domenica 28 dicembre 2014

Quel Dio che Dante non può descrivere


La Commedia è una “visione in sonno” e il suo autore
 è convinto della portata profetica della propria narrazione.
 Egli si sente un predestinato

Walter Siti

"La Repubblica", 28 dicembre 2014

Nei versi finali del Paradiso si compie l’obiettivo che il poeta porta con sé durante tutto il viaggio ultraterreno. Ma è difficile raccontare quel che vede perché la sua potenza
immaginativa e rappresentativa si è annullata nell’istante stesso in cui si realizzava il proprio fine

STAVOLTA non si tratta di una lirica autonoma: sono i 31 versi finali dell’ultimo canto del Paradiso. Qui giunge al termine, e al culmine, un’opera che Dante si portava dietro da una ventina d’anni — e qui il viaggio ultraterreno tocca il suo obiettivo, la visione di Dio. È dall’inizio del canto, e anche da prima, che Dante sta lottando (lui che ha sofferto di malattie oftalmiche e per questo si è raccomandato a Santa Lucia) con la propria acutezza visiva: le preghiere dei beati e l’intercessione di Beatrice gli danno la Grazia necessaria per ficcare sempre più gli occhi nei misteri dell’essenza divina, per successive approssimazioni. Già ha visto, nei versi precedenti, come in Dio sia racchiuso e compresso l’universo, «legato con amore in un volume »; le categorie di spazio e tempo sono saltate e lui continua a scusarsi dell’impotenza espressiva («riesco a raccontare quel che ho visto, e inteso, in percentuale così minima che dire “poco” non rende l’idea»).
Ora vede altre due cose che rappresentano incomprensibili dogmi della religione: la Trinità e le due nature di Cristo. Gli appaiono tre cerchi sovrapposti, con stesso centro e stesso raggio, ma che, ciò nonostante, si distinguono l’uno dall’altro: il secondo sembra un riflesso del primo e il terzo (lo Spirito Santo) si riflette come un fuoco su entrambi. Il secondo poi (quello “riflesso”), dà l’impressione di aver dipinta dentro una figura nel medesimo colore dello sfondo — ulteriore impossibilità fisica che però si impone all’intelletto e allo sguardo. Il secondo cerchio rappresenta il Figlio ed è l’umanità di Cristo quella che si disegna, visibile- invisibile, nella divinità del cerchio. Dante si sforza di capire come l’immagine si stagli sullo sfondo ad essa omogeneo e fa lo stesso sforzo degli studiosi di geometria quando cercano di venire a capo della quadratura del circolo; ma la sua mente non arriva a tanto — senonché proprio in quel momento viene colpito da una folgorazione in cui la comprensione assoluta si realizza. Dante ha capito i dogmi, ha capito Dio; ma non riesce a raccontarlo perché la sua potenza immaginativa e rappresentativa (la “fantasia”) si è annullata nell’istante stesso in cui realizzava il proprio fine.
Si è discusso a lungo se il viaggio della Commedia sia da intendere come finzione poetica o come effettiva visione mistica dell’aldilà; insomma se Dante credesse davvero di aver “visto” ciò che racconta. Io sono tra chi ritiene che la Commedia sia una “visione in sonno” e che Dante fosse convinto della portata profetica del suo racconto; soffriva periodicamente di crisi epilettiche e fin dal tempo della Vita nova aveva interpretato queste crisi come segno di predestinazione, che il suo corpo fosse un recipiente adatto a illuminazioni trans-sensoriali. Nella sua epoca le visioni venivano prese sul serio, se ne distinguevano varie specie e nessuno metteva in dubbio che fossero un veicolo per la verità (una volta escluse le loro contraffazioni diaboliche). Inoltre la “visio” era un genere letterario diffuso, un collaudato contenitore narrativo. Dante è «pien di sonno» quando entra nella selva oscura e qui in paradiso, nel penultimo canto, San Bernardo lo incita ad affrettarsi perché il tempo del sonno sta per finire.
Nella lunga durata del poema questo assunto talvolta si perde, Dante stesso un po’ se lo dimentica e il viaggio diventa, sul modello dei classici latini, epico e fantastico; ma nel finale l’esperienza mistica risorge potente. Anzi, accade qualcosa di straordinario e inedito: l’esperienza è talmente viva che impegna non solo il Dante “addormentato” ma lui tutto intero nello spingere all’estremo le proprie umane possibilità — qui supera le “visioni” intese come genere letterario e per forza di introspezione arriva a intuire i meccanismi onirici come li intendiamo noi. Il pi-greco della quadratura del circolo è un numero irrazionale che ha rapporto con l’infinito; la distinzione dei cerchi sovrapposti sarebbe comprensibile solo in uno spazio multi-dimensionale; l’acume visivo può coincidere col torpore patologico solo in una logica che superi il principio di non-contraddizione: tutte caratteristiche che la moderna psicanalisi ha riconosciuto come proprie dell’inconscio. Dante insomma, per genio di coerenza poetica, ha reso realistico e autobiografico il “sonno” della tradizione.
Per descrivere l’indescrivibile mette a frutto quello che sa: il linguaggio della filosofia scolastica (la “sussistenza” cioè l’esistenza di un ente senza bisogno di altri enti, il “velle” cioè la volontà), le conoscenze di geometria, le occasioni personali (la nave Argo vista dal basso, di cui si parla in un paragone pochi versi prima dei nostri, ha la stessa forma delle “mandorle” degli affreschi che aveva visto a Roma durante il Giubileo); inventa perfino un verbo che non esiste (“indovarsi” nel senso di “situarsi”); niente di questo basta — entrare nel meccanismo rotatorio dell’Assoluto significa esaurire se stessi (Dante morirà poco dopo) e insieme aver realizzato un’opera che ha l’analogo ritmo ternario di quel meccanismo (la parola “stelle” che conclude ogni cantica); un libro che può gareggiare con quello riassunto in Dio.

Scrittori senza Furore


I capolavori di Balzac e di Hugo non erano piagnistei:
 gli autori erano convinti che la loro parola sarebbe stata d’aiuto per cambiare il mondo
Oggi il conflitto è racchiuso all’interno dell’individuo

Nell’era segnata dalla disuguaglianza dei pochi che hanno molto e dei molti che hanno poco dove è finito il grande romanzo sociale? Dove sono Steinbeck e Zola?

