sabato 29 settembre 2012

How have artists represented rainy days from the 15th century to the 21st? 

Google Art Project: pioggia nell'arte.

Caravaggio

Licenze poetiche

Dai maestri alle voci nuove.
Perché i versi sono più liberi rispetto alle “narrazioni”

Alberto Asor Rosa,  Licenze poetiche, "La Repubblica" 29 settembre 2012

Nel nostro paese c’è una produzione sempre più vasta che rivela una capacità di invenzione profonda superiore alla prosa

Per chi scrive oggi un poeta? Ovvero, più esattamente: perché e come si scrive poesia oggi? La domanda è meno banale di quanto appaia a prima vista. Il dato di fatto è che, oggi, decine di migliaia di italiani scrivono poesie. La più reclusa e appartata delle attività letterarie, almeno stando ai parametri correnti, rischia di diventare la più sotterranea, capillare e diffusa. Si direbbe che, rispetto al chiacchiericcio universale, che dilaga dalle televisioni ai giornali e invade anche il mondo del web, ci sia una fetta non irrilevante di acculturati (non è necessario, del resto, esserlo troppo per aspirare ad esprimersi poeticamente), che vira in direzione decisamente opposta, e cioè verso il linguaggio più esclusivo e personale che sia stato finora inventato dall’uomo. E siccome il peso delle scuole e delle tradizioni si è fatto nel frattempo pressoché inesistente, la caratterizzazione stilistico-semantica delle singole individualità è invece diventata molto più spinta: ognuno dei poeti contemporanei, scrive come vuole e di che vuole, è insomma scuola a se stesso.
L’indicatore massimo è quello espressivo-personale: si scrive, e si scrive a quel modo, perché una pulsione profonda spinge a farlo. L’obiettivo comunicativo ovviamente sopravvive; ma che esso sia condizionante per fare o non fare, non è decisivo. Il poeta, qualsiasi poeta, scriverebbe oggi soprattutto perché non ne può fare a meno: il resto si vedrà (in taluni casi, poco o mai; ma ai soggetti coinvolti sembra, per davvero, interessare molto meno).
Non mi risulta che per la narrativa accadano cose analoghe. È ovvio che il narratore non possa non aspirare a un alto livello di comunicabilità (può darsi, anzi è probabile, che alcune eccezioni esistano; ma il quadro, in generale, esaspera la ricerca della comunicazione a tutti i costi). Le cosiddette “narrazioni”, che non a caso anche il linguaggio politico ha adottato ed enfatizzato, scivolano generalmente più in superficie (del resto, se il termine ha potuto essere adottato ragionevolmente in politica, non potrebbe essere altrimenti). Partendo da queste considerazioni, si potrebbe arrivare a stabilire che la poesia guarda di più oggi al mondo del possibile e dell’eventuale, qualche volta dell’auspicabile, che non a quello del reale e del documentabile, e che, al tempo stesso, il primo è di gran lunga preferito al secondo (è sempre stato così? sì, ma oggi la divaricazione è aumentata).
Questo è vero sia in alto che in basso? Per i poeti più conosciuti come per quelli meno noti? Io sarei tentato di rispondere di sì. La produzione poetica, autorevolmente edita e autorevolmente riconosciuta, è in Italia vasta e poliforme.
Ci sono, alle spalle di ciò che ogni giorno fermenta, autori dal timbro inconfondibile e alto: Valerio Magrelli, Patrizia Cavalli, Patrizia Valduga (il cui recente Libro delle laudi, Einaudi, conferma e continua la sontuosa ricchezza delle Cento quartine, 1997), Gianni d’Elia, Milo De Angelis; L’Infinita fine (Einaudi) di Cesare Viviani esprime a un livello che si può definire eccezionale l’eterna carica pampsichistica della vicenda umana; con i suoi ultimi libri, Affari di cuore (Einaudi) eNatura morta (Aragno), contraddistinti da una specifica, inconfondibile sonorità musicale, Paolo Ruffilli s’inserisce autorevolmente nel “gruppo di testa” della poesia italiana contemporanea; e ne La Trappola (Einaudi), recentemente apparso, Franco Marcoaldi conferma, con una tonalità più malinconica, le doti di un discorso tanto apparentemente svagato quanto in realtà conciso, preciso e profondo.
Ma, – è questa la mia tesi, -non c’è solo il “gruppo di testa”. C’è una moltitudine di voci, che una ricognizione più attenta della mia dovrebbe a questo punto investigare e catalogare, tutte contraddistinte da questa pervicace volontà di non abbandonare, se l’espressione non è troppo rétro, il colloquio di un (qualsiasi) se stesso con l’“essere” (anche se l’“essere”, o qualsivoglia cosa s’intenda con questo termine, è di sicuro meno chiaro e molto, molto più oscillante, di ieri).
Vediamo qualche esempio (ahimè, troppo sommario). Innanzi tutto, le eccezioni che confermano la regola: e l’eccezione, in alcuni casi, non è il futuro, ma il perdurare di un rapporto profondo fra passato e presente.
Non vorrei far trasparire qui troppo la mia simpatia per gli ultraottantenni, ma mi è accaduto recentemente di leggere un libretto di poesie di stupefacente bellezza, I Niül di Franco Loi (edito dalla benemerita Interlinea di Novara), che ribadisce quel che certo già sapevamo, ma che forse all’altezza del 2012 avevamo tutti un po’ troppo dimenticato, e cioè che il dialetto come lingua poetica vale (continua a valere) in Italia la lingua nazionale (ma in alcuni casi, come questo, anche di più).
E poi quei tentativi che emergono ora, come L’incanto della specie (La Camera Verde) della romana Fiammetta Cirilli, che usa con estrema abilità la sua leggerissima prosa poetica per dire ciò che accade oggi alla condizione giovanile. O come Il ritmo e il respiro di Carlo Masini (Passigli), che, con concisione quasi epigrammatica, definisce aspetti irrisolti della condizione umana contemporanea. O come Pozzanghere di Filippo Strumia (Einaudi), esordiente, il quale utilizza con inaspettata sapienza la sua esperienza di psicanalista junghiano, per rappresentare un mondo frantumato e animalizzato.
Ma un’occasione preziosa al mio disegno interpretativo la fornisce la comparsa del più recente volume, il sesto, dei Nuovi poeti italiani, editi nel corso degli ultimi anni da Einaudi nella “collana bianca”, tutto dedicato questa volta a dodici poeti di sesso femminile (Alida Airaghi, Daniela Attanasio, Antonella Bukovaz, Maria Grazia Calandrane, Chandra Livia Candiani, Gabriela Fantato, Giovanna Frene, Isabella Leardini, Laura Liberale, Franca Mancinelli, Laura Pugno, Rossella Tempesta) e, a cura di un altro poeta donna, Giovanna Rosadini (autore in proprio a sua volta di una raccolta d’inusitata intensità, Unità di risveglio, Einaudi). Non c’è spazio per una circostanziata lettura degli autori e dei testi del libro, e me ne rammarico.
Ma due cose in generale vorrei dire sull’immagine collettiva e ragionata dell’impresa. La prima è che la raccolta fornisce per la prima volta un’organica rappresentazione «di genere» al femminile della poesia italiana contemporanea (con qualche spiacevole ma comprensibile esclusione). Quel che si può dire da questo punto di vista è che la linea femminile della nostra poesia (archetipiche Rosselli, Merini, Cavalli e Valduga) ha una forza e una autenticità che penetrano nel profondo di quella specifica condizione e ne spiegano e giustificano questo sistematico ricorso alla «voce di pochi» che non rinunciano tuttavia a diventare molti.
La seconda è che le identità degli autori (così come si ricavano, oltre che, ovviamente, in primo luogo dai testi medesimi, anche dalle nitidissime e precisissime note introduttive) svariano sull’intero campo delle funzioni intellettuali e dei destini esistenziali, oltre che del panorama geografico italiano. La poesia di donne, ancor più significativamente di quella degli uomini, non è più una poesia di eletti e di casta (si pensi in passato all’ermetismo), ma copre assai liberamente l’intero arco delle potenzialità umane reali. Non è poco per un’esperienza (da molti presunta) di nicchia.

