeta di ritorno, in altre parole, ne è serenamente ignaro, condividendo la sua condizione con l'80 per cento della popolazione. Un'emergenza alfabetica
causata anche dalla limitatezza della scolarizzazione in Italia: nel 2002, il 63 per cento con più di 15 anni aveva ancora al massimo la licenza media. È questo il dato che trasforma in patologia un fenomeno regressivo comune alla quasi totalità dei paesi avanzati. A ricordarcelo è Tullio De Mauro, lo studioso che più di tutti ha fatto della battaglia all'analfabetismo una missione civile e culturale. «Nel nostro paese», denuncia sulla rivista ll Mulino,«ai residui massicci di mancata scolarità si sommano fenomeni di de-alfabetizzazione propri delle società ricche». La sua sintesi induce allo sconforto. «Solo una percentuale bassissima di italiani è in grado di orientarsi nella società contemporanea, nella vita della società contemporanea, non nei suoi problemi». Un grave deficit  che è anche un limite nell'esercizio di cittadinanza, e dunque un temibile avversario per la democrazia, inspiegabilmente ignorato dalle nostre classi dirigenti. Quando non viene cavalcato con lucido discernimento.
Naturalmente c'è anche chi sta peggio di noi, ma per trovarlo bisogna volare in Centro America. È lo Stato dí Nuevo León, in Messico. Noi e loro, gli ultimi della classe.

COSÌ SI È RISTRETTO IL VOCABOLARIO

MARIAPIA VELADIANO

La lingua del mercato. Mi piace, non mi piace. Voglio, non voglio. Compro, non compro. Stupendo, orrendo. Santo, delinquente. Italiano, straniero. Fascista, comunista. Amico, nernico. Noi, loro. Semplificata, poche parole, scalpellate e puntute, da tirarsi in testa all'occorrenza. Poche idee. Scalpellate anche loro. Niente sfumature, solo quelle di grigio, rosso o nero, all'occorrenza. Chi insegna conosce bene questa lingua. La trova nei temi e nei saggi brevi, che dovrebbero argomentare e invece hanno la protervia (superbia insolente, arroganza ostinata, sfrontata, petulante, scrive il dizionario Treccani) di un oracolo a fine carriera. È fatta di frasi brevi, assertive. 
Parole pochissime, come fendenti. Gonfie, retoriche, slogan. Si spiega con rigore che la propria tesi va sostenuta con parole il più possibile chiare e condivise, che la tesi contraria ci deve essere sempre presente, perché qualche elemento di ragione ha da avere con sé e comunque si deve essere pronti a confutarla.
Si ricorda che è un'arte il pensare, come il parlare. E invece. La lingua che la maggior parte di noi conosce e usa quasi non ci permette di capire il necessario per il vivere minuto: un modulo da compilare, le condizioni di conservazione di un farmaco.
La bella storica battaglia contro la schiavitù dell'analfabetismo si sta rovesciando in una silenziosa impensata disabilità, analfabetismo funzionale, leggo ma non capisco. Una sconfitta subdola.
