lunedì 28 aprile 2014

Cosa vuol dire scrivere in italiano


La monumentale opera, curata da tre nostri giovani collaboratori, 
ci permette di conoscere meglio i meccanismi grazie ai quali la lingua italiana 
si è evoluta nei testi dei generi più diversi 

Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese, Lorenzo Tomasin

"Il Sole 24 ore - Domenica", 27 aprile 2014

L'italiano in cui sono scritte queste righe e le pagine di questo giornale è una lingua parlata e scritta, oggi, da milioni di persone. Una lingua varia nelle sue articolazioni interne – geografiche, sociali, culturali, stilistiche –, ma anche unitaria e ben riconoscibile nella sua fisionomia complessiva. Come molte lingue contemporanee, l'italiano quotidianamente prodotto, ascoltato e letto da tutti (o quasi) gli italiani è una lingua ormai desacralizzata nella sua dimensione scritta, proprio perché ormai (e finalmente) buona per tutti gli usi. Non più o non solo lingua del bel cantare o del dolce poetare, ma codice di comunicazione quotidiana, urlata, digitata, funzionale. 
Ciò ne fa, naturalmente, una lingua viva e (ne siamo convinti) complessivamente in salute. Ma ne fa anche qualcosa di diverso da ciò che è stata gran parte della sua storia, visto che almeno fino alla metà del secolo scorso tra lingua del parlato e lingua dello scritto c'è stata una separazione molto netta. Banale osservare che la dimensione parlata della lingua è di fatto irrecuperabile – per ragioni legate all'impossibilità di registrazione della voce – fino a un periodo tutto sommato recente. Banale, anzi falso; visto che molto del parlato "antico" ci è ancora oggi restituito, se pure in modo indiretto o distorto, proprio dai testi dell'italiano scritto. È nel "parlato trascritto" delle deposizioni dei testimoni negli atti giudiziari, a partire da quelle, formulari, con cui - prima dell'anno Mille - comincia la nostra storia linguistica: «Sao ko kelle terre …». Ma anche nelle scritture dei semianalfabeti (emigranti, mezzadri, monache, streghe: quanta sgrammaticata naturalezza parlata nei testi che oggi chiamiamo semicolti) o nelle estemporanee scritte disseminate sui muri del nostro Paese (nel 1977, in piena contestazione, in un'università si leggeva: «distuggiamo la grammatica», con chiosa autoironica nella stessa vernice spray: «come vedete da sopra, avevo spontaneamente cominciato»).
Ma una storia dell'italiano scritto, come quella che abbiamo tentato di proporre coordinando il lavoro di una trentina di autori, è prima di tutto la storia di una grande e non del tutto trapassata lingua letteraria. Proprio grazie al prestigio dei modelli letterari trecenteschi (Dante, Petrarca, Boccaccio), il fiorentino antico riuscì progressivamente ad affermarsi sulle altre parlate locali, imponendosi come lingua condivisa in un'Italia politicamente divisa (e trasformando, dalla metà del Cinquecento, il ruolo dei diversi volgari divenuti ormai dialetti). La costruzione di questa identità dell'italiano è un altro dei prodigi del Rinascimento: le Prose della volgar lingua (1525) dell'umanista Pietro Bembo, a cui si deve la codificazione della nostra lingua sul modello dei classici, sono figlie degli stessi ambienti in cui Raffaello reinventava l'antico. Questo senso del passato nel moderno costituirà uno dei punti di forza dell'italiano: è attraverso la sua storia letteraria che l'italiano – lingua di poeti e di scrittori (spesso tutt'altro che santi) – è diventata una lingua di cultura universalmente riconosciuta come tale. 
Oggi, dopo che abbiamo assistito – sia in prosa sia in poesia – alla sua radicale trasformazione, la lingua letteraria continua a essere vissuta con ammirazione mista a disagio. Ma soprattutto con scarsa attenzione per il suo valore storico, che non è semplicemente quello di uno strumento neutro per veicolare contenuti letterari o idee. Sempre più numerosi sono i tentativi di riscrittura dei nostri classici in italiano moderno. Ma Boccaccio, Machiavelli, Castiglione non sono anche, precisamente, la lingua del Decameron, del Principe o del Cortegiano
Al di là delle esigenze di leggibilità, negli esperimenti di chi mette tra parentesi la lingua in cui si sono espressi i nostri scrittori si coglie una difficoltà nel percepire la lingua letteraria – quella "difficile" e a prima vista "lontana" dei grandi autori del Medioevo, del Rinascimento o anche di età più vicine – come qualcosa che ha valore in sé. Un valore che non può essere rimosso, ma va semmai spiegato con paziente attenzione proprio perché possa essere apprezzato da un pubblico più ampio dei soli addetti ai lavori. Anche questo si propone di fare un'opera di sintesi non puramente manualistica come la nostra, altrimenti difficile da giustificare qui e oggi.
Alla base c'è l'idea che la storicità dei fatti linguistici sia qualcosa con cui bisogna misurarsi dal punto di vista culturale, prima ancora che estetico. Un punto di vista che accomuna tutti e tre i volumi di questa Storia dell'italiano scritto, dedicati rispettivamente alla Poesia, alla Prosa e all'Italiano dell'uso. Due terzi dell'opera come si vede (cioè circa un migliaio di pagine) sono dedicati ai generi della scrittura letteraria, ma lasciando spazio – accanto ai grandi istituti canonici (il romanzo, la poesia lirica) – anche a generi che forse siamo meno abituati a pensare come importanti nella storia della nostra lingua. 
L'epistolografia degli eleganti prosatori cinquecenteschi («le lettere s'hanno a scrivere con un certo nè troppo, nè poco di famigliarità», scriveva Stefano Guazzo), la poesia comico-realistica di tradizione municipale (come il Cecco Angiolieri di S'i' fosse fuoco arderei 'l mondo) o la prosa teatrale costantemente contaminata dai dialetti (come in tante opere di Goldoni e nei memorabili tic linguistici dei suoi personaggi: «Vegnimo a dire el merito»). E se oggi la storiografia e la trattatistica si sono semplicemente dissolte nell'àmbito non-letterario delle scritture scientifiche ("saggistica", negli scaffali delle librerie), per secoli sono state luogo di travaso di una sapiente retorica nel vivo dell'attualità, della natura, del cosmo: dalla grande prosa di Galileo – scienza e letteratura insieme – alla divulgazione piacevole declinata dagli scritti razionalisti e illuministi (basti pensare al Newtonianismo per le dame di Francesco Algarotti, 1737). Senza trascurare l'importanza di certe letture trasversalmente diffuse nella società, come i romanzi d'appendice o più di recente i fumetti: quella che gli specialisti chiamano "paraletteratura".
Tra letteratura, non-letteratura e para-letteratura, la Storia dell'italiano scritto ripercorre il retroterra di ciò che oggi identifichiamo con la lingua nazionale, sforzandosi di dargli una sistemazione complessiva. Nella convinzione che riordinare significhi – in un caso come questo – interpretare.

mercoledì 23 aprile 2014

Se Pascoli scommette sulla gioia impossibile


Ma il desiderio è bloccato da una spietata censura inconscia

Una zona buia che anticipa Freud

Walter Siti

"La Repubblica", 20 aprile 2014


Per un attimo fui nel mio villaggio,
nella mia casa. Nulla era mutato.
Stanco tornavo, come da un viaggio;
stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.

Sentivo una gran gioia, una gran pena;
una dolcezza ed un'angoscia muta.
- Mamma? - È là che ti scalda un po' di cena -
Povera mamma! e lei, non l'ho veduta.


NESSUNO in Italia prima di Pascoli era riuscito a intonare poesia mantenendo così basso il registro linguistico; lo stile si solleva dalla prosa di tutti i giorni grazie a pochissimi artifici ben collaudati. In primo luogo le ripetizioni, ben sei in otto versi (nel… nella; stanco… stanco; al… ai; tornavo… tornato; gran… gran; mamma… mamma); poi ingorghi fonetici e false parentele (nella-nulla; mutato- muta), bipartizioni bilanciate come ai vv. 5 e 6, e una classica dieresi al v. 3. Gli endecasillabi si distendono senza sforzo in uno schema metrico di assoluta semplicità, due quartine a rima alternata. Pascoli sogna di tornare per un attimo nella vecchia casa di San Mauro, dove ha lasciato i suoi morti: il padre, la madre, tre sorelle e due fratelli. È stanco per il viaggio della vita, sa di tornare in una casa di fantasmi; ma l’ultima consolazione, rivedere la madre almeno in sogno (stando in collegio a Urbino non aveva potuto salutarla nella bara), gli è negata dall’amore e dalla sollecitudine materna - è “di là”, intenta ai doveri di accudimento. Un’ellissi che strappa le lacrime per la nudità della constatazione («e lei, non l’ho veduta»); il macchinario onirico è bloccato da un’inesplicabile quanto indiscutibile censura inconscia: non sei ancora pronto, vedere mamma ti è vietato.
Nello stesso 1892 Pascoli scrive Gladiatores, un lungo poema in latino di quelli che mandava ai concorsi di Amsterdam: vi si parla di tre gladiatori, seguaci di Spartaco, alla vigilia della battaglia decisiva - uno di loro, il più vecchio, durante la notte sogna la madre (“miseram matrem”, povera mamma); un altro sogna anch’egli di tornare al proprio villaggio ma le forze gli mancano davanti al cortile di casa sua; grida e nessuno lo sente; la madre, finiti i lavori domestici, sta per uscire in cortile, già la porta gira sui cardini… ma suona la tromba dell’adunata e il gladiatore si sveglia. «Povera mamma!» sta anche in un abbozzo di prefazione alla terza edizione di Myricae, pure del 1892; lì Pascoli ricostruisce la vicenda del padre, freddato da una fucilata mentre tornava a casa col calesse - l’esclamazione si colloca subito prima dello sparo. Che relazione può esserci tra l’identificazione pascoliana con un antico gladiatore e la sua tragica vicenda familiare? Cesare Garboli ci ha spiegato che gli anni decisivi per questo nesso sono stati quelli tra il 1889 e il 1893, che lui definisce di “crisi del nido”.
Nel 1887 Pascoli era stato trasferito dal liceo di Massa a quello di Livorno e lì aveva chiamato a vivere le sorelle Ida e Maria; nel 1889 si era infatuato di una ragazza e per un istante aveva pensato di dichiararsi - forse autorizzata dall’esempio, anche Ida aveva mostrato interesse per un giovanotto. Pascoli, sconvolto perché inconsciamente innamorato di Ida, aveva subito rinunciato al pallido progetto di fidanzamento e brigato perché anche Ida lasciasse il giovanotto. Il “nido” si era così ricostituito ma all’insegna della malinconia e della rimozione. È in quegli anni di auto-imposta castità che Pascoli elabora il mito della propria tragedia familiare: è allora che fissa l’immagine eroica di se stesso come capofamiglia espiatorio, gladiatore deciso a sacrificarsi lavorando, rinunciando all’amore per portare sulle spalle il peso di tutti (compreso un fratello in perenne difficoltà economica). Quando Ida, insofferente della tetra atmosfera domestica, si sposerà e andrà a vivere altrove, Pascoli non presenzierà al matrimonio ma continuerà a versarle un assegno mensile.
Consumata la tragedia, il misterioso interdetto di comunicazione svanirà: nell’Ultimo sogno ritrova la madre ancora silenziosa al capezzale di se stesso malato e sente nel brusio dei cipressi il rumore di un fiume «che cerca il mare inesistente». È un sogno di guarigione, ma la guarigione coincide con la morte. Nelle poesie del Ritorno a San Mauro (del 1897) Pascoli finalmente riuscirà a parlare con la madre morta - non solo a vederla ma a dirle quel che prima rimuoveva: «Io non son potuto crescere». Vedere la madre significherà immolarsi senza possibile ritorno, riempiendola di mille pazze promesse; e lei potrà rispondergli in nome di un desolato principio di realtà: niente è più possibile ormai, nella casa ci abita altra gente, io sto al cancello - e delle bimbe sei tu che devi dirmi qualcosa, io non ne so più niente.
A stretto rigor di termini quando qui, nel nostro testo, dice di esser tornato a suo padre, e ai morti, sembra escludere proprio le due sorelle ancora vive; ma tutto è sospeso e impreciso come accade nei sogni (non “da un viaggio” ma “come da un viaggio”). La descrizione è senza sbavature e nello stesso tempo impregnata di un’emozione arcana, dolcezza e angoscia si mischiano senza trovare sbocco. Non è solo il sentimento contrastato di chi rivede come fantasmi le persone che ha amato, è lo smarrimento di chi si è imprigionato da solo («ci siamo accorti tutti e tre», scrive in una lettera del 1892 a Severino Ferrari, «che abbiamo sbagliato nella somma la vita, e non si rinasce»). Non è un sogno ad occhi aperti tipo il Sogno d’estate di Carducci, è proprio l’immersione in una zona buia di cui non si è padroni, già pronta per Freud.