Une femme qui passe...



Le donne sono mobili per natura, dicono i poeti. E se voi uomini vi girate a guardarle mentre camminano, se non riuscite a trattenervi e dite loro qualche frase carina mentre vi passano accanto leggere come piume, sappiate che partecipate a un mistero legato alla bellezza che risale alla notte dei tempi. Lo spiega molto bene il libro di una studiosa della letteratura italiana che collabora con la Johns Hopkins University di Baltimora, Rossana Fenu Barbera: La donna che cammina. Incanto e mito della seduzione del passo femminile nella poesia italiana del primo Novecento (Longo editore, pagg. 160). Questo saggio ricorda quanto sia stretto il rapporto fra emozione e movimento (come suggerisce la coppia di termini inglesi motion/emotion), e quanta parte abbia avuto nella letteratura e nell'arte il passo femminile. Attraverso inquantificabili stratificazioni culturali, dall'antichità al Medioevo e al Rinascimento (si pensi al passo femminile salvifico nello stilnovo o alla Primavera che incede di Botticelli), il topos della donna che cammina si è trasmesso nei secoli fino a depositarsi nell'inconscio collettivo dei poeti moderni, che lo hanno declinato in mille modi. 
L' ingresso della donna amata nella vita del poeta Camillo Sbarbaro avviene «con passo di danza» (Ora che sei venuta). In Saba il passaggio fugace di una donna sconosciuta provoca un terremoto interiore (L'incontro). Per Mario Luzi il passo femminile assume valenze metafisiche e indica il cammino da compiere: «il tuo passo luceva silenzioso» (Periodo). La figura della «passante» può avere una forte carica simbolica e astratta, come in Une femme qui passe di Dino Campana («Andava. La vita s' apriva/ Agli occhi profondi e sereni?/ Andava lasciando un mistero/ Di sogni avverati ch' è folle sognare per noi/ Solenne ed assorto il ritmo del passo/ Scendeva il suo sogno/ Solenne ritmico assorto/ Passò), oppure produrre un concretissimo scatenamento dei sensi, come accade nell'inimitabile Livorno di Giorgio Caproni («Livorno, quando lei passava,/ d'aria e di barche odorava»). I verbi usati per indicare il movimento sono diversi: passare, andare, venire, scendere, salire, ritrarsi, avanzare, dondolarsi, ondulare, ancheggiare. E diverso è anche, in ogni poesia, il modo in cui il ritmo poetico si accorda col ritmo dei passi della donna. 
L' autrice del libro, però, propone un'unica interpretazione per tutte queste deambulazioni: la donna che cammina è una proiezione dell' anima dell'io poetante che la vede e anche una meditazione sulla poesia stessa, che un tempo era misurata in «piedi» e in studi recenti, come Il viaggio testuale di Maria Corti, viene concepita proprio come un «cammino» Se questa donna-poesia-anima ha «camminato» fino ad oggi dal Libano del biblico Cantico dei Cantici attraverso la Firenze duecentesca di Cavalcanti («Chi è questa che vèn, ch'ogn'om la mira,/ che fa tremar di chiaritate l'aere...»), una ragione profonda ci sarà. E ci deve essere anche un perché se questa figura vitale, nei testi poetici della prima metà del Novecento, diventa, per la prima volta, libera di dirigere anche il suo sguardo elemento seduttivo spesso legato all'incedere dove vuole: è una creatura indipendente e, forse, finalmente consapevole del potere che esercita. Resta da verificare se questa immagine metastorica dell'anima permane nella poesia italiana degli ultimi anni e anche, come suggerisce la stessa Fenu Barbera, cosa accade quando a scrivere versi non sono gli uomini ma proprio l' altra metà del cielo.
La Gradiva, particolare dal rilievo delle AglauridiPrima metà II sec. d.C.Marmo, altezza 72 cm
Città del Vaticano, Museo Chiaramonti
In realtà, la donna che cammina sembra affascinare sia il genio sia l'uomo della strada, e pertanto sarebbe interessante fare un censimento molto più ampio sulla penetrazione di questa figura archetipo nell'immaginario collettivo. Del resto il protagonista del celebre romanzo di Wilhelm Jensen Gradiva, una fantasia pompeiana, estasiato di fronte a una giovane donna ritratta in un bassorilievo antico nell'«estrema levità dell'incedere», si pone le stesse domande che rivolse a se stessa Lady Duff Gordon, in arte Lucile, organizzatrice della prima sfilata di moda londinese, di fronte alle indossatrici che ancheggiavano in passerella: chi sono queste creature misteriose che camminano e da dove vengono?

