venerdì 31 maggio 2013

L’editore di Brecht verso il fallimento


La “Suhrkamp Verlag”, protagonista del rinascimento culturale 
della Germania post nazista, rischia la chiusura


Carlo Antonio Biscotto

"il Fatto",  30 maggio 2013

La notizia non è arrivata come un fulmine a ciel sereno, ma ha comunque messo a soqquadro le redazioni dei principali giornali tedeschi e il mondo degli scrittori e degli intellettuali che per oltre 60 anni hanno considerato la casa editrice Suhrkamp Verlag un imprescindibile punto di riferimento del dibattito culturale. Il management dell’editrice ha deciso di chiedere il concordato preventivo, una sorta di fallimento pilotato, e il tribunale fallimentare di Berlino ha dato tre mesi di tempo alla dirigenza per presentare un piano di risanamento e rilancio.
LA REAZIONE dei maggiori giornali tedeschi non si è fatta attendere. La Bild parla di “dramma per la cultura tedesca”; la FAZ punta sullo “sbalordimento e l’incredulità” mentre il Die Zeit titola “lutto per la cultura tedesca”. Il vero dramma – se di dramma vogliamo parlare – va ricercato non tanto nella situazione di dissesto finanziario quanto nel feroce scontro tra le due anime del colosso editoriale venute allo scoperto prima nel 2002 alla morte di Siegfried Unseld, successore di Peter Suhrkamp, poi nel 2010, anno in cui la sede è stata trasferita a Berlino in coincidenza con il 60° compleanno dell’editrice. Da allora la casa editrice non ha avuto più pace perdendo anche molte sue firme prestigiose. Il conflitto tra chi voleva conservare la vocazione elitaria dell’azienda editoriale e chi, temendo la crisi del settore, puntava a incrementare i profitti dando un taglio più commerciale al catalogo, è stato senza esclusione di colpi e con abbondanza di carta bollata e si è concluso, almeno per ora, senza vincitori né vinti e con il probabile fallimento di Suhrkamp. La casa editrice è stata fondata nel 1950 da Peter Suhrkamp, nato nel 1891 a Kirchhatten e morto a Francoforte nel 1959. Subito dopo la prima guerra mondiale, combattuta in un reparto d’assalto, Suhrkamp era tornato all’insegnamento e aveva conosciuto Bertolt Brecht la cui amicizia lo aveva incoraggiato a scrivere e a lasciare l’insegnamento. Nel 1936, dopo essere stato redattore capo della rivista letteraria “Die Neue Rundschau”, divenne amministratore fiduciario delle edizioni Fischer in sostituzione degli eredi di Samuel Fischer costretti a fuggire dalla Germania a causa delle leggi razziali. Nel 1944 Suhrkamp, per essersi rifiutato di adeguarsi alle direttive del regime mantenendo contatti con gli artisti antinazisti e pubblicando libri di autori ebrei sotto pseudonimo, fu arrestato dalla Gestapo e rinchiuso nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Fu una esperienza durissima che lo segnò per sempre nel corpo e nello spirito.
Dopo la guerra Suhrkamp decise di seguire la sua strada abbandonando le edizioni Fischer e fondando la Suhrkamp Verlag. Nel 1945 era stato il primo editore tedesco ad ottenere il permesso di pubblicare nella zona americana. Dei 48 autori di cui aveva curato la pubblicazione durante il periodo in cui era stato alla guida delle edizioni Fischer, 33 decisero di seguirlo in questa nuova avventura. Tra questi, i primissimi furono Brecht – “voglio essere pubblicato solamente da Suhrkamp”, dichiarò – Herman Hesse, suo grande amico, Walter Benjamin e Max Frisch.
L’anno seguente uscì Viaggio in Oriente di Hesse, primo volume della leggendaria collana “La biblioteca Suhrkamp” che esiste ancora oggi. La casa editrice divenne nel giro di pochi anni quello che la Einaudi è stata per l’Italia del dopoguerra e la Gallimard per la Francia nello stesso periodo. “Qualcuno riesce ad immaginare la Germania post-nazista senza la presenza dell’editrice Suhrkamp? ”, chiese una volta provocatoriamente Günther Grass.
LA SUHRKAMP Verlag è stata al centro di tutti i fermenti letterari e culturali che hanno attraversato la Germania ponendosi come un volano della rinascita morale e intellettuale del Paese dopo la tragedia del nazismo. Quella che tutti finirono per definire “cultura Suhrkamp” incise in profondità nella vita intellettuale della Germania occidentale, in particolare negli anni 60 e 70. L’editrice pubblicò gli scritti degli esponenti della cosiddetta “Scuola di Francoforte”, in particolare le opere di Theodor W. Adorno e Jürgen Habermas le cui teorie furono decisive nel mettere in moto i moti studenteschi del 1968. Anche la maggior parte dei membri del “Gruppo 47”, vero e proprio laboratorio per altre avanguardie letterarie tra cui quella italiana del “Gruppo 63”, figurano nel catalogo della Suhrkamp Verlag.
Oggi dinanzi al pericolo del fallimento della più prestigiosa casa editrice tedesca, non c’è in Germania chi non ricordi il modo del tutto personale che ebbe Peter Suhrkamp di fare l’editore. “Noi non pubblichiamo libri, pubblichiamo autori”, era solito ripetere. Ed infatti ebbe sempre rapporti strettissimi e sovente di grande amicizia con i suoi autori. Il germanista Raimund Fellinger, redattore capo della casa editrice dal 1979 al 2000 e direttore generale dal 2006, ha ricordato in una recente intervista che la filosofia editoriale di Peter Suhrkamp è proseguita anche dopo la sua morte tanto che egli stesso è solito fare lunghe passeggiate in montagna con Peter Handke prima della pubblicazione dei suoi libri.
“Ricordatevi” – diceva sempre Peter Suhrkamp ai suoi collaboratori – “che anche il più modesto dei nostri autori è una persona creativa e quindi vale più di noi tutti messi insieme”. Già da qualche anno la Suhrkamp aveva perso la sua posizione dominante nel panorama letterario tedesco, malgrado gli sforzi di Ulla Unseld-Berkewicz, vedova di Siegfried Unseld. Dieci anni di tensioni e conflitti si sono per il momento conclusi con la richiesta di fallimento.

Pascoli d'Irlanda. Heaney: "Traducendo le Myricae ho scoperto la mia vera terra"


Intervista all’autore premio Nobel per la letteratura. 

“Nella poesia italiana ritrovo i luoghi dove sono nato”.

Sebastiano Triulzi

"La Repubblica", 22 maggio 2013

Le poesie di Seamus Heaney posseggono una straordinaria intimità con la terra e il mondo rurale irlandese. La stessa lingua inglese che lui usa è plasmata e pensata dal paesaggio, in una connessione tra il sé, la storia insanguinata dell’Ulster e la cultura classica che gli fa da guida. «Ho bisogno di qualcosa che susciti o risvegli un ricordo per l’ispirazione — confessa Heaney, ospite a Roma dell’American Academy — ma la mia scorta di immagini dell’infanzia si discosta molto dalla mia vita da adulto». Nato nel 1939 in una cittadina a quaranta chilometri da Belfast e poi divenuto Nobel per la letteratura nel 1995, è stato invitato a parlare di Ovidio, di cui tradusse i versi di Orfeo e Euridice: «La versione di Virgilio ha una sfumatura più tragica e solenne. Ovidio intrattiene, rapisce, diverte. Questo mito è una riflessione sull’arte, che consiste nel farcela quasi a sconfiggere la morte, un processo di risalita sempre soggetto all’errore umano». Per il suo tocco leggero, considera Ovidio più adatto al XXI secolo dell’amato Virgilio che sconta il rapporto con Augusto e la cultura di corte: «Ma in lui ci sono anche le lacrimaererum, la storia fatta di lacrime».

Da dove nasce la predilezione per Virgilio?
«Sento una affinità con il suo linguaggio e il suo ritmo. Ho tradotto la prima e la nona egloga delle Bucoliche perché il tema era l’essere poeta in tempi difficili e perché si narra di persone espropriate della propria terra. Una vicenda autobiografica non solo per Virgilio, una situazione di perdita che rappresentava una risposta ai Troubles, al conflitto in Irlanda del Nord».

La ricerca di un Eden dove dedicarsi alla poesia è un sogno egoistico?
«Robert Pinsky ricordava che in inglese la parola “responsabilità” deriva da risposta. La responsabilità del poeta è dare delle risposte al dolore e alle tragedie della vita. C’è una vasta gamma di modi possibili, da un coinvolgimento politico diretto a una relazione più metaforica o obliqua con l’attualità. Questa seconda sopravvive meglio ».

Non trova le Bucoliche estremamente drammatiche? 
«Però gli eventi sembrano accadere oltre un vetro. E c’è passione, oltre all’elemento politico. Sembrano includere tantissimo e lasciar fuori altrettanto. Sono un incrocio tra un libro delle Ore e ilcampo dietro casa, un misto di realismo e visione. Le Georgiche invece sono un poema dei nostri tempi, glorificano il prendersi cura della natura. Milosz sosteneva che la poesia innalza le cose solo perché esistono e nelle Georgiche è così».

Pensa di essere cresciuto in una Arcadia?
«Sì. Ho trascorso l’infanzia in un fattoria, durante gli anni Quaranta, in una parte del paese che si muoveva a ritmo lento. Il materiale delle mie poesie proviene dalla memoria di quellocus amoenus. Come conciliarlo col resto dell’esperienza è stato il mio rovello principale. Oggi posso dire che parte della mia poesia è un tipo di natura morta, o un quadro di interni olandese».