Il cavallo di Troia era Enea


Una riscrittura marchia come traditore l’eroe di Virgilio 

Luciano Canfora

"Corriere della Sera - La Lettura", 20 aprile 2014

Nel mondo greco e romano, cristiano e bizantino, la continuazione di un’opera storiografica precedente fu la norma. Così si venne costituendo un vero e proprio «ciclo» storico, di cui sono giunti a noi soltanto singoli spezzoni. Ma in realtà tutto incomincia con Omero. Nel caso dell’Iliade i problemi si complicano. Intorno al grande poema — che tratta di un periodo brevissimo, e neanche conclusivo, della guerra dei Greci contro la grande potenza microasiatica di Troia (XI secolo a.C.) — fiorì, ben più tardi, una serie di poemi che ne completavano il racconto: ad esempio con l’arrivo di Pentesilea e delle sue Amazzoni sopraggiunte in aiuto dei Troiani dopo la morte di Ettore. Altri poemi raccontavano altri «ritorni» meno famosi di quello di Odisseo. 
Non ci si avventurava però a raccontare con pari ampiezza i presupposti dell’Iliade, che infatti comincia in medias res, quando ormai i Greci hanno alle spalle ben nove anni di guerra logorante. A ricostruire l’intera vicenda, risalendo addirittura a una prima guerra di Troia condotta dai Greci contro il padre di Priamo e seguitando oltre l’Iliade fino alla cattura proditoria e alla distruzione di Troia, provvide un simpatico falsario (forse databile all’inizio della nostra era) che si celò dietro il nome di Darete Frigio. Darete, sacerdote di Efesto e padre di due combattenti troiani sgominati dal greco Diomede all’inizio del V libro dell’Iliade , costituiva un’ottima «copertura» per suggerire ai lettori che questa narrazione proveniva addirittura da un contemporaneo, testimone diretto dei fatti narrati, diversamente da Omero, vissuto secoli dopo. 
Un altro celebre falsario, Tolomeo Chenno (I d.C.), è il primo a far cenno a una «Iliade Frigia». A noi è giunta in versione latina una Daretis Phrygii De excidio Troiae historia , citata per la prima volta da Isidoro di Siviglia (VI d.C.) e forse nata non molto prima. Per gabellarsi come antica, l’opera è preceduta da una lettera di Cornelio Nepote a Sallustio, recante l’inverosimile notizia della scoperta dell’autografo di Darete! Nel Medioevo latino ebbe un successo enorme, a giudicare dai molti manoscritti del X secolo. Nel XIII secolo fa capolino addirittura una versione più ampia, scoperta da Courtney nel 1955. Ora, per Castelvecchi editore, l’opera appare ritradotta con brillantezza e qua e là compendiata da Luca Canali (Storia della distruzione di Troia); segue un ottimo corredo di note a cura di Nicoletta Canzio. 
Naturalmente il cosiddetto Darete non sa nulla dei nove anni non narrati da Omero. Perciò il suo racconto è straripante di dettagli per quel che attiene agli antefatti della guerra, è poverissimo sui nove anni che precedono l’Iliade, è rapido nel riassumere quanto narrato nell’Iliade ed è invece originalissimo, oltre che fantasioso, per quel che riguarda il finale della vicenda, antitetico rispetto a quanto racconta Virgilio nel II libro dell’Eneide . 
L’originalità del libro di Darete, a suo modo un antenato del romanzo storico, consiste nell’andare controcorrente rispetto alla tradizione. Per lui, le ragioni dei Troiani sono molto forti; il ratto di Elena era ben poca cosa rispetto ai torti dei Greci, già responsabili di una prima devastazione di Troia; Priamo non fu per nulla scontento dell’arrivo a corte di Elena (di cui l’autore segnala le bellissime gambe); spiritosi i vari ritratti dei personaggi femminili (Briseide era «deliziosa, ma pudica», Andromaca era «alta, casta, ma gradevole», Cassandra «di statura media e bocca alquanto rotonda», Polissena, figlia di Priamo, della quale si invaghirà Achille con esiti fatali, era «la più attraente di tutte le sorelle e di tutte le amiche»); strabico invece e anche balbuziente era Ettore, così come balbuziente era Neottolemo, figlio di Achille. Agamennone buono e saggio, Menelao un mediocre. Inverosimilmente le riunioni decisive dei Greci si tengono ad Atene. 
Priamo è un bellicista: ostile a ogni compromesso, egli si ostina nel protrarre una guerra ormai perdente. Di qui discende il prodursi del fatto più clamoroso e palesemente anti-virgiliano del racconto di Darete: il tradimento di Enea. Enea, coadiuvato dal padre e da Antenore, decide, per porre termine alle guerra, di aprire le porte al nemico: tutti e tre in combutta con Sinone agli ordini di Agamennone. Persino la leggenda del cavallo viene fatta a pezzi. Per Darete si trattava di una protome equina, scolpita sulle porte Scee, attraverso le quali Enea e i suoi complici fanno entrare i Greci. E non basta. Enea vorrebbe restare nella città vinta e ridotta a poche migliaia di abitanti, ma ha chiesto con insistenza ad Agamennone la salvezza di Ecuba e di Elena; Agamennone gliela concede, ma gli ordina di togliersi dai piedi e di andarsi a cercare un’altra terra dove sopravvivere. Così l’Eneide viene annichilita. 
Ci si può interrogare sul senso di questo strano racconto. In assenza di qualunque plausibile notizia sul vero autore, si possono solo formulare ipotesi. L’intento appare parodico, i ritratti dei personaggi sembrano confermarlo e fanno pensare ad un’altra celebre parodia storiografica, la Storia vera di Luciano di Samosata. Si può inoltre pensare — e le due ipotesi non sono in contrasto — a una consapevole dissacrazione dell’epopea romana, incentrata sul pio Enea, antico progenitore. Qui Enea diventa il traditore incallito e consapevole, alla fine maltrattato dallo stesso nemico al cui servizio si è posto. Nella temperie augustea e post-augustea, impregnata di rivendicazione occidentalistica e anti-ellenistica, si levarono voci di dissenso: ad esempio Timagene di Alessandria, che Augusto scacciò dalla sua casa, in quanto maldicente antiromano. Dopo Azio e la fine dell’ultimo regno ellenistico, questi Greci sollevavano ad esempio la questione: se Alessandro Magno si fosse rivolto a Occidente che brutta fine avrebbe fatto Roma. E Livio, intellettuale organico augusteo, si affrettò a scrivere pagine e pagine per dimostrare che Roma avrebbe sconfitto Alessandro, perché disponeva di validi consoli! In questo clima di insofferenza verso l’asfissiante conformismo augusteo, il cui prodotto più indigesto è il VI libro dell’Eneide, forse bene si inquadra l’impennata iconoclastica dell’altrimenti ignoto Darete Frigio.

domenica 13 aprile 2014

Ultima stagione all'inferno


Finalmente tradotta la corrispondenza del poeta maledetto che fuggì in Africa 
mentre a Parigi diventava un mito