Dar la colpa alla scuola che non insegna, ai libri di testo sempre troppo difficili peri ragazzi eppure sempre più ammiccanti, nella lingua, a una medietà senza qualità, accusare la scuola, contro cui si è accanita la politica di un ventennio, è una scorciatoia bugiarda che può prendere solo chi non sa cosa succede in aula. Perché di sicuro la scuola con tutte le forze viaggia controvento. Ma le parole colorate che fan festone nella aule delle elementari, le mille scritture che si incontrano nei romanzi letti in classe e proposti a casa, e nelle antologie e, ormai da tempo, le straordinarie esperienze di "scuola d'autore" che coltivano la scrittura creativa dei ragazzi e delle ragazze, sono realtà importantissime, ma rischiano di restare "cose di scuola" se poi il parlare del mondo intorno è raggelante. 
Si apprende la lingua soprattutto attraverso l'esposizione a un bel parlare. Tv, giornali e web costruiscono il modello corrente di lingua, molto più della buona letteratura, e non solo perché si legge poco, e questo è male per millemila ragioni, ma perché la lingua sciatta del mercato dilaga nei libri anche, buona per tutti i generi, giallo, fantasy, thriller o romanzo d'amore: assertiva, paratattica e soprattutto facile, facile facile.
Nei notiziari ha la forma del virgolettato cubitale e spesso scorretto prima di dare il contesto: «Il disastro poteva essere evitato» (che è solo l'ipotesi di un gruppo di scienziati chissadove, ce lo ricordano chi sa quando) . «Fra vent'anni la popolazione italiana sarà scomparsa e al suo posto ci sarà un potpourri di immigrati» (iperbole che è la proiezione di un'indagine, forse, e forse alla fine del servizio ce lo faranno scoprire). 
E si chiude la tv più arrabbiati, più spaventati e pochi sanno del pot-pourri ci dicono le indagini, ma disastro, scomparsi e immigrati hanno la potenza delle emozioni. Così si aiuta a costruire
una lingua povera povera, adatta a schierarsi e a fare il tifo, io di qua e tu di là, ma non a capire, a capirsi. Difficile ragionare di questo perché lo si fa dalla sponda di chi le parole le coltiva per lavoro o per passione e a volte quel che accade davvero gli arriva improvviso in forma di indagine internazionale che ci colloca appena sopra il Nuevo Leòn (stato del Messico, a nord est, dice un buon atlante). Una bufera sulla nostra sicumera (sussiego e presunzione, scrive il dizionario Treccani) di sapere le cose proiettando tutto intorno a noi le nostre convinzioni. Ma se la consapevolezza arriva bisogna spaventarsi e resistere. E difendere la scuola, e la bella lingua e letteratura E i bambini. I bambini c'entrano, e anche i ragazzi, visto che ín questi giorni alla Children's Book Fair di Bologna altre indagini ci hanno appena detto che in realtà loro leggono, molto molto più di noi adulti, e amano leggere. Esporli a una buona letteratura è un atto necessario. Poche parole vuoi dire pochi pensieri. Anche per difendersi, difendere chi ha bisogno. E probabilmente non capire il bugiardino di un farmaco «nuoce gravemente alla salute», anche se l'inflazione noncurante dell'espressione ripetuta su tutti i canali ne abbassa la pericolosità percepita. Ma di sicuro non capire un articolo di giornale o una proposta di legge nuoce gravemente alla nostra vita civile, alla nostra convivenza e alla nostra umana necessità di dirci e di capirci.