So che è alle prese con il VI canto dell’Eneide.
«È il viaggio nell’oltretomba che mi attrae. Mio padre era sempre all’erta quando qualcuno in zona moriva, spesso aiutava i familiari a prepararsi per il funerale. Potrei avere ereditato da lui l’interesse per la vita oltre la morte. Le discese di Omero, Virgilio e Dante, sono un modo di mantenere viva la memoria e distinte, attraverso dialoghi drammatici, l’interiorità e l’esteriorità. Comunque, quando i tuoi amici cominciano a morirti intorno, l’oltretomba diventa un posto interessante da frequentare».

A quando risale il primo incontro con Dante?
«Negli anni Settanta feci la traduzione dell’episodio del conte Ugolino, che conteneva un riferimento alla lotta dei prigionieri politici in sciopero della fame. Dante mi ha insegnato a lasciare che altre voci si esprimano raccontando i loro problemi. In Station Island compare il fantasma di un mio cugino assassinato nei Troubles che mi accusa di trattare le sofferenze altrui rendendole con belle parole, trasformandole in elegia. È un argomento a cui penso di continuo».

E con Pascoli, invece?
«Stavo citando un verso di Yates — “le colline ventose di Urbino” — e un’amica mi fece leggere l’Aquilone. Trovai meraviglioso il passaggio dalla gioia di un ragazzo nel far volare l’aquilone alla sua morte. Ora sto lavorando su una sezione di Myricae, L’ultima passeggiata. Riferisce di un mondo che conosco bene, comincia con l’aratura, poi vengono le galline, il granaio; infine le donne ferme a un passaggio a livello che chiacchierano e la sbarra che si abbassa. Sono cresciuto proprio di fianco a una ferrovia così».

Per Pascoli la lingua poetica è quella materna legata alla terra. Per lei?
«Ho imparato l’irlandese nella scuola cattolica, dove veniva insegnato non per propaganda ma per un retaggio culturale. A casa parlavamo un inglese con inserti nordirlandesi e scozzesi. La mia lingua madre è quel- la della contea di Derry e la mia voce di poeta ne è sicuramente influenzata. Anche se bisogna sempre negoziare con la lingua franca, che Ted Huges, troppo duramente, definiva la lingua degli zombi».

Alcuni critici sostengono che il paesaggio delle torbiere nelle sue poesie sia una metafora della psiche irlandese.
«Dentro le torbiere c’è di tutto: oro, armi, pacchi di libri, burro ancora salato, perfino mummie come l’Uomo di Grauballe, la cui testa ha uno sguardo terrificante per via della gola tagliata. I buchi erano così profondi che si diceva non avessero fine e a noi bambini veniva raccomandato di tenersi alla larga. In quegli anni i componenti dell’Ira si reputavano i sacerdoti della nostra terra, pronti a sacrificarsi compiendo atti di violenza. Vedevo un’analogia tra le vittime dell’età del ferro e quelle dell’Irlanda del Nord. Qualche anno fa ho riesumato questa passione ne L’uomo di Tollund in primavera, in cui riportavo in vita uno delle torbiere facendolo passeggiare nella metropoli, estraneo ma benefico, espressione al principio di una violenza e verso la fine di una forza benigna».

In realtà è come se lei scrivesse da sempre della guerra, solo che è una guerra diversa.
«Sì, lo so. È ciò di cui parla Milosz in The World, in cui le immagini idilliche e ironiche sono usate per andare contro ciò che sta accadendo altrove. Diceva che l’occupazione nazista di Varsavia, la distruzione del ghetto, la ribellione dei polacchi erano come un grido prolungato e la poesia non riusciva a gridare così. In un famoso verso si chiede: “Che cos’è la poesia che non salva i popoli né le persone?”. Rispondo citando Brodsky: “L’unica cosa che l’arte ci insegna è che la condizione umana è privata”. Ma ogni teoria, suppongo, è un’autobiografia».

Soggetti smarriti. Quei romanzi nei quali non rimase più nessuno

Riproponendo una tradizione che annovera Hawthorne e Pirandello, 
nuovi libri i cui protagonisti 
spariscono dalla scena.

Giorgio Vasta

"La Repubblica", 30 maggio 2013

Raccontare una storia vuol dire popolare spazio e tempo di personaggi. Eppure ci sono narrazioni che rivelano l’impulso opposto: quello allo svuotamento, al bisogno di cancellare le figure dalla scena. E non necessariamente, come invece accade nella narrativa di genere, per innescare una detection. Quando, per esempio, all’inizio di L’avventura di Antonioni Anna sparisce, l’indagine che segue è blanda e pretestuosa; il vuoto generato dalla scomparsa non deve essere tanto colmato da una soluzione quanto, semmai, riconosciuto e abitato. In Wakefield Hawthorne racconta la storia di un uomo che un giorno esce di casa e, senza che affiori mai un movente comprensibile, preso alloggio qualche strada più in là, sta via per oltre vent’anni. Per Wakefield – un Ulisse a breve gittata – sparire vuol dire scoprire che cos’è la nostra vita senza di noi.
A dileguarsi non deve essere necessariamente un personaggio; può svanire nel nulla persino una vocale, quella “e” che nel 1969 Perec fa evaporare dal suo romanzo La scomparsa. Sempre del 1969 è un altro romanzo francese, Icaro involato, in cui Queneau immagina che a far perdere le proprie tracce sia, intenzionalmente e in contrasto con le esigenze dell’autore, proprio l’Icaro del titolo, insoddisfatto della storia che lo vede protagonista (e dunque sparire è insieme fuga e ricerca di una narrazione migliore di quella in cui siamo rinchiusi). Del resto l’emblema italiano dell’escapologia identitaria, vale a dire il pirandelliano “fu” Mattia Pascal, sfrutta consapevolmente un’occasione fortuita per realizzare il suo desiderio di smettere di essere percepito come Mattia Pascal trasformandosi invece in Adriano Meis. Il nodo infatti è quello: essere percepiti. In Film – regia di Alan Schneider su sceneggiatura di Samuel Beckett – il personaggio interpretato da Buster Keaton, perseguitato dall’esse est percipi descritto da Berkeley, fa di tutto per sottrarsi agli sguardi degli altri, nonché al proprio.
Con l’esaurimento dell’umano – lo stesso fenomeno descritto ancora da Antonioni nel 1962 alla fine di L’eclisse, quando venuto meno il senso di un legame resta solo un elenco di spazi vuoti – si confrontano tre libri italiani di questi ultimi mesi.
Senza pretendere di identificare un filone, proviamo però a rintracciare in essi alcune costanti e a domandarci se, come e perché è oggi individuabile, in alcune narrazioni nazionali, l’impulso al cupio dissolvi. E se tutto ciò è anche il riflesso letterario di qualcosa che appartiene in primo luogo allo Stimmung, vale a dire all’atmosfera morale di un’epoca.
Lo scorso autunno è apparso Nessuno è indispensabile di Peppe Fiore (Einaudi). All’ombra di una gigantesca mucca aziendale – mamma, mammella, nutrice, avvelenatrice – cresce e si disgrega una generazione di travet consegnati al destino di una vita bovina. Tra questi Michele Gervasini, minuto e velleitario, la testa piena di «cenere mentale». A turbare l’esile linea retta del suo quotidiano caseario – che Fiore, abilissimo, cartoonizza rivelandone le più infinitesimali nevrotiche miserie – è una progressione di suicidi. Poco a poco, epidemicamente, gli impiegati si tolgono la vita. Immerso negli stomaci dove l’ipermucca rumina i propri dipendenti, Gervasini comprende come una parte sostanziale del lavoro italiano renda indistinguibili la gestione e la digestione (dunque la naturale distruzione) del personale.
L’ultimo party. Bestiario del lavoro culturale di Giovanni Robertini (Isbn, illustrazioni di Ana Kraš) descrive l’estinzione di chi sparisce senza essere (quasi) mai esistito. Uno dopo l’altro – l’occasione è la festa di chiusura di una casa editrice – vengono convocate le maschere di chi si aggira oggi nella scena culturale. Corpi umani sormontati da teste animali, i connotati originari e al contempo ultimi di una serie di figure – dal ricercatore universitario all’attore, dal dj allo stagista – che affollano il mondo piccolo del cosiddetto “lavoro culturale”.
A risaltare, in questo caravanserraglio, è lo scrittore panda, al contempo teorico dell’estinzione e suo principale artefice. Insofferente all’abitudine di nutrirsi di bambù, sempre più abulico e involuto, il panda ha chiaro che in un’epoca terminale – un tempo di esitazioni, di eterne indecisioni – il comportamento più logico è scegliere la propria fine. O decidersi a mangiare carne.
Sparire di Fabio Viola (Marsilio) è un romanzo che fin dal titolo radicalizza i termini della questione. Le sparizioni che fanno da fondale alla storia – scomparsa Elisa, la sua (ex) ragazza trasferita per lavoro a Osaka, Ennio lascia Roma per ritrovarla – sono quelle degli insegnanti di italiano della scuola dove Elisa è andata a lavorare. Sparizioni che nel contesto nipponico sono fisiologiche; talmente che in giapponese esiste un termine, johatsu, con cui si descrive chi, autonomamente o tramite apposite agenzie, sceglie di far perdere le proprie tracce. Il tempo che Ennio trascorre a Osaka – ottenendo il posto di Elisa, trasformando ogni azione in procrastinazione – è una bolla. Un involucro trasparente, lieve, globulare. All’interno di questa bolla, davanti allo stillicidio di sparizioni, Ennio, portando con sé solo l’iPad e un po’ di cibo, si rinchiude in un armadio. Una soluzione narrativa splendidamente tragicomica che determina lo slittamento dallo sparire allo sparirsi.

