venerdì 20 luglio 2012

LORÀNT DEUTSCH: Parigi nel metrò

A. Ginori, "la Repubblica", 15 aprile 2012

Il viaggio in metropolitana come una traversata nei secoli. Da quando è stato pubblicato in Francia, ormai due anni fa, Metronomo continua a essere ai primi posti delle classifiche dei libri più venduti. Ristampato con postille e fotografie, ha ispirato anche un documentario televisivo. Ventuno stazioni, ventuno secoli. Una epopea rievocativa, dalla dominazione di Giulio Cesare fino alla République, passando per le guerre di religione, la monarchia assoluta e la Rivoluzione. Metronomo (L' Ippocampo) s' inserisce nella tradizione del "roman national" inventata dallo storico Jules Michelet. Solo che in questo caso l' autore, Lorànt Deutsch, è un autodidatta nato nella Bassa Normandia 37 anni fa, conosciuto fino all'uscita del libro per essere soprattutto un attore di teatro. 
Metronomo è un ibrido tra il romanzo storico e la guida turistica. 
«Esistono diverse letture possibili. La narrazione parte sempre da un reperto, uno scorcio, un' immagine di Parigi che ognuno può vedere passeggiando. C' è poi un secondo livello, nel quale la capitale è inserita in un contesto storico più generale. Tutti gli eventi più importanti nascono attraverso la capitale. È questa la ribalta in cui, di volta in volta, si compie il destino nazionale. Infine, sullo sfondo, c'è la Francia, che evidentemente non è raccontata in modo esaustivo ma con il gusto del dettaglio, dei personaggi, degli aneddoti». 
Perché utilizzare il metrò per questo viaggio nel tempo? 
«Quando sono arrivato a Parigi ero un giovane provinciale che non conosceva nulla della capitale. Le linee del metrò sono state i miei riferimenti urbanistici, una bussola. Ho imparato prima i nomi delle fermate che quelli delle strade, dei quartieri. Il metronomo è anche uno strumento che serve a dividere in parti uguali il tempo. Esattamente ciò che ho tentato di fare. Volevo dedicare lo stesso spazio a Vercingetorige e Clodoveo che a Napoleone e Charles De Gaulle. Purtroppo, l' impostazione storiografica moderna tende a privilegiare il periodo che va da Luigi XIV in poi, oscurando i secoli precedenti».
In questo modo, restituisce importanza al periodo della dominazione romana. 
«Sono stati Giulio Cesare e Augusto a localizzare Parigi dove si trova oggi. Il concetto gallico di città non era lo stesso dei romani. Un oppidum era un campo trincerato, una fortezza militare, non un luogo di aggregazione propizio agli scambi come l' urbe. I romani hanno concepito Lutezia, termine che viene associando il latino lutum, fango, al gallico luto, palude, facendone invece una città aperta, piatta, all' incrocio di strade e del commercio. L' imperatore Giuliano è stato il primo flâneur parigino, gironzolava come un qualsiasi legionario nei vicoli fangosi». 
La culla di questa città è stata nell'Île de la Cité oppure più a nord nell'ansa della Senna, a Nanterre, come sostengono altri studiosi? 
«Per quanto si sia scavato e cercato nell' isola al centro della capitale sono stati rinvenuti pochissimi reperti risalenti all' epoca del popolo celtico dei Parisii. Nel 2003 invece un cantiere ha portato alla luce i resti di un importante agglomerato gallico nell' ansa fluviale di Gennevilliers sotto alla città di Nanterre. È solo un' ipotesi. Le difficoltà archeologiche legate al periodo gallico sono anche dovute al fatto che i capi dell' epoca non esitavano a bruciare le città quando erano in guerra. Dopo, non rimaneva nulla». 
Lo stile romanzesco non rischia di deformare la verità storica? 
«Sono convinto che dire tutto significa, in fondo, non dire nulla. Ho fatto delle scelte, ovviamente possono essere contestate. Non si può essere esaustivi sempre, su ogni argomento. Bisogna avere il coraggio di esprimere un punto di vista soggettivo, ricordando che la Storia si muove sempre sul confine della menzogna». 
Metronomo è uscito in Francia proprio durante il dibattito sull' Identità Nazionale. È un caso? 
«Non lo avevo preventivato, ma è stata in qualche modo una risposta letteraria al quesito lanciato da Nicolas Sarkozy. Ne ho anche parlato con il Presidente, che mi ha invitato all' Eliseo dopo il successo del libro. La storia e la lingua sono alla base dell' identità nazionale, non la razza o la religione. Questo libro è il nostro album di famiglia, una passeggiata in quel magnifico giardino che si chiama Francia». 
Parigi è ancora una città di flâneurs
«La grande trasformazione della capitale è avvenuta nell'Ottocento con il Barone Haussmann , che ha creato una geometria di strade e boulevards più ordinata, in cui è difficile sognare, perdersi. Oggi, come accade in altre città, lo spazio privato si allarga, a scapito di quello pubblico. Molti luoghi sono ormai chiusi, vietati, protetti da cancelli e da sistemi di sicurezza. Ma si possono ancora fare scoperte sul nostro passato. L' anno scorso, ad esempio, sono state rinvenute le tracce di una seconda cinta muraria intorno alla capitale dell' epoca romana, nel quartiere del Marais. Qualche studioso lo sospettava, ma non c' erano mai state le prove. Non sono pessimista. Continuo a vedere Parigi come un' immensa palestra intellettuale».
ANAIS GINORI

Mappa delle mappe storiche

The over 120 historical maps in the Google Maps and Google Earth Rumsey Historical Maps sites have been selected by David Rumsey from his collection of more than 150,000 historical maps; in addition, there are a few maps from collections with which he collaborates. These maps can also be seen in the Gallery layer of Google Earth, Rumsey Historical Maps layer. 
All the maps contain rich information about the past and represent a sampling of time periods (1680 to 1930), scales, and cartographic art, resulting in visual history stories that only old maps can tell. Each map has been georeferenced, thus creating unique digital map images that allow the old maps to appear in their correct places on the modern globe.
The David Rumsey Map Collection was formed by David Rumsey over the last 30 years. Rumsey has scanned more than 17,000 of the maps since 1999 and put them online in a free public map library at www.davidrumsey.com. Rumsey believes in free public access to his maps, so visitors can not only look at the maps in full high resolution (some of the digital map images are 2 GB) but they can also download them for personal use. 