Wlodek Goldkorn

"La Repubblica", 28 dicembre 2014

FUOR di dubbio: l’anno che sta finendo è stato l’anno di Thomas Piketty, l’autore del Capitale nel XXI secolo.
Pochi contestano ormai la sua tesi per cui le disuguaglianze sociali sono in crescita anziché diminuire. Per costruire la sua teoria l’economista francese ha frequentato non solo le statistiche, ma anche la narrativa. E in base a queste letture dice che la situazione oggi assomiglia a quella descritta nei romanzi di Honoré de Balzac e Jane Austen: società dove aumenta il divario tra chi possiede il capitale e chi invece vive del proprio lavoro. È stata la rivista americana online Slate ad affrontare polemicamente l’argomento, non per contestare i fatti citati Piketty, ma per mettere in questione un’altra sua tesi, esposta in incontri pubblici: nei romanzi degli ultimi decenni non si parla dei soldi. Se ne parla invece, dicono i critici letterari autori dell’articolo, ma in un’altra maniera. Rimane tuttavia il problema, sollevato da molti esperti di letteratura e arti (ad esempio da A. O. Scott, sul New York Times) : come mai oggi non si scrivono romanzi sociali, ancorati nella vita quotidiana della gente che lotta per la sopravvivenza? Come mai nessuno scrive un nuovo Germinal sull’esempio di Émile Zola, un nuovo Furore come John Steinbeck, un altro I miserabili come Victor Hugo?
Forse la domanda andrebbe riformulata. Mettiamola così: è possibile oggi scrivere opere simili? Intanto qualcuno ci prova ancora; anche in Italia e basti pensare alla Prato descritta da Edoardo Nesi, alla Piombino versione Silvia Avallone, o al call center secondo Michela Murgia (per non parlare della Dismissione di Ermanno Rea). Ma si tratta di eccezioni e non di letteratura che fa tendenza. E allora, cosa è successo? Una prima risposta possibile è questa: il romanzo sociale come l’abbiamo conosciuto dall’Ottocento e fino alla prima metà del secolo scorso nasce non dalla constatazione che il mondo del lavoro va male, ma al contrario, dalla protesta perché la modernità non mantiene le proprie promesse. Quali promesse? Semplice, quelle legate all’idea del progresso: eguaglianza (non equità), crescita del benessere, ascesa sociale frutto dell’istruzione, conquista collettiva dei diritti; se non addirittura la Rivoluzione e palingenesi.
Così Zola raccontava le lotte dei lavoratori perché era convinto che la sua parola sarebbe stata d’aiuto nel cambiamento del mondo. E ancora, John Steinbeck, nel Furore, narrava le ingiustizie subite dai contadini del Sud degli States perché era certo dell’intrinseca validità del sogno americano. E lo stesso si può dire di Hugo, monumento vivente alla fede nella rettitudine e bontà insiti nell’ethos repubblicano. Il romanzo sociale insomma non è stato un piagnisteo ma un risultato del confronto tra il progetto dell’avvenire e la realtà. Quell’avvenire, almeno in Europa occidentale era legato a forme di vita concrete. I lavoratori della stessa fabbrica vivevano nello stesso quartiere, si incontravano negli stessi luoghi di svago (sport compreso) o di agitazione politica. Peraltro, la sinistra (titolare dell’idea del progresso) nel nostro continente è nata ed è vissuta così, legata ai territori degli operai.
Oggi, cosa rimane di tutto questo? Poco o niente. Non solo dal punto di vista sociologico: tra deindustrializzazione e disgregazione di quel che era il mondo del lavoro, ma anche come fede nel mito del progresso. Non c’è bisogno di tirare in ballo Theodor Adorno e Max Horkheimer (La dialettica dell’illuminismo) o Guenther Anders (L’uomo è antiquato) e neanche Zygmunt Bauman con il suo magistrale Olocausto e Modernità, per capire quanto la parola progresso sia un arnese, uno strumento lessicale vuoto di contenuto e fallito. Il futuro, ci dicono gli intellettuali à la page, è decrescita: felice nel migliore dei casi; e un mondo di moltitudini, che sono il contrario di massa. Moltitudine significa infatti una serie di individui, non un insieme di persone legate dallo stesso vissuto e interesse sociale. E l’istruzione non assicura più un futuro migliore.
E tuttavia, molti scrittori continuano a fare il loro mestiere e a raccontarci la società in cui viviamo; salvo che questa è una società e un mondo impossibili da narrare come un universo coerente, in cui è chiaro il nesso tra causa e effetto. Esempio ne è il newyorchese Paul Auster. Nei suoi romanzi, le cose che accadono ai protagonisti sono frutto del caso, dell’arbitrio del destino. E allora, forse non rimane che cercare lontane appartenenze, identità mitiche e leggendarie da rivendicare; specie se fanno parte di eventi violenti e spostamenti e migrazioni legati a una storia che rasenta l’Apocalisse, accaduta però davvero. Lo fanno, e da questo punto di vista sono romanzieri contemporanei, gli americani Nicole Krauss (La storia dell’amore, La Grande Casa) e Jonathan Safran Foer ( Ogni cosa è illuminata), ambedue alla ricerca di un mondo europeo antecedente la Shoah e da cui vengono i loro antenati, profughi. Del destino dei rifugiati si occupa l’americano di origine etiope Dinaw Menghestu (Leggere il vento). E in un romanzo di grande attualità, Non dirmi che hai paura, il nostro Giuseppe Catozzella, ha raccontato la storia di una atleta africana annegata nel Canale di Sicilia.
Ma forse è Il Cerchio di Dave Eggers, americano pure lui, 44enne, californiano d’adozione, il romanzo, tra quelli recenti, che più degli altri è ancorato nel vissuto e nei valori della società contemporanea. Eggers ambienta il suo racconto in un campus di una grande azienda, e qui siamo vicini alla fabbrica di Zola. Ma la protagonista è una ragazza sola, che sola rimane; senza alcun orizzonte di azione collettiva e di solidarietà di classe. L’azienda non produce beni materiali. Il suo scopo è mettere in connessione il numero più alto di persone; ma anche renderle trasparenti, indurle a rinunciare a ogni privacy; ciascuno in un futuro distopico (perché dell’avvenire parla Eggers) girerà con una serie di apparecchi addosso, grazie ai quali potrà essere visto e “partecipato” da decine di milioni di altri individui.
Corollario e premessa di tutto questo (come del resto dei libri che raccontano i profughi) è l’empatia. Empatia è la parola chiave oggi. Ciascuno di noi deve provare a entrare nella testa altrui. Siamo tutti separati, ma uniti da un flusso di sentimenti che ci accomunano e che proviamo all’istante. L’azienda chiamata il Cerchio vuole chiudere il cerchio appunto, per creare un mondo di individui empatici: un universo perfetto e armonioso. Ma attenzione, connessione, empatia e trasparenza, escludono il conflitto come categoria: se litighiamo è perché qualcuno nasconde un segreto, perché non siamo capaci di capire l’altro; il contrario di Zola o Steinbeck e delle lotte sociali.
Invenzione futuristica, si dirà e non descrizione di realtà, come ne era capace un Balzac, appunto. Ma ne siamo sicuri? C’è una bellissimo testo di Henry James (Tre lezioni su Balzac) in cui lo scrittore americano spiega come l’autore francese si inventasse tutto. E proprio grazie alla sua immaginazione riusciva a raccontare la realtà meglio di ogni presunto realista.

mercoledì 24 dicembre 2014

Il miracolo del 25 dicembre 1914


Cento anni fa il silenzio delle armi

Tedeschi e inglesi non più nemici per una notte e un giorno

Paolo Rastelli

"Corriere della Sera", 24 dicembre 2014

Il video è bello e ben girato. Due gruppi di giovani uomini vestiti con uniformi diverse, in un campo innevato devastato dalla battaglia, che si scambiano fotografie, liquori, cioccolata in un’atmosfera di pace e fratellanza resa con colori tenui. Ma lo spot di Sainsbury è stato vissuto come un oltraggio da almeno una parte del pubblico britannico: la catena di supermercati ha deciso di sfruttare a fini commerciali (appena mascherati dal sostegno dato alla Royal British Legion, l’equivalente della nostra Associazione Combattenti e Reduci) una delle memorie più sacre della Prima Guerra Mondiale, la cosiddetta «tregua di Natale» del 1914 tra tedeschi e inglesi. 
Fu un’iniziativa presa dal basso, dai soldati in trincea, che il 25 dicembre di cento anni fa uscirono spontaneamente allo scoperto in alcune zone del fronte occidentale per andare a salutare e a fare gli auguri ai «nemici» senza che ci fosse, da parte dei comandi, alcun via libera. Anzi, proprio il contrario. Quando la notizia si diffuse grazie alle lettere dei soldati alle famiglie, i vertici militari di entrambi i contendenti si affrettarono a proibire altre iniziative simili: il generale Horace Smith Dorrien, comandante del secondo corpo d’armata della Bef, la forza di spedizione britannica in Francia, arrivò a minacciare la corte marziale per chi si fosse reso colpevole di fraternizzazione. 
Il «miracolo» del Natale 1914, di due avversari che dimenticano l’odio per unirsi in un abbraccio fraterno, rimase un fatto quasi isolato (ci sono poi stati altri episodi di «vivi e lascia vivere» ma mai più così eclatanti) e ben presto trascolorò nel mito, tanto più quando il sentimento popolare degli europei nei confronti della Grande Guerra cambiò di segno: non più glorioso fatto d’arme ma massacro insensato, che aveva spazzato via una generazione. La tregua di Natale venne quindi vista come la dimostrazione che gli uomini sono fondamentalmente buoni e che erano stati spinti alla guerra da governi stupidi e irresponsabili, tanto che appena liberi di farlo avevano scelto la pace e la fratellanza. 
Ma come andarono realmente le cose? Facciamolo raccontare a chi ne fu testimone diretto, il caporale Leon Harris del 13esimo battaglione del London Regiment in una lettera scritta ai genitori che stavano a Exeter (riprodotta sul sito www.christmastruce.co.uk interamente dedicato a quanto successe cento anni fa): «È stato il Natale più meraviglioso che io abbia mai passato. Eravamo in trincea la vigilia di Natale e verso le otto e mezzo di sera il fuoco era quasi cessato. Poi i tedeschi hanno cominciato a urlarci gli auguri di Buon Natale e a mettere sui parapetti delle trincee un sacco di alberi di Natale con centinaia di candele. Alcuni dei nostri si sono incontrati con loro a metà strada e gli ufficiali hanno concordato una tregua fino alla mezzanotte di Natale. Invece poi la tregua è andata avanti fino alla mezzanotte del 26, siamo tutti usciti dai ricoveri, ci siamo incontrati con i tedeschi nella terra di nessuno e ci siamo scambiati souvenir, bottoni, tabacco e sigarette. Parecchi di loro parlavano inglese. Grandi falò sono rimasti accesi tutta la notte e abbiamo cantato le carole. È stato un momento meraviglioso e il tempo era splendido, sia la vigilia che il giorno di Natale, freddo e con le notti brillanti per la luna e le stelle». 
Il riferimento al tempo non è di poco conto: «La vigilia — scrive Alan Cleaver nella prefazione al libro La tregua di Natale (Lindau edizioni) che raccoglie molte lettere dei soldati dell’epoca — segnò la fine di settimane di pioggia battente, e una gelata rigida e tagliente avvolse il paesaggio. Gli uomini al loro risveglio si trovarono immersi in un Bianco Natale». 
Non si sa dove fosse schierata l’unità dal caporale Harris ma gli eventi da lui descritti con tanta vivacità si ripeterono più o meno identici in molti punti del fronte. In una lettera alla famiglia del 28 dicembre, il bavarese Josef Wenzl racconta di essere rimasto incredulo quando uno dei soldati cui la sua unità stava dando il cambio gli disse di aver passato il giorno di Natale scambiando souvenir con gli inglesi. Ma quando spuntò l’alba del 26 dicembre vide con i suoi occhi i soldati britannici uscire dalle trincee e cominciare a parlare e scambiarsi oggetti ricordo con lui e con i suoi compagni. Poi ci furono canti, balli e bevute. «Era commovente — si legge nella lettera — tra le trincee uomini fino a quel momento nemici feroci stavano insieme intorno a un albero in fiamme a cantare le canzoni di Natale. Non dimenticherò mai questa scena. Si vede che i sentimenti umani sopravvivono persino in questi tempi di uccisioni e morte». 
Scene simili si verificarono anche tra tedeschi e francesi e tra tedeschi e belgi, pur se in misura molto minore: dopo cinque mesi di guerra sanguinosissima (era iniziata il primo agosto) con circa un milione di vittime, con molte zone del Belgio e della Francia orientale occupate e dopo i massacri di civili compiuti dai soldati tedeschi, i sentimenti di fraternità erano parecchio meno diffusi. E comunque anche nelle zone inglesi ci furono morti e feriti per il fuoco nemico perfino nel giorno di Natale: alcuni soldati che avevano cercato di prendere contatto con il nemico sporgendosi dai parapetti delle trincee furono fulminati dai cecchini avversari. «A Natale — racconta lo storico Max Hastings in Catastrofe 1914 (Neri Pozza) — il Secondo granatieri inglese ebbe tre uomini uccisi, due dispersi e 19 feriti; un altro soldato fu ricoverato in ospedale con sintomi di congelamento, come altri 22 la mattina dopo». 
Ovviamente queste storie finirono rapidamente sui giornali dell’epoca, con titoli abbastanza sensazionali. Il Manchester Guardian del 31 dicembre 1914 titolava: «Tregua di Natale al fronte — I nemici giocano a calcio — I tedeschi ricevono un amichevole taglio di capelli». E il 6 gennaio lo stesso quotidiano strillava: «Nuove notizie sullo straordinario armistizio ufficioso — I Cheshires (un’unità inglese, ndr) cantano Tipperary a un pubblico di tedeschi». Fu sui quotidiani britannici che fu raccontata la vicenda della partita di calcio giocata nella terra di nessuno da inglesi e tedeschi in una zona imprecisata del fronte, che sarebbe finita 3-2 per i tedeschi. Per molto tempo fu una storia considerata non sufficientemente provata dagli storici (tutte le fonti erano indirette, qualcuno che raccontava che qualcun altro gli aveva detto che c’era stata una partita…), ma che entrò prepotentemente nel mito: la si ritrova nello spot della Sainsbury, nel film ferocemente antimilitarista Oh che bella guerra di Richard Attenborough (1969) e anche nel videoclip di Pipes of Peace di Paul Mc Cartney del 1983. E pochi giorni fa, l’11 dicembre, nella cittadina belga di Ploegsteert, il presidente dell’Uefa Michel Platini ha inaugurato un monumento a ricordo del giorno in cui il calciò unì i giovani di due nazioni nemiche. 
Alla fin fine, comunque, pare che il mito avesse ragione e gli storici scettici torto: è stata scoperta una lettera del generale Walter Congreve (decorato con la Victoria cross, la più alta decorazione britannica al valor militare) che racconta alla moglie della tregua e della partita di calcio anche se ammette di non averla vista con i propri occhi ma di averlo saputo da testimoni oculari. Ma poiché era un generale, non si faceva illusioni e sapeva i bei momenti sarebbero finiti. Ne dà conto, con una battuta piuttosto macabra, nella stessa lettera: «Uno dei miei ha fumato un sigaro con il miglior cecchino dell’esercito tedesco, non più che diciottenne. Dicono che ha ucciso più uomini di tutti ma ora sappiamo da dove spara e spero di abbatterlo domani». Sì, la guerra sarebbe continuata.