venerdì 29 marzo 2013

Il potere al tempo dei 140 caratteri


Noam Chomsky

"Il Fatto",  29 marzo 2013

Da “Sistemi di potere” (Ponte alle Grazie editore),
 raccolta di interviste rilasciate da Noam Chomsky 
al giornalista americano David Barsamian.

Bob Marley, il famoso cantante reggae giamaicano, cantava un celebre verso: “Emancipati dalla schiavitù mentale”. È un tema, questo, che ritorna spesso nelle sue opere.
Sì, è vero. Quando gli individui hanno cominciato a reclamare maggiore libertà per non essere asserviti o uccisi o repressi, si sono sviluppate spontaneamente nuove modalità di controllo per imporre una forma di schiavitù mentale che le inducesse ad accettare un sistema di indottrinamento senza fare domande. Se si possono ingabbiare gli individui in modo che non si accorgano delle dottrine fondamentali né tantomeno le mettano in discussione, allora essi sono asserviti. Non fanno che eseguire gli ordini, come se avessero una pistola puntata alla tempia.
In alcuni dei suoi seminari, a chi le chiede come reagire ai problemi che tratta, lei ribatte che si deve cominciare con lo spegnere il televisore.
La televisione inculca schemi di pensiero rigidi, che senz’altro ottundono le menti. Le dottrine non vengono formulate in maniera esplicita. Non è come la Chiesa cattolica: “Devi credere in questo. Devi leggere questo ogni giorno, devi ripetere questo ogni giorno”. È solo insinuato. Si insinua un sistema, e alla fine le persone lo fanno proprio. Un valido sistema di propaganda non esplicita i propri principi o le proprie intenzioni. È una delle cause dell’inefficacia del vecchio regime sovietico, per quanto ne sappiamo. Se si dice alle persone: “Dovete pensare così”, allora capiscono che è quello che il potere vuole che pensino, quindi escogitano un modo per sottrarsi a tale costrizione. È più difficile liberarsi da un sistema di presupposti non dichiarati che non da una dottrina esplicitamente enunciata. È così che funziona una buona propaganda. Il nostro apparato propagandistico è molto sofisticato. I fautori di questo sistema danno l’impressione di sapere perfettamente cosa fanno. Prendiamo le presidenziali americane del 2008 che, al pari di tutte le elezioni, non sono state altro che un grande evento di pubbliche relazioni. L’industria pubblicitaria aveva ben chiaro il proprio ruolo. Tanto è vero che, poco dopo le elezioni, la rivista Advertising Age ha assegnato l’annuale riconoscimento per la migliore campagna marketing alla campagna elettorale di Obama, organizzata appunto dall’industria delle pubbliche relazioni. Anzi, si è aperto un dibattito sulla stampa economica per questo riconoscimento. C’era euforia negli ambienti economici. Questo evento cambierà lo stile della comunicazione dei board aziendali. Sappiamo ingannare le persone meglio che in passato. Evidentemente nessuno credeva davvero che il vincitore fosse stato scelto per le sue politiche o i suoi propositi: era semplicemente una buona campagna marketing, meglio di McCain.
Mi chiedo quale sarà il futuro dei libri in una cultura dominata dall’immagine. E lo chiedo a lei, che è un lettore vorace. Le sue abitudini in questo senso sono leggendarie. Siamo seduti nel suo ufficio, circondati da pile di libri. Come riesce a finirli tutti?
Non ci riesco, purtroppo. Questa è la pila dei libri urgenti. Ce ne sono molti altri accatastati altrove. Una delle esperienze più dolorose che cerco di evitare, nei limiti del possibile, è calcolare quanto tempo ci vorrebbe per finirli tutti, se leggessi con costanza. Leggere un libro non significa solo sfogliare le pagine. Significa riflettere, individuare le parti su cui tornare, interrogarsi su come inserirle in un contesto più ampio, sviluppare le idee. Non serve a niente leggere un libro se ci si limita a far scorrere le parole davanti agli occhi dimenticandosene dopo dieci minuti. Leggere un libro è un esercizio intellettuale, che stimola il pensiero, le domande, l’immaginazione. Temo che tutto ciò scomparirà. Se ne vedono già le avvisaglie. Negli ultimi dieci-vent’anni qualcosa è cambiato nei miei corsi: un tempo, quando facevo dei riferimenti letterari, gli studenti sapevano più o meno di cosa stavo parlando, ma ora questo accade sempre più raramente. Me ne accorgo dalle lettere in cui mi pongono di continuo domande su quello che vedono su YouTube e mai su un libro o un articolo. Spessissimo capita che giustamente mi chiedano: “Lei sostiene questo, ma su quali prove si fonda? ”. E magari in un articolo scritto nella stessa settimana in cui ho tenuto quella conferenza c’erano note e analisi, ma a loro non è neanche venuto in mente di cercarle.
Cosa pensa di Twitter, in cui si hanno 140 caratteri a disposizione per dire qualcosa?
Ricevo una tonnellata di email, e sempre più spesso i messaggi sono domande o commenti di una frase, a volte così brevi che stanno nell’oggetto della mail. Bev mi ha fatto notare che è appunto la lunghezza dei messaggi di Twitter. Se si analizzano questi messaggi si nota una certa coerenza: danno l’impressione di qualcosa che è stato appena pensato. Magari cammini per la strada, ti viene in mente un pensiero e lo twitti. Ma se ti fermassi a pensarci per due minuti, o facessi un minimo sforzo per riflettere sull’argomento, non lo invieresti. A dire il vero, sono arrivato al punto che a volte mando una lettera solo per dire che non sono in grado di rispondere a una domanda di una sola riga.