List of Maps in Google Maps and Google Earth:


Globes:
World Globe 1790
World Globe 1812
Celestial Globe 1792

North America:
North America 1733
North America 1786
United States 1833
Lewis and Clark 1814
Mississippi River 1775
Western U.S. 1846
Alaska 1867
Hawaii Oahu 1899
Yosemite Valley 1883

U.S. Cities:
Chicago 1857
Denver 1879
Los Angeles 1880
New York 1836
New York 1851
New York 1852
San Francisco 1853
San Francisco 1859
San Francisco 1915
Seattle 1890
Washington DC 1851
Washington DC 1861

Canada:
Canada 1815
Montreal 1758
Montreal 1815
Quebec 1759
Quebec 1815

Mexico:
Mexico 1809
Mexico City 1883

West Indies:
Cuba 1775
Martinique 1775
St. Vincent 1775
St. Lucia 1775

South America:
South America 1787

Argentina:
Argentina 1867
Buenos Aires 1892

Brazil 1842
Colombia 1840

Peru:
Peru 1865
Lima, Peru 1865

Europe:
Europe 1787

United Kingdom:
England and Wales 1790
Scotland 1790
London Environs 1832
London 1843

Ireland 1790

France:
France 1750
France 1790
Paris 1716
Paris 1834

Germany:
Rhein-Province 1846
Oldenburg 1851
Der Harz 1852
Nassau 1851
Wurtemberg 1856
Hanover 1851
Sachsen 1860
Sachsen North 1852
Hessen 1844
Brandenburg 1846
Prussia 1847
Pommern 1845
Schleswig 1852
Possen 1844
Bayern 1860
Berlin 1860

Scandanavia 1794
Switzerland 1799

Spain:
Spain 1701
Madrid 1831

Portugal 1780

Italy:
Italy 1800
Rome 1830
Ancient Rome 1830

Ancient Greece 1708

Russia:
Russia 1706
Russia 1776
Russia 1794
Moscow 1745
Moscow 1836
St. Petersburg 1753

Asia:
Asia 1710
Asia 1787

Japan:
Japan 1694
Japan 1891
Kyoto 1709
Osaka 1806
Tokyo 1680
Tokyo 1799
Tokyo 1858
Tokyo 1892

China:
China 1801
China 1875
Beijing 1930

India:
India 1804
North India 1794
Bengal 1800
Calcutta 1858

East Indies 1801

Middle East:
Middle East 1861
Egypt Palestine 1818
Palestine 1861
Palestine 1922
Arabia 1843
Asia Minor 1922
Persia 1922

Africa:
Africa 1787
Congo 1708
West Africa 1789
Northwest Africa 1842
South Africa 1842

Egypt:
Egypt Nile Delta 1818
Egypt Mid Nile 1818
Egypt Upper Nile 1818

Australia and Pacific:
Australia 1842
Australia Southeast 1844
Maritime Australia 1840
Western Australia 1843

New Zealand 1843

UNA GUIDA PER COSTRUIRE IL CARATTERE (TIPOGRAFICO)


Just my type!