Giuseppe Scaraffia

"Il Sole 24 ore - Domenica", 13 aprile 2014

«La nostra pallida ragione, aveva denunciato Arthur Rimbaud, ci nasconde l'infinito.» Ma, quando decise di esplorare il mondo, ne rimase deluso. Con il suo passaporto consunto il poeta passò dall'Egitto ad Aden fino all'Harar. Eppure neanche quella fuga doveva appagarlo. «Mi annoio molto, sempre. Non ho mai conosciuto nessuno che si annoiasse come me», ammette Rimbaud in questa magnifica prima edizione della sua corrispondenza, sapientemente tradotta e curata da Vito Sorbello, giustamente intitolata Non sono venuto qui per essere felice.
Il poeta passò dall'Egitto ad Aden fino all'Harar. Lo seguiva un pesante baule di pelle, zeppo di carte geografiche, di manuali da falegname e da idraulico. Rimbaud non era un disperato in fuga verso l'autodistruzione, ma un imprenditore attento alla fauna e alla flora. Finalmente era riuscito a diventare uno di quelli che "stringono la realtà rugosa".
Intanto, insieme ma più rapidamente della gloria di Rimbaud, nasceva la sua leggenda. A Parigi si diceva che fosse tornato allo stato di natura o che fosse diventato il re di un popolo selvaggio. "A parte Hugo, si vantava Arthur, nessun poeta francese della fine del XIX secolo ha guadagnato più soldi". Ma i coloni europei non apprezzavano l'abbigliamento trascurato di Rimbaud, i goffi abiti di pesante cotone bianco, che l'ex-poeta si cuciva da solo sostituendo ai bottoni dei legacci. Ad Harar contrasse la sifilide. Poi si comprò una snella schiava abissina, la trattò sempre con gentilezza e la mandò a scuola dai missionari. Quando dovette partire, le diede del denaro e la rimandò a casa.
Era lontano da quella madre scontrosa e autoritaria, dalla campagna e dalla vita opaca, da cui era fuggito la prima volta, approdando al festoso tumulto della Comune di Parigi. Nella capitale, Arthur si era goduto, nel 1871, il festoso tumulto della Comune di Parigi. Poi era tornato indietro. Prima di ripartire per la capitale, si era interrogato a lungo. «Cosa vado a fare laggiù?... Non so come comportarmi, non so parlare...».
Mentre sorprendeva la vita artistica parigina, tutto in lui continuava a parlare della madre amata e detestata, dai calzerotti azzurri sferruzzati a mano al viso paffuto da bambino e all'impronta dialettale della voce. La cauta solidarietà dei poeti parigini lo intimidiva e lo disgustava. «Voglio essere poeta e lavoro a rendermi veggente... si tratta di arrivare all'ignoto attraverso lo sregolamento di tutti i sensi», aveva annunciato. Per Arthur Rimbaud essere veggenti voleva dire non limitarsi alla scontata realtà, ma affidarsi alle onde impreviste del sogno e dell'incubo, alla luce spettrale della disperazione, a tutto ciò che sconfessava il desolante ottimismo del secolo.
Intanto sgomentava quei dandies raffinatissimi con la sua trascuratezza e le sue dissipate abitudini. La chioma irsuta di Rimbaud era piena di pidocchi che si divertiva a buttare sui passanti che gli sembravano antipatici. Chiunque lo ospitava era destinato a pentirsene amaramente.
Solo Verlaine si lasciò travolgere dal "volto perfettamente ovale da angelo in esilio e dagli occhi di un blu pallido inquietante" di quel profeta contadino. Per lui lasciò clamorosamente il tetto coniugale. Insieme i due poeti iniziarono a ubriacarsi e a girovagare per l'Europa, scandalizzando tutti con la loro omosessualità. A Bruxelles il timore dell'abbandono, le liti, la droga e l'alcool esplosero nella rivoltellata di Verlaine. Rimbaud fu ferito al polso. Prima sporse denuncia, poi ritrattò, ma l'amante venne condannato a due anni di carcere. Uscì di prigione pentito. «Verlaine è arrivato qui l'altro ieri, con un rosario tra le dita... Tre ore dopo aveva già rinnegato il suo dio», si vantò spietato Rimbaud.
Ma ormai per Arthur il tempo dell'Europa e della poesia era scaduto. Doveva evadere dalle "paludi dell'Occidente", dalle illusioni dell'arte. Del resto già nella "Stagione in inferno", aveva confessato: «Ora odio gli slanci mistici e le bizzarrie di stile. Ora posso dire che l'arte è una sciocchezza». Come una farfalla impazzita vagabondò per l'Europa. Finalmente in Belgio si arruolò nelle truppe coloniali in partenza per Giava, ma anche lì non resistette a lungo e finì per disertare. Lo attendeva un'altra serie di disordinate avventure, ma sempre, ogni volta finiva per tornare a Charleville, dove era nato e da cui fuggiva.
L'Africa gli sembrò il modo più assoluto di voltare le spalle all'Occidente, all'Inferno, ma anche lì lo raggiunse un eco del passato. "Vivendo così lontano da noi, non sapete, lo avvertì un viaggiatore, che a Parigi siete diventato per un ristrettissimo gruppo una sorta di personaggio leggendario. Questo piccolo gruppo vi chiama maestro." Lo ricorda G Furgiuele in Rimbaud come si difende un mito (Fontana di Trevi ).
L'ultima corsa del "poeta dalle suole di vento", con la gamba in cancrena, fu su una barella, trasportato dagli indigeni verso Aden. Dopo l'amputazione, Rimbaud non si fece illusioni. Non aveva fiducia nelle gambe meccaniche vantate dai medici. Sapeva di essere ormai un invalido, un tronco immobile. Nel 1873 aveva scritto: «Le donne curano / questi feroci infermi di ritorno dai paesi caldi». Fu un malato difficile e scostante, ancora una volta un ribelle. A volte la sofferenza era così insopportabile da strappargli urla di dolore, mentre picchiava il materasso, in attesa della morfina. Lo attendeva la tomba di famiglia, quella del paese da cui aveva sempre cercato di evadere. «L'unica cosa insopportabile, aveva scritto, è che niente è insopportabile».

"Harar, 25 febbraio 1890
Care madre e sorella, non stupitevi se scrivo poco: il motivo principale è che non trovo mai niente di interessante da dire, perché in Paesi come questi si ha più da chiedere che da dire! Deserti popolati da stupidi negri, senza strade, senza posta, senza viaggiatori, che volete che vi si scriva da posti simili? Che ci si annoia, che ci si scoccia, che ci si abbruttisce, che se ne ha abbastanza ma che non si può finire, etc. etc. ... Ecco tutto, tutto quello che si può dire. Poiché questo non diverte nemmeno gli altri, bisogna tacere. In effetti da queste parti si massacra e si saccheggia un bel po'. Fortunatamente, non mi sono ancora trovato in casi del genere, e conto di non lasciare la mia pelle in questi posti – sarebbe da stupidi –. Del resto godo, nel Paese e sulla strada, di una certa considerazione dovuta ai miei modi umani, non ho mai fatto male a nessuno, al contrario, faccio un po' di bene quando se ne presenta l'occasione, ed è il mio solo piacere. Questi affari in fondo non sarebbero poi tanto cattivi, se le strade non fossero a ogni momento sbarrate dalle guerre. La gente di qui non è più sciocca né più canaglia dei negribianchi dei Paesi civilizzati; è tutt'altra cosa, ecco tutto; in fondo, sono anzi meno cattivi e possono, in certi casi, manifestare riconoscenza e fedeltà. Si tratta di essere giusti e umani con loro.
Arthur Rimbaud" 

Musicalità atomica



Albert Einstein ha affermato che c'è qualcosa di musicale nella meccanica quantistica

Anna Li Vigni

"Il Sole 24 ore - Domenica", 13 aprile 2014

Albert Einstein ha affermato che c'è qualcosa di musicale nella meccanica quantistica. Cosa volesse intendere ce lo spiegano Maria Luisa Dalla Chiara, Roberto Giuntini, Eleonora Negri e Riccardo Luciani in un saggio tanto coraggioso quanto affascinante intitolato Dall'informazione quantistica alla musica. La fisica quantistica, si sa, ha operato una vera e propria rivoluzione di natura epistemologica e gnoseologica con la mutazione di alcuni concetti-chiave della fisica classica.
 Incertezza, ambiguità e indeterminazione caratterizzano il comportamento delle micro-particelle (fotoni, elettroni, protoni, ecc.): nel celeberrimo esperimento delle due fessure, si è reso evidente come una stessa particella possa passare attraverso entrambe le fessure verso cui è stata sparata, e ciò in virtù di un fenomeno di sovrapposizione o di interferenza (entanglement) tale per cui, in assenza di un osservatore che ne determina il comportamento in un senso o in un altro, l'informazione relativa alla particella resta incerta e aperta a tutte le possibilità d'azione. Un fenomeno che Feynman ha definito «molto misterioso e più lo si osserva e più appare misterioso». Di fronte a fenomeni del genere, non ha senso utilizzare gli strumenti della fisica classica, della logica classica, della semantica classica: non si può compiere un'analisi di natura composizionale, attribuendo un significato a ogni singola parte, per pervenire al significato dell'insieme e nemmeno si può ragionare in termini di vero/falso. Nella fisica quantistica, al contrario, l'oggetto deve essere pensato in termini di relazioni contestuali e in termini di ambiguità, ovvero di apertura a tutte le possibilità (vero e falso). E se questo modello fosse applicabile anche alla musica? 
Il mondo dei suoni, come quello dei quanti, si basa essenzialmente su relazioni, giacché le note sono entità semantiche che assumono un significato solo in un contesto. Gli spartiti musicali, inoltre, sono esempi di un linguaggio simbolico spesso ambiguo, per analizzare il quale la semantica classica si rivela fallace. Spesso in musica, come nella fisica quantistica, ci troviamo di fronte a fenomeni di sovrapposizione (entanglement), tali per cui il senso globale di un brano musicale deriva dalla percezione complessa di più melodie sovrapposte. Il che non vale per il linguaggio verbale, dove siamo costretti ad ascoltare un discorso alla volta, perché se ascoltassimo quattro discorsi contemporaneamente, non riusciremmo a capire nulla. Nell'incipit del lieder di Schubert Kennst du das Land, la presenza di una forte ambiguità tonale fa coesistere diverse emozioni in conflitto tra loro la gioia d'amore e la dolorosa nostalgia della protagonista Mignon: si tratta di un brano che richiede un ascolto aperto e disponibile verso incertezza e instabilità. Altro esempio è il Preludio del Tristano e Isotta di Wagner. In genere, nella musica romantica, le ambiguità tonali corrispondono a momenti di transizione narrativa; nel Preludio, invece, l'ambiguità non si risolve mai, conferendo al testo un andamento di estrema instabilità, come se ogni nota – come ogni microparticella fisica – restasse sempre aperta verso ogni potenziale sviluppo senza mai realizzarlo. Quello dell'ambiguità, d'altra parte, ha affermato il neuroscienziato Semir Zeki, è l'approccio cognitivo privilegiato dal nostro cervello nei confronti delle opere d'arte. Nel Preludio – afferma Daniel Baremboin – «la mancanza di una risoluzione finale ci permette di immaginare differenti soluzioni possibili, mentre non ne viene proposta nessuna. (…) Lo studio di Tristano e Isotta ha cambiato la nostra visione delle cose, la nostra cornice teorica di riferimento, il che non riguarda solo la musica, ma la vita stessa».


La lunga storia delle copie


Si cominciò con i calchi in gesso e poi con le repliche in marmo dei bronzi antichi. Oggi, in Oriente, si riproducono intere città

Salvatore Settis 

"Il Sole 24 ore - Domenica",  13 aprile 2014

La Cina è oggi il paradiso delle copie: il South China Mall di Dongguan (presso Hong Kong), che è il centro commerciale più grande del mondo, include sette zone modellate su Roma, Venezia, Parigi, Amsterdam, l'Egitto, i Caraibi e la California. Repliche di villaggi austriaci, della Torre Eiffel, del ponte di Rialto, di ville palladiane, di parrocchiali inglesi affollano dappertutto i nuovi suburbi di una neoborghesia: sarà forse perché «l'enfasi barocca, la vertigine eclettica e il bisogno dell'imitazione prevalgono là dove la ricchezza manca di storia» (Umberto Eco)? In un libro recentissimo (Original Copies: Architectural Mimicry in Contemporary China, Hawaii University Press) Bianca Bosker avanza un'altra spiegazione: la Cina ha da secoli una forte tradizione di «appropriazione tematica» di architetture estranee, a cominciare da quando il Primo imperatore, dopo aver conquistato gli ultimi sei regni indipendenti, replicò in scala ridotta nella sua capitale Xianyang i palazzi dei sovrani detronizzati (III secolo a.C.). Fra originali e copie c'è una strana tensione: la copia rende omaggio all'originale, e con ciò ne riconosce la superiorità; ma insieme pretende di sostituirlo, e dunque ne contesta l'unicità. Con un tema così sfacciatamente (post)moderno, pare impossibile che le coordinate culturali siano da cercare oltre duemila anni fa. Eppure questo è vero non solo in Cina ma anche nell'arte classica, greco-romana: lo mostra al meglio un libro altrettanto recente e agguerrito, dovuto ad Anna Anguissola (Difficillima imitatio. Immagine e lessico delle copie tra Grecia e Roma, Bretschneider editore).