Buona Natale da Illuminations-edu!


venerdì 12 dicembre 2014

Il tramonto del corsivo


In Finlandia abolito dalle scuole: non serve per il pc
Gli studiosi: un errore, cambia il modo di pensare

Vittorio Sabadin

"La Stampa", 12 dicembre 2014

La capacità degli esseri umani di scrivere a mano sta scomparendo, non proprio nell’indifferenza generale, ma quasi. In Finlandia, lo Stato ha deciso che non è più necessario insegnare la calligrafia agli studenti: in un mondo nel quale tutti scriveranno sempre di più su tastiere elettroniche è tempo perso. Insegnare a usare bene un iPad è invece più utile per la vita di tutti i giorni. Anche in Indiana, negli Stati Uniti, la scrittura è diventata una materia facoltativa: i docenti hanno sempre più cose da fare e bisogna cancellare i programmi che non sono prioritari, concentrandosi su quelli più tecnologici. 
I difensori di penna e foglio di carta sono sempre meno e rischiano di apparire antichi come un papiro egizio. L’abitudine a scrivere a mano è ormai così deteriorata che in Gran Bretagna una persona su tre non è in grado di leggere la propria calligrafia e non ha scritto nulla a mano negli ultimi tre mesi. Rin Hamburg sul Guardian ammette che i suoi parenti hanno bisogno di aiuto per leggere i biglietti di auguri che ricevono da lei. Da anni tiene un diario, ma non lo nasconde più, perché nessuno sarebbe comunque in grado di decifrarlo. 
Anche chi ha imparato a scrivere copiando alle elementari migliaia di vocali e consonanti in bella calligrafia scopre oggi, dopo decenni al computer, di avere difficoltà a leggere i propri appunti scritti a mano. Meglio prenderli sul blocco note dell’iPhone: si fa più in fretta, sono più chiari e non bisogna cercare in tasca penna e carta. E’ tutto dunque così semplice? Stiamo assistendo all’ennesimo sviluppo tecnologico, al passaggio da un modo di fare le cose a un altro che ha sempre caratterizzato l’evolversi della civiltà?
Gli scienziati che studiano l’evoluzione del cervello umano sono molto più preoccupati, come gli insegnanti e i genitori avveduti, per la progressiva perdita della capacità dei ragazzi di scrivere a mano. La scrittura non è innata, non è genetica, va insegnata. Più di 6000 anni fa, i Sumeri crearono le prime scuole di scrittura: sulla metà superiore di una tavoletta di cera erano incisi alcuni caratteri cuneiformi; gli studenti dovevano ricopiarli sull’altra metà, usando uno stilo. Mentre facevano questo, il loro cervello cambiava. In Proust e il calamaro: storia e scienza del cervello che legge, la neuroscienziata Maryanne Wolf spiega i benefici dello scrivere a mano: «Il cervello diventa un alveare di attività. Una rete di processi si mette in azione: le aree di associazione visuali rispondono a modelli visivi o rappresentazioni; i lobi frontali e temporali e le aree parietali forniscono informazioni ed elaborano significato, funzione e connessioni».
Circa un terzo del nostro cervello si mette all’opera quando scriviamo a mano, molto di più di quando scriviamo sull’iPad. E’ forse per questo che ricordiamo meglio le cose scritte a penna: ogni ricerca ha confermato il legame tra la scrittura e la capacità di apprendere. Molti compositori, per affinare la loro arte, ricopiano a mano gli spartiti dei grandi maestri della musica: è l’unico modo per scoprire dove si nasconde la grandezza. Lo stesso fa a volte chi vuole diventare scrittore: ricopiare a mano un testo dell’autore preferito consente di comprenderne meglio la tecnica. 
Secondo il semiologo Umberto Eco, la fine della scrittura a mano è cominciata molto prima dell’era dei computer, addirittura con l’invenzione della penna a sfera. «La gente – ha rilevato - non aveva più interesse a scrivere in quanto, con questo prodotto, la scrittura non ha anima, stile e personalità. La mia generazione ha imparato a scrivere a forza di ricopiare in bella grafia le lettere dell’alfabeto. Può sembrare un esercizio ottuso, ma l’arte della scrittura insegna a controllare le nostre dita e incoraggia la coordinazione occhio-mano». 
Sembra non esserci più nulla da fare. Le scuole si sono arrese, o cominciano a farlo. I difensori della bella calligrafia si ritrovano ormai come una specie in estinzione nelle riserve loro destinate: le scuole private di scrittura, i club, i concorsi. Ma sarebbe bello, almeno a Natale, almeno per un altro po’, e finché sappiamo ancora farlo, spedirsi un caldo biglietto di auguri scritto a mano, invece del gelido «copia e incolla» frettolosamente inviato senza distinzione a tutta l’agenda dello smart phone.


“È la scrittura più simile al fluire del pensiero”
La calligrafa: “Aiuta a concentrarsi Ci caratterizza, è diverso per ognuno”

intervista di Lorenza Castagneri

«Agghiacciante». Così Francesca Biasetton, artista e calligrafa, autrice di Unique. What it says, how it looks, commenta la decisione delle scuole finlandesi di non insegnare più il corsivo. «Una follia. Questo è proprio il tipo di scrittura più importante nella fase dell’apprendimento. Abbandonarlo è controproducente». 
Perché?
«Nel corsivo, le lettere hanno le legature e si scrivono tutte unite tra loro: una rappresentazione grafica che, per prima cosa, facilita molto la vita del bambino, che non deve staccare di continuo la penna dal foglio a differenza dello stampatello. Non solo: ciò aiuta ad abbinare meglio i segni ai suoni, a sillabare, e, di conseguenza, si impara a leggere più facilmente». 
E le abilità di composizione del testo?
«Anch’esse vengono favorite con il corsivo, perché è il modo di scrivere che più si avvicina al fluire del pensiero umano. È lo stile a noi più familiare, anche se è diverso da persona a persona. E ciò ci caratterizza». 
Eppure, anche in America alcuni Stati hanno abolito da anni questo tipo di grafia. Non ha l’impressione che la scrittura a mano sia sempre meno importante?
«Assolutamente sì e questo è un male. Mettere per esteso dei concetti attraverso la penna o la matita sviluppa, innanzi tutto, la capacità di organizzare gli spazi sul foglio e impone il rispetto di determinate regole. Inoltre, potenzia la motricità fine e migliora la coordinazione tra il cervello e la mano». 
È vero che scrivere a mano aiuta anche a immagazzinare meglio le informazioni?
«Ci sono ricerche che lo dimostrano. Prendendo appunti in modo tradizionale siamo più concentrati e interiorizziamo di più quello che si ascolta. Tuttavia, ciò non vuol dire che non si debba imparare a scrivere con la tastiera. Anche questo è importante».
Che cosa intende?
«Tecnologia e tradizione non si escludono a vicenda. Nella comunicazione quotidiana di oggi è normale darsi un appuntamento via sms, eppure le lettere d’amore e le condoglianze continuano a essere scritte a mano. Insomma, tutto dipende dal messaggio che dobbiamo trasmettere». 
Steve Jobs, ex studente di calligrafia e poi fondatore di Apple, sintetizza questo legame?
«Esatto. Jobs ha sempre ammesso che senza aver frequentato quel corso non avrebbe potuto creare il Mac. Ciò dimostra che passato, presente e futuro sono complementari. E che il corsivo merita di essere ancora insegnato».