Il 12 giugno 2005, all'università di Stanford, un uomo di mezz' età si alzò davantia un' aula affollata di studenti per parlare dei tempi in cui frequentava un istituto assai meno prestigioso: il Reed College a Portland, nell'Oregon. «Nel campus» raccontò, «ogni cartellone, ogni etichetta di ogni singolo cassetto erano elegantemente scritti a mano. Poiché mi ero ritirato e non avevo l' obbligo di seguire le normali lezioni, decisi di iscrivermi a un corso di calligrafia. Imparai a distinguere i caratteri con e senza grazia, a variare la quantità di spazio tra diversi gruppi di lettere, e capii cosa rende grande la grande tipografia. Fu uno splendido viaggio tra storia e arte, ricco di sfumature che la scienza non sarebbe in grado di comprendere, e lo trovai affascinante». All'epoca aveva creduto che quelle nozioni non gli sarebbero servite a nulla nella vita, ma si sbagliava. Di lì a dieci anni, Steve Jobs - era così che si chiamava quel tizio - aveva progettato il primo computer Macintosh, una macchina con una particolarità assolutamente inedita: un' ampia gamma di font. Oltre ai caratteri ormai noti come il Times New Roman e l'Helvetica, Jobs ne aveva introdotti di nuovi, evidentemente curandone molto l' aspetto e i nomi. Li aveva chiamati come le sue città preferite, per esempio il Chicago e il Toronto. Aveva cercato di renderli originali e aggraziati come la calligrafia che aveva avuto occasione di ammirare dieci anni prima, e almeno due - il Venice e il Los Angeles - parevano scritti a mano. Fu l' inizio di un' autentica rivoluzione nel nostro rapporto quotidiano con le lettere e i caratteri tipografici. Un' innovazione che, nel giro di circa un decennio, avrebbe inserito la parola «font» - fino ad allora un astruso termine tecnico riservato al settore della progettazione grafica e della stampa - nel vocabolario di ogni utente di computer. Oggi è difficile trovare le font originali di Jobs, e forse è meglio così: sono troppo scalettate e scomode da utilizzare. Allora, tuttavia, la possibilità di modificare i caratteri sembrava una tecnologia arrivata da un altro pianeta. Prima del Macintosh del 1984, i computer offrivano un solo tipo di carattere, e metterlo in corsivo non era impresa da poco. Ora, invece, erano disponibili alfabeti che si sforzavano di ricreare qualcosa cui eravamo abituati nel mondo reale. Il principale era il Chicago, che l' Apple ha poi adottato per i suoi menù e le sue finestre di dialogo, fino ai primi iPod. Ma si poteva anche optare per anacronistici caratteri gotici che richiamavano le miniature degli scribi chauceriani (il London), per nitide lettere svizzere che si ispiravano al modernismo aziendale (il Geneva), o per segni leggiadri e slanciati che non avrebbero sfigurato sui menù dei transatlantici (il New York). C' era persino il San Francisco, una font che sembrava ritagliata dalle pagine dei giornali, indicata per noiose ricerche scolastiche e richieste di riscatto. Ben presto l'IBM e la Microsoft avrebbero provato a seguire l' esempio dell' Apple, mentre si cominciavano a pubblicizzare le stampanti per uso domestico (una novità, per quel periodo) ponendo l' accento non solo sulla velocità, ma anche sulla varietà di font. (...) Ai giorni nostri non riusciamo a immaginare forma di libertà artistica più semplice e normale della tendina delle font. Ecco l' eco della storia, l' eredità di Johannes Gutenberg ogni volta che battiamo su un tasto. Ecco i nomi più conosciuti: Helvetica, Times New Roman, Palatino e Gill Sans. Ecco quelli tratti da legature in folio e fragilissimi manoscritti: Bembo, Baskerville e Caslon. Ecco le alternative per fare sfoggio di raffinatezza: Bodoni, Didote Book Antiqua. Ed ecco le tentazioni da evitare se non si vuole coprirsi di ridicolo: Brush Script, Herculanum e Braggadocio. Vent' anni fa non li conoscevamo, ma ora ognuno di noi ha i suoi favoriti. I computer ci hanno trasformati in maghi dei caratteri tipografici, un privilegio che, nell' epoca della macchina da scrivere, non avremmo mai pensato di ottenere. Tuttavia, quando preferiamo il Calibri al Century,o quando un grafico pubblicitarioè più propenso a usare il Centaur che il Franklin Gothic, che cosa condiziona queste decisioni, e quale impressione speriamo di dare? Quando scegliamo un determinato carattere, che cosa vogliamo dire veramente? Chi crea le font, e come funzionano? E perché ce ne servono così tante? (...) Si tratta di misteri oscuri, e questo libro vuole provare a svelarli.

SIMON GARFIELD, "la Repubblica", 1 giugno 2012
10 libri fondamentali sulla tipografia: CLICCA QUI.

Tutte le idee in una mappa

mercoledì 18 luglio 2012

A Brief History of Pretty Much Everything


Animazione: la storia del mondo in tre minuti




This truly awesome stop-motion animation was created by a 17-year-old boy named Jamie Bell, who goes by “DispleasedEskimo” on YouTube. He created it, for an art class, over the span of only three weeks, using about 2100 sheets of paper and a number of ballpoint pens. (da WIRED).

martedì 17 luglio 2012

Gialli, noir, thriller italiani dal 1988 ad oggi


“Il romanzo poliziesco è essenzialmente anglosassone. La metropoli inglese o americana, con i suoi bassifondi sinistri e popolati come gli abissi marini di mostri ciechi, le sue squadre di delinquenti disciplinati e militarizzati, le sue folle nere come l’acqua delle fogne, l’aspetto spettrale delle sue architetture, offre il quadro più favorevole, la messinscena più adatta al quadro del delitto. S’immagina male un romanzo poliziesco dentro la cinta daziaria di Valenza o di Mantova, di Avignone o di Reggio Emilia. Il viaggio di Cristoforo Colombo, nonché segnare la fine dell’evo di mezzo, segna pure nel mondo latino, il fallimento del mistero della mezzanotte. Nel mondo anglosassone invece esso mistero non solo perdura, ma col volgere del tempo si rimoderna, si industrializza, si meccanizza, si standardizza. E come concepire romanzo poliziesco cui manchi l’atmosfera, il brivido del mistero della mezzanotte?” Alberto Savinio, 1932
Ho letto il tuo giallo che non è un giallo, con la passione con cui si leggono i gialli, e in più il divertimento di vedere come il giallo viene smontato, anzi come viene dimostrata l’impossibilità del romanzo giallo nell’ambiente siciliano”.Italo Calvino, lettera a Leonardo Sciascia 1965

Since everything seen or said, even the slightest, most trivial thing, can bear a connection to the outcome of the story, nothing must be overlooked. Everything becomes essence; the centre of the book shifts with each event that propels it forward. The centre, then, is eveywhere, and no circumference can be drawn until the book comes to its end. […] In effect, the writer and the detective are interchangeable. The reader sees the world through the detective’s eye, experiencing its proliferation of details as if for the first time. He has become awake to the things around him, as if, because of the attentiveness he now brings to them, they might begin to carry a meaning other than the simple fact of their existence.
Paul Auster, City of Glass, in The New York Trilogy (London, Faber & Faber, 1987)

 «Nenè, in realtà noi scrittori di un certo tipo siamo sbirri mancati». 
Leonardo Sciascia a A. Camilleri.

Regione per regione, tutti gli autori italiani di gialli, noir, thriller dal 1988 ad oggi. LEGGI TUTTO...

G. Pieri, Il nuovo giallo italiano tra tradizione e postmodernitàPublished by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS), © 2000-2012 by Giuliana Pieri & EJGS. Previously published in Delitti di carta IV, 7, Bologna, Clueb, 2000: 57-66.