Nei libri di Fiore, Robertini e Viola intelligenza e amarezza sono inscindibili, l’eleganza del dettato è inseparabile dalla coscienza del disastro. Soprattutto, come in Dieci piccoli indiani( il titolo originale del romanzo di Agatha Christie, E poi non rimase nessuno, rimanda esplicitamente allo svuotamento), corpi e biografie sono frammenti di un conto alla rovescia.

Dissolversi – fare della propria vita una lacuna – misura il tempo che resta. Misura in che modo, in determinati climi storici, rendersi conto di stare all’interno di un processo di estinzione – nell’avventura dell’eclisse, potremmo dire – sembri essere l’unico modo di esistere.

giovedì 30 maggio 2013

Salviamo la civiltà dei caffè dove siamo soli e in compagnia


A Trieste le Assicurazioni Generali decidono le sorti dello storico San Marco

CLAUDIO MAGRIS

"Corriere della Sera", 29 Maggio 2013 

Quando a Vienna, nel 1896, venne chiuso il famoso Caffè Griensteidl, Karl Kraus scrisse un articolo, ironico e appassionato, dal titolo La letteratura demolita, perché un pezzo di quest'ultima moriva con quel luogo, pubblico e insieme familiare e individuale, in cui essa erafiorita. Quel Caffè — come altri, sempre più rari — era anche letteratura, ma non solo perché frequentato da scrittori che ai suoi tavolini avevano scritto pagine memorabili o perché era stato il teatro di discussioni artistiche e aveva visto progettare, nascere e morire riviste e movimenti culturali. Il Caffè era ed è un potenziale grembo di letteratura, un terreno fecondo per la sua gestazione, perché unisce solitudine e socievolezza, quella interiorità raccolta, ma immersa nel mondo e aperta ad esso che è condizione essenziale per la scrittura e per ogni creazione.
Al Caffè — diceva un altro grande scrittore viennese, Peter Altenberg — si è soli, al proprio tavolino isolato come una zattera nel fluire delle cose, ma anche in compagnia, circondati daaltri e dal sommesso brusio dell'esistenza. Non è male non essere disturbati, ma è ancor più
importante rompere ogni tanto le ragnatele dei propri fantasmi e delle proprie parole e venirecorretti e ridimensionati, in quel delirio di onnipotenza latente nella scrittura, dalla cordiale  indifferenza di chi sta intorno, né troppo vicino né troppo lontano. 
La civiltà letteraria dei Caffè è fiorita nei più diversi Paesi e nelle più diverse culture, da Vienna 
a Praga, dalla Francia al Sudamerica; in alcuni famosi Caffè di Parigi come di Buenos Aires sono nati grandi movimenti artistici e opere fondamentali. Il Caffè, si è detto, è stato la moderna  agorà, la piazza greca in cui, nella quotidianità del mercato, si discuteva sulla verità e  sull'opinione; il Caffè è un salutare antidoto al collettivo assembleare o all'anonimato interscambiabile della società, in cui si spengono le diversità individuali, come alle narcisistiche torri d'avorio e alla soggettività egocentrica che vede solo se stessa. Non è un teatro del  sociale né dell'ipertrofia dell'io, bensì della riservatezza e della socievolezza. Per questo è stato ed è così propizio all'arte.
Anche Trieste ha avuto i suoi Caffè che fanno parte della storia del mondo, frequentati da Svevo o da Saba come da altri artisti, ma soprattutto espressione di uno stile di vita, ben più importante di ogni pagina letteraria. Ci sono ancora certi Caffè — ad esempio gli Specchi, il Tommaseo — ma di Caffè nel senso proprio, antico e non solo antico del termine, è rimasto uno solo, il San Marco (forse, ma solo in parte, lo Stella Polare). Un luogo dove si sta in pace, si legge, si scrive, si chiacchiera, si presentano libri. Un cuore della città; un cuore robusto dai battiti tranquilli. Noto in tutto il mondo, meta dei visitatori stranieri che vanno a vederlo come vanno a San Giusto, il Caffè San Marco, alcuni mesi dopo la morte del suo titolare Franco Filippi, rischia ora la chiusura o una trasformazione che sarebbe comunque una chiusura, perché lo altererebbe per farne un'altra cosa, poco importa se bar, ristorante o libreria, in cui si
comprano, ma non si leggono libri.
Il suo destino dipende dalle Assicurazioni Generali, proprietarie dei locali. Sono certo che la mitica Compagnia triestina capirà che l'utile di un Caffè — in base al quale calcolare l'affitto — 
non può essere immediatamente economico, bensì anche economico, ma in un senso più ampio. Un Caffè in cui si può stare ore prendendo una sola consumazione non può offrire lauti
guadagni; può solo sopravvivere. Ma i grandi imprenditori hanno sempre compreso che un'impresa non solo incassa, ma anche spende, quando per incassare è necessario investire,
e che ci sono investimenti la cui ricaduta sul profitto è solo indiretta, ma non per questo meno importante per un'impresa, la cui immagine concorre, alla fine, pure al profitto.
Carnegie non era un ingenuo benefattore, quando ha costruito la Carnegie Hall, spendendo una grande somma di cui non sembra essersi pentito; era appunto un grande uomo d'affari. Le
sale dei Musei americani sono intitolate non agli artisti di cui espongono le opere, bensì ai magnati che hanno loro donato quelle opere e non solo per beneficenza, ma perché capivano che quella spesa era pure nel loro interesse, mentre è difficile che un taccagno restio a  sborsare pochi centesimi divenga un protagonista dell'economia. Sono certo che le Assicurazioni Generali capiranno che il San Marco, anche nel loro complessivo interesse, è da
sponsorizzare, per farsene un fiore all'occhiello, non da sfruttare contando i centesimi. Un altro 
scrittore viennese, Polgar, lavorava per ore al Caffè e, quando era stanco, usciva e andava al
Caffè per distrarsi.

Il ritorno del Noi


Da Kant a oggi cosa sta a indicare il pronome fondativo di gruppi, classi e comunità 

Le nuove identità nell’epoca dei social network

Maurizio Ferraris

"La Repubblica",  29 maggio 2013

Se l’io è, secondo Pascal, il più detestabile dei pronomi, il noi è il pronome più misterioso. Poniamo che quattro persone giochino a poker e che qualcuno chieda loro che cosa stiano facendo. Una risposta come «io sto giocando a poker, e anche lui, e anche lui, e anche lui» suonerebbe a dir poco strana. La risposta ovvia è «noi stiamo giocando a poker». Ora, in questo “noi” si nascondono parecchi enigmi del mondo sociale che hanno interessato i filosofi (e su cui ritorna proprio in questi giorni Roberta De Monticelli in un capitolo centrale di Sull’idea di rinnovamento, Raffaello Cortina): che cosa intendiamo davvero dire, e fare, quando diciamo “noi”? Il punto più rilevante è che, contrariamente alle apparenze, l’uso del “noi” è funzionale, più che a una identificazione, a una esclusione. Dal “noi spiriti liberi” di Nietzsche al “noi padani”, al “noi moderni”, lo scopo principale del “noi” sta nel costruire una aggregazione, in cui un singolo si autonomina rappresentante di una classe, ma, ancor più, nel generare il fantasma dei “loro”, degli altri, di quelli che non sono noi. In questi casi, a differenza da ciò che accade con i nostri quattro giocatori di poker, il confine tra il “noi” e il “loro” è estremamente mobile e soprattutto infinitamente vago e manipolabile.
Ecco perché, a mio avviso, uno degli scopi centrali della filosofia come critica della ideologia deve consistere proprio nella condanna della finzione universalizzante del “noi”. Jacques Derrida è stato un campione di questa prospettiva, per esempio facendo notare come l’appello ermeneutico al dialogo e alla “fusione di orizzonti”, alla creazione di un discorso universale dotato di una piena trasparenza comunicativa era sempre sul punto di tradursi nell’evocazione di un fantasma di totalità. Ma come può esercitarsi una vigilanza critica nei confronti della costituzione del “noi”?
Probabilmente, lo strumento più efficace è l’analisi dei connettivi e dei contesti che rendono possibile il “noi”. Storicamente ne abbiamo avuto molte versioni, raramente rassicuranti. La prima è infatti quella del sangue e della terra, cioè l’idea che il “noi” sia assicurato dalla condivisione di certi attributi genetici e di uno spazio geografico. Ma anche l’idea che il “noi” abbia invece una base spirituale non è di per sé meno minacciosa. Basti pensare all’ambigua tesi di Fichte, nei Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), che definiva i tedeschi come il popolo dello spirito, e poi procedeva a dire che dunque chiunque creda nel progresso dello spirito appartiene alla stirpe tedesca (mentre poteva darsi il caso di chi, non credendo nello spirito, non sarebbe stato tedesco anche se geneticamente lo era).
Nella filosofia contemporanea, la risposta prevalente alla domanda sull’origine del “noi” è fornita dalla teoria della intenzionalità collettiva, proposta dal filosofo finlandese Raimo Tuomela e sviluppata da John Searle. L’idea è che ci sarebbe questo elemento primitivo e naturale (una specie di ghiandola pineale intersoggettiva) che ci fa dire “noi” invece che “io” in un certo numero di situazioni, e che sta alla base della costruzione del mondo sociale. Qui avrei più di un dubbio, perché in effetti al “noi” ci si arriva attraverso un addestramento. È vero che un gruppo di persone in gita può dire “noi camminiamo”, ma si tratta ancora di “intenzionalità collettiva” quando a camminare è un gruppo di prigionieri tenuti sotto tiro?
Se le cose stanno in questi termini, alla versione naturalistica di Searle è di gran lunga preferibile la versione culturalistica che, quasi duecento anni fa, ha dato Hegel con l’idea di “spirito oggettivo”. Quello che noi abbiamo nella nostra testa, le nostre intenzioni e le nostre aspirazioni morali non può restare in un puro mondo intelligibile, come pensava Kant, ma ha bisogno di manifestarsi nella storia. È qui che si introduce la variante hegeliana: lo spirito ha bisogno strutturalmente di manifestarsi, di solidificarsi in istituzioni. È lì che si manifesta il “noi”: nelle costituzioni, nelle imprese e nelle tradizioni condivise. Ma, attenzione, è importante capire che questo spirito è oggettivato, non è una nostra proprietà personale.
È per questo che, in alternativa a queste forme di costruzione del “noi”, ho suggerito che l’elemento fondamentale è costruito da quello che chiamo “documentalità”. È attraverso la condivisione di documenti e di tradizioni che si costituisce un “noi”. Ed è proprio per questo motivo che la società si è dotata così presto di scritture e di archivi: per far sì che lo spirito possa manifestarsi e diventare riconoscibile, acquisendo visibilità e permanenza temporale. Da questo punto di vista, la forma più trasparente del “noi” è un documento che reca delle firme, e che manifesta con onestà i termini, i confini e gli obiettivi del “noi”, che in questa versione appare come l’accordo cosciente tra un numero definito di persone per un obiettivo riconoscibile.
Oggi la documentalità è rappresentata soprattutto dal web, questo immane apparato che alcuni ottimisti sono portati a definire come l’espressione di una intenzionalità collettiva, per esempio rifacendosi al ruolo del web nella primavera araba, o più recentemente nel successo del Movimento 5 Stelle. A mio avviso però è proprio nei confronti del web che appare più che mai necessaria una vigilanza critica nei confronti della produzione di un “noi”. Perché le condizioni regolate della documentalità, quelle che appunto possiamo trovare in un atto espresso in forma esplicita (costituzione, compravendita, testamento), e cioè la riconoscibilità dei confini del “noi”, la piena consapevolezza e la solennità dell’impegno vengono meno.
Pensate alle pagine di Facebook in cui il tribuno di turno chiama a raccolta i suoi sostenitori per condividere delle idee che normalmente trovano la loro forma di aggregazione nella condanna dei “loro”, degli altri. Qui si crea una illusione di intenzionalità collettiva chiaramente ingannevole. I sostenitori che scrivono “mi piace” lo fanno magari senza pensarci, tanto non sono impegnati a niente. Le quantità sono soggettive: già una decina di “mi piace” sembra indicare un consenso assoluto. I commenti sono estemporanei come i discorsi al bar, ma diversamente da quelli permangono, e soprattutto sono prevalentemente positivi, rafforzando la convinzione del tribuno di aver ragione. E il “noi”, da potenziale veicolo di intelligenza collettiva, si trasforma in una manifestazione non confortante di stupidità di massa, anzi, non esageriamo, di gruppo.