Paul Valéry, il poeta che inventò l’idea di link


Valerio Magrelli

"La Repubblica", 12 dicembre 2014

QUELLA di Paul Valéry è la storia di una strana metamorfosi, e il Meridiano che la sua maggiore studiosa italiana, Maria Teresa Giaveri, ha appena curato col titolo Opere scelte (Mondadori, pagg. 1771) non fa che confermarlo nel migliore dei modi, anche grazie a un’ottima squadra di cinque traduttori (Maria Teresa Giaveri, Antonio Lavieri, Massimo Scotti, Paola Sodo e Anita Tatone). Diviso in sei parti, il volume spazia dalla poesia alla prosa poetica.
Dai dialoghi al teatro, con una voce che, dedicata a Modelli e strumenti del pensiero, accoglie alcuni testi posti nel segno di tre “eroi intellettuali”: Monsieur Teste, Leonardo da Vinci e Robinson (proprio quello di Defoe, spiega la Giaveri, trasfigurato in nume tutelare della attività cerebrali). Quanto all’ultima sezione, sulla saggistica, vi ritroviamo ambiti diversi quali pittura, letteratura e estetica, senza dimenticare Attualità e politica. Davvero un bel crogiuolo! Ma come conciliare versi metricamente analoghi a quelli di un Racine, con interventi di taglio geopolitico o sociologico?
Come far convivere nella stessa persona lo studioso di matematica e quello di estetica, il critico letterario e l’esperto di medicina? In verità ci troviamo di fronte a un essere “almeno” doppio, come i mostruosi fauni tanto cari al suo grande maestro, Mallarmé. D’altronde, ultimo erede del simbolismo, Valéry fu anche l’intellettuale capace di prevedere l’avvento della televisione già nel 1928: «Verrà un giorno in cui un tramonto sul Pacifico, o un Tiziano del museo di Madrid, appariranno sul muro della nostra camera in modo altrettanto potente ed illusorio di una sinfonia diffusa via radio. Come l’acqua, il gas o l’energia elettrica, con uno sforzo quasi nullo arrivano nelle case da lontano per rispondere ai nostri bisogni, così saremo alimentati da impulsi visivi o auditivi, che nasceranno o svaniranno a un minimo segno, quasi un cenno». Inoltre, descrivendo un futuro gestito da una “società per la distribuzione di Realtà Sensibile a domicilio”, il poeta si spinge addirittura a preconizzare la moderna nozione di link: « Prima o poi, sarebbe interessante fare un’opera che mostrasse in ognuno dei suoi nodi, la diversità che vi si può presentare alla mente, e tra cui essa sceglie l’unico seguito che sarà offerto nel testo». Comunque, a ben vedere, non c’è da stupirsi troppo, tenendo conto dei suoi vivi interessi scientifici, e di una corrispondenza in cui troviamo, tra i nomi di filosofi e di fisici, quelli di Henri Bergson o Albert Einstein.
Dicevamo però delle mutazioni a cui andò incontro la sua figura. Nel 1896 bastò una sua breve prosa, La serata con Monsieur Teste , per farne la stella dei giovani letterati francesi, destinati a innescare di lì a poco la bomba dada e l’incendio surrealista. André Breton, che in seguito lo volle come testimone di nozze, dichiarò di avere conosciuto quasi a memoria quell’opera, apparsa proprio l’anno della sua nascita. E questo fu solo l’inizio di un successo letterario e mondano dai particolarissimi risvolti. Dopo quasi un ventennio di apparente silenzio, tra il 1917 e il 1920 apparvero infatti una serie di poemetti che abbagliarono alcuni fra i massimi poeti europei, Ungaretti, Rilke e Guillén, che di lì a poco ne diverranno anche i traduttori. Dopo LaGiovane Parca, fu soprattutto il Cimitero marino che impose Valéry agli occhi del mondo: «Non è forse la poesia più famosa del nostro tempo?», si chiedeva ad esempio, ancora nel 1957, uno storico dell’arte come Cesare Brandi.
Le trasformazioni, tuttavia, non erano finite. In certo modo, nemmeno l’autore di quegli abbaglianti alessandrini o decasillabi corrisponde allo stesso che leggiamo oggi. Ad esso, infatti, è andato sostituendosi un nuovo, per così dire “terzo”, Valéry. Sia chiaro, dopo le delusioni subite da Breton e compagni (che videro con orrore il proprio idolo volgersi al classicismo), non mancarono i detrattori della poesia valeriana. Basti citare Nathalie Sarraute, Cioran, Gombrowicz o Bonnefoy, radicalmente contrari a una versificazione rimata, anacronistica e aliena come un “meteorite”. Tuttavia, lo si è detto, ormai tali reazioni appaiono, sotto molti aspetti, datate, poiché dopo la morte dello scrittore è emerso un continente sconosciuto, un’autentica Atlantide letteraria.
Mi riferisco agli ormai leggendari Quaderni, delle cui venticinquemila pagine esiste un’edizione fotografica in 29 volumi, mentre sta lentamente uscendo un’edizione critica integrale (Adelphi ne ha pubblicato una scelta in cinque volumi). Se si pensa che, secondo molti critici, l’insieme di questi testi costituisce l’impresa suprema di Valéry, è facile capire quanto sfocati risultino i giudizi finora formulati. È un po’ come parlare della Francia senza aver visitato Parigi...
Di cosa si tratta? Immaginate una specie di diario mentale, o meglio, un laboratorio autocognitivo approntato, mattina dopo mattina, nel corso di mezzo secolo. Gran parte dei Cahiers fu composta all’alba, da un “pensatore mattiniero” che ricorreva a innumerevoli tazze di caffè (vedi Balzac).
Dopo quelle poche ore di assoluta concentrazione, Valéry rivendicava il diritto di essere stupido per tutto il resto del giorno. «Amo il pensiero come altri amano il nudo, che disegnerebbero per tutta la vita», leggiamo in un suo aforisma. Ma a parte queste vere folgorazioni («Il ciclone può distruggere una città [..] ma non riuscirà mai a sciogliere un nodo»), i Cahiers , nota la Giaveri, sono soprattutto uno strumento gnoseologico: “esercizio spirituale” secondo l’esempio di Ignazio di Loyola, “ginnastica” come per un atleta, “dressage” come per il cavallo Gladiator, o danza, scherma, scacchi – insomma, l’occasione per un processo di perfezionamento personale. Per questo sembra giusto terminare con il breve, toccante necrologio di Borges: «Yeats, Rilke e Eliot hanno composto versi più memorabili […] Joyce e Stefan George hanno compiuto modificazioni più profonde nel loro strumento linguistico; ma dietro l’opera di quegli eminenti artefici, non c’è una personalità paragonabile a quella di Valéry».

Machiavelli al confine tra gli antichi e i moderni


De Sanctis, Mussolini, Gramsci: a ciascuno il suo «Principe»