Rimbaud & Juan Gelman: "Usignoli di nuovo"

Ruiseñores de nuevo 

" En el gran cielo de la poesía,
mejor dicho
en la tierra o mundo de la poesía que incluye cielos
astros
dioses
mortales
está cantando el ruiseñor de Keats
siempre
pasa Rimbaud empuñando sus 17 años como la llama de amor viva de San Juan
a la teresa se le dobla el dolor y su caballo triza el polvo enamorado Francisco de Quevedo y Villegas
el dulce Garcilaso arde en los infiernos de John Donne
de César Vallejo caen caminos para que los pies de la poesía caminen
pies que pisan callados como un burrito andino
Baudelaire baja un albatros de su reino celeste
con el frac del albatros Mallarméva a la fiesta de la nada posible
suena el violín de Verlaine en la fiesta de la nada posible
recuerda que la sangre es posible en medio de la nada
que Girondo liublimará perrinunca lamora
y girarán los barquitos de tuñón contra el metal de espanto que abusó a Apollinaire
oh Lou que desamaste la eternidad de viaje
el palacio del exceso donde entró la sabiduría de Blake
el paco urondo que forraba en lamé la felicidad para evitarle fríos de la época
mientras Roque Dalton trepaba por el palo mayor de su alma y gritaba. "


Juan Gelman. Nato a Buenos Aires nel 1930 da famiglia ebrea emigrata in Argentina, da giovane studente fu portavoce della resistenza politica alla dittatura militare del generale Rafael Videla. Ricercato dalla polizia si rifugiò in Italia e la furia dei suoi persecutori si scagliò contro il figlio e la nuora che furono barbaramente assassinati. La loro figlia nacque in campo di prigionia e se ne persero le tracce: «ti cerco, nipote, per riconoscere in te mio figlio. Siamo entrambi orfani della stessa persona». Solo nel 2000, dopo ventitré anni di ricerche, è riuscito a ritrovarla e pur avendo ottenuto la grazia ha scelto il Messico, paese della moglie, alla "patria". Malgrado una vita segnata dalla sofferenza e dalla perdita, la poesia di Gelman non gronda di ideologia, anzi si chiede: «perché [...] / [...] avrebbe dovuto raccontare / le processioni della memoria terribile / dentro la carne che si incurva?». Il suo è un percorso verso la Conoscenza e la Verità, al di là degli eventi, al di là della storia La Regina Sofia di Spagna consegnerà il 28  ottobre a Juan Gelman il XIV premio de Poesía Iberoamericana. Gelman e' considerato il miglior poeta argentino dopo gli anni '60 ed è autore di libri come'Gotán', 'Cólera de buey', 'Los poemas de Sidney West', 'Hechos y relaciones', 'Salarios del impío' o 'Dibaxu'. Premio Nacional de Poesía de Argentina en 1997, Gelman ha ricevuto anche il Premio de Literatura Latinoamericana y del Caribe "Juan Rulfo"nel 2000  e l'anno scorso ha avuto il diploma al Mérito 2004  dalla Fundación Konex che ha premiato100 personalità distintesi nell'ultimo decennio nelle lettere argentine. Juan Gelman il 14 ottobre ha ricevuto dal presidente delle corti di Castiglia e Leon il premio nazionale delle lettere "Teresa d'Avila". E' attivo analista politico su riviste, giornali e siti web latinoamericani. Ha scritto  vari libri: 'La junta luz', 'Carta a mi madre' y 'Anotaciones'. Il suo ultimo libro che presto sarà in libreria in Spagna ha per titolo 'País que fue será'.

Walter Benjamin: La tecnica dello scrittore in tredici tesi


F. Masereel
1) Chi intende procedere alla stesura di un'opera di vasto respiro si dia buon tempo e, al termine della fatica giornaliera, si conceda tutto ciò che non ne pregiudica la continuazione.

2) Parla di quanto hai già scritto, se vuoi, ma non farne lettura finché il lavoro è in corso. Ogni soddisfazione che in tal modo ti procurerai rallenterà il tuo ritmo. Seguendo questa regola, il desiderio crescente di comunicare diverrà alla fine uno stimolo al compimento.

3) Nelle condizioni di lavoro cerca di sottrarti alla mediocrità della vita quotidiana. Una mezza quiete accompagnata da rumori banali è degradante. Invece l'accompagnamento di uno studio pianistico o di uno strepito di voci può rivelarsi non meno significativo del silenzio tangibile della notte. Se questo affina l'orecchio interiore, quello diventa il banco di prova di una dizione la cui pienezza soffoca in sé persino i rumori discordanti.

4) Evita strumenti di lavoro qualsiasi. Una pedante fedeltà a certi tipi di carta, a penne e inchiostri ti sarà utile. Non lusso, ma dovizia di codesti arnesi è indispensabile.

5) Non lasciarti sfuggire alcun pensiero, e tieni il tuo taccuino come le autorità tengono il registro dei forestieri.

6) Rendi la tua penna sdegnosa verso l'ispirazione ed essa l'attirerà a sé con la forza del magnete. Quanto più lento sarai nel decidere di mettere per iscritto un'intuizione, tanto più matura essa ti si consegnerà. Il discorso conquista il pensiero, ma la scrittura lo domina.

7) Non smettere mai di scrivere perché non ti viene più in mente nulla. E' un imperativo dell'onore letterario interrompersi solo quando c'è da rispettare una scadenza (un pasto, un appuntamento) o quando l'opera è terminata.

8) Occupa una stasi dell'ispirazione con l'ordinata ricopiatura del già scritto. L'intuizione ne sarà risvegliata.

9) Nulla dies sine linea: sì, però qualche settimana.

10) Non considerare mai perfetta un'opera che non t'abbia tenuto una volta a tavolino dalla sera fino a giorno fatto.

11) La conclusione dell'opera non scriverla nel solito ambiente di lavoro. Non ne troveresti il coraggio.

12) Gradi della composizione: pensiero, stile, scrittura. Il senso della bella copia è che in questa fase l'attenzione va ormai soltanto alla calligrafia. Il pensiero uccide l'ispirazione, lo stile vincola il pensiero, la scrittura ripaga lo stile.

13) L'opera è la maschera mortuaria dell'idea.