La modernità del mito di Orfeo misterioso, animista, impalpabile


Pietro Citati

"Corriere della Sera", 29 aprile 2013


«Canta e suona con la lira, affascina uomini, belve e alberi» Orfeo è nominato per la prima volta dal poeta Ibico, che parla di «Orfeo dal nome famoso»: per Pindaro è «il citarista padre dei canti per virtù di Apollo»; per Eschilo, è «colui che incanta la natura intiera con i suoi carmi». A partire dal quinto secolo, le sue immagini si moltiplicano: lo vediamo su una barca, mentre suona la lira e incanta con la voce e la musica: circondato dagli uccelli e dagli animali selvaggi: mentre sale in cima a un monte, per adorare il Sole-Apollo, suo padre; o discende agli Inferi per accompagnare o farne uscire la moglie Euridice; finché le Menadi lo dilaniano e la testa, staccata dal corpo, continua a cantare i versi di un oracolo. Sebbene sia greco, Orfeo non appartiene alla tradizione omerica, né a quella mediterranea: risale indietro nel tempo, nel mondo magico preellenico. La sua biografia di musico e di cantore ricorda quella di uno sciamano: fondatore di misteri, iniziazioni e purificazioni, che conosciamo sotto il nome di «orfismo».
Secondo Orfeo e gli orfici, l'anima, per punizione di un crimine primordiale, viene rinchiusa nel corpo come in una tomba. La morte costituisce il principio della vera vita: l'anima si incarna una seconda volta, e poi si reincarna sempre di nuovo, condannata a trasmigrare fino alla liberazione definitiva. Gli orfici favoriscono questa liberazione, astenendosi dai sacrifici cruenti, obbligatori nel culto ufficiale, e rifiutando il sistema religioso greco, inaugurato dal primo sacrificio sanguinoso di Prometeo. Così, ritornando alle abitudini vegetariane, espiano la colpa ancestrale e sperano di recuperare la beatitudine originaria, quando tutto il mondo viveva in una condizione orfica. 
Attorno alle origini del mondo, l'orfismo raccoglie una serie di miti. Il primo grande dio è Eros: scaturisce dall'Uovo primordiale, che è stato formato dal Tempo nell'etere, ed è il principio della creazione degli altri dèi e dell'universo. Oppure la Notte genera Urano e Gaia: o il Tempo emerge dall'Oceano; o l'Uno partorisce il conflitto. Un altro grande mito racconta che i Titani, figli della Terra, si gettarono su Dioniso bambino, lo uccisero e banchettarono con la sua carne. Zeus li folgorò con un fulmine, e da queste ceneri si generò la razza umana. Noi siamo dunque composti di natura divina e terrestre: nostro dovere è coltivare in noi il divino elemento dionisiaco e sopprimere quello titanico e terrestre, partecipando a riti di iniziazione e di purificazione. 
* * *
La Fondazione Lorenzo Valla e l'editore Mondadori stanno per pubblicare il quinto volume delle Metamorfosi di Ovidio sotto la direzione di Alessandro Barchiesi: testo critico di Richard Tarrant, commento di Joseph P. Reed. Tra i molti episodi, questo volume comprende una lunga e bellissima versione del mito di Orfeo, che una fitta serie di rapporti collega all'infinita e imprendibile totalità delle Metamorfosi.
Ovidio ama moltissimo tutto ciò che è iniziatico e misterico: tutto ciò che è nascosto e segreto: quindi dovrebbe amare questo aspetto di Orfeo; eppure non rivela la minima parte delle iniziazioni e purificazioni predicate dall'orfismo. Orfeo è, per Ovidio, sopratutto un narratore di metamorfosi: un suo doppio, proiettato nel mondo del mito, nel quale talvolta si affaccia il volto di un secondo narratore. Questi racconti discendono da quelli di Ulisse nell'Odissea: mentre Ulisse narra ai Feaci e ad Eumeo, attrae, ammalia, incanta, affascina; e come lui affascinano le voci di Ermes, delle Sirene, di Circe e di Calipso. Chi viene sottoposto al fascino perde il controllo di sé: posseduto, stregato, ridotto al silenzio; addormentato, diventato una cosa, costretto alla morte.