mercoledì 29 maggio 2013

Eureka! Così Archimede è diventato un’icona pop


Da Plutarco a Walt Disney: 
una mostra a Roma svela la storia autentica dietro la leggenda


Siegmund Ginzberg

"La Repubblica",  28 maggio 2013


Da ventitré secoli Archimede è molto più immaginato che studiato. È mito, leggenda, favola, molto spesso anche stereotipo, talvolta addirittura marchio pubblicitario, più che storia. Ci siamo abituati a riconoscere colui che fu il più grande matematico dell’antichità per gli aneddoti (quasi tutti di pura invenzione, compreso il celeberrimo sound-byte “eureka”) piuttosto che per i teoremi. Per la mia generazione è un personaggio dei fumetti: l’Archimede Pitagorico degli albi di Topolino, il genio picchiatello che sforna mirabolanti invenzioni a tutt’andare. Nell’originale di Walt Disney si chiamava Gyro Gearloose, lo “svitato”, e quindi non aveva nemmeno questo tenue legame onomastico col nostro personaggio. Ma ad appiccicare ad Archimede di Siracusa la figurina dello scienziato distratto, perennemente nelle nuvole, del tipo che esce dal bagno e va in strada nudo gridando come un forsennato “ho trovato”, o che assorto nei suoi calcoli non si accorge nemmeno della presenza del soldato romano che sta per ucciderlo, erano stati già i primissimi che hanno scritto di lui: Plutarco, Tito Livio, Polibio, Valerio Massimo e Vitruvio, quasi suoi contemporanei (molto quasi: la loro testimonianza è “solo” di qualche secolo dopo i fatti…).
Archimede è un simbolo, anzi qualcosa di ancor meno palpabile, un’emozione mi verrebbe da dire, prima che una figura storica. Lo era anche per “colleghi” scienziati e “geni” come Leonardo e Galileo quando fu riscoperto dopo un oblio millenario. Lo è rimasto sino ai giorni nostri. La leva con la quale si diceva capace di sollevare la Terra, se solo avesse a disposizione un punto di appoggio, è filosofica negli scritti di Cartesio, patriottica in quelli di Thomas Paine, muove le relazioni internazionali dei giovani Stati Uniti in quelli di Thomas Jefferson, niente meno che la storia del mondo intero in Balzac, è la rivoluzione in Trotsky, è la politica per Hannah Arendt, l’influenza dei media per Marshall McLuhan. Archimede fa capolino nel Don Giovanni, nei Tre moschetteri, in Dracula, in Frankenstein e, a proposito di fragilità della psiche umana, anche in Kafka, diventa quasi un’ossessione per Edgar Allan Poe. C’è chi è arrivato ad attribuirgli, a fianco di Sofocle, sulla scorta dei procedimenti per enigmi, quasi da detective in un “giallo”, con i quali espone le sue dimostrazioni matematiche, nientemeno che la paternità del genere poliziesco. Insomma, che lo si voglia o no, per noi Archimede è ormai un personaggio da romanzo. Infiamma l’immaginazione, prima e molto più di quanto rinfreschi le conoscenze scientifiche, esattamente come avveniva per i suoi primi biografi antichi romani. Tanto è vero che ricordo di aver recentemente gustato come un romanzo Il codice perduto di Archimede di Reviel Netz e William Noel (Rizzoli 2007), benché non sia affatto un libro di fiction e fantasia ma un testo serio sul recupero, da un codice antico da cui il testo di Archimede era stato raschiato dalla pergamena dai monaci amanuensi per sovrapporvi un libro di preghiere, di un passo perduto da cui si evince che il matematico siracusano aveva scoperto, oltre un millennio prima di Newton e Leibnitz, il calcolo infinitesimale e, molto prima di Cantor, addirittura la concezione novecentesca degli infiniti. È nel libro di questi autorevoli studiosi che ho letto che Archimede stesso con l’immaginazione ci giocava, procedeva spesso per burle, rompicapi ed enigmi, come si potrebbe dedurre già dal titolo di uno dei suoi trattati, lo Stomachion, dal nome di un gioco per bambini, detto appunto “mal di stomaco”, presumibilmente per la difficoltà a risolvere i puzzle su cui si fondava.
In controtendenza rispetto alle presentazioni fictional di Archimede a cui ci eravamo abituati (piacevolmente, almeno per quanto mi riguarda), si presenta invece la mostra che verrà inaugurata a fine maggio ai Musei capitolini su Archimede. Arte e scienza dell'invenzione.
È accompagnata da un notevole e dotto catalogo denso di saggi firmati dai più autorevoli studiosi dell’argomento. Anziché sulle leggende e gli aneddoti, l’attenzione si concentra sull’ambiente in cui erano maturate le vicende del genio di Archimede, la Sicilia e la Siracusa del III secolo avanti Cristo, la fortuna delle principali scoperte attribuite ad Archimede nel Medioevo arabo, nel Rinascimento e nel Settecento. La “fantasia” è limitata all’iconografia antica e a quella dei dipinti dell’Ottocento, ispirati al ritorno al “classico” e all’esaltazione e “sacralizzazione” della Scienza. La narrazione tradizionale “ad effetto” lascia il posto alle ricerche archeologiche e filologiche. Visitare la mostra per crederci: questo è per molti versi un “altro Archimede” rispetto a quello cui eravamo abituati.
Protagonista non è più solo la figura del “genio universale” fuori dal tempo, ma l’uomo che visse in un’epoca precisa, in una città che ha conservato parte delle mura su cui egli aveva approntato i suoi ingegnosi strumenti di difesa, e le vestigia del potere che lo stipendiava. Non c’è più solo la storiella di come cercando di scoprire, su incarico del suo datore di lavoro, se una corona d’oro conteneva davvero tutto l’oro puro che l’orefice aveva fatturato, inventò nella sua vasca da bagno la meccanica dei fluidi. Né solo quella di come avrebbe bruciato la flotta romana coi suoi specchi ustori. Queste sono favole, molto suggestive (anche il secolo delle guerre stellari continua a sognare l’arma definitiva, o la scoperta “per caso”), ma appunto solo favole.
La realtà è più prosaica. Ma non per questo meno interessante. Abbiamo un tiranno, Gerone II, che attirava a Siracusa i migliori cervelli della sua epoca, matematici compresi. Non solo per farsi costruire congegni di guerra, ma anche per altri fini pratici: ad esempio per poter meglio calcolare quanto poteva tassare i sudditi senza mandarli in rovina, o poter meglio diluire il valore delle sue monete (c’è nella mostra anche un’affascinante sezione numismatica). Così come il suo predecessore, il tiranno Dionigi, era riuscito ad ingaggiare nientemeno che Platone, uno dei padri della grande politica, perché gli insegnasse a governare senza democrazia (cosa che ancora oggi fanno in Cina). Non per niente Gerone era riuscito a mantenersi al potere per ben mezzo secolo, facendo anche lui prosperare Siracusa. Lo fece destreggiandosi abilmente tra Cartaginesi e Romani, senza mai rompere né con gli uni né con gli altri. Finché i suoi successori si schierarono con una delle due parti, quella sbagliata. E persero la città, mentre Archimede perdeva la vita.
Non c’è più solo la favola suggestiva del genio solitario, ma l’idea di come nel Mediterraneo di quei tempi funzionasse un vero e proprio “network tecnologico” in cui Archimede era in continua corrispondenza coi suoi “pari”. Non nascono nel vuoto le sue straordinarie intuizioni matematiche, né l’astronomia del suo contemporaneo Aristarco, che fondandosi sul calcolo dei granelli di sabbia contenuti nell’universo dell’Arenaria di Archimede, assai più ampio di quello immaginabile con al centro la Terra, aveva anticipato di oltre un millennio l’idea di Copernico e Galileo che fosse la Terra a ruotare intorno al Sole e non viceversa. Insomma: gratta via il fantastico e finisci con la scoprire che sotto c’è qualcosa di ancora più fantastico.