W. Benjamin, Strada a senso unico, Torino:Einaudi, 2006

lunedì 16 luglio 2012

Letteratura e psicanalisi


Freud Faces, by Josh Hoffs, MD (dal sito www.joanlachkarphd.com)
"I poeti sono soliti sapere una quantità di cose tra cielo e terra che la nostra filosofia neppure sospetta.... Poeti e filosofi hanno scoperto l'inconscio prima di me. Quel che io ho scoperto è il metodo scientifico con cui poterlo analizzare".                              
S. Freud, Delirio e sogni della Gradiva di W. Jensen,1907

C. Taglietti, Ieri Svevo e Berto. Ma oggi nei romanzi vincono gli psicopatici, trascinati dal giallo, “Corriere della Sera”, 8 luglio 2012

La psicoanalisi è uscita dalla letteratura, la letteratura è entrata nella psicoanalisi. Il rapporto tra inconscio e narrazione è sempre stato fecondo e a doppio senso, anche se oggi la pratica freudiana basata sulla parola ha perso il peso che ha avuto per gran parte del Novecento. Per molti anni l’individuo, sbriciolato nella sua monoliticità dal «maestro del sospetto» Freud, ha trovato proprio nella narrativa una rappresentazione paradigmatica, a partire dalla Coscienza di Zeno, il capolavoro di Italo Svevo basato sulle memorie (raccolte dal suo psicoanalista) del protagonista, Zeno Cosini, che intrecciano ricordi e desideri mettendo in luce le stratificazioni e le mascherature della psiche. Giuseppe Berto comincia a scrivere Il male oscuro (1964) non credendo affatto alla psicoanalisi, ma fidandosi completamente del suo analista, un «uomo straordinariamente buono, intelligente, comprensivo, attento, amoroso», che lo conduce gradatamente a guardare dentro se stesso senza paura o vergogna di ciò che vi avrebbe potuto trovare: «Era come se avessi scoperto il bandolo di un filo che mi usciva dall’ombelico – scrive — io tiravo e il filo veniva fuori, quasi ininterrottamente, e faceva un po’ male si capisce, ma anche a lasciarlo dentro faceva male».
Con Saba, Gadda (è lui a usare l’espressione «male oscuro» ne La cognizione del dolore) e poi Moravia, Volponi, Bertolucci, Sanguineti la psicoanalisi entra in modo massiccio, a volte in forma esplicita, a volte sotterranea, nella nostra letteratura, mentre la critica ha fatto ricorso agli studi di Freud (ma anche di Jung e Lacan) per interpretare le opere degli scrittori, basti pensare allo «sperimentatore» Giacomo Debenedetti, al suo allievo Mario Lavagetto, a Francesco Orlando o a Elio Gioanola che ha pubblicato recentemente da Jaka Book una biografia di Eugenio Montale dal titolo significativo: Montale. L’arte è la forma di vita di chi propriamente non vive, dove la necessità dell’opera è fatta derivare direttamente dal «male di vivere», proprio come nel caso di Svevo. All’impostazione psicoanalitica aderisce in modo totale Julia Kristeva, critica e semiologa capace di una efficace sintesi di metodi con cui scannerizza temi e autori, dal misticismo al genio femminile di Colette, Melanie Klein, Hannah Arendt, dall’amore («essere psicoanalista significa sapere che tutte le storie finiscono per parlare d’amore» scrive nel saggio Storie d’amore, scritto nell’83 e ora pubblicato da Donzelli) all’arte.
Oggi, complice il trionfo mondiale del genere giallo-nero, i nevrotici hanno lasciato spesso il posto, nei romanzi, a veri e propri disturbati mentali quando non psicopatici. La categoria costituisce un bacino fecondo e ricchissimo di spunti narrativi per gli autori di un genere che nel corso degli ultimi tempi ha messo in scena una galleria di serial killer inseguiti da investigatori e poliziotti depressi e feriti dalla vita che nella maggior parte dei casi l’aiuto psicologico lo rifiutano a priori. L’investigatore razionale e positivista, risolto e fiducioso nel suo metodo deduttivo, si è un po’ fatto da parte a favore di figure meno rassicuranti che inseguendo i fantasmi altrui trovano i propri. Come l’Harry Bosch di Michael Connelly, poliziotto traumatizzato dall’omicidio della madre e incapace di relazionarsi con il prossimo, o l’Harry Hole di Jo Nesbo, detective alcolista e solitario. Ma gli esempi potrebbero essere molti. Per questi investigatori, e per quelli come loro, la narrativa gialla e hard boiled offre una lunga serie di disagi psicologici, un’esplosione drammatica di passioni e ossessioni quasi sempre movente e spia della drammaticità della condizione umana. Insomma, la psiche e l’inconscio sono oggi per lo più roba da profiler del Fbi o di criminologi nostrani. Fanno eccezione rari casi, come quello di Patrick McGrath, lo scrittore inglese cresciuto in un ospedale psichiatrico criminale dove il padre era sovrintendente medico, autore di un romanzo, L’estranea (Bompiani) che, come i suoi precedenti, Follia, Martha Peake, Spider è in grado di penetrare nel lato oscuro degli individui aprendo, nello stesso tempo, squarci su rapporti familiari e sociali, stando ben lontano dai meccanismi del giallo.
È anche vero che la psicoanalisi ha trovato spesso nella letteratura un serbatoio di metafore e intuizioni evocative in grado di semplificare dal punto di vista linguistico meccanismi e rapporti complessi — dalle tragedie greche (il complesso di Edipo), al tema della doppia personalità (Dr. Jekyll e Mr. Hyde) — e non è un caso che un racconto giallo di Edgard Allan Poe di poco antecedente alla nascita della psicoanalisi, La lettera rubata, con protagonista l’investigatore-artista Auguste Dupin, sia stata lo spunto di riflessione per lo stesso Sigmund Freud, più tardi per Jacques Lacan e infine per filosofo francese Jacques Derrida. Psicoanalisi e romanzo giallo nascono praticamente contemporaneamente e i meccanismi della detective story possono essere accostati a quelli di una indagine nella mente del paziente. Partendo da questo presupposto un gruppo di psichiatri e di analisti pavesi, membri della Società psicoanalitica italiana (Antonino Ferro, Giuseppe Civitarese, Maurizio Collovà, Giovanni Foresti, Fulvio Mazzacane, Elena Molinari, Pierluigi Politi) ha scritto un volume collettivo edito da Raffaello Cortina intitolato proprio Psicoanalisi in giallo dove, anche attraverso figure note agli amanti del poliziesco, dall’Adamsberg di Fred Vargas, capace di accostare storie apparentemente senza legame basandosi solo su quello che si può chiamare fiuto, al Montalbano di Camilleri con la sua «verità emotiva», dall’87° distretto di Ed McBain all’ispettore Tibbs di John Ball, si analizzano le evoluzioni di una pratica che risponde alla stessa domanda del giallo: di chi è la colpa? Per giungere alla conclusione che non sempre la colpa è, appunto, del colpevole.