Luciano Canfora

"Corriere della Sera", 11 dicembre 2014

Un dotto francese di fede protestante, prudentemente trapiantatosi a Londra proprio a ridosso della Rivoluzione, Louis Dutens (1730-1812), scrisse un ponderoso trattato apparso per la prima volta nel 1766, poi più volte ristampato, per dimostrare che Le scoperte attribuite ai moderni, anche nel campo delle scienze matematiche e fisiche, erano già state pensate dagli antichi. Reagì polemicamente D’Alembert. Ma Dutens sfoderava, nel suo trattato, anche talune dichiarazioni dei grandi moderni pronti a dirsi debitori verso gli antichi. Fu quasi un secondo tempo della Querelle. In particolare colpivano le parole attribuite a Leibniz e riportate da Dutens (che di Leibniz fu benemerito editore): «Signore — avrebbe detto Leibniz ad un devoto visitatore —, Lei mi ha usato spesso la gentilezza di dirmi che io so qualcosa; ebbene io voglio mostrarvi le fonti da cui ho attinto tutto quello che so»; e, prendendo per mano il dotto amico, lo portò nel suo studio e gli mostrò le edizioni, che aveva sempre sottomano, di Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Euclide, Archimede, Plinio il Vecchio, Seneca e Cicerone. 
L’impostazione di Dutens era ingenua, ma poneva un problema vero: l’uso creativo degli antichi da parte dei moderni. Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes, l’uno a cavallo tra Quattro e Cinquecento, l’altro in pieno Seicento, e già maturo pensatore mentre Leibniz nasceva, offrono la migliore materia per cimentarsi con la questione. Non è certo casuale che, nell’Introduzione alla recentissima Enciclopedia Machiavelliana prodotta — nel cinquecentesimo anniversario del Principe — dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (direttori dell’opera Gennaro Sasso e Giorgio Inglese), Sasso dedichi un denso paragrafo al tema L’imitazione dell’antico (vol. III, pp. XLVIII-XLIX). Sasso si concentra, ovviamente, sui Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, dove l’operazione è resa trasparente dal fatto stesso di porre il racconto liviano della storia romana alla base della riflessione. Sasso mette in luce l’aporia intrinseca in quel modo di procedere: se «gli uomini» — osserva — erano, naturalisticamente intesi, «gli stessi», come mai si erano fatti in realtà tanto diversi da far sorgere il problema dell’estrema difficoltà di tornare ad essere come quegli antichi? 
Nel proemio al primo libro dei Discorsi Machiavelli addirittura sembra quasi anticipare quell’assunto cui Dutens — per parte sua convinto che Machiavelli fosse solo un ripetitore degli antichi — dedicherà tante energie: che cioè le conquiste scientifiche (in particolare la medicina) erano già state attuate dagli antichi. E deplora che proprio nella politica il modello antico venga ignorato e disatteso. Hobbes, invece, nelle pagine introduttive al De Cive, dirà con tutta l’asprezza necessaria, che Aristotele si è sbagliato nell’assunto fondamentale della Politica (la naturale «socievolezza» degli uomini): «Questo assioma — dirà —, sebbene accolto da molti, è falso». 
L’apparente dilemma si risolve in realtà constatando che proprio quei fondatori della modernità — Machiavelli, Hobbes, Leibniz — hanno pensato il nuovo dialogando con gli antichi. È questo che Leibniz intendeva quando additava al suo visitatore i libri che avevano sustanziato il suo pensiero. 
Se Machiavelli, Hobbes, Leibniz non poterono non dialogare con gli antichi, noi non possiamo non dialogare con Machiavelli, Hobbes e con tutti coloro che, lottando per dischiudere la modernità, incominciarono proprio da quel remoto, e pur sempre fresco, punto di partenza. Questo genere di dialogo si risolve, per lo più, in una feconda forzatura: si fa dire, ai libri fondativi che ci precedettero, ciò che noi vi leggiamo o vogliamo leggervi proprio perché, con l’aiuto di una tale «pietra focaia», pensiamo, o cerchiamo di pensare, i nostri pensieri: quelli del presente e del tempo che sentiamo imminente. Lo facciamo con i classici antichi e con i classici moderni: per esempio proprio con Machiavelli. E l’Enciclopedia che qui segnaliamo assolve egregiamente a tale compito, a tale funzione chiarificatrice. Essa ci mostra, voce dopo voce, articolo dopo articolo, non solo quale originalissimo «Ierone siracusano» sia il tiranno visto da Machiavelli, ma anche quale originalissimo Machiavelli sia il Machiavelli di Ugo Foscolo o di Francesco De Sanctis o, ai limiti del totale stravolgimento dell’originale, il Machiavelli di Antonio Gramsci. E ancora: quello demonizzato dalla Controriforma — il «cattivo maestro» — che ritorna curiosamente nello scontro tra fazioni bolsceviche in pieno XX secolo (si veda la voce «Russia» in questa Enciclopedia); e poi il Machiavelli arruolato senza tanti complimenti dal pessimismo antropologico del «tacitismo»: fino alla sua manifestazione postrema nel Preludio al Machiavelli di Mussolini, ispirato — in ciò Gramsci vide giusto — all’insopportabile e oligarchico pessimismo di Giuseppe Rensi. 
Ovviamente il compito degli storici e dei filologi non è solo quello di rimirare la creativa fecondità di un pensiero (e la sua possibile vitalità ben oltre gli intendimenti dell’autore), ma anche, e non meno, di recuperare l’esatta nozione di ciò che quel determinato autore disse, scrisse e pensò: di scrostare dunque, di sull’originale, le rigogliose e «necessarie» incrostazioni dei posteri. L’Enciclopedia Machiavelliana rende molto bene anche questo prezioso servigio, e dobbiamo perciò essere grati alla squadra che l’ha saputa realizzare.

martedì 9 dicembre 2014

Saper vedere oltre il deforme. L’amore adulto che vive in Bella


Roberta Scorranese

"Corriere della Sera", 9 dicembre 2014

L’amore di Bella per Bestia arriva improvviso e la sorprende «come il sole ad est/quando sale su», canta Gino Paoli ne La Bella e la Bestia. Come un cono di luce che squarcia un bosco rorido, ferino, umido. È un amore che nasce non a prima vista, come in Biancaneve o nella maggior parte delle fiabe: nasce con la consapevolezza, la frequentazione, la conoscenza dell’altro. Diciamolo: si consolida con l’abitudine, spesso glutine di amori decennali. 
Un sentimento maturo, nato da una scelta? Nella fiaba di Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve, Bella si offre volontaria per andare ad affrontare Bestia. Poi resta, declinando con dolcezza le sue proposte di matrimonio. Torna dal padre, ma subito dopo si rende conto che quella presenza le era diventata indispensabile. Nonostante la mostruosità, le corna, la capigliatura animale, il ghigno e il pelame. Così Bella sceglie. 
Uccide (metaforicamente) il padre e decide di affrontare il bosco, l’oscuro, l’ignoto. Non a caso, nel suo celebre studio sulle fiabe popolari, Stith Thompson pone Bestia nella categoria dello «sposo animale», dove (all’opposto del principe azzurro) la parte maschile è ancora incompleta, mancante. Ambigua, perché sospesa tra le virtù invisibili e un aspetto ripugnante. Aspetta la donna capace di riscattare questa immaturità deforme. Retaggio forse, in questo caso, di La Belle et le Monstre , un’altra fiaba nordeuropea, simile a quella poi giunta fino a noi e approdata al musical. Ma Bella no. 
Bella muove le fila della storia con la sua decisione. Decide di affrontare l’altro e di accettarlo per così come è, negando se stessa e, in questo modo, annullandosi in nome di un sentimento più forte di entrambi, compie il miracolo. L’unico, possibile miracolo amoroso. 
Lo ha scritto anche il raffinato psicanalista Bruno Bettelheim (1903–1990), grande esegeta di favole, nel suo Il mondo incantato - Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (Feltrinelli, 1977): Bella è capace di «creare un legame con un’altra persona (l’ io senza il tu vive un’esistenza solitaria)». Significa essere a un tempo se stessi e parte dell’altro. 
«Un amore maturo — dice Marta Corradi, psicologa milanese, nonché protagonista di una serie di incontri sull’amore nelle fiabe, tra cui La Bella e la Bestia — e purtroppo oggi non facilmente realizzabile. In questo momento storico siamo sommersi di stimoli, oggetti, cose che ci chiedono una soddisfazione istantanea, immediata. L’amore di Bella invece si prende il tempo di crescere. Di rendersi conto». Il passo avanti della ragazza infatti è quando, tornata a casa, comprende che a mancarle non sono i vestiti, i gioielli e i comfort che Bestia le donava per tenerla ancorata a sé. «No, le manca l’uomo — dice Corradi, che sul suo sito www.martacorradi.it parla anche di questi temi — e non vede più la mostruosità: ha affrontato il bosco e l’ha capito».
Il bosco. Che cos’altro è Bestia se non l’incarnazione della boscaglia che insidia Cappuccetto Rosso? E che, stando a molte letture critiche, rappresenta anche la sfida sessuale? Per Bettelheim, Bestia incarna «quel misto di ripugnanza e di attrazione che caratterizza nei bambini la scoperta del sesso». 


Niente principe, ma un mostro

La bella che ama la bestia è un’attrazione senza tempo 

Valeria Crippa

Chiamala, se vuoi, attrazione fatale. Lei: una ragazzina che bussa all’adolescenza con tutta la grazia del caso, virtuosa per qualità morali, intellettuali ed estetiche tanto da meritarsi il nome di Belle. Lui, la Bestia. Corna da capro, criniera da leone, coda luciferina da lupo mannaro, zanne ricurve da predatore: mix degno di una creatura mitologica, ma antropomorfa come suggerisce la postura eretta ingentilita da movenze regali. In realtà è un bel principe che ha peccato di hýbris , per gli antichi greci la superbia punita dall’ira di una divinità (qui è una fata travestita da vecchina): incalzato da una rosa che sfiorisce, potrà liberarsi dell’incantesimo e riprendere sembianze umane solo grazie al vero amore. 
Definire B&B una strana coppia è eufemismo. Eppure il loro è uno dei matrimoni più longevi dell’immaginario fiabesco. L’esordio è lì da sfogliare, nelle Metamorfosi di Apuleio (II secolo d.C.), lei si chiama Psiche, figlia di re e sfacciatamente bella, fa ingelosire la dea Afrodite che si vendica e invia il figlio Amore in missione: scoccherà una freccia che farà innamorare la ragazza di un mostro e la toglierà di mezzo. Peccato che Cupido si trafigga un piede e rivolga su se stesso l’amore di lei. 
Da allora, Bella chiama Bestia, con varianti sul tema, pittoriche da Bosch a Van Dyck e Füssli, letterarie in Shakespeare (nel Sogno di una notte di mezza estate la regina Titania, bevuto un filtro galeotto, si innamora di Bottom, il buffone deforme con testa d’asino), Calvino (in Fiabe italiane trascrive il racconto calabrese Il Re serpente e quello toscano Bellinda e il Mostro), gli immancabili fratelli Grimm (Pelle d’orso e Hans Porcospino). 
Corsi e ricorsi delle fiabe. A dipanare l’intreccio delle suggestioni ci pensano i catalogatori (Aarne-Thompson elenca centosettantanove racconti con lo stesso soggetto) che nel canone 425 individuano il tema della fanciulla che va in sposa a una creatura mostruosa dalle sembianze animali. 
La prima a fissare il canone fu Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve, autrice di Les Contes marins, ou la Jeune Américaine pubblicato nel 1740 in Olanda, una raccolta di fiabe narrate da una dama di compagnia alla sua giovane padroncina durante il Gran Tour d’Europa: tra i racconti, La Bella e la Bestia ci arriva con tutta la tensione erotica sprigionata dalla convivenza forzata dei due futuri amanti (Bella accetterà di accoppiarsi alla Bestia e lo libererà dall’incantesimo) e con un’implicita critica alle convenzione sociale dei matrimoni combinati e alla sofferta condizione della donna. 
Non c’è da stupirsi che a questa versione sia stata preferita quella molto più breve e addomesticata di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont data alle stampe nel 1756 in «Magasins des enfants, ou dialogues entre une sage gouvernante et pleusieurs de ses élèves». A Madame de Beaumont ha attinto la Disney, nel ’91, per il film di animazione Beauty and the Beast (il primo del genere a essere nominato come migliore pellicola), Oscar per la colonna sonora e la migliore canzone originale composte da Alan Menken e Howard Ashman, con regia di Kirk Wise e Gary Trousdale, sceneggiatura di Linda Woolverton. 
Rispetto alle fonti letterarie il cartoon si prende qualche libertà: vengono aggiunti il personaggio di Gaston, bellimbusto tutto muscoli, e una gustosissima corte di servitori della Bestia trasformati dall’incantesimo in oggetti. 
Squadra vincente non si cambia e ritroviamo Woolverton e Menken (al compianto Ashman, deceduto per Aids, subentrò Tim Rice) tra i nomi che firmano la versione teatrale tratta dal cartoon che la Disney presentò nel 1994 a Broadway, dove restò in scena per 13 anni.