Eleonora Lucchetti, Se il poeta spia una donna che cammina“La repubblica”, 15 settembre 2001

Bohémien, i beat dell'Ottocento

Edgard Degas, «Dans un café dit aussi» (1875-76, particolare)

Degas, Van Gogh, Puccini: rigetto e fascinazione per l'arte zingara
Stefano Montefiori, "Corriere della Sera", 27 settembre 2012 |

PARIGI - Barba incolta e pipa in bocca nell'autoritratto del 1846, Gustave Courbet (il pittore dell'Origine del mondo) scrisse pochi anni dopo una specie di «manifesto del bohémien» nella lettera all'amico Francis Wey: «Nella nostra società così civile bisogna che io conduca una vita da selvaggio, bisogna che io mi liberi dei governi. È il popolo a godere delle mie simpatie; devo rivolgermi direttamente a lui, per trarne ispirazione e sostentamento. Ecco perché ho appena dato inizio alla mia nuova, grande vita vagabonda e indipendente del bohémien».

Era fatta: vivere ai margini, preferire l'arte e la libertà alla carriera e al guadagno diventava non solo una scelta o un destino ma un atteggiamento estetico, l'adesione consapevole a un preciso stile di vita. Nasceva una categoria esistenziale e artistica che ha prodotto un po' di ciarpame autoindulgente, tanti capolavori - dalle opere di Puccini e Leoncavallo alle poesie dei «Maledetti», dai Van Gogh ispirati dall'assenzio ai romanzi della beat generation - e una mitologia della bellezza nella trasandatezza genialmente sintetizzata ormai 12 anni fa da David Brooks nella sua formula «bobo» («bourgeois-bohème»): ho i soldi di un ricco e triste borghese, mi agghindo da affascinante zingaro.
Con supremo gesto «bobo», il Grand Palais di Parigi ospita da ieri (e fino al 14 gennaio) una grande mostra dedicata alle «Bohèmes». Il tempio di vetro e acciaio della borghesia trionfante, che nel 1900 accoglieva la prima Esposizione universale, propone un appassionante viaggio nelle tante bohème (ecco spiegato il plurale) che si susseguono in Francia e nel mondo dal Quattrocento a oggi.
La bohème reale, innanzitutto, quella che dà origine al mito, molti secoli prima dei cabaret di Montmartre: nel 1421 nella città di Arras arrivano bizzarri stranieri ai quali viene dato il nome di «Egyptiens», egiziani (in realtà giungono dai Balcani e ancora prima dall'India del Nord, ma quell'appellativo rimane e darà in inglese «Gypsy»). Entrano in Francia grazie a un salvacondotto fornito da Sigismondo, re di Boemia, e per alcune centinaia di anni il termine bohémiens servirà a indicare, in francese, non artisti scapigliati ma il popolo che oggi chiamiamo Rom; tra i più importanti e antichi degli oltre 200 dipinti dell'esposizione, un disegno di Leonardo da Vinci (1493) mostra un signore attorniato da quattro tzigani. I bohémiens sono gli zingari che attraversano l'Europa con le carovane, che non hanno patrimonio né terre, che irritano e attraggono i cittadini con la loro libertà e l'amore per la musica e la danza.

Partitura della «Bohème» (Archivio Ricordi)

Comincia a crearsi così quello stereotipo romantico dello zingaro, del bohémien pieno di verve e sensualità che produrrà un personaggio come Esmeralda nel romanzo Notre-Dame de Paris di Victor Hugo (1831).
«Sono rappresentazioni fantasiose - dice il commissario dell'esposizione, Sylvain Amic -, e lo sottolineiamo all'inizio della mostra. I veri bohémiens, i Rom, non assomigliano ai personaggi dipinti dagli artisti successivi. Nei loro confronti oscilliamo continuamente tra fascinazione, repressione e rigetto. Quanto alla vita da bohème, quelli che la vivono veramente non la teorizzano e quelli che la dipingono l'hanno raramente vissuta. Ma al di là dell'artificio, si tratta di un vero mito moderno, che attraversa la musica, il cinema, la letteratura, la fotografia».
Per non parlare del turismo: milioni di persone arrivano ogni anno a Parigi nella speranza di passare almeno qualche giorno e qualche notte secondo i quattro comandamenti della vita da bohème enunciati nel film Moulin Rouge (2001) di Baz Luhrmann: «Libertà, Bellezza, Verità, Amore».
La saldatura tra la bohème reale dei Rom e quella artistica dei giovani parigini arriva a metà Ottocento, quando il giornalista Félix Pyat coglie il mutamento in corso: è finita l'era dei cortigiani di regime, degli artisti che si mettono sotto la protezione del principe o del mecenate. «La mania attuale dei giovani artisti di volere vivere fuori del loro tempo - scrive Pyat -, secondo altre idee e altri costumi, li isola dal mondo, li rende estranei e bizzarri, li mette al di fuori della legge, al bando della società; sono i bohémiens (cioè gli zingari) di oggi».