All'idea di "classico" associamo senza pensarci quella di unicità, irripetibilità: opere come il Partenone o le sculture di Policleto e di Fidia, lo diamo per scontato, furono create come modelli perpetui, da imitare senza mai sperare di raggiungerli. Non è così. L'idea stessa che vi sia stata un'epoca suprema dell'arte (di solito identificata con i secoli V-IV a.C.) è una costruzione culturale relativamente tarda, una visione retrospettiva elaborata in età ellenistica, quando l'indipendenza delle città greche era travolta dai Macedoni (e poi dai Romani) innescando una forte nostalgia, politica e culturale, del passato. Anche la produzione di copie da famosi originali dei grandi maestri greci nasce nella stessa atmosfera, ispirata da uno sguardo volto all'indietro. Sappiamo (e Anguissola ripercorre lucidamente lo «stato dell'arte») che si cominciarono a prender calchi da numerose statue che ornavano santuari e piazze della Grecia, e che questi calchi servirono poi di modello nelle botteghe dei copisti, mentre con più o meno accurate misure l'originale (spesso in bronzo) veniva replicato nel marmo. Dal bronzo al gesso al marmo: questa metamorfosi materica già mostra che, per quanto fosse meccanico il metodo della riproduzione, alla pretesa precisione dell'esito si accompagnava un qualche spostamento di accento e di gusto. Ma quale era la gerarchia dei materiali? Il gesso, una volta usato per trarne la copia, si buttava via (a Baia se ne è trovato un notevole deposito); ma che cosa voleva dire, per un committente o acquirente antico, veder tradotto in marmo il bronzo del Discobolo di Mirone? 
Per rispondere a questa domanda, Anna Anguissola ha scelto una prospettiva erudita e raffinata insieme: e nelle pagine del suo libro documentatissimo usa i linguaggi e il lessico delle copie per mettere in scena la recezione delle opere d'arte antica. Vi furono infatti nell'antichità non solo collezionisti e viaggiatori per templi e per città, ma anche "conoscitori", che amavano conversare, riconoscersi fra loro nelle coordinate di un linguaggio ammiccante, prendere in giro i falsi esperti senza ammetterli nel loro club esclusivo. Insomma, si formò allora un «discorso sull'arte» con le sue regole del gioco, una tessitura concettuale e verbale che ebbe forma orale ma fu tradotta anche in appositi trattati sulla pittura e sulla scultura: la più antica forma di «storia dell'arte» della tradizione europea. Riassunti da Plinio il Vecchio e da altre fonti romane, quei trattati avrebbero poi determinato, secoli dopo, la rinascita della storia dell'arte che porta i nomi di Ghiberti, di Vasari, di Winckelmann. 
Anche nel lessico delle copie fra Grecia e Roma si riflette la ricchezza di una sofisticata estetica della recezione, nella spola fra artista e pubblico, fra orale e scritto, fra pratiche di bottega e gusto dei collezionisti. Ma, per implicazione, anche fra antico e moderno: per secoli, infatti, si stentò a capire che la maggior parte delle statue "greche" emerse dalle rovine di Roma erano in realtà copie di età romana, e perfino l'Apollo di Belvedere, idolatrato da Winckelmann come ideale greco di bellezza, si rivelò copia da un originale in bronzo. Che cosa impariamo dal glossario analizzato da Anguissola? Per esempio, la frequenza di termini come aemulatio, imitatio che si riferiscono non tanto alla precisione della copia, ma alla capacità del copista di accostarsi alle caratteristiche di stile di un maestro. O l'uso di parole che, nel menzionare la copia di un'opera d'arte, ricalcano quelle usate per descrivere la copia di un testo letterario da un manoscritto all'altro: per esempio nell'opposizione tra "archetipo" (originale) e "antigrafo" (copia), che ricorre in Luciano. O ancora il termine paradeigma, che nei testi greci (specialmente epigrafi) designa i modelli plastici che gli scultori approntavano per mostrarli ai clienti e negoziare con essi la forma finale dell'opera ("bozzetto" è in molti casi la traduzione italiana più appropriata).
In questa trama di parole, i fatti contano molto. Nulla incarna l'assidua ricerca degli originali greci quanto la storia di Winckelmann e del Sauroctonos («Apollo che uccide la lucertola») di Prassitele. Winckelmann sapeva da Plinio che l'originale era di bronzo, ma volle convincersi che un marmo in collezione Borghese fosse l'originale, poi lo cercò in una statua Albani in bronzo (oggi sappiamo che sono entrambi delle copie). 
Ma anche gli Antichi andavano in caccia degli originali: Silla portò via da Atene il famoso quadro di Zeusi La famiglia dei centauri, ma la nave che doveva portarlo a Roma naufragò; tuttavia, Luciano ricorda che al suo tempo (II secolo d.C.) un pittore ateniese ne aveva in bottega una copia fedele, pur essendo «immagine dell'immagine». Nel 140 a.C. il re di Pergamo Attalo II spedì a Delfi tre pittori, incaricati di copiare per lui i famosi affreschi di Polignoto: una «spedizione copistica» immortalata nel marmo di un'iscrizione. Desideratissima era la tavola della Venditrice di ghirlande di Pausias (IV sec. a.C.), tanto che trecento anni dopo il ricchissimo Lucullo, per portarsene a Roma una copia, pagò a un intermediario l'enorme somma di due talenti. 
Quanto complessa fosse in età classica l'«appropriazione tematica» mediante le copie, infine, lo mostra una parola, aphídryma ("trasposizione"). Essa si riferisce alla duplicazione di statue o di edifici in un contesto sacro, come le repliche di una statua di culto o i templi minori edificati sulla falsariga di un tempio-modello. In questi casi, la copia trascina con sé la trasposizione dei riti e dei sacrifici. Perché fra originale e copia s'interpone, inavvertito ma essenziale, un tertium, il filtro delle pratiche socio-culturali che a una copia, surrogato, Ersatz, possono conferire un rango inferiore o eguale al suo archetipo, ma anche (più spesso) del tutto indipendente da esso: una nuova, palpabile, densa «verità della copia».

Il patrimonio filosofico e morale che unisce mondo classico e cristianesimo


Un pensiero aperto e plurale che sa coltivare le diversità
Tutto cominciò con le sfide della Grecia e di Augusto

Giuseppe Galasso

"Corriere della Sera", 13 aprile 2014

Come si sa, l’Europa iniziò la sua grande carriera storica nella preistoria. Anche il nome è antico e appare legato a un termine non indoeuropeo, che significa, più o meno, Occidente, in opposizione ad Asia, Oriente: contrapposizione ricorsa più volte nella storia europea. Si individuavano, in quei due ambiti geografici, due diverse concezioni del mondo e dell’uomo, corrispondenti a due serie di valori, positivi e superiori quelli riconosciuti come europeo-occidentali, negativi e inferiori quelli qualificati come asiatico-orientali. Così fu per i Greci nelle loro guerre con i Persiani, così nella lotta di Augusto contro Antonio e Cleopatra: e già allora il punto-chiave del contrasto era la questione politica della dignità dell’uomo in quanto cittadino. 
Alla Grecia e a Roma l’Europa non è debitrice solo di questo. Ne ha derivato, fra l’altro, un patrimonio di idee e di criteri scientifici, a cominciare dalla conoscenza del mondo, nonché di modelli artistici e letterari, di dottrine e di istituti giuridici e di idee filosofiche, che è poi rimasto a base della posteriore cultura europea. Infine, in questo stesso mondo greco-romano maturarono la genesi e lo sviluppo del cristianesimo: un’enorme rivoluzione religiosa, ma anche culturale, morale, civile. E col cristianesimo entrò pure nella tradizione europea l’ebraismo con i suoi valori, costituendone un fattore spesso deprecato e perseguitato, ma sempre presente, attivo e fecondo. 
Dopo la fine dell’età antica, l’Europa si definì a lungo come Cristianità, all’ombra e sotto la guida delle Chiese cristiane, e soprattutto di quella cattolica. Se si astraesse da ciò, l’idea e l’immagine dell’Europa sarebbero, perciò, private di qualcosa di fondamentale. Il cristianesimo ha avuto, peraltro, del tutto in comune con l’essenza della storia europea, una profonda riluttanza alla staticità, da un lato, e all’uniformità, dall’altro. Come l’Europa, il cristianesimo si è diviso in confessioni, correnti, tradizioni, che si sono contrapposte tra loro in dialettiche acerrime e fin troppo spesso sanguinose. Come quella religiosa, e ancor più, la storia dei popoli e degli Stati europei è stata anch’essa cruenta, di un dinamismo incontenibile e ininterrotto, di ricorrenti diversificazioni e di un ineliminabile pluralismo. In essa le piccole dimensioni non hanno contato meno delle grandi, e sempre l’Europa si è dimostrata riluttante a qualsiasi unità imposta con la forza. 
Attraverso queste lotte la coscienza europea è, tuttavia, cresciuta e ha potuto avere nella storia del mondo una parte singolare e, alla fine, eminente. Eminenza certamente dovuta a un’altro carattere originale dell’Europa, e cioè che essa non è mai stata un ambiente chiuso alle novità di altra provenienza. Anzi, ha assorbito tutto quel che poteva da altri ambienti, dall’Oriente antico mesopotamico, fenicio, anatolico, egizio all’Oriente bizantino e musulmano nel Medioevo, per finire all’Oriente e ad altre parti del mondo moderno. L’esplorazione del mondo, il prodigioso sviluppo della scienza, la rivoluzione industriale, l’avvio di un mondo di comforts e di loisirs prima inimmaginabili, i trionfi tecnico-scientifici fino alla comunicazione in tempo reale, all’esplorazione dello spazio e alla biogenetica sono il frutto dell’apertura, del dinamismo, del pluralismo che hanno connotato in modi varii, ma costantemente la vita storica dell’Europa. 
Un discorso ancor più pregnante è da fare per le idee di libertà, di diritti dell’uomo, di uguaglianza della legge per tutti, di autodeterminazione dei popoli, di questioni sociali, da quelle di classe a quella femminile, di ordine e di sicurezza internazionale, nonché di diritto internazionale, che, con varie altre, formano l’irrinunciabile eredità europea trasmessa al mondo nel corso del tempo. 
L’Europa si è poi definita come tale solo in tempi recenti. Solo, infatti, tra il secolo XV e il XVI un vero concetto d’Europa prese forma e si consolidò, dopo un lungo prologo medievale, iniziato con Carlomagno, che non fu il «fondatore» dell’Europa e non pensava all’Europa, ma determinò condizioni senza le quali l’Europa non sarebbe stata quella che è stata. L’Europa del XV secolo si fermava a oriente sulla linea Baltico-Adriatico. Cracovia e Buda si potevano considerare le sue città più orientali. Al di là si estendeva un mondo slavo, ma largamente permeato di presenze asiatiche (Mongoli, Tartari, Kazachi). La penisola balcanica era degli Ottomani. Fu tra il secolo XV e il XVIII che l’Europa divenne il continente che ancora oggi consideriamo un tutt’uno dall’Atlantico agli Urali, dall’Oceano Artico al Mediterraneo. L’Europa (si può dire) si europeizzò completamente, quale che fosse la fisionomia delle sue parti, per cui divenne una grande realtà civile, e non per caso Voltaire la definiva come una grande société des ésprits , una pur nella sua brillante diversità. 
È per ciò che la dimensione culturale dell’identità europea ha avuto un ruolo dominante nella sua storia. Medioevo e Rinascimento, Illuminismo e Romanticismo, Idealismo e Positivismo furono altrettanti momenti progressivi e cumulativi nello sviluppo di una coscienza europea sempre più comprensiva e, insieme, metodicamente curiosa e insaziabile nel domandare e rispondersi, sempre in fermento di esperienze e di trasformazioni. Nessuna parte dell’eredità d’Europa può, quindi, essere rifiutata a priori, e le sue stesse negatività, così frequenti e cospicue, ne fanno tanto parte che solo includendole in quella storia le si può appieno rifiutare secondo i metri più alti dello spirito europeo. 
Così l’Europa ha potuto europeizzare il mondo. Ben più: si è potuta moltiplicare come Occidente, al punto che oggi vi sono alcune Europe nel resto del mondo, che spingono alcuni a chiedersi se l’Europa stessa, col suo tradizionale ruolo nella storia non sia ormai superflua, perché altri, europei e non, impersonano oggi più e meglio quel ruolo. Sarà così? Gli europei ne sono consapevoli? L’Unione Europea basterà a smentirlo?