La rivoluzione del medioevo


Non un’epoca buia ma un tempo fecondo. Preparò le conquiste dell’occidente

Paolo Mieli

"Corriere della Sera",  9 dicembre 2014

Si calcola che nel 430 a.C. gli abitanti di Atene fossero all’incirca 155 mila e che due o trecentomila persone vivessero nelle altre città-Stato (70 mila a Corinto, 40 mila a Sparta). Al massimo i «greci» ammontavano a mezzo milione di individui. I persiani, nella stessa epoca, erano quaranta milioni. Eppure i primi ebbero la meglio sia sulla terra, a Maratona (490 a.C.), che sui mari, a Salamina (480 a.C.). Di più. La geografia della Grecia contraddice la tesi secondo cui in tempi successivi la supremazia europea sarebbe stata riconducibile a favorevoli condizioni geografiche. In Grecia, ha fatto osservare Leopold Migeotte, persino le terre migliori erano sassose e la loro produttività «mediocre». Victor Davis Hanson ha sottolineato che la Grecia «non dispone neanche di un solo fiume navigabile e ha la disgrazia di non avere risorse naturali». E invece i grandi imperi dell’epoca — Egitto, Persia, Cina — occupavano enormi e fertili pianure, attraversate da grandi fiumi. Eppure è lì — nell’Atene del VI e V secolo a.C. — che ha avuto inizio quella che oggi chiamiamo la «civiltà occidentale». Civiltà alla quale Rodney Stark ha dedicato un libro, La vittoria dell’Occidente. La negletta storia del trionfo della modernità, pubblicato dall’editore Lindau. 
Per Stark il termine «modernità» vuole indicare «quella miniera di conoscenze e procedure scientifiche, di efficaci tecnologie, di successi artistici, di libertà politiche, di meccanismi economici, di sensibilità morali e di miglioramento delle condizioni di esistenza che caratterizzano le nazioni occidentali e ora stanno rivoluzionando la vita nel resto del mondo». Con l’esplicita implicazione che «quanto più le altre culture non sono state in grado di adottare almeno gli elementi principali di quella occidentale, tanto più sono rimaste arretrate e impoverite». I cinesi, ad esempio, inventarono la polvere da sparo molto presto, eppure molti secoli dopo non avevano artiglieria né armi da fuoco. Un’industria siderurgica fiorì nel Nord della Cina nell’XI secolo, ma i mandarini della corte imperiale dichiararono il ferro monopolio di Stato, se ne impadronirono e così distrussero la produzione siderurgica cinese. 
Già nell’antichità, su tantissime tecnologie cruciali la Cina era molto avanti rispetto all’Europa. Quando però i portoghesi vi arrivarono nel 1517, scrive provocatoriamente Stark, «trovarono una società arretrata in cui le classi privilegiate ritenevano più importante azzoppare le ragazzine bendando loro i piedi, che sviluppare tecniche agricole più produttive di quelle che avevano per far fronte alle frequenti carestie». Perché? E come è stato possibile «per un pugno di funzionari inglesi coadiuvati da pochi ufficiali, di carriera e non, governare l’enorme subcontinente indiano?» Perché la scienza e la democrazia sono nate in Occidente, insieme all’arte figurativa, ai camini, al sapone, alle canne dell’organo e a un sistema di notazione musicale? Perché è accaduto che, per parecchie centinaia di anni a partire dal XIII secolo, soltanto gli europei avevano gli occhiali e gli orologi meccanici? E successivamente telescopi, microscopi e periscopi? 
Il merito di tutto quel che è accaduto in materia di sviluppo della civiltà va attribuito alla circolazione delle idee. Sono le «idee», più che le «forze economiche e materiali», all’origine della modernità. Sono le «idee» che spiegano «perché la scienza sia nata soltanto in Occidente»: solo gli occidentali «hanno pensato che la scienza fosse possibile, che l’universo funzionasse secondo regole razionali che potevano essere scoperte». E nel momento in cui riconosciamo il primato delle idee, «ci rendiamo conto dell’irrilevanza delle interminabili discussioni accademiche per stabilire se determinate invenzioni vennero messe a punto autonomamente in Europa o furono importate dall’Oriente». Come la polvere da sparo in Cina. Partito da queste premesse, Stark passa alla confutazione di alcune opinioni assai diffuse sulla storia dell’Occidente. Il primo impero sorse in Mesopotamia più di seimila anni fa, poi vennero quelli egiziano, cinese, persiano e indiano. Tutti furono travagliati da croniche lotte per il potere all’interno delle élite dominanti, ma, a parte queste lotte, qualche guerra con i popoli confinanti e progetti di grandiose opere pubbliche, nella loro storia «accadde poco o nulla». I cambiamenti, sia tecnologici che culturali, «erano così lenti da passare quasi inosservati». I secoli si susseguivano e la maggior parte della gente continuava a vivere, come ha scritto Marvin Harris, «un pelo al di sopra della pura e semplice sussistenza; poco meglio dei loro buoi». Fu solo la Grecia del VI e V secolo a.C. che fece fare un salto alla storia dell’umanità. Un salto preparato da molto tempo. Dal momento che lì «condizioni geografiche sfavorevoli» con le conseguenti «mancanza di unità e competizione» provocarono appunto la «rivoluzione delle idee». I greci, precisa Stark, «non furono i primi a interrogarsi sul senso della vita e sulle cause dei fenomeni naturali; furono però i primi a farlo in modo sistematico». Come ha scritto Martin West, «insegnarono a se stessi a ragionare». 
 Poi fu la volta di Roma. Anzi, di quello che Stark chiama l’«intermezzo romano». Perché, scrive, «nella migliore delle ipotesi considero l’impero romano una pausa nell’ascesa dell’Occidente, e più probabilmente una battuta d’arresto». Oltre alla mancanza di innovazioni tecnologiche, «i romani sfruttarono poco o nulla alcune tecnologie già esistenti; per esempio, conoscevano perfettamente la ruota ad acqua, ma preferivano usare il lavoro degli schiavi per macinare la farina». E anche i celebrati testi di Plauto e Terenzio furono per intero di derivazione greca. Per Stark «ai fini dello sviluppo della civiltà occidentale, la caduta dell’impero romano non è stata un’immane tragedia, bensì il fatto in assoluto più benefico». I «molti soporiferi secoli di dominazione romana» hanno visto due soli significativi fattori di progresso: «L’invenzione del cemento e l’ascesa del cristianesimo, quest’ultima avvenuta nonostante i tentativi dei romani di impedirla». A cadere poi «fu Roma, non la civiltà; i goti non tornarono improvvisamente alla barbarie; e i milioni di abitanti dell’ex impero non dimenticarono improvvisamente quel che sapevano». Al contrario, scrive Stark, «con la fine dei paralizzanti effetti della repressione romana, riprese il glorioso cammino verso la modernità». Quanto alla svolta di Costantino, scrive l’autore, l’immenso favore dimostrato da quell’imperatore romano al cristianesimo «finì per danneggiarlo». Nella sua storia del papato, Eamon Duffy ha fatto notare che Costantino elevò il clero a tali livelli di ricchezza, potere e status che i vescovi «divennero figure eminenti al pari dei senatori più ricchi». Con la corruzione che ne derivò. 
Successivamente i «secoli bui» non furono mai tali; al contrario, il Medioevo è stato un’epoca di notevole progresso e innovazione, tra cui «l’invenzione del capitalismo». La maggior parte degli europei «iniziarono a mangiare meglio di come avessero mai mangiato nel corso della storia e di conseguenza divennero più grandi e forti di coloro che vivevano altrove». Nel 732, gli invasori islamici, quando penetrarono in Gallia, si trovarono di fronte «un esercito di franchi splendidamente armati ed addestrati e furono sconfitti». In seguito, «i franchi conquistarono la maggior parte dell’Europa e misero sul trono un nuovo imperatore». Ma presto quel sogno si infranse. Un peccato? No, reagisce l’autore, «è una fortuna che quella costruzione sia andata in frantumi» e la «creativa disunità dell’Europa» sia stata ristabilita. Va poi aggiunto che «sebbene svariati storici abbiano dedicato molta più attenzione all’impero carolingio che ai vichinghi, questi ultimi, per l’ascesa dell’Occidente, hanno avuto un ruolo di gran lunga più significativo e duraturo dei primi». Non è vero, poi che i crociati, in seguito, abbiano «marciato verso oriente per conquistare terre e bottino». Anzi. Si erano «indebitati fino al collo per finanziare la propria partecipazione a quella che consideravano una missione religiosa». I più «ritenevano improbabile la possibilità di sopravvivere e di tornare in patria (e infatti non tornarono)». Come dimostrano le crociate, «per gli europei la vera base dell’unità era il cristianesimo, che si era trasformato in una ben organizzata burocrazia internazionale». A tal punto che «sarebbe più corretto parlare di Cristianità più che di Europa, dal momento che, all’epoca, quest’ultima aveva ben poco significato sociale o culturale». Fu questo il periodo in cui nacque davvero il capitalismo. Gli europei si arricchivano dopo aver imparato a sfruttare le fonti di energia. Alla fine del XII secolo, racconta Stark, «l’Europa era così affollata di mulini a vento che i proprietari cominciarono a denunciarsi a vicenda con l’accusa di portarsi via il vento». 
 Nel XVII secolo, infine, non c’è stata nessuna «rivoluzione scientifica»: i brillanti successi di quell’epoca «sono stati semplicemente il culmine di un normale progresso scientifico, iniziato nel XII secolo con la fondazione delle università». La Riforma «non ha portato alcuna libertà religiosa, ma ha semplicemente sostituito repressive e accentratrici Chiese cattoliche con altrettanto repressive e accentratrici Chiese protestanti». L’Europa «non si è arricchita drenando ricchezza dalle sue colonie sparse per il mondo»; al contrario «sono state le colonie ad aver drenato ricchezza dall’Europa, nel contempo acquisendo i benefici della modernità». Stark ci esorta a paragonare le tragedie di Shakespeare a quelle dell’antica Grecia. Non che Edipo «fosse senza colpe, però non aveva fatto nulla per meritare la sua triste fine: fu semplicemente vittima del destino; al contrario, Otello, Bruto e i Macbeth non furono prigionieri di un destino cieco». Che significa questo discorso? Che «uno dei fattori più importanti nel favorire l’ascesa dell’Occidente è stata la fede nel libero arbitrio; mentre la maggior parte delle antiche società (se non tutte) credevano nel fato, gli occidentali giunsero alla convinzione che gli esseri umani sono relativamente liberi di seguire quello che detta la propria coscienza e che, essenzialmente, sono artefici del proprio destino». E qui l’autore smonta punto per punto la famosa tesi di Max Weber secondo cui l’etica protestante sarebbe all’origine del capitalismo (ma a quest’opera di demolizione aveva già pensato Fernand Braudel definendola «debole tesi» per di più «chiaramente falsa»). 
Esattamente «come gli insegnamenti di Sant’Agostino avevano segnato un cambiamento nell’atteggiamento cristiano nei confronti del commercio, i teologi che hanno poi assistito alle fiorenti attività economiche dei grandi ordini religiosi, cominciarono a rivedere le dottrine su profitto e interesse». Fu lì, a ridosso dell’anno Mille, che nacque una sorta di protocapitalismo «molti secoli prima che esistessero i protestanti». Poi, a metà del Trecento, dopo l’epidemia provocata dalla Peste Nera, «la scarsità di manodopera», come ha dimostrato David Herlihy, «stimolò le invenzioni e lo sviluppo di tecnologie che consentissero di risparmiare forza lavoro». Quindi l’Europa medievale «vide l’ascesa del sistema bancario, di un’elaborata rete manifatturiera, di rapide innovazioni in campo tecnologico e finanziario, nonché una dinamica rete di città commerciali». Va anticipato ad allora l’inizio, o quantomeno i «primi passi», di quella che avremmo definito la «Rivoluzione industriale». Già da molto tempo l’Europa era più avanti del resto del mondo in fatto di tecnologia, «ma alla fine del XVI secolo quel divario era ormai diventato un abisso». 
E qui Stark si avvale di una notazione ai margini della battaglia di Lepanto (ottobre 1571). Quando saccheggiarono le imbarcazioni turche ancora non affondate, i marinai cristiani vittoriosi scoprirono un autentico tesoro in monete d’oro a bordo della «sultana», l’ammiraglia di Ali Pasha, e ricchezze quasi altrettanto ingenti furono trovate nelle galee di parecchi altri ammiragli. Il perché lo ha spiegato Victor Davis Hanson: «Non essendoci un sistema bancario, temendo una confisca qualora avesse scontentato il sultano e sempre attento a tenere i propri averi al riparo dell’attenzione degli esattori fiscali, Ali Pasha si era portato la sua immensa ricchezza a Lepanto». Eppure, fa notare Stark, Ali Pasha «non era un contadino che nascondeva il surplus del raccolto, ma un membro dell’élite dominante… se una persona come lui non era in grado di trovare investimenti sicuri e non se la sentiva di lasciare i suoi soldi a casa, come era possibile che qualcun altro potesse sperare di far meglio?». Il concetto che, in epoca medievale, la cultura islamica fosse molto più avanzata di quella europea «è un’illusione». E in queste pagine sono trasparenti le allusioni agli abbagli provocati di recente dalle cosiddette primavere arabe. Più che trasparenti: esplicite.