Vincent van Gogh, «Les Roulottes» (1888)
In Les Roulottes Vincent Van Gogh descrive nel 1888 il campo nomadi di Arles, e risale più o meno alla stessa epoca Chaussures , sorta di incrocio tra una natura morta e un autoritratto, nel quale l'artista dipinge le proprie scarpe sfondate: espressione di povertà - a Van Gogh capitò di dare alcune sue opere in cambio di un po' di caffè - e sogno di un nomadismo bohème. A metà Ottocento lo stile di vita «zingaresco» era talmente alla moda e popolare che le Scene della vita bohème e le vicende del loro autore Henri Murger ispirarono sia Giacomo Puccini sia Leoncavallo: la mostra espone la partitura originale del quarto atto (la morte di Mimì) della Bohème di Puccini, consacrazione definitiva e planetaria di una nozione e uno stile di vita.
Dopo l'epopea di Montmartre e poi di Montparnasse, dei locali «Le Chat Noir», «Le Lapin Agile» e il «Cafè de la Nouvelle Athènes» in place Pigalle, dove Edgar Degas ambienterà il suo L'assenzio, la mostra finisce tristemente, con le fotografie dell'esposizione sull'arte degenerata organizzata da Jospeh Goebbels a Monaco nel 1937.
È il momento in cui i destini dei Rom, i veri, originari bohémiens, e degli artisti, i loro emuli di maniera, tornano a incrociarsi. Come esempio perfetto dell'arte da colpire e cancellare, i nazisti mostrano le opere di Otto Mueller, che tra il 1924 e il 1929 aveva frequentato gli zingari dei Balcani ricavando da quell'esperienza una sorta di manifesto contro la vita cittadina e in favore dello stato di natura. Di lì a poco gli zingari saranno mandati nei campi di concentramento (e circa mezzo milione vi troveranno la morte). «Il 1937 è il momento della condanna di un popolo e della sua rappresentazione - spiega il curatore Amic -. Gli tzigani vengono sterminati, e gli artisti che hanno subito il loro fascino (come Otto Pankok, Emil Nolde, August Sander, László Moholy-Nagy) condannati a non dipingere più».

Da sinistra:
Ritratto di Edgard Degas (Parigi 1834 – 1917)
«Autoritratto» (1884) di Vincent van Gogh (1853 - 1890)
Il compositore Giacomo Puccini (1858 – 1924)

La bohème sembra a quel punto finita, ma il suo mito è destinato a risorgere oltre Atlantico, nella California degli anni Cinquanta: la ribellione al conformismo, il sogno più o meno velleitario di una vita meno grigia e inquadrata sono motori che non si fermano mai. In Francia i campi dei bohémiens di oggi vengono smantellati, dalla destra di Sarkozy come dalla sinistra di Hollande, ma il Grand Palais dedica agli antenati e ai loro scimmiottatori di immenso talento una delle mostre più importanti dell'autunno: la secolare storia di rigetto e fascinazione continua.

mercoledì 26 settembre 2012

Le parole della scienza

{ATOMI}

"Forse venticinque secoli fa, sulle rive del mare divino, dove il canto degli aedi si era appena spento, qualche filosofo insegnava già che la mutevole materia è fatta di granelli indistruttibili in continuo movimento, atomi che il caso e il fato avrebbero raggruppato nel corso dei secoli secondo le forme e i corpi che ci sono familiari".Così il grande chimico-fisico francese Jean Perrin (1870-1942) delinea l'ambiente in cui nacque, per la prima volta, l'idea di atomo. Leucippo di Mileto e Democrito di Abdera (V e IV secolo a.C. circa) furono i padri di questa fondamentale intuizione. L'atomismo fu adottato da Epicuro (341-270 a.C.), le cui concezioni si ritrovano esposte nel De rerum natura di Tito Lucrezio Caro (98-55 a.C.). Già nell'antichità l'atomismo trovò molti oppositori, il più autorevole dei quali fu Aristotele. La sua influenza sul pensiero occidentale fece sì che l'atomismo non ricevesse accoglienze favorevoli per molti secoli. Tuttavia l'idea di atomo non tramontò mai definitivamente. Fino al XVII secolo le discussioni sull'atomismo furono dominio dei filosofi.
Con la nascita del pensiero scientifico e con il suo progressivo differenziarsi da quello filosofico, il dibattito sull'esistenza degli atomi incominciò a interessare gli studiosi della natura. Da Francesco Bacone a Isaac Newton molti autori fecero riferimento agli atomi, o comunque a idee affini.
Tra il XVII e il XVIII secolo, la chimica aveva fatto rapidi progressi. Agli inizi del XIX secolo erano stati efficacemente chiariti i concetti di elemento, di composto, di miscuglio e di reazione chimica. Inoltre gli studi sui gas e la scoperta delle leggi ponderali avevano evidenziato una singolare regolarità di comportamento della materia. I dati sperimentali progressivamente raccolti e la teoria atomica attendevano quindi un'intuizione geniale che cercasse di metterli in relazione.
La geniale intuizione fu del chimico e fisico inglese John Dalton (1766-1844). Dalton utilizzò dapprima l'ipotesi atomica per razionalizzare alcuni comportamenti dei gas. Successivamente cercò di applicare le sue ipotesi per chiarire il meccanismo di formazione di un composto. Gli atomi dei vari elementi (differenti tra loro) si univano per dar luogo a un "atomo composto", la cui massa era costituita dalla somma delle singole masse atomiche. Con queste ipotesi Dalton fornì una corretta interpretazione della legge delle proporzioni definite di Proust e di quella della conservazione della massa di Lavoisier. Inoltre riuscì a calcolare i rapporti tra la massa degli atomi di molti elementi e quella dell'atomo di idrogeno (massa atomica relativa). Sulla base delle sue ipotesi Dalton fu in grado anche di prevedere teoricamente l'esistenza di un'altra legge ponderale: la cosiddetta "legge delle proporzioni multiple" che lui stesso confermò sperimentalmente. Sia pure lentamente l'idea di Dalton venne accettata dalla comunità scientifica. Oggi l'esistenza degli atomi è uno dei pilastri della scienza moderna. Sappiamo quanto sono grandi (dell'ordine di 10 come si comportano. Con alcune tecniche (microscopi tunnel a scansione o microscopi a campo ionico) siamo persino riusciti a "vederli". Sappiamo infine che sono costituiti da altre particelle più piccole, a dispetto del significato etimologico del termine àtomos che significa indivisibile.

BIBLIOGRAFIA
Perrin, "Gli atomi" (Editori Riuniti);
Ciardi, "Breve storia delle teorie della materia" (Carocci)

SILVANO FUSO, "La Repubblica", 11 marzo 2012


CARLO ROVELLI, Le parole della scienza


"La Repubblica"




Mary Jo Bang's translation of Canto III of The Inferno

Welcome to the city of woe.
Welcome to everlasting sadness.
Welcome to the 
grave cave.                      