Noi antichi - Classicismi Quotidiani. Testi, immagini, icone e archetipi che permeano inconsapevolmente la vita di ogni giorno
di Glenn Most, "Il Sole 24 ore", 19 giugno 2011

Dall’introduzione di Glenn Most, docente di filologia greca presso la Scuola Normale Superiore, tra i curatori (con Anthony Grafton e Salvatore Settis) del volume The Classical Tradition (Harvard University Press, Cambridge, 2010, pagg. 1.068).

Come si arriva dalla polis alla polizia? O dalle sirene di Ulisse a quelle di un’ambulanza? O dalle antiche accezioni della schiavitù, della democrazia, della nudità, dell’omosessualità a quelle odierne? Per dare risposte a queste domande è necessario trovare una forma di guida affidabile e ampia alla ricezione dell’antichità classica greco-romana in tutti i suoi aspetti nelle culture più tarde.
La comprensione e il fraintendimento di letteratura, filosofia, arte, architettura, storia, politica, religione, scienza e vita pubblica e privata dell’antica Grecia e di Roma hanno formato le culture dell’Europa medievale e moderna delle nazioni che da esse provenivano, e a loro volta, hanno aiutato a plasmare altre tradizioni culturali come, ad esempio, l’ebraica, l’islamica, la slava. Ogni ambito della vita e del pensiero postclassico è stato profondamente influenzato dai modelli antichi; e, per la verità, tali modelli non sono stati sempre interpretati in modi che una sobria educazione scientifica odierna considererebbe corretta. Anzi, spesso sono stati dei fraintendimenti creativi a salvare l’eredità antica e a renderla fruibile per l’attualità.
Non si può capire la storia del mondo postclassico senza un riferimento costante alle culture classiche tramite le quali non ha mai smesso di definirsi, d’accordo o in disaccordo, imitando o condannando, venerando o volendo (inutilmente) dimenticare. A un estremo, le culture moderne hanno cercato di identificarsi quanto più pienamente possibile con quelle antiche; all’altro, si sono definite proprio per il loro senso di estraneità e di alienazione dall’antichità. Ai due estremi e in tutti i casi intermedi, l’Europa moderna e le Americhe hanno trovato immancabilmente nella Grecia e nella Roma antiche un “altro” che faceva idealmente al caso della comprensione, della critica e di una ridefinizione di se stesse. Per questo serve meno un lessico, un dizionario o un’enciclopedia, di quanto non serva una guida; in cui un ampio ma limitato numero di argomenti paradigmatici, senza alcuna pretesa di completezza, abbia l’ambizione di indicare la varietà di modi in cui la tradizione postclassica ha tratto sostegno e ispirazione dal riverire, ma anche dal fraintendere e dall’oppugnare, l’antichità classica. Nel volume The Classical Tradition abbiamo ritenuto importante rendere accessibile a un pubblico di esperti e non, in una forma intelligibile e interessante, sia quello che è stato sempre conosciuto sia quello che è stato di recente appreso sull’influenza continuativa della cultura greca e romana antica nel mondo postclassico; una tradizione classica intesa in senso ampio, in modo da includere non solo testi, ma anche immagini e oggetti, idee e istituzioni, monumenti e artefatti, rituali e pratiche che hanno influenzato tanto profondamente le tradizioni occidentali (e non solo). Ma non in senso generale: perché non si è mirato a fornire un dizionario globale di tutte le culture in ogni tempo, ma solo a focalizzare casi empiricamente identificabili di appropriazione e di trasformazione dell’eredità classica. Come guida, il libro che abbiamo curato non pretende di essere  esaustivo, bensì spera di fornire, per un lettore generico, un primo prontuario cui rivolgersi per soddisfare dubbi e curiosità e per avere ulteriori suggerimenti di lettura, e insieme, per lo studioso, un’opera di riferimento che indichi lo stato dell’arte della ricerca in diverse discipline insieme a prospettive fruttuose per un ulteriore lavoro.

Per tutti, la nostra guida si augura di essere insieme autorevole e accessibile, informata e gradevole, affidabile e sorprendente. Se ci possiamo permettere di comparare piccole cose con grandi cose (e anche questa formula è un topos centrale della tradizione classica), spereremmo di servire, nel nostro piccolo, come guide per l’interessato e il perplesso, come la Sibilla fece per l’Enea di Virgilio, e come Virgilio fece per Dante, riportando a nuova vita quello che solo apparentemente è morto, e ridando voce a coloro che ci hanno dato la nostra, ma perdendo momentaneamente la loro.