venerdì 11 aprile 2014

Dentro la pazza folla


Dalle tele di Camille Pissarro ai racconti di Edgar Allan Poe
Il fascino sottile e inquietante della moltitudine moderna

Roberta Scorranese

Quanto spaventava la Ringstrasse viennese negli anni a cavallo tra Otto e Novecento! Carrozze velate che tagliavano la via formicante di aristocratici, borghesi e pezzenti, uno sciame variegato unito dalla scoperta di un qualcosa che, lentamente, assumeva una vita a sé: la città. Si guardi l’acquerello del viennese Theo Tasche, Passaggio sulla Ringstrasse, del 1908: la metropoli con i suoi negozi, il respiro polveroso, i borbottii. Le dame-bene ai balconi dei palazzi che avevano ispirato Maupassant (nella novella Le signe, 1886) e che ispireranno a Freud L’architettura dell’isteria (1897) con la medesima immagine gravida di simboli: l’affacciarsi alla finestra. Quell’ansia sottile e misconosciuta di uscire di casa e farsi massa, tutt’uno con quel microcosmo dinamico, mosso da un ritmo invisibile e convulso. Nasceva la folla. 
Folla. Il tema centrale di questa edizione di «Visioni» a Lugano è antico e moderno. Se la massa nasce con un gruppo di persone agglutinate da un desiderio, una protesta, una ribellione, la folla — all’alba delle moderne metropoli — somiglia più a uno stato di necessità, a un movimento frenetico e casuale come quello degli atomi. Inquietante. Un qualcosa del quale ci si ritrova improvvisamente a fare parte. 
L’arte, come sempre, aveva intuito questa nuova cattedrale sociale: c’era Camille Pissarro, il quale, con tele come La Place du Théâtre Français (1898) guardava distante, dall’alto, la strada brulicante. Persone, carrozze e cose diventavano tanti punti neri indistinti. L’acuto Caillebotte, nel dipinto Boulevard des Italiens, del 1880, adotta la stessa prospettiva, però qui la folla si infittisce, si sgretola in mille macchioline scure, addossate le une alle altre. 
Opere letterarie come Il ventre di Parigi o Germinal di Émile Zola, avevano raccontato forti vicende umane con voce plurima, corale. E negli stessi anni, a Parigi, c’era Guy de Maupassant che addirittura incarnava fisicamente questa curiosa religione: era agorafobico. Ma torniamo a Vienna, sulla Ringstrasse: non è un caso che proprio lì l’architetto Camillo Sitte descrisse la paura degli spazi aperti puntando il dito contro i grandi centri affollati, in una difesa (di retroguardia?) delle piazze tradizionali nei paesi più piccoli. Però, per capire la massa moderna bisogna fare un passo indietro: andiamo nella Londra del 1840. È di quell’anno infatti la prima edizione originale di un’opera-chiave: L’uomo della folla, di Edgar Allan Poe. 
Nel cuore scuro e maleodorante della capitale britannica, un uomo siede al caffé e comincia a osservare le persone che gli girano intorno come mosche. Lentamente si perde in esse, si immedesima nei loro paltò, guarda con i loro occhi. È questa la folla moderna: una solitudine condivisa, monadi antistanti che dialogano senza parlare, l’uno nei molti . Non è la «massa» novecentesca descritta da opere mirabili come La ribellione delle masse di Ortega y Gasset (1939). E nemmeno quell’attrazione segreta che provò il giovane Elias Canetti nel 1922, quando, a Francoforte, si trovò ad assistere a una manifestazione contro l’assassinio di Rathenau: quella folla indistinta, quel corpo unico e plurimo gli sembrò simile a una forza centripeta e da questa sensazione nacque (nel 1927) un’opera straordinaria, Massa e potere
No, no, la folla di Poe rispecchia piuttosto quella consapevolezza che, più o meno due secoli prima, aveva fatto dire all’aforista francese Jean de La Bruyère «Ah, ce grand malheur de ne pouvoir être seul!». La consapevolezza che non possiamo, non riusciamo più a stare più da soli. Chissà se è la stessa che, in quegli stessi anni o poco prima, folgorò Henry David Thoreau quando si ritirò in una capanna del Massachussets e scrisse Walden, ovvero Vita nei boschi . Un «via dalla pazza folla» che voleva essere anche un riappropriarsi del mondo. 
Ma torniamo a Poe e al suo osservatore seduto al caffè di Londra. Questa immagine colpì un poeta inquieto, che cercava segrete corrispondenze tra le cose. Si chiamava Charles Baudelaire e venne catturato da Poe a tal punto che (Bufalino ha parlato di «vampirismo intellettuale») non solo si mise a tradurne e commentarne le opere, ma addirittura andò da un grande fotografo dell’epoca, Felix Tournachon, detto Nadar, e si fece ritrarre nella stessa posa dello scrittore americano. L’attenzione quasi entomologica con cui il protagonista del racconto di Poe osservava la folla, si insinuò in Baudelaire e fu in quella nicchia che lentamente prese forma la figura del flâneur, colui che vaga senza meta nella metropoli, guarda, si lascia assorbire dalla città e diventa un «botanico da marciapiede». Nasceva dunque la flânerie , ripresa da Walter Benjamin nei suoi celebri Passages . Un vagabondare tra la gente, dunque, in seguito tema di un raffinatissimo racconto di Robert Walser, La passeggiata (1919). 
Poi, la folla cambierà. Diventerà massa politica e sociale, fonte di rivendicazioni o — più di recente — di una spersonalizzazione tanto più affascinante quanto più «liquida», omologata. Ma il cinema ha fatto in tempo a regalarci due capolavori sullo sciame di persone che si condensa in una massa e accusa il singolo: Il corvo, di Henri-Georges Clouzot (1943), dove la provincia piano piano si schiera accusando un uomo e Furia, di Fritz Lang (1936), dove da un chiacchiericcio monta un’aggressione da tutti contro uno. È quella Ringstrasse, insomma, che tutti ci portiamo dentro. E di cui facciamo parte. 



Nelle masse, amate o odiate, gli artisti allo specchio
L’orrore di Bosch, l’affetto di Guttuso. E lo sguardo duro sugli «automi» in guerra

Francesca Bonazzoli

Non esiste, nella storia dell’arte, una specifica iconografia della folla: nessun manuale antico, come l’Iconologia di Cesare Ripa che ha fatto da riferimento a generazioni di artisti dalla fine del Cinquecento all’Ottocento; nessuna raccomandazione da parte delle sacre autorità come quelle introdotte dal Concilio di Trento; nemmeno convenzioni stilistiche che, per il successo della formula, siano diventate cliché condivisi. Al contrario, ogni artista ha proiettato sull’immagine della folla i propri sentimenti più viscerali: fobie, disprezzo, amore, aspirazioni sociali e fedi politiche. 
Colui il quale ha avuto più orrore della massa ignorante, cieca e dagli istinti bestiali, è stato sicuramente il fiammingo Hieronymus Bosch (1450 - 1516) che in due sconvolgenti rappresentazioni della Salita al calvario ha dipinto volti di una tale cattiveria e ottusità da sfigurare i tratti somatici in ibridi mostruosi fra bestie e umani. 
Per trovare altrettanta visionarietà negativa bisogna arrivare all’Entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889, tela del pittore belga James Ensor, dove un Cristo quasi invisibile arriva dietro un corteo agghiacciante di soldatini, clown, teschi e maschere borghesi. Che questa fosse l’autentica percezione di Ensor della folla (e non un mero divertissement artistico) è dimostrato anche dall’autoritratto dipinto nel 1936 dove il pittore circonda il proprio volto di maschere ghignanti che tutt’intorno gli tolgono spazio e aria. 
Non che le rappresentazioni della folla berlinese di George Grosz fossero meno spietate, ma nel suo caso si trattava di un giudizio su una precisa società di un dato momento storico, quello della repubblica di Weimar, e non tanto di un omnicomprensivo orrore dell’umanità come quello manifestato da Bosch o Ensor. 
Agli antipodi di tali malesseri, c’è la folla «sana» e portatrice di nuovi valori per l’umanità glorificata da Pellizza da Volpedo nel suo Quarto Stato: un inno epico del proletariato che si risveglia e marcia compatto per i propri diritti, incuneandosi come una freccia dentro il vecchio mondo, così come frecce rosse verso il cielo si alzano le bandiere comuniste durante i funerali di massa di Togliatti dipinti da Renato Guttuso. 
In mezzo fra queste due sensibilità, si colloca tutta la pittura impressionista dove la folla dei teatri, dei giardini pubblici, delle strade si Parigi, sembra non avere altro da fare che esibirsi e spensieratamente ammirarsi. È una folla svagata, senza pensieri, perfetta per fare da comparsa nella pittura borghese da salotto. 
Un posto a parte occupano poi le scene di battaglia, dove la folla è rappresentata dalla massa compatta degli eserciti. Una delle immagini più spettacolari l’ha dipinta Albrecht Altdorfer nella Battaglia di Alessandro e Dario a Isso dove gli uomini, piccoli come automi mossi da un destino più grande, sono parte integrante di un immenso paesaggio misterioso e apocalittico. E folle coreografiche sono anche gli eserciti che si affrontano nelle battaglia di Paolo Uccello o di Jacques-Louis David: balletti di pesi e contrappesi, pieni e vuoti, volumi e superfici. Insomma, una questione di testa, non di pancia. Che dire, dunque, per concludere? Che la folla è una specie di barometro della psiche dell’artista: dimmi come la dipingi e ti dirò chi sei. 