ARCHIMEDES IN THE 21ST CENTURY
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Post-classici


23 maggio - 29 settembre 

Roma 

Post-classici

LA RIPRESA
DELL’ANTICO
NELL’ARTE
CONTEMPORANEA
ITALIANA

Il tema della mostra, curata da Vincenzo Trione e promossa dalla Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma in collaborazione con Electa, è il richiamo all’antico: inteso come fonte di valori “assoluti” - bellezza, armonia, perfezione, misura, sapienza – che vengono reinterpretati in chiave moderna.
Per la prima volta, l’arte del nostro tempo entra nel Foro romano: diciassette artisti si confrontano con luoghi e monumenti diversi, presentando opere quasi tutte realizzate per questa occasione.
La mostra documenta l’attività di artisti italiani impegnati a sottrarsi a ogni internazionalismo stilistico, che avvertono il bisogno di richiamarsi all’identità italiana per riaffermarne con forza lo stile, nel segno di uno stringente e spesso conflittuale rapporto con la memoria, ma anche nell’orizzonte di una nuova riflessione tra contemporaneità e patrimonio storico.
Il sito della mostra. CLICCA QUI.

martedì 28 maggio 2013

L'ARTE DELLA MENZOGNA

Dicker, il noir dove il falso diventa verità. 
Nel bestseller rivelazione 
“La verità sul caso Harry Quebert”
 del giovane scrittore svizzero 
tutti, compreso l’autore, dicono bugie. 
Perché i fatti sono meno seducenti. E spesso ci deludono

GIANCARLO DE CATALDO


"La Repubblica", 27 maggio 2013

«Un'ora fa vi avevo fatto una promessa, cari amici: avevo promesso che vi avrei raccontato una storia vera». Avvolto dal mantello a ruota dell'illusionista, nel finale di F come falso, il suo controverso film cult sui grandi falsari d'arte, Orson Welles guarda nella camera, si accende il sigaro e aggiunge: «L'ora è passata, e io vi posso giurare che negli ultimi diciassette minuti non avete sentito altro che un cumulo di menzogne». Se ha un maestro, il giovane scrittore ginevrino Joël Dicker, che con questo suo La verità sul caso Harry Quebert (Bompiani, pagg. 784) ha fatto gridare al miracolo la critica francese e ha già venduto centinaia di migliaia di copie in Francia, Svizzera e Belgio, è proprio il Welles che esplora il regno del Falso, investigando il confine spesso impalpabile che lo separa dal Vero. La verità sul caso Harry Quebert ha tutta l'apparenza di un odierno F come falso letterario. Se Welles parlava di quadri e bugie, Dicker scrive di librie bugie. Tutti mentono, in questa storia. Mentono alla comunità e mentono a se stessi. Tutti. A partire dall'autore. E solo nella menzogna, par di capire, stanno le verità più profonde.
Tutto comincia quando il giovane romanziere Marcus P. Goldman, preda della sindrome da foglio bianco che immancabilmente assale lo scrittore travolto da improvviso successo, abbandona la scintillante scena letteraria di New York e si rifugia nel ridente villaggio di Aurora, nel cuore del quieto, elegante, solido e accogliente New Hampshire. Inseguito dal ringhiante editore Roy Barnaski che strepita e minaccia perché il secondo, atteso capolavoro del giovane autore veda finalmente la luce, Marcus va a cercare ispirazione dal suo antico mentore, Harry L. Quebert. Colui che trent'anni prima aveva commosso l'America con "Le origini del male", straziante storia dell'amore impossibile fra un uomo e una donna divisi da ragioni di classe. Harry ha insegnato tutto a Marcus: a scrivere, a tirare di boxe, e, soprattutto, a vivere. Trasformando un ambizioso adolescente furbetto in un Vero Essere Umano. Il suo debito di riconoscenza è così grande che Marcus non si scompone più di tanto quando, frugando nelle carte dell'amico, scopre che, trent'anni prima, Harry era stato perdutamente innamorato della quindicenne Nora Kellergan, poi scomparsa in misteriose e drammatiche circostanze, forse vittima di un maniaco. Se la love-story di Harry con la piccola Nora venisse alla luce, l'America puritana reagirebbe con sdegno. Marcus, però, non giudica, e dopo aver giurato di mantenere il segreto, se ne torna a New York, sempre più sprofondato in una crisi creativa senza rimedio.
Ma il destino è in agguato, pronto a colpire. Harry ordina lavori nel giardino della sua villa che sembra uscita da un dipinto di Hopper. I giardinieri scavano e portano alla luce ciò che resta di Nora Kellergan. Accanto alle povere ossa, il manoscritto del romanzo di Harry con una dedica d'amore. Esplode lo scandalo. Harry Quebert, esposto all'odio come pedofilo e assassino, finisce in galera. Marcus pianta New York e torna ad Aurora per salvarlo. Indagando su quella tenebrosa vicenda di tanti anni prima, riuscirà a sciogliere l'enigma della morte di Nora e, by the way, a produrre, finalmente, l'attesa "opera seconda": La verità sul caso Harry Quebert, appunto. Da questo spunto iniziale, si dipartono, come in un gioco di specchi (come non pensare ancora al Welles della Signora di Shanghai?), vari filoni narrativi, tutti di rigorosa ascendenza letteraria. L'investigazione di Marcus sta fra il noir classico e il true crime, compresa una descrizione della cittadina di Aurora che rimanda al memorabile incipit di A sangue freddo di Truman Capote.
La storia d'amore fra Harry e Nola è puro Lolita. I segreti di Aurora ricordano I peccati di Peyton Place, la famiglia fondamentalista di Nora echeggia venature di un perbenismo assassino che dalla Casa Usher di Poe approderà a Stephen King, passando per legioni di b-movies. Nei fantasmi di Nora e nel suo rapporto con la madre si rinvengono tracce del Norman Bates di Psycho, e via dicendo.
Il gioco coinvolge, con diabolica simmetria, anche i personaggi minori, maschere di una sapiente commedia dell'arte letteraria: dal sergente in apparenza burbero e in realtà duttile e intelligente, alla "jewish mama" di Marcus, che spara battute a raffica come in un Woody Allen d'annata. Trainate dal trionfo degli archetipi, le pagine scorrono inquiete e veloci. Tanto febbrili che, se non sapessimo che Dicker esiste veramente, penseremmo alla beffa di una sofisticata intelligenza meccanica, un raffinato "software" di ultimissima generazione che si diverte a edificare una monumentale epopea post-moderna avulsa da qualsivoglia seduzione del realismo. Ma Dicker c'è, e del senso dell'opera è lucidamente e onestamente consapevole: voleva scrivere proprio questo, un romanzo "voltapagina", sedotto dalla meticolosità narrativa di serie televisive come Homeland. Sulla costa orientale degli Stati Uniti ci ha davvero vissuto. Anche se resta pur sempre l'europeo alla corte dell'impero a stelle&strisce, il suo sguardo sull'America profonda è meno sbigottito e più incisivo di quello di tanti visitors che l'hanno preceduto. Una certa esperienza del reale gli consente inoltre di introdurre nel prisma compositivo alcune intelligenti distorsioni nelle quali si cela la zampata d'autore. Ci sono, ad esempio, domande che Marcus non fa al momento opportuno e atti concreti d'indagine che i poliziotti incomprensibilmente ignorano. E non si tratta solo di espedienti per mandare avanti la macchina narrativa. È un'orgogliosa professione di indifferenza nei confronti delle regole, il tradimento manifesto di quel manuale di "consigli a un giovane scrittore" che il maturo Harry elargisce all'apprendista Marcus. L'ennesima sottolineatura del Segno del Falso che è l'unica vera strada per il Vero. D'altronde, la verità svelata nel finale è decisamente meno seducente delle parziali e frammentarie verità - tutte false - che si erano affacciate strada facendo: print the legend, ché è meglio.
I fatti, quasi sempre, ci deludono. Da anni si dice che scrivere noir è un modo intelligente per aggredire il contemporaneo, raccontandone il lato oscuro. Dicker usa il noir - e non solo quello - per ristabilire la centralità del letterario. È presto per affermare che siamo di fronte a un'inversione di tendenza, ma comunque chapeau: con questo giovane svizzero dovremo tutti fare i conti, prima o poi.
Post scriptum. In quanto "caso letterario", Dicker è stato paragonato a Stieg Larsson. Niente di più sbagliato. Larsson era un comunista combattente che denunciava le ingiustizie di una società corrotta e, neanche troppo occultamente, si proponeva di cambiarla. Dicker è, per dirla ancora con Welles, «l'arte come menzogna che ci fa capire la verità». E bisogna dire che ci riesce maledettamente bene.