Justice made the maker build it just like this—
if being is power, power created it, i.e., it is—
with primitive love and bricks of wisdom.

Before this, there was nothing that wasn’t 
eternal and after, nothing but the eternal. 
you, who have no hope, enter here.


These words, scrawled in soot and all in caps
As if by a hurried hand were printed on the stone overhead 
Above a creaking door. “Sir,” I said, “this is harsh.”


He spoke, like an expert nephew                 
To a drunkard uncle, “Now is when you need courage. 
Now you need a hard heart.                                                15


Leave behind your fear and kill your cowardice.”
Then he said, “In there intellect doesn’t help
The wretched dead who are writhing about.”


He touched my hand as if to tell me all 
Would be all right. Then we crossed over 
From where we’d been into the inner sanctum 


That houses hidden things. The starless air was echoing
With countless sighs, horrific cries,
Extended loud laments. In tears I listened. 


The angry accents, the strident utterances,
The striking hands, the near-deafening chorus 
Of a million dolls’ dark inner voices crying


“Ma-ma, ma-ma, ma-ma,” veered off walls and swirled 
Like sand in a storm that becomes indecipherable 
From the wind with which it’s carried.                                   30


And I, circled by horror, said, “Sir,What am I hearing? 
Who are these people So overcome by grief?”
He said, “This is the inheritance Of the contemptible
Who did nothing wrong but nothing right.


They blend together with the vile angels
Who stood neither for nor against great good
But for themselves in selfishness.
If heaven were to keep them, heaven’s beauty 
Would be less. If they were sent to deepest hell 
The sinners there might gloat, ‘See, we’re worse,
We’re more depraved.’” “What torments them?
Why do they cry so loud and long?”
He responded: “I’ll tell you quickly.                                            45
They wish to die but cannot do it.
Their blind lives are so empty, so without reprieve
They envy the nothing that an ending would be.
They’re not meant to be remembered.
Mercy turns her back; justice disdains them.
They’re not worth your attention. Look, and then let’s go.”
Then I saw a flag that was moving forward so fast,
And fluttering so fast, it seemed indefatigable.
It was followed by a sad and endless train
Of people racing after.
Never had I dreamed 
Death had so many sycophants.
I saw some I recognized and then the ghost of one
Who’d stood down when faced with doing good
And thus paved the way for future damage.                           60
I knew, incontestably, this scourge, 
These contemptible sad-sacks, were the enemies 
Of both Jekyll and of Hyde.
They’d never lived and now would never die.
Naked as the day they were born,
Bitter wasps and hornets covered them.
Blood trickled between their tears;
This sorry sticky mixture dripped from their chins 
To be caught below by the open mouths of maggots.
Further on, beyond these, I saw a crowd
Gathered on the bank of a wide river.
I asked my guide, “May I ask 

Who these are and what makes them 
Wait so eagerly to board the boat
I can barely make out in the distance.”                                          75

He told me, “Hush, it will all be clear
When we reach the bank 
Of the miserable River Acheron.”
I was afraid I’d annoyed him by asking. 
So I stared at my feet 
And stayed quiet until we reached the river.

Then, out of nowhere, there was an old man
With white hair, coming toward us in a boat,
Growling, “Give it up, you scum-uncles.
You’ll never see the sky again. 
Like Red Rover I’m taking you over to the other side 
Where you’ll eat and drink perpetual darkness.
Your naked arses will feel the furnace and the ice. 
And you, with the beating heart, 
Move away from the dead.” When I stood my ground                    90
He said, “You can’t get to where you’re going from here. 
You need the dingy marked ‘P’ for Purgatory.
That one leaves from a different pier.”

Virgil said, “Charon, calm yourself, you clown.” 
We were standing on the ramp. “It’s been decided 
Where decisions are made. His passport has a stamp.
Now leave it alone.”
The hairy cheeks of the boatman, king of the river rats,
Went slack. His fire eyes flared but he kept silent.       

The weary and naked ones, however, went ashen,
And ground their teeth as soon as they heard
His vicious speech. They cursed God, their parents,
The human race, the hour they were conceived, 
Their fathers’ seed, the space between 
Their mothers’ legs, and the bed where they were made.              105

Then they moved as one, as if conjoined, sobbing
All the while, along the evil shore that was designed
For the evil people who know good but never do it.

The evil shore: that surprise dénouement 
For those who when living disbelieved  
In the idea of retribution. Demon Charon, 

His eyes like empty furnaces filled with fire, herds them
Together with a nod or beckons with a bent finger, 
Then smacks the stragglers with his oar.

Fall tells the tree to drop its leaves, and it does, one
After the other, until the branch looks down and sees a blanket
On the ground. Like that, the children of Babylon come

One by one when they’re called, like trained birds come 
When whistled for. Then they go, over the murky water. 
Before the boat has landed on the far side,                                     120


A new group is already huddled naked on the near.
“Now,” said my teacher, “to your previous question: 
The ones you see here have died before making amends. 

They come from every known country.
The reason they’re so eager to cross the river is
They long for hell, as they once reached out for sin


Because sometimes fear becomes desire.
The good never board the boat. 
So if Charon curses both your shoes, and the dirt

Beneath your feet, perhaps you now know why.” 
At that, the pitch-dark plain shook. Every aspect 
Of that moment is burned into my brain. The cold sweat


Inside my clothes. The hot wind that rose off the ground 
Wet with tears. The massive crimson camera flash 
That lit the night scene and turned us red. I lost it                                 135

And went out, like a light goes out, or a phone goes dead.

Notes to Canto III

Line 3: Welcome to the grave caveSylvia Plath, “Lady Lazarus”:
Soon, soon the flesh 
The grave cave ate will be 
At home on me 
Line 56-57: Never had I dreamed/Death had so many sycophantsT.S. Eliot included a translation of lines 55-57 in the first section (‘The Burial of the Dead’) of “The Waste Land”: 

Under the brown fog of a winter dawn,  \
A crowd flowed over 
London Bridge, so many,  
I had not thought death had undone so many.
He included Dante’s original lines in the “Notes” section at the end of the long poem.
Line 63: Of both Jekyll and of Hyde: Robert Louis Stevenson, The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde (London: Longmans, Green & Co, 1886). The story of an affable doctor who under the cloak of night commits nefarious crimes has come to represent the inherent duality of good and evil. 