«Un melting pot degli spazi contro la solitudine urbana»
Lévy: necessario l’equilibrio tra luoghi pubblici e privati

Maria Serena Natale

Città sottili, continue, nascoste, sistemi complessi di segni e desideri. La geografia immaginifica e parallela delle Città invisibili di Calvino si sviluppa su coordinate ideali che con la grazia del paradosso si adattano al corpo simbolico delle metropoli, spazi da reinventare, arricchire e svuotare di senso in quel doppio movimento di espansione e contrazione che annulla le distanze, ma esaspera le differenze. 
Addentrarsi nei territori urbani del XXI secolo è anche perdersi nell’instabilità di linguaggi e regole da rinegoziare tra individui in relazione, chiamati a scegliere tra l’anonimato della folla e la forza politica della comunità impegnata in un’opera di costruzione. La co-produzione dello spazio pubblico inteso come bene comune, questo sforzo condiviso d’invenzione che definisce l’identità urbana, è al centro delle ricerche di Jacques Lévy, geografo esperto di teoria dello spazio delle città, professore ordinario all’École polytechnique fédérale di Losanna. Sabato a Lugano Lévy introdurrà il suo film «Urbanité/s», suggestioni calviniane, psicologia sociale e proposte teoriche della sociologia contemporanea fuse in un esperimento visivo che è insieme diario di viaggio e strumento d’indagine sui nuovi codici metropolitani dalla Cina all’America. 
Professor Lévy, in che modo la folla come soggetto storico-politico s’inserisce nell’orizzonte dell’Urbanité? 
«Gli ultimi due secoli hanno visto il progressivo ribaltamento di un assetto millenario che opponeva la debolezza dell’individuo alla forza del gruppo, l’anomia come crisi degli equilibri comunitari tradizionali descritta da Hannah Arendt. Finché, nell’era delle masse e dei totalitarismi ovvero nel momento di massima potenza delle folle, il soggetto ha acquisito coscienza di sé come intenzionalità. Oggi dobbiamo pensare la folla non come astrazione ma come sistema di corpi nello spazio pubblico, secondo l’intuizione di Norbert Elias di una società degli individui animata dalla tensione dialogica individuo/collettività». 
Tensione che nella trama relazionale di metropoli mai pacificate sfocia in conflitto… 
«Gli abitanti delle città contemporanee si percepiscono come attori in rapporto tra loro e con una dimensione presente in ogni interazione, la società come un tutto: in questo schema io-tu-società occorre cercare insieme le soluzioni dei micro-conflitti. Ecco perché una delle sfide per i governi oggi è trasferire più potere ai cittadini. Il risultato può essere una creatività condivisa a partire dalle capacità di raggruppamento individuate dal sociologo francese Isaac Joseph, oppure una conflittualità permanente. Lo scenario più pericoloso per la coesione sociale è la fuga urbana , l’autoreclusione in distretti omogenei che escludono l’alterità mentre lo spazio comune è considerato fonte di rischio. Ricchi con ricchi e poveri con poveri». 
Distanza fisica che approfondisce l’isolamento emotivo? 
«Senz’altro. Il sociologo tedesco Ferdinand Tönnies diceva che, senza gruppo, l’individuo è per sempre solo. La separazione tra spazio pubblico e privato è funzionale a un sistema di protezione dell’individualità che con l’anonimato della dimensione pubblica bilancia la forza di legami e diritti propri di quella privata». 
Solitudine condizione costitutiva della metropoli. Come restituire allo spazio urbano l’originaria funzione di luogo d’incontro e condivisione? 
«Con politiche coerenti che mescolino segmenti sociali, per esempio portando scuole d’eccellenza e istituzioni culturali nei sobborghi poveri in modo da renderli attraenti per le classi abbienti. Accade in alcune città degli Stati Uniti o nella colombiana Medellín, il modello comincia ad essere assorbito in Europa. Si parte dall’educazione, bene comune per eccellenza».

domenica 6 aprile 2014

William e Galileo, padri moderni


Anniversari paralleli


Nel 1564 (450 anni fa) nascevano i due geni. complementari
Proponiamo «Galwill» un grande esperimento didattico europeo

Massimo Bucciantini

"Il Sole 24 ore - Domenica", 6 aprile 2014


Anche noi siamo nati il 15 febbraio e il 23 aprile del 1564. Anche se – a cominciare dai nostri programmi scolastici – facciamo di tutto per non rendercene conto o, distratti come siamo, ce ne dimentichiamo, quei due giorni di tanti secoli fa dovrebbero essere festeggiati insieme, come meritano. E per una ragione molto semplice: perché senza quei due compleanni saremmo tutti molto più poveri e certamente diversi da quello che siamo diventati.

Ma perché festeggiarli insieme? Shakespeare e Galileo, in fondo, non si sono mai conosciuti. Neppure per interposta persona, neppure per lettera. E non risulta neppure che l'uno abbia letto gli scritti dell'altro. Il drammaturgo inglese, scomparso all'età di 52 anni, morì il giorno stesso della sua nascita, il 23 aprile del 1616. Lo scienziato italiano gli sopravvisse per altri 26 anni, fino a quando, ormai cieco e da nove anni agli arresti domiciliari nella sua casa di Arcetri, non esalò l'ultimo respiro l'8 gennaio 1642. Del primo sappiamo così poco che interi periodi della sua vita ci sono completamente ignoti, come gli anni che vanno dal 1585 al 1592. E quindi non conosciamo le ragioni della sua decisione di trasferirsi a Londra o come sia potuto accadere che un figlio di un guantaio in rovina sia potuto diventare in così breve tempo William Shakespeare, uno degli scrittori di teatro più famosi prima in Inghilterra e poi nel mondo intero. Come ha osservato Stephen Greenblatt, «le tracce sopravvissute della vita di Shakespeare sono molte ma sottili», e non esiste «nessun indizio immediatamente ovvio per districare il grande mistero di una forza creativa tanto immensa». 
Dell'altro, invece, sappiamo "quasi" tutto. Conosciamo ogni momento della sua vita, sia quelli tragici sia quelli segnati da successi e da veri e propri trionfi. La sua corrispondenza ammonta a migliaia di lettere. Le sue carte sono gelosamente conservate nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Due dei suoi telescopi, tra le centinaia che lui stesso fabbricò, si possono ancora ammirare nelle splendide sale del Museo Galileo che si trova a un passo dagli Uffizi e dal Ponte Vecchio. 


Ho detto che nessuno dei due ha mai letto gli scritti dell'altro. O meglio: se per Galileo, non ci sono dubbi al riguardo, nel caso di Shakespeare non siamo così sicuri, anche se fino a oggi i tentativi di trovare nelle sue opere teatrali riferimenti allo scienziato e al filosofo italiano non hanno portato a risultati significativi. L'unica esile traccia è nel Cimbelino. E si trova in una delle ultime scene di questa tragedia scritta tra il 1609 e il 1610 e messa in scena la prima volta nel 1611, quando a Postumo apparve in sogno Giove circondato dagli spiriti dei genitori e dei due fratelli, un evidente allusione, secondo alcuni interpreti, ai quattro satelliti appena scoperti da Galileo.
Eppure la scoperta del telescopio venne immediatamente divulgata a Londra dall'ambasciatore inglese a Venezia, sir Henry Wotton. E ciò accadeva proprio il giorno della pubblicazione – il 13 marzo 1610 – del Sidereus Nuncius, che conteneva le novità celesti che tutti conosciamo e che avrebbero reso il loro scopritore, come annotava senza mezzi termini l'ambasciatore, «o estremamente famoso o estremamente ridicolo». Del resto sappiamo – grazie anche al bel libro di Gilberto Sacerdoti, Nuovo cielo, nuova terra. La rivelazione copernicana di Antonio e Cleopatra di Shakespeare – quanto Shakespeare fosse attratto dai temi cosmologici e ammirasse i dialoghi italiani di Giordano Bruno, pubblicati a Londra tra il 1584 e il 1585; quanto, cioè, il nuovo cielo senza limiti del Nolano trovasse la sua trasfigurazione scenica nell'infinito amore di Antonio. 
Ma allora se non si sono conosciuti, e forse mai letti, che cosa hanno in comune questi due grandi protagonisti della nostra modernità? La risposta a questa domanda va cercata nel modo in cui Galileo e Shakespeare, ciascuno per proprio conto, si pongono di fronte al loro "oggetto" di indagine. Se volessimo provare a dire in una sola frase ciò che li accomuna forse dovremmo dire che niente per loro è come appare. Niente è come appare è il principio che li unisce e la chiave del loro successo. Sta qui, in questo modo di guardare l'uomo e il mondo, la differenza che più di ogni altra li separa dai loro contemporanei. E ciò fa sì che tra loro si stabilisca un'intima e segreta corrispondenza di intenti. Anzi, si ha quasi l'impressione che si siano suddivisi i compiti in modo perfetto: Galileo applica questo principio al mondo delle cose, all'universalità dei fenomeni della natura; Shakespeare, invece, alla natura contorta e inafferrabile dell'uomo. L'uno scopre che il vero alfabeto della natura è da ricercare dentro le forme invisibili della matematica e, al tempo stesso, con il perfezionamento del telescopio, si accorge che il cielo non è più quello che da duemila anni appariva alla nostra vista; l'altro è un impietoso e scomodo indagatore della natura umana, tanto da reinventare l'intero alfabeto dei nostri sentimenti. Che riesce a penetrare come pochi, spingendosi oltre la loro scorza e le loro scolastiche definizioni e mettendo in scena i tanti volti del tradimento, dell'ingiustizia, della crudeltà, della vendetta, della rivalità, della gelosia, del disonore, dell'incesto, del lutto.
Come ha scritto Colin McGinn in Shakespeare filosofo, la tragedia per Shakespeare nasce dalla consapevolezza che «la mente non è qualcosa che si mette in mostra: la segretezza è parte essenziale della sua natura». Allo stesso modo accade nel mondo fenomenico, che ci appare inconoscibile finché ne affidiamo la comprensione ai nostri sensi. Certo, poi le strade si divaricano perché differenti sono i temi di indagine. Se alle spalle di Galileo si intravedono il "divino" Archimede e il maestro Copernico, ed è in loro che lo scienziato italiano trova la sua guida e gli strumenti per trasformare il mondo-labirinto in un mondo-libro, dietro Shakespeare bisogna guardare in altre direzioni, guardare a Montaigne, ad esempio, alla lezione ricevuta dal filosofo francese, grande anatomista dell'incertezza e dell'illusione del sapere umano.
Nel 1623, sette anni dopo la morte, veniva data alle stampe la prima edizione in folio delle commedie e tragedie di Shakespeare. La metà esatta, ben diciotto su trentasei, erano inediti, e tra questi c'erano capolavori come Giulio Cesare, Macbeth, La tempesta, Antonio e Cleopatra. Nello stesso anno Galileo pubblicava il Saggiatore. Non la sua opera più famosa ma certamente quella che contiene le sue parole più celebri, quelle che tutti dovrebbero imparare a memoria come si fa (o si dovrebbe fare) con L'Infinito di Leopardi. «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima…». Sono parole, ogni volta che le leggiamo, che ci affascinano nella loro assoluta e straordinaria semplicità, così come non ci lasciano in pace e ci inquietano perché sono destinate proprio a noi quelle altrettanto famose pronunciate dal mago Prospero: «Sono finiti i nostri giochi. Questi attori, come ti avevo detto, erano solo fantasmi e si sono dissolti nell'aria, in aria sottile».
È un doppio compleanno che dovrebbe essere festeggiato con tutti gli onori, dicevo. Ma forse non basta. Forse bisognerebbe fare qualcosa di più e dire che le loro opere dovrebbero entrare davvero nelle nostre scuole, perché è anche attraverso la scelta dei testi che si leggono in classe che si formano le nuove generazioni e si costruisce l'Europa del futuro. Ecco, forse, una cosa su cui riflettere e su cui lavorare. Altrimenti continueremo solo a lamentarci e a baloccarci nel nostro scontento, ripetendo che l'Europa non deve essere solo Pil, banche, poteri forti e via dicendo. 
Galwill potrebbe essere un buon esperimento didattico, a Londra come a Roma, a Parigi come a Berlino, per provare a dire che l'Europa si costruisce anche a partire dalla riforma dei programmi scolastici. Un segnale forte e concreto a favore di una visione unitaria della cultura. 