domenica 26 maggio 2013

La professoressa vuol essere giraffa


Nell'ex Germania Est la fede nella ragione genera folli desideri darwiniani

Cinzia Fiori

"Corriere - La Lettura",  26 maggio 2013

Rischiare la caricatura perché un personaggio estremo possa dire la sua verità e centrare in primo luogo l'obiettivo di una voce riconoscibile, che resta con il lettore anche quando ha terminato il libro. La voce sarcastica e scorretta appartiene a Inge Lohmark, professoressa di biologia in un liceo dell'ex Germania Est. Da sempre convinta che la selezione naturale sia l'unica legge del mondo, non incoraggia gli studenti meno portati né si preoccupa dei più emotivamente deboli. Ciò che insegna è per lei scuola di vita, e se quella fuori dalle finestre è dura, Lohmark prepara i suoi allievi con verifiche a sorpresa, come sorprendenti sono gli eventi che si abbattono in successione sull'esistenza. Incurante di «parassiti» e «perdenti» in aula, nonché dei mutamenti socioculturali fuori, da trent'anni procede con le lezioni. Intorno, la cittadina si spopola, malerbe e arbusti fagocitano quel che rimane dell'edilizia socialista e il liceo Darwin, dove insegna, è in via d'estinzione causa denatalità. Lo splendore casuale delle meduse di Judith Schalansky, tedesca alla seconda prova, avanza al seguito del monologo interiore della protagonista, intervallato dalle voci di studenti e colleghi, puntualmente commentate con ironia. Lohmark è caustica, giudica tutto e tutti, è una fustigatrice di costumi, ma il suo sguardo sugli adolescenti e su ciò che accade o la circonda è divertente perché, per quanto spietato, contiene elementi di verità. Ogni evento, nel suo mondo psichico, ha un paragone e una risposta nella natura, e questa maniera di rappresentarsi la vita è il tratto peculiare del romanzo. L'uomo è un animale imperfetto e problematico, un episodio a base di proteine che come molti altri finirà. Sarebbe bello secondo Lohmark avere i cloroplasti e sintetizzare da sé le energie per vivere; meglio ancora essere una giraffa, con la testa, e tutti i problemi che dà, a due metri dal cuore. Lei stessa, a ben guardare, pensa molto. Non è stupida Lohmark, ha fede nella ragione, e se da simili convinzioni discendono i guai della sua vita, conduce comunque il lettore a una riflessione su se stesso come membro della specie umana. Così come il suo disprezzo per la docente d'arte (troppo accondiscendente) impone, per estremi, una meditazione più che mai attuale sulla trasmissione del sapere e sul ruolo dell' insegnante. Schalansky usa una prosa ossessionata dai punti, che sostituiscono le virgole nell'elencazione. L'effetto telegramma è in agguato, ma ottiene frasi icastiche a comporre uno stile che ben s'adatta alla protagonista e alla sua fabbricazione di certezze. Anche quando qualcosa dentro di lei s'incrinerà, e le emozioni che suo malgrado accompagnano i pensieri cominceranno a prenderla di sorpresa.

Schalansky, gli studenti vampiri nel socialismo imperfetto

LUIGI FORTE

"TUTTOLIBRI", 23 maggio 2013 

Non manca di suggestioni il romanzo di Judith Schalansky, Lo splendore casuale delle meduse, tradotto ottimamente da Flavia Panzanella per Nottetempo. Sembra di aggirarsi per un museo di storia naturale, fra specie estinte, il dodo e l’alca impenne, o di vivere in una favola sulle origini del mondo ricoperto da foreste vergini piene di felci, licopodi altissimi e libellule giganti. A coinvolgere il lettore nell’avventura della filogenesi ci pensa la protagonista Inge Lohmark, insegnante di biologia nel liceo di una cittadina della Pomerania. Lei osserva e interpreta la realtà con gli occhi della scienza e i suoi dodici studenti fanno fatica a seguirla. Non cerca consenso né simpatia; anzi, è severa, scontrosa, indifferente. Agli alunni dà del lei e li considera sanguisughe che si nutrono del corpo dell’insegnante e del suo sapere, una razza affetta da puro vampirismo. Come seguace della teoria evoluzionistica di Darwin crede fermamente al meccanismo della selezione naturale e ritiene inutile incoraggiare i più lenti e i più deboli. 
Dietro le sue ferree convinzioni e la freddezza verso allievi e colleghi si cela una solitudine profonda incapace di infrangere i propri silenzi. Ma il libro va oltre e scava in un ampio disagio sociale nel mondo dei giovani e in quella lontana, spopolata provincia dell’ex Rdt, da dove proviene la stessa Schalansky nata a Greifswald sul Mar Baltico nel 1980. 
La storia di Inge Lohmark è il capovolgimento, la parodia di ogni romanzo di formazione: non c’è futuro in quella scuola destinata a chiudere per mancanza di allievi, non c’è ripresa e sviluppo in quel paese un po’ irreale dove la vegetazione selvatica s’insedia in vecchi edifici abbandonati, in crepe e interstizi minacciando di ricoprire ogni cosa. E’ una metafora che vale anche per Inge il cui cuore si è inaridito dentro la corazza della scienza. Anche la famiglia le è ormai estranea. Wolfgang, il marito, pensa solo al suo allevamento di struzzi; con la figlia Claudia, da anni in America, non ha di fatto più rapporti. 
«Tutto è imperfetto – confessa la docente – ma non senza speranza». Infatti qualcosa in lei riprende a vivere, si muove in profondità e la induce a cercare l’attenzione, la vicinanza della sua allieva Erika. Su di lei trasferisce forse la nostalgia, il rapporto mancato con la propria figlia. Eppure non ha il coraggio di guardare in se stessa, di oltrepassa- re la soglia del desiderio, di accettare quella tensione che riconosce in natura. Stanca di adattarsi alle circostanze, di allungare il collo come le giraffe nel corso dei millenni per raggiungere i frutti sui rami più alti. 
Con una scrittura dinamica, incalzante, arricchita da splendidi disegni di animali e vegetali, Judith Schalansky, affrancata da schemi ideologici, riflette sulle contraddizioni di un mondo alla ricerca di senso e prospettive, sulla problematica riunificazione del proprio paese, sui limiti di un sapere chiuso in se stesso. Oltre il quale Inge Lohmark sembra spingersi per un attimo, alla fine, osservando la natura con la felicità delle immagini negli occhi e forse la libertà nel cuore.

Nel labirinto della vita di Kierkegaard


Franco Marcoaldi

"La Repubblica",  26 maggio 2013

Nessuno come Søren Aabye Kierkegaard è riuscito a mascherare il segreto della propria esistenza tra le pieghe di una scrittura capace di sviare di continuo il lettore grazie all’uso di pseudonimi con i quali l’autore si trova poi a polemizzare, prendendone ironicamente le distanze. Quello che Kierkegaard mette in scena è un teatro dell’anima dove regnano finzione, paradosso, inganno, e lo stesso discorso filosofico finisce per celarsi nella divagazione fantastica: teatrale o romanzesca che sia.
Per contro, è difficile pensare a un’opera teorica così immediatamente inscritta nella carne («la conoscenza deve diventare parte viva di me»). Di più: proprio lui, che fa di tutto per soffocare sul nascere le curiosità voyeuristiche sul suo conto, sarà il primo a dire: «un giorno non solo i miei scritti, ma appunto la mia vita, l’intrigante segreto di tutto il macchinario, saranno studiati e ristudiati».
Di fronte a tale vertiginoso enigma, ha deciso di affondare a piene mani Joakim Garff, che è uscito da questo tremendo corpo a corpo con quasi settecento pagine di una biografia (tradotta da Castelvecchi) minuziosa e affascinante, capace di combinare empatia e distacco critico; riuscendo così, con appassionata intelligenza, a restituirci una personalità e una scrittura tra le più alte e labirintiche del pensiero moderno occidentale.
Ogni passaggio vitale di Kierkegaard viene riesaminato e inserito nel contesto storico-sociale circostante. A partire dalla figura ingombrante del padre, Michael, ricchissimo commerciante: uomo di rara severità e parsimonia, la cui tetra rigidità marchierà a fuoco il piccolo Søren, paralizzandolo ed esaltandolo al medesimo tempo. Di qui la furia con cui il giovane teologo attacca frontalmente «l’ordine costituito» del cristianesimo; di qui, anche, l’idea di peccato, che certo graverà sul rapporto con Regine, l’amore mancato di una vita. Dovendo scegliere tra la figura del “marito” e quella dello “scrittore”, il filosofo danese non ha dubbio alcuno. E Garff rincara la dose, aggiungendo: «Kierkegaard era già in partenza sposato con Dio». Delle tre età delle vita (estetica, etica, religiosa), la terza supera di slancio le precedenti solo grazie ad una fede che vive «in forza dell’assurdo» e della sofferenza, al di là di ogni razionalità.
Magro, le spalle curve, il bastone di canna sempre in pugno, il filosofo-poeta passeggia per le strade di Copenaghen e mena fendenti a destra e a manca (celebre la sua stroncatura di Andersen); per converso, patisce con una ipersensibilità che rasenta la paranoia attacchi devastanti, critiche feroci. Capace di passare con estrema disinvoltura «dall’incantevole al demoniaco, dal sentimentale al cinismo rabbioso», Søren sottopone la sua esistenza a una perenne trasfigurazione letteraria. Percepisce se stesso come un semplice “suggeritore”, un ventriloquo che dà vita a quella «sola moltitudine», direbbe Pessoa, di cui è impastato l’animo umano.
La perspicacia psicologica (si pensi alle riflessioni sull’angoscia) lo rende un precursore del discorso freudiano; l’attacco alla mollezza cristiana prelude alle bordate di Nietzsche; i sommovimenti storici gli offrono il destro per sbalorditive profezie sugli effetti della società livellatrice di massa, con il trionfo dei «noleggiatori di opinioni» e della chiacchiera universale.
Senza contare — da ultimo — lo scardinamento del sistema hegeliano operato in parallelo a Schopenhauer. Ma c’è qualcosa d’altro che lo avvicina al filosofo di Danzica, pure tanto diverso da lui: l’assoluta centralità dello stile. Nessuna idea filosofica può ambire al successo se il filosofo che la elabora non è al contempo uno scrittore, uno strenuo cultore dello stile. Che in Kierkegaard si presenta, per tornare a Garff, nella forma di una personalissima «gaia scienza, una sorta di anti intellettualismo intellettuale, sotto la cui pressa parodica i concetti si incrinano e si spaccano».