E c’è anche da aggiungere che forse mai una guida del genere è stata così attuale e necessaria come oggi. In tutte le società industriali contemporanee, uno studio intensivo delle lingue antiche è in declino nelle istituzioni educative che tradizionalmente hanno formato le elite sociali e intellettuali. Come risultato, una facile familiarità con la tradizione classica che di solito era il marchio di identità di coloro che avevano beneficiato di una educazione civile è diventata sempre più rara. E tuttavia il fatto che sia scomparsa questa erudizione diffusa non ha fatto sì che le questioni le cui risposte aveva facilitato siano svanite con essa. Al contrario, molte persone nelle società moderne restano curiose relativamente alle tracce innumerevoli dell’antichità ancora visibili nel mondo e relativamente alle origini antiche di vari fenomeni moderni, ma non sanno dove rivolgersi per soddisfare la loro curiosità. Molti dei fatti e delle massime, delle immagini e degli esempi, che una volta erano oggetto di una conoscenza tacita, saranno, lo speriamo, almeno parzialmente spiegati dalla nostra “guida”. Dunque un pubblico ideale per un progetto del genere è in primo luogo composto da vari tipi di membri della nostra cultura europea e nordamericana, ma certo non solo da loro. Idealmente, questa guida doveva essere intitolata non La tradizione classica, ma Una tradizione classica, perché l’eredità culturale europea può essere compresa pienamente solo quando è risituata nel più vasto contesto delle altre culture con cui è sempre stata in dialogo. La tradizione classica greco-romana è solo una nel novero limitato delle tradizioni classiche che definiscono la storia della cultura mondiale, e le sue importanti affinità e divergenze con altre tradizioni classiche, come l’islamica, l’ebraica, la cinese e l’indiana, significa che non può essere compresa in pieno senza un riferimento sistematico a esse. E dunque, alla fine, abbiamo avuto di mira come lettori potenziali non solo i diretti beneficiari della tradizione classica greco-romana, ma anche i membri interessati di altre culture. La nostra speranza è che gli studiosi che comprendono le altre culture non europee meglio di noi siano stimolati sul nostro esempio a esplorare, insieme a noi e con chi speriamo ci segua, le somiglianze e le differenze tra tutte queste tradizioni, in modo tale che così saremo in una posizione migliore per comprendere cos’è che rende tale una tradizione “classica”. In che misura le idee del classico che circolano nel mondo sono il frutto dell’interazione tra varie culture, e in che misura sono invece prodotti endogeni? C’è qualcosa, e se c’è, cos’è che differenzia la tradizione classica in Occidente dalle storie di altri canoni? Nella direzione di un remoto, ma non inimmaginabile, approdo di una storia veramente comparativa di tutte le storie classiche, il nostro è inteso come un invito e come un contributo preliminare.

Quel filo forte che ci lega, di Alessandro Schiesaro, "Il Sole 24 Ore", 19 giugno 2011