Traduzione del CANTO XXXIV: Clicca qui

Inferno di Dante: una nuova traduzione


Michele Farina, All'inferno con i Beatles, "La lettura. Corriere della Sera", 23 settembre 2012

La poetessa americana Mary Jo Bang traduce la prima cantica della Commedia. Illustrazioni di Henrik Drescher.

«Non mi sono mai divertita tanto a scrivere — dice sorridendo —. Mi alzavo e cominciavo a tradurre. Una pausa per mangiare e poi ancora al tavolo, con il fido dizionario Sansoni. In un lampo erano le tre di notte. E il giorno dopo daccapo. Con gli amici ormai parlavo solo di Dante. Direi che era diventata una gioiosa ossessione, se non proprio una forma di dipendenza». E per forza: come può non divertirsi una poetessa americana che dipinge l’Inferno come la prigione di Alcatraz e la Danimarca di Amleto, che mette in bocca a Virgilio una canzone di Bob Dylan, dà al diavolo Libicocco la faccia di Gheddafi e ha l’ardire di paragonare le Arpie alla famiglia Addams. 
Una premiata poetessa di Saint Louis, autrice di sei libri, che insegna scrittura creativa alla Washington University, folgorata «in età matura» (è del 1946) dalla Commedia dell’Alighieri. E dalla voglia di farla leggere di nuovo ai conterranei/contemporanei. Sei anni di lavoro, dal 2006 al 2012, ed ecco l’ultima versione dell’Inferno anglicizzato nella traduzione di Mary Jo Bang con le illustrazioni di Henrik Drescher, alcune piacevolmente fuorvianti: la tavola che introduce il canto XII, per esempio, mostra i dannati che bollono nel Flegetonte, la «riviera di sangue» dove Dante ha immerso i violenti contro il prossimo. Drescher ci mette le figurine di Mao, Stalin, Hitler, il tiranno ugandese Idi Amin... In realtà l’Inferno di Mary Jo non è popolato da «nuovi» peccatori. «Ho scelto di mantenere i personaggi originali, che generazioni di lettori hanno imparato a conoscere. Farinata è una figura universale, il simbolo dell’arroganza. Mi sono chiesta: ha senso sostituirlo, che so, con un presidente della storia americana recente? E chi se lo ricorderà tra qualche anno?».  
Mary Jo Bang non sta al gioco delle new entry infernali, del «chi sbatto oggi tra i cattivi». Con un paio di eccezioni (giustificate). I Malebranche, la compagnia di demoni che controllano i fraudolenti nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio, sono comicamente «attualizzati» secondo un criterio di assonanza più che di sostanza: così Draghignazzo diventa Dragan Nikolic, comandante di un campo di concentramento durante la guerra di Bosnia, Barbariccia è Barbie, il boia di Lione, al posto di Libicocco ecco il libico e stranito Muhammar Gheddafi mentre «Rubicante pazzo» viene modernizzato in Rummy, il soprannome di Donald Rumsfeld (ministro della guerra di George Bush). «Mi sono concessa questa libertà per il carattere quasi burlesco della situazione, e anche tenendo conto del fatto che inventando e storpiando i nomi dei diavoli di Malebolge molto probabilmente Dante aveva in mente qualcuno dei suoi nemici politici». La seconda eccezione è il goloso Ciacco, canto sesto: «Non essendo chiara l’identificazione con una figura realmente esistita — dice Mary Jo — ho osato una soluzione aggiornata. Chi potrebbe essere per noi americani di oggi Ciacco, il porco? Il nome che si avvicinava di più per sonorità era Jacko, ovvero Michael Jackson, che però era tutto tranne che un ghiottone. Allora mi è venuto in mente Cartman, il personaggio di South Park. Ho chiesto il permesso agli autori. Avete presente Cartman? In qualche puntata lo chiamano anche Little Piggy. Non è perfetto?». 
A filologi e dantologi che forse arricciano il naso, Mary Jo Bang chiede perdono. «Voi italiani siete assolutamente autorizzati a considerare Dante una ricchezza da proteggere e preservare contro le possibili adulterazioni di una scrittrice infedele. Io ho cercato di seguire con scrupolo la narrazione dantesca ma ho scritto come se fossi una sorta di cyborg»: anziché uomo-macchina «un organismo testo-persona, un incrocio tra il mondo della Commedia e la mente di una donna che vive e scrive nel presente», con il suo volgare fatto di allitterazioni e metafore, poesie amate e linguaggio talvolta slang. Del poema («uno dei maggiori della storia, se non il più grande») esistono oltre 200 versioni in inglese. Eppure oggi già è difficile far leggere le persone, «figurarsi quando si tratta di poesia e per di più di un’opera scritta nell’Italia del XIV secolo che spesso viene resa in un linguaggio così aulico, così ostico». E allora? Tradurre, tradire, Umberto Eco: la cyborg Bang (prima laurea in sociologia, seconda in fotografia, terza in scrittura creativa) racconta che alla Columbia University rimase colpita da William Weaver («traduttore tra l’altro dei libri di Eco»), che alla prima lezione portò tre versioni del Don Chisciotte: «Sembravano scritte da tre autori diversi». E all’inizio della sua avventura dantesca c’è la lettura di un poesia di Caroline Bergvall, «Via», fatta soltanto di traduzioni della prima terzina dell’Inferno secondo le 47 edizioni depositate alla British Library nel 2000. «Mi sono chiesta: e io come la farei? Ho cominciato "Nel mezzo del cammin di nostra vita" (Stopped mid-motion in the middle / of what we call our life...) e non mi sono più fermata». 
Mary Jo nei panni di Dante. «Non potrei mai immaginare cosa vuol dire vivere nell’Italia del ’300, però da poetessa posso provare a immedesimarmi con chi capisce di aver perso la strada». E come Dante «mette nella Commedia i suoi riferimenti culturali, così io ho messo quelli di una donna diventata adulta nell’America degli anni Sessanta». Che ama Dylan e i Rolling Stones, Susan Sontag e T.S. Eliot. L’Inferno raccontato con i versi di Shakespeare e degli Eagles che vengono alla mente spontaneamente: «la terra sconsolata» che Minosse mostra a Dante («non ti inganni l’ampiezza de l’intrare!») appare come l’Hotel California dell’omonimo brano (con il portiere di notte che dice: «Puoi fare il check-out quando vuoi, però non puoi andartene»). I cattivi «a Dio spiacenti e a’ nemici sui» sono coloro che avversano «sia il dottor Jekyll che mister Hyde». La Commedia di Mary Jo è assai poco divina. Il manicheismo tutto umano del romanzo di Stevenson al posto delle Sacre Scritture. Trascendente, come i Beatles. Virgilio annuncia a Dante che incontrerà il suo «dolce raggio» ovvero Beatrice: «Da lei saprai di tua vita il viaggio». Tradotto: «Where the long and winding road is meant to take you». È suggestivo immaginare il cammino del poeta (oltre la «selva oscura») sulla «lunga e tortuosa strada» che dà il titolo all’ultimo singolo di Lennon-McCartney. O Virgilio («una mia amica se lo immagina come il decano degli attori John Gielgud») che nel XVI canto avverte Dante di fare attenzione («Accio che tutta piena esperienza d’esto giron porti») usando le parole canzonatorie di Ballad of a thin man di Bob Dylan: «Così non penserai "qui sta succedendo qualcosa ma non so che cosa", vero mister Jones?». 
Citazioni discrete, metafore calibrate. I dannati che battono i denti «in nota di cicogna» ricordano il tatata della mitragliatrice, le «rime aspre e chiocce» del Fiorentino suonano come «death metal» (una variante dell’heavy metal), i bordi dell’inferno «sembrano disegnati da un Frank Lloyd Wright», nel pozzo dei Giganti trovi l’Incredibile Hulk mentre i Centauri che chiedono beffardi a Dante e Virgilio a «qual martiro» siano diretti lo fanno prendendo in prestito You can’t always get what you want degli Stones: siete scesi «a prendervi la vostra razione di brutalità?». 
La sua «razione» Mary Jo Bang l’ha avuta nel 2004, quando è morto suo figlio. A lui è dedicata la raccolta Elegy uscita nel 2007. Ti chiedi se sia un caso, aver intrapreso questo viaggio con Dante in un momento simile della vita. «Non è necessario che il lettore lo sappia, però in qualche modo è vero, ci sono cose che ti cambiano per sempre. E un po’ credo di sapere anch’io come ci si sente all’inferno».