SAK di Joakim Garff, Castelvecchi, Traduzione di Simonella Davini e Andrea Scaramuccia, pagg. 1855

Il San Giorgio profano di Pisanello


Sorpreso prima della battaglia

Melania Mazzucco

"La Repubblica",  26 maggio 2013

Tredici metri e venti centimetri dal pavimento. L’affresco sull’arco esterno della cappella Pellegrini svetta a un’altezza siderale, che rende i particolari invisibili all’occhio e trasforma la scena in un arazzo multicolore. Eppure, l’affresco brulica di dettagli. Quando guardo un’opera destinata ai soffitti e alle cupole di una chiesa o di un palazzo, irraggiungibili una volta smontati i ponteggi, non posso impedirmi di chiedermi per chi, davvero, dipinga un artista. Per chi esibisca la propria bravura, invenzione, intelligenza. Per i committenti che, pagando, vogliono il meglio? Per gli assistenti? I fedeli, il pubblico? Per Dio?
Antonio di Puccio, detto Pisanello, dipinge per il piacere della bellezza e per la gloria — dunque anche per se stesso. Benché fosse coetaneo di Beato Angelico (e quest’affresco coevo di quelli del convento di San Marco), non poteva essere più diverso dal frate di Fiesole. Quanto quello era mistico e spirituale, tanto Pisanello era laico, profano e immerso nel tumulto del mondo. Il diminutivo imposto al suo nome non inganni: era il pittore più lodato del suo tempo, venerato dagli umanisti e dagli intellettuali. Trascinato dal successo su e giù per l’Italia — da Pavia a Venezia, da Roma a Ferrara, da Mantova a Milano, fino a Napoli e oltre — chiamato a tutte le corti, conteso da condottieri, papi e marchesi, finì per identificarsi con gli aristocratici suoi protettori, e per impelagarsi nelle lotte che dilaniavano Verona, la città in cui era cresciuto e in cui aveva casa, madre e figlia. I Veneziani gli confiscarono i beni, costringendolo a un dorato esilio. Pisanello rimase fedele soltanto alla sua pittura raffinata e gradevole alla vista quanto complessa nella concezione e nell’esecuzione.
San Giorgio è il casto cavaliere errante che libera la principessa e trafigge il drago. La sua storia, una delle più romanzesche del Martirologio cristiano, echeggia fiabe e miti dell’antichità e del Medioevo — da Perseo e Andromeda fino a Parsifal e Bors. Nel XIII secolo Jacopo da Varazze, nella Legenda Aurea, ne fissò per sempre scenario e protagonisti. Un drago dal fiato pestilenziale ammorba il lago della città di Silena, in Libia. Per placarlo, ogni giorno gli abitanti gli danno in pasto due montoni. Quando il bestiame scarseggia, estraggono a sorte le vittime umane. La prescelta è la figlia del re, che viene condotta al lago per essere divorata. Ma sopraggiunge Giorgio. Sfida il drago, lo sconfigge, gli mette il guinzaglio, lo conduce in città, converte gli abitanti e prosegue verso la Palestina, dove subirà il martirio. Tutti i pittori hanno sempre raffigurato la scena chiave: il combattimento col drago. Del resto è la più drammatica, e anche la più significativa, che si presta a letture allegoriche e perfino politiche: il Bene sconfigge il Male, il cristianesimo il paganesimo (o l’islam). Pisanello no. Fa una scelta che noi — abituati a ogni demistificazione narrativa — sottovalutiamo. Ma allora doveva parere di un’audacia sconfinata. Infatti, dubitando che il soggetto restasse oscuro, appose in basso una didascalia esplicativa: SANCTUS GIORGIUS. Pisanello dipinge un momento trascurabile della vicenda. San Giorgio — che coraggiosamente ha appena rifiutato il consiglio della Principessa di mettersi in salvo — infila il piede sinistro nella staffa e si accinge a salire a cavallo.
Un gesto prosaico. Che però crea sospensione, attesa, poesia. Chi guarda deve riconoscere, nella novità della rappresentazione, la storia ben nota. Pisanello fornisce tutti gli elementi, ma si concede la massima libertà: fantasticheria, idealizzazione e crudo naturalismo trovano un miracoloso equilibrio.
L’affresco è diviso in due parti dall’arco ogivale che fungeva da ingresso alla cappella Pellegrini, nobile e ricchissima famiglia di Verona che lì aveva la sua tomba. Ha sofferto per le infiltrazioni d’acqua ed è stato staccato e spostato, prima di ritrovare la definitiva collocazione. Gli inserti d’argento sulle armature, l’oro e parti di colore sono cadute. A sinistra, appena leggibile, c’è il deserto e il drago: ossa, crani e carcasse animali, avanzi delle sue vittime, giacciono sulla sabbia. Al centro, il lago. A destra, la civiltà e gli eroi. Dalla pinnacolare città gotica — in cui si riconoscono forse edifici reali — è uscito il triste corteo, scortato da un drappello di guerrieri esotici. Fra loro un turco e un arciere mongolo (le cui asiatiche fattezze Pisanello aveva già disegnato dal vero). Un cavallo ha le froge tagliate: crudele usanza orientale per permettergli di respirare meglio nella corsa, che Pisanello aveva studiato nel seguito di qualche sovrano straniero, durante i soggiorni a corte. Sopra il re, cavalcioni di un mulo bardato e riconoscibile per il mantello d’ermellino, incombe un patibolo: i cadaveri di due impiccati
offrono una sorta di danza macabra, lugubre monito alla vanità del potere. Un corvo gracchia, mentre l’arcobaleno preannuncia la redenzione. Sulla destra, lo scudiero di Giorgio gli porge la lancia; la principessa, altera e impassibile, ci offre la fronte alta, l’acconciatura a balzo, il sublime profilo, e un lussuoso abito di broccato con lungo strascico. Due imponenti cavalli — uno visto di fronte, uno da tergo — creano illusione di profondità. Anche i cani sono pronti: lo spaniel fiuta le tracce, e il levriero, con la museruola e un prezioso collare di pietre preziose, freme guardando il lago.
E Giorgio è lì, trasognato, malinconico, i biondi capelli come un’aureola, il piede nella staffa, e le labbra socchiuse, come prendesse il respiro prima di affrontare la battaglia. Socchiuse, sì. Perché forse dal basso non si vedevano: ma Pisanello dipinse perfino i suoi denti. Essi rappresentano per me una lezione: di etica, e di stile. Forse nessuno intuirà quanti disegni, quanto studio, quanti ripensamenti precedono un capolavoro come questo. Ma tu dipingerai i denti di Giorgio, le narici dei cavalli, il collare di un cane e la calza di un impiccato, con ogni cura. La stessa con cui hai disegnato per anni aironi, linci, conigli, cervi, avvoltoi, perfino tessuti. Osservare ogni cosa del mondo, perfezionarsi, osare. Tutto conta, nient’altro conta. Questo significa essere un artista.

Pisanello: San Giorgio e la Principessa. Verona, Chiesa di Sant’Anastasia, 1437-38.

Ospite e nemico, lo straniero ambiguo

L’immigrazione rende inadeguata la logica dell’aut-aut: la sfida piuttosto è nell’et-et