Così accade nelle Metamorfosi. Quando Orfeo canta e suona la lira, affascina gli uomini, gli uccelli, le belve, le pietre, sopratutto gli alberi: molti di essi hanno dietro di sé una storia umana. Il fascino accompagna ed avvolge le metamorfosi, che percorrono, dall'inizio alla fine, il libro di Ovidio. Il mondo non è semplice ed unico, come sembra: ogni figura contiene in sé un'altra figura, ogni apparenza contiene in sé un'altra apparenza. La morte colpisce il mondo, ma viene immediatamente abolita, e trasformata in un'altra esistenza, obbedendo ad una fluidità senza fine. Con arte sottilissima, Ovidio-Orfeo si china sul minimo, l'impalpabile, il leggerissimo: fissa il luogo dove le due figure si fondono; ma resta incerto se le sensazioni evocate appartengano alla figura che muore o alla figura che nasce, o alla doppia figura che nasce dal loro incontro.
Ecco il fanciullo Cipresso che diventa l'albero di cipresso: «Le sue membra, rese esangui dal pianto infinito, / presero a mutare tingendosi di verde, / e quei capelli, che un attimo prima scendevano / sulla candida fronte, a farsi ispida chioma: irrigidito, / ma gracile in cima, si protende verso il cielo stellato». Ecco il ragazzo Giacinto, che muore e diventa il fiore di giacinto. «Come quando qualcuno, in un giardino irriguo, stronca / viole, papaveri o gigli da cui sporgono fulvi pistilli, e quelli / subito appassiscono, chinano il capo diventato troppo pesante, / non stanno più ritti e con la corolla guardano il suolo, / così il volto del morente si abbandona, il collo, / perso ogni vigore, è di peso a se stesso e ricade sulla spalla.../ Il sangue, che sparso al suolo aveva macchiato l'erba, / cessa di essere sangue: spunta un fiore più fulgido / della porpora tiria e prende una forma simile al giglio: / solo che il giglio è d'argento, mentre questo è di porpora».
Non c'è limite alla morbidezza: mai, credo, racconto fu morbido come quello di Pigmalione innamorato della sua creatura di avorio e di miele. «Un giorno scolpì con arte stupefacente dell'avorio, / bianco come la neve, gli diede una bellezza che nessuna / donna reale potrebbe avere, e si innamorò del suo capolavoro. / Sembra una fanciulla vera, crederesti sia viva / e, se non fosse che è timida, in grado di muoversi: / è un'arte così grande che non si vede. È incantato, / Pigmalione, e nel petto prende fuoco per un corpo non vero. / Spesso accarezza la statua per capire se è carne, / oppure avorio, e non riesce a decidere per l'avorio, / le dà dei baci, gli sembra che siano ricambiati, le parla e l'abbraccia / e gli sembra che le dita affondino nelle membra / lì dove tocca, e teme premendo di lasciare dei lividi negli arti. / ... Di nuovo la bacia, e con le mani le accarezza il petto: / l'avorio accarezzato si ammorbidisce, perduta la durezza / cede e si infossa sotto le dita, come la cera dell'Imetto / si fa duttile al sole e plasmata col pollice si piega / assumendo le forme più varie, e più è usata più cede. / Stupito, e incerto se esultare o temer di fallire, / più e più volte l'innamorato tasta l'oggetto del suo desiderio: / è proprio di carne. Le vene pulsano alla pressione del pollice».
Intanto il tempo passa e trascorre su queste figure che si muovono: il tempo, la cosa più leggera e impalpabile dell'universo. Ovidio-Orfeo si fa tempo. Allunga e protrae gli enjambements: corteggia la prosa, emula il parlato, gioca con l'ironia, e mai come qui la sua arte è meravigliosa.