Shakespeare e le incongruenze
Di età e volto piuttosto incerti

Antonio Audino

È senza dubbio l'autore teatrale più studiato, tradotto e rappresentato in ogni angolo del mondo, ma William Shakespeare è anche l'artista di tutti i tempi maggiormente avvolto dalla fitta nebbia del mistero. Date, elementi biografici, aspetto fisico, perfino la sua scrittura, tutto si presta a uno scandaglio degno di un detective o sembra voluto dagli intrecci e dai depistaggi di un geniale giallista. 
Ma andiamo con ordine. Quando è nato il grande drammaturgo? Chissà. A esserci pervenuta è soltanto l'annotazione sul registro dei battesimi a Stratford-upon-Avon il 26 aprile 1564, ma da quanti giorni il piccolo Willie aveva aperto gli occhi sull'affollato e confuso palcoscenico del mondo? Due, tre, un mese? Soltanto un centinaio di anni dopo i suoi orgogliosi conterranei avrebbero deciso di segnare la sua nascita al 23 di aprile, festa di San Giorgio, patrono nazionale, data coincidente per altro col giorno della morte del drammaturgo nel 1616. Già, ma ammesso che fosse vera questa singolare coincidenza, su quale almanacco stiamo fissando queste date? Bisogna tener conto che l'Inghilterra resterà fedele al calendario giuliano fino al 1752 mentre in quasi tutto il resto d'Europa era entrata in uso nel 1582 la riforma gregoriana. Se quindi la presunta data di nascita potrebbe andar bene a tutti, per la morte bisognerebbe calcolare dieci giorni in più (visto che ne furono aboliti undici con un tratto di penna quando anche oltre Manica ci si uniformò al continente) arrivando quindi al 4 maggio. Si riduce così a una clamorosa svista l'idea che Shakespeare sia morto nello stesso giorno del 1616 in cui a Madrid spirava Cervantes e a Cordova lo scrittore incaico-spagnolo Garcilaso de la Vega, equivoco così ben radicato da far decidere all'Unesco che in quella data venga festeggiata la giornata mondiale del libro.
Altrettanto difficile è capire che faccia avesse Shakespeare. Tutti pensiamo a quel omino minuto, pelato, con i baffetti e un gran colletto rigido che appare in una celebre incisione. Sarà stato veramente così? Già il fantoccio eretto nella chiesa di Stratford sopra la sua tomba, capigliatura a parte, sembra assomigliare poco all'altra fisionomia. Fatto sta che questi due ritratti, ritenuti i più attendibili, sono stati eseguiti diversi anni dopo la scomparsa del drammaturgo, mentre per quello che riguarda il dipinto conservato alla British National Portrait Gallery (nella foto), da qualcuno attribuito al più noto attore della compagnia con cui Shakespeare lavorava, Richard Burbage, i dubbi si estendono ormai sia all'autore che alla figura effigiata. A infittire la congerie di ipotesi si è aggiunto da qualche anno il celebre ritratto ritenuto perduto, l'unico che sia stato realizzato in vita, quando Shakespeare aveva 46 anni, quindi sei anni prima della morte, ritrovato nel momento in cui un aristocratico inglese, discendente del chiacchierato amico del drammaturgo, il Duca di Southampton, scoprì, osservando una copia fiamminga vista in una mostra, che l'originale era su un camino del suo castello da centinaia di anni. Fatto sta che il cosiddetto ritratto Cobbe (lo vedete nella copertina di «Collezione») ci presenta un uomo giovanile dalla folta chioma, dalla barba rossiccia e dai lineamenti affinati e sottili, piuttosto differente dalle altre raffigurazioni. In così poco tempo il volto del drammaturgo sarebbe stato poi «dalla mano oltraggiosa del tempo sgualcito e consunto», per usare un'immagine dei suoi Sonetti? Il pittore aveva voluto compiacere il suo soggetto aggraziandolo? La memoria di chi lo aveva immortalato successivamente era così fallace? Non lo sapremo mai. 
Certamente nulla a che vedere con le fattezze di Joseph Fiennes nel film Shakespeare in Love, dove l'autore viene reso nostro contemporaneo grazie alla triangolazione muscoli-sesso-psicanalisi, componendo il più illegittimo dei profili che si potessero tracciare. Ma facciamo conto che tutto questo rientri in un generico ambito di curiosità, relativamente a un personaggio di cui, in fondo, ci interessano soprattutto le opere. A questo punto al detective o al giallista è bene che si affianchino filologi e storici, o per lo meno tutti coloro che hanno perso la testa nel capire cosa questo autore abbia veramente scritto. Di tutti i suoi testi teatrali Shakespeare non ci ha lasciato neppure una riga autografa, tantomeno un testo a stampa da lui commissionato o seguito. Restano invece una serie di pubblicazioni clandestine realizzate dopo il successo degli spettacoli, dissonanti e contrastanti tra di loro. 
A far giustizia e chiarezza sarebbe dovuta servire l'edizione completa delle sue opere, assemblata dai suoi compagni di teatro, il prezioso In Folio del 1623. Se non fosse che tutto ciò avvenne soltanto sette anni dopo la sua morte con testi tratti da copioni più volte trascritti, sottoposti alle variazioni della pratica scenica e affidati a un gruppo di tipografi spesso un po' distratti. Le versioni che oggi si trovano in volume sono un'attentissima ricostruzione che mette insieme fonti diverse costruendo un'ipotetica verità, ricercata in virtù della coerenza interna, linguistica e narrativa delle varie parti. Si potrebbe quindi inanellare un singolare catalogo di incongruenze nei capolavori di questo autore: come mai ci viene annunciato all'inizio del Sogno di una notte di mezza estate che le nozze tra Teseo e Ippolita verranno celebrate dopo tre giorni mentre poi, finita la notte degli incanti, i due convolano al talamo? Perché Prospero dice ad Ariel nella Tempesta di divenire invisibile a tutti invitandolo contemporaneamente ad assumere l'aspetto di una ninfa del mare? Esigenze di scena? Rimaneggiamenti successivi? Distrazioni di copisti o qualche riga di piombo scomposta? Nessuno ce lo dirà mai, anche in tutti questi casi il resto è silenzio.

Storia dell'arte in guerra


La sorte dei beni artistici durante i conflitti raccontata in sintesi da Sergio Romano
Un'epopea cominciata con Napoleone e culminata con la Seconda guerra mondiale