lunedì 8 dicembre 2014

Il sesso dell'arte



Il Novecento ha ribaltato molti stereotipi
La Yourcenar si faceva chiamare scrittore e i suoi protagonisti sono uomini. 
Mentre il sito “Goodreads” ora attesta che le lettrici sono più libere di scegliere cosa leggere


Melania Mazzucco

"La Repubblica", 7 dicembre 2014

I LIBRI, i quadri, i film, hanno un sesso? E se sì, hanno il sesso del loro autore (della loro autrice)? Dall’origine dei tempi tutti gli artisti si considerano i genitori delle loro opere, essendo coloro che le mettono al mondo. Ma i genitori non possono determinare il genere delle loro creature — nemmeno l’ingegneria genetica sa farlo: può selezionarlo, ma è cosa diversa. Se i romanzi, i quadri e i film ripetessero meccanicamente il sesso del loro autore ciò costituirebbe un’eccezione sconvolgente che minerebbe lo statuto stesso delle opere, e dimostrerebbe che gli autori si sono sempre sbagliati. Essi non sono genitori ma gemelli delle loro creature. Queste non avrebbero alcuna autonomia, alcuna singolarità: sarebbero solo il loro specchio.
È ingenuo illudersi di riconoscere da una frase (un dettaglio, un fotogramma) l’identità dell’autore. La storia tramanda romanziere celate dietro uno pseudonimo maschile, pittrici che sono state confuse coi loro fratelli o padri, musiciste i cui spartiti sono stati usurpati dai loro maestri o mariti. Eppure questi equivoci riguardano soprattutto le epoche passate, quando le donne dovevano contentarsi di utilizzare modelli, esperienze, fantasie, tecniche e simboli considerati universali, ma in realtà elaborati dagli uomini. La domanda perciò non è retorica.
Da alcuni millenni i filosofi, e da qualche decennio anche le filosofe, si chiedono che cosa distingua il maschile dal femminile. E se questa differenza sia naturale (innata, essenziale) o culturale. Aristotele diede la risposta più duratura (i residui del suo dualismo, che ha improntato il pensiero occidentale, sopravvivono ancora adesso, in forma di luogo comune del discorso): il maschile è l’elemento attivo, portatore di forma; il femminile è materia, elemento inerte. Da questa contrapposizione originaria sono derivate una serie di dicotomie: al maschile si associano azione, razionalità, autocontrollo, efficacia, luce, innovazione; al femminile passività, irrazionalità, sensibilità, debolezza, oscurità, incapacità di invenzione e originalità. Questi stessi stereotipi sono divenuti anche categorie artistiche — stilistiche, tematiche.
“Virile” è analogo di “potente”, “forte”, “razionale”, “asciutto”, caratteristiche che si suppongono naturalmente proprie dell’uomo (e delle sue opere), in opposizione a “debole”, “sentimentale”, “emotivo”, “ridondante”: caratteristiche che invece si suppongono naturalmente proprie della donna (e delle sue opere). Gli aggettivi sottintendono un giudizio e una gerarchia di qualità. Che le donne hanno introiettato e fatto proprio. Dovevano ritenere un complimento essere considerate autrici di un’opera “virile” (come capitò alle pittrici Gentileschi, Valadon e tante altre).
Marguerite Yourcenar ribadì spesso il suo scarso interesse per il personaggio femminile (anche per il proprio: voleva essere chiamata scrittore e non scrittrice, questa parola implicando un disvalore). I protagonisti dei suoi romanzi, da Alexis a Adriano e Zenone, sono uomini. Diceva: le donne non fanno la guerra, non hanno potere. Il loro destino le costringe fra quattro mura — e costringe il romanziere che si occupa di loro a limitarsi a temi domestici, da interno: la famiglia, l’adulterio, il divorzio, la maternità. Una letteratura che ha per protagonista la donna è perciò antiepica, lirica, elegiaca, intimista. Non il romanzo — che presuppone un forte legame con la società circostante, l’esterno — ma la novella (e il diario o l’autobiografia) sarebbero la forma più adatta a narrare il personaggio femminile. Parallelamente, in pittura, il genere considerato congeniale alla donna era il ritratto (l’interno), non la pittura storica (che presupponeva, appunto, il mondo), e nel cinema il dramma sentimentale e non il western o il thriller.
I mutamenti sociali e antropologici avvenuti nel XX secolo hanno terremotato questi pregiudizi. Le donne hanno scritto romanzi assai belli e diretto innovativi film d’azione e di guerra (basti pensare alla regista Kathryn Bigelow). La crisi dello stereotipo vale anche al contrario: bei film intimisti e sui sentimenti li hanno girati registi uomini (i fratelli Dardenne, Todd Solonz, Alexander Payne, Asgar Farhadi).
E se le dicotomie sopra citate si sono rivelate culturali e non naturali, e perciò reversibili, resta il fatto che la fruizione artistica è un’esperienza cognitiva (leggere, guardare, ascoltare, significa comprendere un testo) e insieme emotiva (sperimentare gli effetti del testo), e perciò il genere del lettore (spettatore, ascoltatore) è determinante quanto il genere inscritto nel testo (non del testo).
Esperimenti condotti già negli anni Ottanta nelle università americane hanno dimostrato che uomini e donne leggono i romanzi in modo diverso. Gli uomini li ritengono il risultato di una costruzione, e perciò percepiscono con forza la voce che parla, le donne li sperimentano come mondo, senza soffermarsi su come questo venga narrato. Li riassumono anche in modo opposto: i primi selezionano trama e azione; le seconde atmosfera, contesto, relazioni tra i personaggi.
Inoltre le donne sono state educate a leggere i testi degli uomini, a vedersi riflesse nel loro sguardo e ad assumere sistema di valori, princìpi e punto di vista maschile: a sognare di essere Ettore piuttosto che Andromaca, Sandokan piuttosto che la perla di Labuan, Pinocchio e non la Fata Turchina. Mi rallegra apprendere dal sondaggio di Goodreads (di cui ha parlato su queste pagine Enrico Franceschini il 27 novembre scorso) che le lettrici (inglesi) siano ora libere di scegliere da chi preferiscano essere intrattenute, educate, spaventate, e che i condizionamenti culturali che le hanno afflitte per secoli si siano sbriciolati. Gli uomini, invece, non hanno dovuto farlo: con rare eccezioni i classici della cultura occidentale sono scritti da uomini. Gli uomini non sono abituati a vedersi riflessi nello sguardo dell’altro. Essi sono, per parafrasare un saggio di critica femminista di Judith Fetterley, «lettori che oppongono resistenza». Se accetteranno la sfida, potranno leggere per duemila anni libri col nome femminile sopra il titolo. Solo allora potranno scegliere con consapevolezza, e il risultato del sondaggio avrà davvero significato.
Ma anche il lettore (lettrice) è una figura immaginaria. La singolarità di ciascuno di noi non deriva solo dal genere, ma anche da altre differenze — la classe, la geografia, la razza, l’orientamento sessuale, la cultura, la politica — e dialoga con la società in cui viviamo. E se noi lettrici, lettori, scrittori, scrittrici, siamo plurali, allora anche le opere lo sono. Di sessi ne hanno più d’uno. Il proprio, quello di chi le crea e quello di chi le gode e se ne appropria.