Rassegna iconografica: CLICCA QUI. 

Il canto instancabile di Orfeo

E. Bencivenga

"Domenica- Il Sole 24 Ore", 25 novembre 2012

Il poeta crea, portando ordine nel caos, rischiarando le tenebre, calmando l'ansia e l'orrore. Un mondo inerte si anima al suono dei suoi canti e acquista una forma più armonica, meno foriera di minacce: le onde del mare si quietano, i pendii addolciscono la loro ruvidezza, l'erba che li ricopre danza a un ritmo sereno. Le pietre si sollevano e spontaneamente compongono un tempio. Si ammansiscono fiere; acqua zampilla dalle rocce; si smuovono foreste. La materia greve che fa di tanti esseri umani ottusi e inconsapevoli bruti, pronti solo alla violenza e all'oltraggio, diventa spirito: ragione e comunicazione, conoscenza e progetto. I barbari arano campi e edificano torri e piazze; il vate con la lira in mano, uomo e donna insieme, pulsante d'amore e di potenza generativa, svela loro i misteri benefici dell'accordo e della cooperazione.
Il poeta è spinto dalla musa, cera flessuosa nelle sue mani, timido ostaggio in sua balìa, efficace strumento per i suoi scopi. Così pungolato, visita ogni angolo della Terra, ascende al cielo, s'inoltra negli abissi infernali del peccato e del dolore, tacitando anche il loro strazio con i suoi versi. Tradito per un attimo da un'insana curiosità, volge lo sguardo per rimirare l'origine di tanto vigore: in quell'attimo desidera anche lui, come ognuno dei suoi mediocri discepoli, capire, appropriarsi, controllare. Ma proprio allora, mentre si specchia nell'inquieta origine della sua forza e ne coglie l'intima, assoluta necessità, l'immagine svanisce, inghiottita dai medesimi abissi insondabili dai quali egli l'aveva evocata. Bisogna avere il coraggio di guardare sempre e solo avanti.
Il poeta, che combatte la paura, ne è vittima. È respinto dalla società dei vili, aggredito da un mondo che, incapace di suoni, fa tremendi rumori; incapace di reverenza e stupore, insulta e distrugge. È fatto a pezzi, «ucciso perché è diverso, per quel che sapeva e insegnava, per come amava»; ma la sua testa staccata dal corpo, portata a riva dalla marea nell'isola di Lesbo, non cessa di cantare e la sua voce risuona ovunque, instancabile, nel vento, tra le fronde e tra i flutti. Una, mille volte risorgerà; una, mille persone gli faranno onore raccogliendone il retaggio. Perché il poeta non muore: è la vita stessa del cosmo. Sappiamo molto poco di Orfeo, di cui qui sopra ho adombrato la personalità e la storia ammesso che sia davvero esistito. Nel l'antichità gli vennero attribuite numerose opere: fra le altre, un trattato di astrologia, uno sulle piante, libri sulla creazione del cosmo e sui nomi degli dèi. Quasi tutto è perduto. Quel che ancora circola sotto il suo nome, ed è probabilmente apocrifo, sono il suo resoconto del viaggio degli Argonauti, 87 inni e il poema Lithica, sulle proprietà magiche dei minerali. Se la sua produzione è scarsa e incerta, però, il suo nome, la sua figura e il suo messaggio sono onnipresenti nella nostra cultura, e a questa presenza Ann Wroe, storica e giornalista, autrice di biografie di Pilato e Shelley, dedica un testo erudito e appassionato, composto con cura e con grazia: Orpheus: The Song of Life.
Seguiamo dunque alcuni degli innumerevoli echi lasciati dal padre dei poeti, ricordando che «ogni epoca lo reinventa, ma nessuna mette su di lui uno stampo definitivo, perchè il giovane con la lira cambia a seconda di chi lo incontra». Rilke ne scrive, anzi gli scrive: lo provoca e lo interroga. «È facile per un dio», gli dice; ma quando verserai la terra e le stelle dentro di noi? Marsilio Ficino ricostruisce la sua lira e ne canta gli inni appena scoperti per trovare pace. Francesco Bacone giudica la sua morte una metafora delle umane vicende e Carl Gustav Jung lo frequenta nei suoi sogni e nelle sue visioni per scoprire il proprio destino. Jean Cocteau nel film omonimo lo accasa nei sobborghi di Parigi e lo fa innamorare una seconda volta: della morte. Seneca nella tragedia Hercules Oetaeus descrive una scena degna di San Francesco: una folla di uccelli, alberi e monti incantati dalle sue celesti melodie. Giorgione dipinge sé stesso come Orfeo, nell'atto di perdere Euridice trascinata via verso il fuoco eterno da un demonio. Remigio di Auxerre, nel nono secolo, fa di Euridice la musica stessa, il senso più profondo dell'attività di Orfeo. Claudio Monteverdi «chiama a raccolta tutta l'audacia della musica dell'epoca» per restituirci l'avventura soprannaturale dello sposo che cerca la sua compagna negli inferi.
Sono solo esempi, naturalmente: poche tappe offerte qui a illustrazione di un percorso infinito. Bastano però, forse, per dare un'idea della tesi di Wroe, di cui questo libro si fa brillante e suggestivo carico: «Orfeo non ha mai lasciato la coscienza degli uomini. Di lui non ci sono che frammenti: una frase qui, una menzione là, dubia vel spuria, come dicono gli studiosi. Eppure Orfeo spazia per la civiltà occidentale come i cantastorie un tempo viaggiavano per i sentieri d'America e d'Europa. Non ha radici sicure ma continua a ritornare, come se avesse qualcosa di urgente da dirci».