Marco Carminati

"Il Sole 24 ore - Domenica",  6 aprile 2014

Immaginiamo che uno spettatore un po' deluso dal film Monuments Men esca però dal cinema tutto infervorato dall'argomento e corra in libreria per approfondire il tema dell'arte messa in pericolo dalle guerre. Oltre al libro bellissimo di Robert M. Edsel Monuments Men (Sperling & Kupfer), da cui il film di Georges Clooney è tratto, sugli scaffali potrà trovare fresche di stampa due biografie di Rodolfo Siviero (di Francesca Bottari per Castelvecchi e di Luca Scarlini per Skira), assieme alle peripezie del tesoro di Montecassino brillantemente raccontate da Benedetta Gentile e Francesco Bianchini (Le Lettere), e forse trovare ancora disponibile l'avvincente Salvate Venere di Ilaria Dagnini Brey (Mondadori). In arrivo sugli scaffali sono, inoltre, libri come Operazione Salvataggio. Gli eroi sconosciuti che hanno salvato le opere d'arte dalle guerre di Salvatore Giannella (Chiarelettere, in libreria il 30 aprile) e il secondo volume dei Monuments Men. Missione Italia di Robert M. Edsel (Sperling & Kupfer in libreria il 27 maggio).
Sembra molto ma è ancora poco. Sul vasto argomento dell'arte messa in pericolo dalle guerre sono stati scritti libri memorabili, oggi di difficile reperibilità, come ad esempio I furti d'arte di Paul Wescher (Einaudi), dedicato alle spoliazioni napoleoniche, oppure The Rape of Europa di I.H. Nicolas, sulle razzie del Terzo Reich, o ancora Lost Treasure in Europe di H. La Farge, sulla situazione dell'arte alla fine del conflitto. A tutto ciò andrebbero aggiunti i diari di Rose Valland, Palma Bucarelli, Rodolfo Siviero e Pasquale Rotondi, editi tra il 1960 e il 2000.
Siamo scesi nel dettaglio. Ma chi volesse farsi velocemente un'idea generale sul tema, che cosa dovrebbe leggere? La risposta è facile: il piccolo, delizioso libretto appena pubblicato da Sergio Romano per la collana «Sms» di Skira con un titolo che va diretto al tema: L'arte in guerra.
Redatto con chiarezza e sintesi esemplari, quest'aureo libretto definisce subito il campo d'azione cronologico (dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni) mettendo a fuoco momenti e temi di particolare rilevanza, come l'Età napoleonica, il Risorgimento italiano, i saccheggi coloniali, la politica artistica di Hitler, la Guerra civile spagnola, la Prima e soprattutto la Seconda guerra mondiale, le restituzioni alla fine del conflitto. 
Dovendo lavorare di sintesi, il libro definisce subito anche i "moventi" che hanno scatenato la caccia alle opere d'arte durante le guerre. Sono sostanzialmente due, in forte contrapposizione: primo, la conquista dell'arte (amata e adorata) quale simbolo del potere e del prestigio di chi la detiene e dunque premio per la vittoria; secondo, la rapina e distruzione dell'arte in quanto simbolo (odiato e disprezzato) dell'esecrando nemico. 
L'arte in guerra è stata sempre una duplice vittima, di chi l'ha distrutta durante i conflitti e di chi, approfittando della vittoria, se ne è impossessata come simbolo del trionfo. E questo da sempre, come sottolinea Sergio Romano citando casi antichi ed emblematici quali la sottrazione della Menorah dopo la conquista di Gerusalemme o il furto dei cavalli di San Marco dopo il saccheggio di Costantinopoli.
A questo punto si entra nell'alveo della storia. Durante la prima fase della Rivoluzione francese, le opere d'arte corsero pericoli gravissimi perché, caricate di forti valenze ideologiche, vennero sommariamente considerate simboli dell'odiato Antico Regime e pertanto brutalmente assaltate e distrutte (il volume racconta il caso tristissimo delle statue delle facciata di Notre-Dame a Parigi). Per fortuna, qualche anno più tardi, i rivoluzionari cambiarono radicalmente rotta ideologica: l'arte – seppur creata durante le odiate monarchie – doveva essere ora salvaguardata ed esposta in pubblici musei, a servizio dell'educazione del popolo e quale simbolo della conquistata libertà.
Napoleone si mosse in quest'ottica attivando il più grande trasloco di opere d'arte della storia. A seguito delle campagne militari, il generale convogliò su Parigi i tesori artistici delle nazioni "liberate" dalle antiche tirannie. Com'è risaputo, l'Italia e i suoi staterelli diedero un contributo enorme alla "bella idea", che però – tramontata la stella di Napoleone – venne ritenuta del tutto illegittima. Nel 1815 le nazioni europee si organizzarono per avviare la stagione dei "ricuperi", facendo tornare in patria le opere d'arte asportate dai francesi.
Nella seconda meta dell'Ottocento, l'Europa incrementò un tipo di saccheggio artistico finito oggi un po' in ombra, ma che il libro di Romano non dimentica: quello legato alle guerre coloniali. L'Asia e l'Africa sono state letteralmente setacciate dagli europei e il frutto di queste "rapine" si trova oggi tranquillamente esposto nei musei "orientali" e "etnologici" di Parigi, Bruxelles, Roma, Venezia, Lione, Londra eccetera.
Sergio Romano ci ricorda anche un'altra storia poco nota, quella delle rivendicazioni artistiche dell'Italia Unita nei confronti dell'Austria, che – ritirandosi dai nostri territori dopo il 1866 – si era portata via un sacco di opere d'arte importanti come, ad esempio, la Bibbia di Borso d'Este da Modena.
Il libro dedica spazio alle peripezie delle opere d'arte durante la Guerra di Spagna, indaga la fame patologica di prodotti artistici espressa personalmente da Hitler e da Goering, ricostruisce la nascita delle loro folli collezioni, frutto di vendite coatte e di furti a danno degli Stati occupati e delle comunità ebraiche decimate.
Durante l'ecatombe del secondo conflitto mondiale, anche sul fronte dell'arte si poterono distinguere due "eserciti" contrapposti: da un lato i tedeschi, con il loro "Kunstschutz", un corpo creato per "salvare" i capolavori dell'Europa e dell'Italia dalle mani dei "barbari" alleati trasferendoli in Germania e Austria e nascondendoli in tunnel ferroviari e miniere. Dall'altro i "Monuments Men" alleati, che salvarono a loro volta gli stessi capolavori andandoseli a riprendere nei nascondigli tedeschi e restituendoli ai legittimi proprietari. Al contrario dei russi, che ritennero i bottini artistici di guerra sottratti ai nazisti un loro sacrosanto diritto, per cui prelevarono molte opere d'arte dalla Germania e le portarono in Russia, nascondendole alla vista per decenni, come nei celebri casi della Madonna Sistina di Raffaello e del Tesoro di Priamo.
Oggi i pericoli sono finiti? No, dice Sergio Romano: laddove ci sono disordini e guerre (Siria, Irak, Egitto, eccetera) anche l'arte, purtroppo, è sempre in guerra.

giovedì 3 aprile 2014

Perché dobbiamo imparare dagli dei


Il politeismo di greci e romani tollerava le religioni degli altri 
Così Marte e le divinità dell’Olimpo possono ancora darci lezioni

Maurizio Bettini

"La Repubblica", 2 aprile 2014

Affermare che la religione dei Greci e dei Romani è superata corrisponde né più né meno a dichiarare che la poesia di Omero o quella di Virgilio sono superate. Affermazioni che potevano avere un senso al tempo della «querelle des anciens et des modernes», ma che difficilmente lo avrebbero oggi. In realtà, da molto si è compreso che i prodotti della cultura non si misurano sul parametro del tempo o dell’evoluzione, e questo vale anche per la religione. Sappiamo bene quanto colonialismo, quanto eurocentrismo si nascondeva dietro il paravento di certe gerarchie evolutive.
La religione greca e romana è semplicemente un’altra religione, o meglio una religione, tanto quanto lo sono lo shintoismo o l’islam. Eppure nella percezione comune essa non è affatto considerata tale. [...] Gli dei che furono venerati e onorati da due civiltà, e che sono stati al centro di organizzazioni sociali, culturali e intellettuali molto complesse, si sono infatti ridotti a personaggi di una generica «mitologia», semplici attori di racconti fantastici. Gli esiti di questa metamorfosi, realizzatasi molti secoli fa, sono peraltro ancora ben visibili nella cultura comune (per fare un esempio, alle voci «Minerva» e «Iuno» Wikipedia recita: «divinità della mitologia romana»). Eppure già Leopardi aveva rilevato quanto vano fosse il ricorso a questa «mitologia» classica, «giacché non abbiamo noi colla letteratura ereditato eziandio la religione greca e latina ». Non diversamente, anche le antiche statue di culto si sono trasformate in generiche opere d’arte, quelle Afrodite o quei Dioniso di cui contempliamo la bellezza e talvolta ammiriamo gli autori, senza pensare però che tali immagini erano chiamate a rappresentare divinità, non personaggi del “mito”. Tutto il resto, ossia quel complesso sistema di relazioni che nel mondo greco e romano legava fra loro uomini e dei, ha assunto il ruolo di oggetto di studio - ma per la verità si è conquistato questo status faticosamente, e in modo del tutto autonomo solo a partire dal XIX secolo. In conclusione potremmo dire con Heinrich Heine che gli dèi antichi sono stati «esiliati»: ma non «nell’oscurità di templi in rovina o nell’incanto dei boschi», come quelli evocati dal poeta tedesco, ma dentro le Università e negli Istituti di ricerca. [...] Ecco dunque, in breve sintesi, le ragioni per cui l’antico politeismo non è più una fonte di ispirazione viva per la cultura moderna e contemporanea, come invece continuano a esserlo la filosofia o il teatro dei Greci e dei Romani. Con ciò non intendiamo affermare che siano mancati poeti, filosofi o scrittori moderni i quali, in qualche momento della loro vita, hanno propugnato i valori del politeismo. [...] In una lettera a Max Jacobi, Goethe dichiarava ad esempio che in quanto artista si sentiva “politeista” (così come in quanto scienziato naturale si sentiva “panteista” e in quanto persona morale “cristiano”). […] La “religione sensibile” cui dovrebbe dare alimento questo programmatico “politeismo dell’immaginazione e dell’arte” altro non è, in definitiva, se non la poesia. Ben diverso il caso di Friedrich Nietzsche, che nella sua polemica anticristiana si appellerà invece al politeismo come esercizio preliminare alla nascita dell’individualismo. «Un dio» scriveva «non era la negazione o la bestemmia di un altro dio! Qui per la prima volta furono permessi individui, qui per la prima volta si onorò il diritto degli individui. L’inventare dei, eroi, superuomini di ogni specie […] costituì l’inestimabile propedeutica alla giustificazione e dell’egoismo e della sovranità del singolo». Il politeismo come incunabolo della morale, ovviamente nel senso in cui Nietzsche la intendeva.
Nel corso del Novecento il politeismo avrà invece una notevole vitalità in qualità di rappresentazione (o meglio, ancora una volta, in qualità di metafora) a carattere psicologico. Scriveva Carl Gustav Jung: «Ciò che noi abbiamo superato sono però soltanto i fantasmi delle parole, non i fatti psichici che furono responsabili della nascita delle divinità. Siamo ancora così posseduti dai nostri contenuti psichici autonomi come se essi fossero divinità. Ora li chiamiamo fobie, coazioni, e così via, in una parola, sintomi nevrotici. Le divinità sono diventate malattie, e Zeus non governa più l’Olimpo, ma il plesso solare». Sarà proprio da queste affermazioni di Jung (ma non forse dalla loro ironia) che prenderà dichiaratamente ispirazione il programma psicologico di James Hillman, inteso a riconoscere gli dei come essi stessi patologizzati […].
Ricorrendo a esempi tratti perlopiù dalla religione romana, abbiamo dunque scelto di puntare su quegli aspetti del politeismo che, se trasferiti nelle nostre società, potrebbero contribuire a ridurre uno dei molti mali che continuano ad affliggerle: il conflitto religioso, e assieme ad esso quel variegato spettro di ostilità, riprovazione, indifferenza che tuttora avvolge agli occhi degli “uni” le divinità onorate dagli “altri”. [...] Marte ad esempio, che tutti conosciamo come dio della guerra, può essere invocato anche per garantire la felice riuscita delle messi o la buona salute del bestiame. A prima vista queste diverse attribuzioni sconcertano - perché mischiare guerra, fertilità dei campi e salute dei buoi? Il fatto è che questi momenti sono accomunati da uno stesso tratto: il pericolo. Pericoli della guerra, quando si va in battaglia, pericoli delle calamità atmosferiche, quando le messi stanno crescendo, pericoli della selva, quando il bestiame va in pastura. Ecco che in tutti questi casi è chiamato a intervenire lo stesso dio, il bellicoso Marte. Tornare a tessere questa antica rete, segmentando e ricomponendo la realtà secondo le linee indicate dalle religioni classiche, offre uno stimolo prezioso per chiunque abbia voglia di pensare il mondo in modo diverso da come normalmente ci viene presentato.