martedì 25 settembre 2012

Il Paradiso di Nekrosius

Magda Poli, Musica dei Pink Floyd per Dante e Beatrice,  "Corriere della Sera",  23 settembre 2012 

Nel Paradiso di Dante la gloria di Dio si irradia lungo 9 cieli e 33 cantiche di alta poesia, irte di aspre dissertazioni. Il grande regista lituano Eimuntas Nekrosius, direttore artistico del 65°Ciclo di Classici all'Olimpico [di Vicenza], ha presentato in prima mondiale Paradiso, spettacolo che rompe i confini con danza e pantomima in una sorta di «teatro danza» nel quale gli attori suonano, cantano, ballano, recitano versi da vari cantiche, e compongono, «metafore visive» in movimento, come le definì Raboni, con momenti di bell'impatto e altri stanchi. Il regista incentra il viaggio su Dante e Beatrice, Rolandas Kazlas e Ieva Triskauskaiaté, e un coro di 8 attori, tutti bravi. Non ci sono personaggi ma condizioni di spirito, rovelli di pensiero. I beati del Paradiso sono lo stato d' animo della loro santità, non c' è spessore psicologico né complessità. Le musiche vanno dal ' 600 ai Pink Floyd, al cantare dell' acqua, i costumi sono moderni, semplici. In proscenio rotoli di moquette grigia e sullo sfondo la meravigliosa prospettiva della scena fissa. Un ordito di funi, sul quale appendere gli ornamenti della vita forse, si stende sopra il golfo mistico fino alla balconata, sorta di precaria strada-fiume. Un malinconico canto e nel golfo arriverà un guardiano di museo che impacchetterà gli oggetti di uso quotidiano che i personaggi gli daranno. Prima di guardare in alto ci si deve disfare delle cose terrene? Zavorre? Forse, anche se un po' facile. Che cosa ha voluto raccontare Nekrosius in un' ora e mezza che difficilmente ti rapisce? Forse ha voluto restituire la semplicità, l' eterna beatitudine, sorridente, e accogliente di chi ha trovato la pace dello spirito? Bella la scena quando Dante e Beatrice attraversano i flutti di funi - il mare della difficoltà della vita, o quello della ricerca interiore? Annaspano ma guardano in alto e si illuminano nel sorriso di chi ha trovato la pace interiore. Ipotesi. È per questi fortunati che il Paradiso esiste, come recita l' ultima didascalia? Ovvio. O forse si potrebbe concludere con i versi dei Pink Floyd, «Allora, pensi di saper distinguere /il paradiso dall' inferno? /I cieli azzurri dal dolore? /Un sorriso da un pretesto?». Ipotesi per uno spettacolo che le può contenere tutte e il loro contrario. Forse. 

domenica 23 settembre 2012

La vertigine della lista

Lectio magistralis di Umberto Eco

Nell’Iliade appaiono due modi di rappresentazione. Il primo si ha quando Omero descrive lo scudo di Achille: è una forma compiuta e conchiusa in cui è rappresentato tutto quello che si sa su una città, il suo contado, le sue guerre i suoi riti pacifici. L’altro modo si manifesta quando il poeta non riesce a dire quanti e chi fossero tutti i guerrieri Achei: chiede aiuto alle muse, ma deve limitarsi al cosiddetto, enorme, catalogo delle navi, che si conclude idealmente in un eccetera. Questo secondo modo di rappresentazione è la lista o elenco. Ci sono liste che hanno fini pratici e sono finite, come la lista di tutti i libri di una biblioteca; ma ve ne sono altre che vogliono suggerire grandezze innumerabili e che si arrestano incomplete ai confini dell’indefinito. La letteratura di tutti i tempi è infinitamente ricca di liste, da Esiodo a Joyce, da Ezechiele a Gadda. Sono spesso elenchi stesi per il gusto stesso dell’enumerazione, per la cantabilità dell’elenco o, ancora, per il piacere vertiginoso di riunire tra loro elementi privi di rapporto specifico, come accade nelle cosiddette enumerazioni caotiche. L’obiettivo non sarà solo scoprire una forma letteraria di rado analizzata, ma mostrare anche come le arti figurative siano capaci di suggerire elenchi infiniti, persino quando la rappresentazione sembra severamente limitata dalla cornice del quadro. CLICCA QUI.