Fisica teorica. Sembra folle? Ma è la realtà


La teoria dell'inflazione eterna dell'universo dice che lo spazio è infinito, 
popolato da una infinità di galassie e che il Big Bang non è stato l'inizio di tutto

Umberto Bottazzini

"Il Sole 24 Ore", 7 dicembre 2014

Che cosa è la realtà? si chiede Max Tegmark in apertura di questo libro. È uno dei grandi interrogativi che si sono posti pensatori di ogni epoca, e lo spettro delle risposte è quanto mai ampio e affascinante. Tegmark non sta a discuterle, si limita ad una sommaria lista. È un fisico teorico che, dopo un periodo trascorso al Max-Planck-Institut di Monaco e all'Institute for Advanced Study di Princeton, dal 2004 insegna al Mit, e la sua è la risposta di un fisico: «la fisica moderna ha chiarito fin troppo bene che la natura fondamentale della realtà non è quella che sembra». Da qui discende un grappolo di domande sempre più impegnative: se la realtà non è quella che credevamo, cos'è allora? Quali i costituenti ultimi di ogni cosa? Come funziona il tutto e perché? Quale ne è il senso, ammesso che ve ne sia uno? Prima di rispondere, Tegmark ci anticipa la sua convinzione, che non esita a definire «a prima vista folle» e cioè che «il mondo fisico non sia solamente descritto dalla matematica, ma che sia matematica». Insomma, «un gigantesco oggetto matematico di cui noi siamo elementi consapevoli». E per motivare questa convinzione, che porta ad ipotizzare una nuova famiglia di universi paralleli al nostro, ci invita a seguirlo in un lungo percorso intellettuale che coniuga i tratti dell'autobiografia con la storia delle recenti conquiste della cosmologia e l'astrofisica in pagine di agevole lettura e grande fascino. «Mi ritengo molto fortunato a poter passare gran parte del mio tempo a riflettere su domande interessanti», dice Tegmark del suo lavoro. 
Domande come quella che gli ha posto un compagno di asilo di suo figlio: Lo spazio non finisce mai? «Questo ragazzino di cinque anni – confessa Tegmark – mi ha chiesto qualcosa cui non so rispondere!». E in verità, egli continua, nessuno conosce la risposta. È una domanda che a sua volta ne genera numerose altre, attorno alle quali gravita tutta la prima parte del libro. Per cominciare: quanto è grande lo spazio? Nel corso del tempo l'espansione del nostro orizzonte conoscitivo è cresciuta in maniera spettacolare: oggi sappiamo che lo spazio è almeno un miliardo di trilioni (ossia 1021) volte più grande di quello che immaginavano i cacciatori-raccoglitori della preistoria. Nel 1925 l'astronomo americano Edwin Hubble in una conferenza lasciò il pubblico a bocca aperta con l'affermazione che la galassia di Andromeda distava circa un milione di anni luce: ma come nel passato Aristarco e Copernico anch'egli si sbagliava per difetto, e in seguito altri astronomi hanno espanso i nostri orizzonti fino a miliardi di anni luce e oltre. Dal punto di vista matematico, la geometria di Euclide consente di descrivere rigorosamente uno spazio infinito. Ma, dopo la scoperta di geometrie non euclidee, per sapere in quale spazio viviamo la pura logica non basta. «Una delle idee più belle della teoria einsteiniana della gravitazione – sostiene Tegmark – è che la geometria non è solo matematica: è anche fisica». Infatti, le equazioni di Einstein spiegano la gravità come "una manifestazione della geometria". Nella teoria di Einstein lo spazio può essere finito in quanto curvo: in uno spazio del genere, dice Tegmark, «procedendo con una certa velocità e per un tempo sufficiente, finireste per tornare a casa dalla direzione opposta a quella di partenza». Lo stesso Einstein si rese conto che un universo infinito, statico e con una distribuzione uniforme di massa non obbediva alle sue equazioni della gravità e, con quello che definì il suo più grande errore, vi aggiunse un termine supplementare per fare in modo che l'universo fosse statico ed eterno (e invece oggi invece sembra necessario per descrivere l'energia oscura.
Fu il fisico russo Alexander Friedman nel 1922 a rendersi conto che la gran parte delle soluzioni delle equazioni di Einstein non erano statiche, e che la situazione più naturale era quella di un universo in espansione o in contrazione: Friedmann mostrò che per un universo in espansione c'era un istante in cui tutto era concentrato in un punto di densità infinita: «era nato il Big Bang» dice Tegmark ma, per ironia, la risposta della comunità dei cosmologi fu «un silenzio assordante». Lo stesso che accolse cinque anni dopo il lavoro di Georges Lemaître che riottenne i risultati di Friedmann. Dalla teoria del Big Bang di Gamow del 1946, alla scoperta della radiazione cosmica di fondo da parte di Arno Penzias e Robert Wilson, ai più recenti risultati sperimentali collegati ad essa, Tegmark ripercorre le tappe che hanno portato la frontiera delle nostre conoscenze all'indietro nel tempo da 13,8 miliardi (l'età dell'Universo) fino a circa 400.000 anni dopo il Big Bang. Restano numerosi misteri, dei quali forse il più clamoroso da spiegare è che la materia conosciuta dell'Universo occupa solo il 4% e la restante si divide tra energia oscura (il 70%) e materia oscura. "Oscura" nel senso che non si sa cosa sia. Un altro mistero è legato alla teoria del Big Bang: misure estremamente precise dicono che lo spazio è piatto, ma nel modello di Friedmann si tratta di una situazione estremamente instabile e appare misterioso come abbia potuto l'Universo durare così a lungo senza incurvarsi verso un Big Crunch (un Big Bang al contrario) o espandersi verso un Grande Freddo. Una risposta è venuta dalla teoria dell'inflazione eterna, secondo cui il Big Bang non è stato l'inizio di tutto, ma solo «la fine dell'inflazione nella nostra parte di spazio». La teoria dell'inflazione eterna risponde anche alla domanda del bambino: lo spazio è infinito, popolato da un'infinità di galassie e «si è sviluppato a partire da condizioni iniziali generate a caso dalle fluttuazioni quantistiche». Da questo punto si entra nel «regno del controverso», ammette Tegmark, quello dei multiversi paralleli, frutto della previsione di una teoria come quella dell'inflazione. Avventurarsi in quegli universi significa esplorare multiversi in una gerarchia di livelli di crescente diversità: il livello I (le regioni di spazio distanti e non osservabili), il livello II (le regioni post-inflazionarie), il livello III («altrove nello spazio di Hilbert quantistico») e infine il livello IV, un multiverso in cui «tutte le strutture che esistono in senso matematico esistono anche in senso fisico». E quest'ultima è la convinzione profonda di Tegmark, e in 300 pagine prova a convincerci che non è "folle" come sembra a prima vista.