Umberto Curi

"Corriere - La Lettura", 26 maggio 2013

«Bisogna partire dal mescolarsi, dal conoscere l'altro perché credo si debba arrivare a una nuova coesione sociale, a una convivenza che rafforzi la cittadinanza intera». Così Cécile Kyenge, ministro dell'Integrazione sociale, ha commentato gli episodi di razzismo che hanno coinvolto Mario Balotelli. L'approccio suggerito dal ministro ha il merito di tagliar corto con le polemiche di basso profilo, riportando la discussione sul piano di un'analisi non appiattita sulla contingenza. E offrendo, sia pure indirettamente, la possibilità di una riflessione più approfondita sulla figura dello straniero. A cominciare dai termini impiegati per descriverla.
L'uso dell'espressione «straniero» implica una caratterizzazione esclusivamente negativa, poiché allude a ciò che gli individui così designati non sono (originari del nostro Paese) o a ciò che non hanno (la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra religione). Il termine si limita a registrare la loro «esternità» priva di ogni altro connotato, salvo la stranezza, che conferisce una particolare tonalità alla parola sia in italiano sia in francese (étranger) e in inglese (stranger). All'esteriorità s'aggiunge così la difformità da ciò che è consueto, e che perciò suscita perplessità e sconcerto. In molti casi, dunque, è «estraneo» o «straniero» quello che è anche percepito come «strano».
Il primo effetto è l'oscuramento di ogni differenza tra le molteplici identità linguistiche, culturali e religiose di cui è costituita l'umanità che viene «da fuori». Ciò che dell'«altro» il termine «straniero» ritiene pertinente è semplicemente la sua non-appartenenza, rispetto alla quale ogni ulteriore nota distintiva appare irrilevante o del tutto secondaria. L'anonimato in cui l'appellativo di stranieri rigetta la varietà dei gruppi umani si riflette sulla natura della relazione che diventa possibile entro tale orizzonte di senso, rendendola massimamente indifferenziata e impersonale. L'atteggiamento dominante tende a rimuovere il dato fra tutti più importante, vale a dire che lo straniero è ambivalente, è l'ambivalenza. È inevitabile vivere la sua presenza, il suo arrivo, come una minaccia. Ma è altrettanto inevitabile avvertire, nel cuore stesso del páthos che è inseparabile dal contatto con lui, che quella pur ineliminabile minaccia è per me feconda, mi conferisce qualcosa che, pur inconsapevolmente, attendevo da tempo, e di cui non potrei fare a meno. Posso respingerlo, certamente. Ma contestualmente, se mi accingo a questo, percepisco anche un mio profondo e irrimediabile depauperamento. Alla sua duplicità dovrei saper rispondere con altrettanta duplicità. Dovrei riuscire a temerlo e a desiderarne l'arrivo, a spalancargli le porte della casa, e insieme a tenerlo fuori da essa, a respingerlo con fermezza, e contemporaneamente ad accoglierlo come se fosse una benedizione.
Ad inquietarmi nel profondo è la consapevolezza dell'insuperabilità dell'ambivalenza, il fatto che essa non dipenda da un «equivoco» provvisorio e comunque «rimediabile». Sempre, in quanto straniero, egli mi apparirà irriducibilmente doppio. Sempre minaccia e dono, non l'una cosa o l'altra. Anzi: l'una cosa proprio in quanto è l'altra.
Di qui la difficoltà estrema in cui questa «visita» mi pone. L'alternativa paralizzante di fronte alla quale mi situa. Rinunciare al dono per allontanare la minaccia, o affrontare il pericolo per acquisire il dono? Un punto resta comunque assodato: di fronte allo straniero, cede ogni possibile linguaggio dell'unicità. Più ancora: di fronte a lui, la rassicurante e familiare logica dell'aut aut deve essere soppiantata da una modalità di ragionamento basata sul ben più impegnativo et et.
Ciò perché l'hostis — originariamente, insieme ospite e nemico — non è mai espressione di una dissomiglianza talmente radicale da poter essere considerata del tutto indipendente dalla nostra identità. Al contrario, egli è piuttosto l'altro termine di un binomio dal quale non posso prescindere. Nessuna compiuta identità può essere de-finita, nel senso preciso di ciò che possiede chiari confini, senza un nesso vitale con ciò che, essendo altro e diverso, concorre in maniera decisiva a stabilirla. Come ha rilevato Jacques Derrida, dell'hostis non possiamo fare a meno: non possiamo «scegliere» se accoglierlo o respingerlo, non più di quanto possiamo scegliere di essere quello che siamo. Egli è legato alla nostra identità non solo in quanto la determina positivamente, ma anche in quanto la minaccia dall'interno.
La figura stessa dello straniero esige la riformulazione dell'apparato concettuale che è alla base della nostra quotidianità. Egli è dunque «extra-ordinario» (extraordinaire étranger, lo chiama Baudelaire), perché con la sua sola presenza mette in discussione gli ingredienti fondamentali della mia vita «ordinaria». E tuttavia la piena consapevolezza del carattere maxime periculosum dell'incontro con lui non può cancellare l'inderogabilità del rapporto, in una certa misura lo rende anzi ancora più necessario. Nella minaccia in lui incarnata è immanente una promessa alla quale non posso sottrarmi.

Colombo e le rotte atlantiche dei batteri


La prima vera età della globalizzazione partì nel XVI secolo. 
E i sovrani smaliziati hanno saputo arricchirsi

MARINA MONTESANO 

"Il Manifesto", 25 maggio 2013

La world history, anche detta global history, non ha avuto sinora molto successo in Italia: in effetti, si tratta di un ambito di ricerca praticato soprattutto nel mondo anglosassone ed estraneo alla nostra tradizione, sebbene lavori di storici del passato come Carlo Maria Cipolla o Fernand Braudel potrebbero a ragione esser considerati antesignani di questo genere. Da dove provenga l'interesse per la storia globale è evidente: viviamo oggi in un mondo interamente globalizzato, in cui oggetti e persone si spostano da un paese all'altro e spesso da un continente all'altro. Poiché quando Benedetto Croce esprimeva la sua celebre massima «la storia è sempre contemporanea» intendeva dire che le domande che noi poniamo al passato derivano dai nostri interessi nel presente, ecco allora come anche nelle epoche che ci hanno preceduto si vadano a cercare gli elementi di interdipendenza tra fenomeni e popoli, i rapporti tra paesi e culture piuttosto che non gli sviluppi lineari. 
La sfida non è da poco, perché è difficile essere specialisti della globalità: anzi, una espressione del genere pare quasi una contraddizione in termini. Soprattutto lì dove la ricerca e l'insegnamento (almeno quello universitario) sono costruiti secondo periodizzazioni e percorsi tradizionali (il mondo classico, il medioevo, la modernità ecc.), una world history appare difficile da praticare. Ecco perché a occuparsene molto spesso capita di trovare brillanti divulgatori: è il caso di Charles C. Mann, che in 1493. Pomodori, tabacco e batteri. Come Colombo ha creato il mondo in cui viviamo (Mondadori, 678 pp.) traccia un quadro globale del modo in cui gli scambi di uomini, donne, merci e malattie fra i continenti, possibile dopo l'apertura delle rotte atlantiche - e poi di quelle pacifiche - hanno creato un mondo nuovo: la prima età della globalizzazione sarebbe arrivata insomma a partire dal XVI secolo. Di per sé, quella di Mann non è un'idea nuova perché altri storici prima di lui (inclusi i due che abbiamo citato) l'avevano proposta ed esplorata. Il pregio del libro è tornare a proporla alla luce delle nuove ipotesi, teorie, scoperte che le scienze umane e quelle biologiche hanno conseguito negli ultimi decenni. In più, 1493 e la produzione world history in generale, arrivano anche all'indomani di un'ubriacatura per la storia locale e la microstoria ormai un po' passate di moda, ma comunque molto presenti in una parte dell'insegnamento, almeno in Europa; nonché in Italia soprattutto a livello scolastico, ossia proprio lì dove, vista la composizione etnica della popolazione scolastica attuale, un'ottica globale risulterebbe maggiormente spendibile. 
L'epoca delle esplorazioni e la scoperta dell'America misero l'Europa in contatto con mondi sino ad allora conosciuti solo sporadicamente se non del tutto ignoti, che nel corso dell'età moderna sarebbero stati aggrediti, spesso assoggettati, talvolta sterminati dagli europei. Saranno dunque le potenze d'Europa a creare per la prima volta una rete interconnettiva che si stende sull'intero pianeta, questo processo di globalizzazione avant la lettre . Con questo straordinario allargamento delle dimensioni del mondo conosciuto dagli europei è tradizione - non certo univocamente accettata, tuttavia ancor solida - aprire alla storia il periodo detto «età moderna». Ma perché sono stati gli occidentali i promotori di tale processo? 
La chiave interpretativa è eminentemente culturale e va ricercata nel contesto del rinnovamento umanistico che non riguardava solo le arti, come spesso si tende a pensare. Il pensiero umanistico è ricco invece di realizzazioni pratiche: raramente lo studioso era un puro intellettuale da tavolino, più sovente era anche artigiano, e nel suo lavoro arte e tecnologia s'incontravano. Inoltre la sua opera si svolgeva sempre alla corte di un signore, di un principe, di un sovrano. Questo legame fra cultura umanistica e esercizio del potere spiega come, nel corso del Quattrocento, si fosse affermata una serie di invenzioni e di scoperte che hanno letteralmente cambiato la faccia di quello che fino ad allora era stato il mondo conosciuto. Si dice di solito che il Quattrocento è stato il secolo della polvere da sparo, della stampa e delle scoperte geografiche, e certo si ha ragione affermando questo, a patto d'intendersi bene: nessuna di queste cose è figlia esclusiva del XV secolo. 
La polvere da sparo era conosciuta da molti secoli in Cina, dove però non serviva a scopi militari; in Europa era usata fino dal Trecento per rudimentali bombarde che lanciavano palle di pietra; furono però i principi del Quattrocento e i loro ingegneri a perfezionare l'arma da fuoco fino a farne uno strumento d'assedio tanto efficace da obbligare l'architettura militare a inventare tutta una serie di nuovi accorgimenti protettivi. 
Allo stesso modo, la cosmografia - rinnovata dagli apporti antichi riscoperti dagli umanisti - s'impose nel secolo XV non come scienza speculativa, bensì come strumento per l'ampliamento della terra e per l'arricchimento dei sovrani che ebbero l'audacia e la fortuna di promuovere i viaggi oceanici e le scoperte. L'interesse geografico e cosmografico, nel XV secolo, era del resto parte del rinnovamento culturale di quel tempo. Rispetto a tale quadro, Mann sottolinea alcuni aspetti per così dire di «involontarietà» del processo di conquista del mondo e delle sue conseguenze: lo studio della diffusione dei batteri e delle malattie è una delle sezioni piu' interessanti del suo lavoro e fra quelle che maggiormente possono servirsi di nuovi risultati nella ricerca. 
Allo stesso tempo tale casualità non compromette il paradigma originario, quello affermato da Cipolla nel suo Vele e cannoni : è con la precisa volontà di servirsi della tecnologia a fini bellici e nell'avvertire tale supremazia tecnologica, da sola, come giustificazione a conquistare il mondo che la supremazia europea ha avuto inizio. Senza tale bellicosità, per esempio, la Cina che all'epoca era un impero molto più ricco (e lo stesso Mann a ricordarlo) rispetto all'Europa non sarebbe mai stata costretta a entrare nel gioco della globalizzazione. È bene ricordarlo, soprattutto in un'epoca come la nostra in cui si è molto propensi a lamentare lo strapotere delle potenze emergenti extraeuropee, ma si tende a dimenticare volentieri dove, come e perché questo gioco è cominciato, e chi per primo ne ha scritto le regole.