Picasso a Milano

La «relatività» della pittura

nel nuovo mondo di Einstein

Picasso è il padre del cubismo? Sì e no. Per spiegare questa risposta cerchiobottista spostiamoci a Parigi, nel 1907. Qui, a Montmartre, in un umido edificio dove non arrivava né luce elettrica né gas, anche se era stato battezzato poeticamente «Bateau-Lavoir» (lavatoio sul fiume), Picasso termina un grande quadro a cui aveva lavorato diversi mesi con ansia crescente.
L'aveva intitolato «Il bordello filosofico», ma poi sarà soprannominato «Les demoiselles d'Avignon» dal nome di via Avignone, una strada malfamata di Barcellona. Ispirato alle sensuali odalische del «Bagno turco» di Ingres (che era stato la rivelazione del Salon d'Automne 1905, perché nessuno l'aveva più visto da mezzo secolo), Les demoiselles rappresentava l'interno di una casa chiusa, con cinque donne nude, due uomini e un teschio: un'allusione alla brevità dei piaceri e della vita. Nella versione finale, però, Picasso aveva attenuato il simbolismo della scena e aveva elaborato un nuovo modo di rappresentare la figura, lo spazio, il volume. Prima aveva rivoluzionato volti e corpi, abbandonando ogni realismo e ispirandosi soprattutto alle maschere africane che aveva visto al Museo del Trocadéro. Poi aveva rivoluzionato la prospettiva: aveva dipinto la figura in primo piano come se fosse contemporaneamente di fronte, di profilo e di spalle, in un moltiplicarsi di punti di vista che esasperava le forzature prospettiche già presenti in Cézanne (ma anche nel classicismo eretico di Ingres) e ritrovava dopo secoli la libertà dell'arte primitiva.
Con «Le demoiselles d'Avignon» era nato il cubismo, come dicono tanti manuali di storia dell'arte? No, semmai era nata l'arte moderna, se con questo termine intendiamo un'arte che non imita le cose ma le reinventa. Il cubismo propriamente detto nasce piuttosto da Braque, che Picasso conosce sempre nel 1907 e con cui lavora fianco a fianco, quasi in simbiosi, tanto che di certi quadri non si distingue se siano dell'uno o dell'altro. Braque è influenzato dalla libertà sconvolgente delle Demoiselles, ma col suo spirito francese, cartesiano, così diverso dal sanguigno temperamento andaluso dell'amico, è poco interessato all'arte africana. E anche Picasso, sul suo esempio, si stacca dalle suggestioni espressioniste. Niente più maschere tribali, dunque. A partire dal 1908 i due artisti meditano sulla volumetria di Cézanne, scomparso due anni prima e celebrato al Salon d'Automne del 1907. Prima accentuano fino all'inverosimile i volumi delle cose, tramutandoli in un insieme di cubi: verrà di qui il termine cubismo, coniato nel 1908 non si sa se da Matisse, da Apollinaire o dal critico Louis Vauxcelles. Poi abbandonano i cubi, anzi smettono di descrivere le cose e si limitano a evocarle. È il 1910-1911, il momento del cosiddetto «cubismo analitico» dove forme e figure si scindono in un intreccio di linee, a cui segue nel 1912 il cosiddetto (le definizioni della critica sono inutili, quando non sono dannose) «cubismo sintetico», caratterizzato da una parziale ricostruzione delle superfici.
Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di ParigiPicasso. Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi    Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi    Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi    Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi    Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi    Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi    Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi
Il cubismo, del resto, non colloca il soggetto del quadro nella scatola geometrica dello spazio, come l'Occidente aveva iniziato a fare da Brunelleschi in poi, ma costruisce insieme spazio e forme. Lo spazio, cioè, nasce insieme al soggetto: non ti accoglie come una stanza, come nei dipinti del Rinascimento, ma te lo devi creare. Quanto al soggetto (di solito comune: un tavolino, una carta da gioco, uno strumento musicale) non è descritto in tutte le sue parti, come diceva erroneamente il gallerista di Picasso, Kahnweiler, ma è evocato come in un flash improvviso.
A sinistra, «Les demoiselles d’Avignon» di Picasso del 1907. A destra «Il grande nudo» di Georges Braque del 1908. Quando conobbe Braque, Picasso decise di abbandonare l’interesse per l’arte africana. Insieme, i due artisti meditarono sulle volumetrie di Cézanne
Un po' come aveva fatto Mallarmé, poeta amatissimo dai cubisti, che nei suoi versi aveva rappresentato la danza dei sette veli di Salomé senza descriverla, accennando solo al seno e al piede della giovane donna. Certo, in questo modo i soggetti diventano spesso ermetici:Il fisarmonicista del Guggenheim di New York, per esempio, è stato a lungo chiamato così prima che si scoprisse, da una lettera di Picasso, che era una ragazza.
Il cubismo, allora, rivela consonanze con molti aspetti del pensiero contemporaneo:la teoria della relatività di Einstein, la concezione dello spazio curvo delle geometrie non euclidee, la nozione di materia della fisica moderna, l'idea di tempo di Bergson, la fenomenologia di Husserl. Ma non bisogna esagerare con questi parallelismi, anche perché - come sempre - ai pittori interessava soprattutto la pittura. E sarà proprio Picasso a dichiarare: «Si è cercato di spiegare il cubismo con la matematica, la trigonometria, la chimica, la psicoanalisi, la musica e non so cos'altro ancora. Tutto questo è stato solo letteratura, per non dire che sono state sciocchezze, che non hanno fatto altro che annoiare la gente».
Elena Pontiggia, "Corriere della Sera", 20 settembre 2012
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