Conviene affrontare questo magnifico dizionario sulla tradizione classica partendo dall’inatteso, ricchis­simo corredo di immagini. Affian­cate ad ampie didascalie, esse prospettano in-fatti una chiave di lettura trasversale quasi au­tonoma rispetto alle centinaia di voci che compongono il volume. Accanto al Saturno di Goya, l’idra a sette teste della Secessione sudista demonizzata in un poster di propa­ganda politica del XIX secolo; i manifesti pub­blicitari art déco di Nîmes «la Roma francese», il mausoleo imperiale di Lenin sulla piaz­za Rossa e il giuramento delle reclute sull’alti­piano di Masada, insieme a Maria Callas-Medea e alla Melancolia di De Chirico o al macel­laio dei cartoons stritolato dalle salsicce, un Laocoonte da fastfood. Evidenze tratte da luoghi, culture, media molto distanti tra loro, per testimoniare plasticamente la lunga durata e la pervasività di quell’insieme multifor­me di fenomeni che siamo soliti chiamare, ap­punto, la tradizione classica. In questa galassia, i curatori si prefiggono il ruolo della guida, come la Sibilla per Virgilio e questi per Dante, dicono, «per portare a rinno­vata luce quanti sono solo apparentemente morti e ridar voce a coloro che ci avevano dato la nostra ma l’hanno momentaneamente per­duta»: un obiettivo che può sembrare neutra­le, ma in realtà circondato da quesiti che negli ultimi tempi si sono fatti sempre più contro­versi: si può ancora parlare di «tradizione» classica? In che termini? Con quali implicazio­ni? E ancora: «tradizione» al singolare o al plu­rale, o, se vogliamo, chi sono i noi cui gli anti­chi hanno dato la nostra voce?
Fortissima si è fatta ormai la distanza tra quanti, spostando l’accento sulla ricezione del classico,insistono sull’appropriazione cre-ativa ma anche manipolativa, orientata, ideo­logica, di una cultura già a suo tempo policentrica, ne pongono in rilievo i messaggi anche contrastanti tra loro, le perversioni di lettura cui è stata sottoposta nei secoli. E coloro i quali preferiscono privilegiare ancora gli aspetti di continuità e relativa omogeneità, di tradizione, appunto, senza per questo necessariamente ricadere in un classicismo di maniera.
Soprattutto in Gran Bretagna, ma anche negli Stati Uniti, “ricezione” e “tradizione” costituiscono oggi due metodi distinti e in buona misura contrapposti per inoltrarsi in un settore che fino a poco fa si credeva non solo unitario, ma, in fin dei conti, anche relativamente poco problematico, ancorato a metafore affidabili perché quasi irriflesse, come tradizione o ere­dità, radici e modelli. All’ombra della Sibilla e di Virgilio i curatori di un’opera per molti ver­si eccezionale evitano di entrare nel vivo di questo dibattito in modo diretto (non trovere­te qui né la voce «tradizione» né quella «rice­zione»), ma sono i primi a riconoscere che «una tradizione classica», non la tradizione classica toni court,sarebbe stato titolo più adatto a esplicitare la polifonia culturale che negli ultimi decenni almeno ha dato nuovo impulso allo studio del mondo antico. Decen­ni in cui si assisteva, in parallelo, al venir me­no di quella «agevole familiarità» con un insie­me di miti e storie, personaggi e monumenti, proverbi e testi canonici, che per secoli aveva costituito una lingua franca della cultura, o, per meglio dire, «il tratto distintivo di coloro che avevano tratto beneficio da una formazio­ne civilizzata e civilizzatrice». Una chiave di lettura, questa, per molti versi controcorren­te, che riaffiora non a caso nelle numerose vo­ci dedicate ai creatori e ai campioni della scien­za dell’antichità come si è venuta caratteriz­zando tra Settecento e Ottocento» .
Proprio il dibattito tra i paladini della continuità e i campioni dell’alterità conferma la fili­grana edipica del nostro rapporto con quel mondo, del quale continuiamo a non poter fa­re a meno, specie a livello di immaginario e di simboli, nonostante le ricorrenti crisi di riget­to e le intermittenze nel grado di attenzione che gli riserviamo. Da un secolo a questa par­te, da quando Freud propose di leggere i miti e i testi dei greci non solo come grandi capolavo­ri artistici, ma come trasfigurazioni senza tempo di verità profonde della condizione umana, la metafora edipica si è fatta ineluttabile,pur tra rifiuti iconoclastici e riscoperte ap­passionate. L’archeologia, scienza della tradi­zione per eccellenza, rappresentava d’altron­de agli occhi di Freud il miglior modello espli­cativo per comprendere i meccanismi della nostra psiche, una stratificazione di creazioni e rimozioni, di infrastrutture profonde che reggono il peso della nostra impalcatura co­sciente, di oggetti nascosti che, riportati im­provvisamente alla luce, attivano passioni e fobie. Vale altrettanto l’inverso: perché il no­stro atteggiamento nei confronti di un mon­do in parte sepolto, in larga parte distrutto, so­lo a tratti portato alla luce, mobilita lo stesso groviglio di emozioni che siamo soliti associa­re con il presente della vita. Freud sperimentò queste pulsioni in prima persona. Il differi­mento nevrotico del viaggio a Roma, agogna­ta, studiata ma a lungo evitata, come racconta lui stesso, riproduce la scena primaria del no­stro rapporto con gli archetipi della nostra cul­tura. Alla fine, naturalmente, anche Freud en­trò a Roma, testimoniando, come generazio­ni prima e dopo di lui, che quell’appuntamen­to può essere rimandato, ma non cancellato.
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Quando ridevamo alla greca, di Alessandro Pagnini
«The Classical Tradition» ha il pregio di includere travisamenti, banalizzazioni e stereotipi della cultura come è stata percepita nei secoli
Come mostra la sovraccoperta di questo bel libro, in cui una neo­classica erotica Venere disarma Marte in una pletora di stucchevo­li simbologie, il classico non è necessaria­mente bello. È anche kitsch, è anche soprav­vivenza spesso senza più senso di vestigia monumentali e auliche, che si presta all’oblio come al travisamento o al dispregio. Ricordo che al Liceo si rideva di gusto sfogliando un giornalino goliardico di caricature ispirate alla classicità, dove per esempio Turno re dei Rutuli era ritratto come un omaccione cipiglioso che guidava un eserci­to su pattini a rotelle.
Gli autorevoli studiosi che hanno intra­preso questa opera (a fianco il curatore Glenn Most ci spiega la sua filosofia) han­no voluto che anche gli errori di lettura, i fraintendimenti filologici e di gusto, gli stereotipi banali (che hanno invaso, nel nostro secolo, cinema e immaginario), perfino gli scherzi, avessero uno spazio nella storia della tradizione classica. Esse­re eredi della classicità greca e romana non vuol dire per forza deferirla; scrivere in modo serio ed erudito sulla nostra storia culturale, non vuol dire rinunciare all’ironia e a una sobria (ma perché no, in qualche caso anche tendenziosa) distan­za. Come lo storico dell’arte Salvatore Settis ci ha insegnato in suo recente brillante saggio (Futuro del classico,Einaudi), ogni epoca si rapporta in modo diverso al passato e inventa un’idea diversa di classico, perché questo le serve a pensare il futuro, a creare un ponte tra le proprie radici e un destino che sia il meno possibile casuale. «L’antichità - diceva Novalis - non ci è data in consegna di per sé, non è lì a portata di mano; al contrario, tocca proprio a noi saperla evocare». Leggere e osservare classici è in fondo ridefinire identitariamente se stessi.
Anthony Grafton è uno storico, Glenn Most un filologo classico. Arte, storia, filosofia, politica, antropologia, religione, spettacolo sono materie trattate in questo libro-companion con rigoroso specialismo da un folto gruppo di ottimi collaboratori che non disdegnano mai l’impagabile gusto dell’intrattenimento. Il repertorio di immagini è ricco, ricercato e sapientemente evocativo. Non resta che metterlo a disposizione del pubblico italiano; che anche lui ripensi il classico con il dovuto atteggiamento critico, ma che soprattutto non se ne dimentichi.

Jeffrey Eugenides, "La trama del matrimonio"


Jeffrey EugenidesThe Marriage Plot

“That was when Leonard realized something crucial about depression. The smarter you were, the worse it was. The sharper your brain, the more it cut you up.” 

Some people majored in English to prepare for law school. Others became journalists. The smartest guy in the honors program, Adam Vogel, a child of academics, was planning on getting a Ph.D. and becoming an academic himself. That left a large contingent of people majoring in English by default. Because they weren't left-brained enough for science, because history was too try, philosophy too difficult, geology too petroleum-oriented, and math too mathematical - because they weren't musical, artistic, financially motivated, or really all that smart, these people were pursuing university degrees doing something no different from what they'd done in first grade: reading stories. English was what people who didn't know what to major in majored in.” 

“There were some books that reached through the noise of life to grab you by the collar and speak only of the truest things. A Confession was a book like that. In it, Tolstoy related a Russian fable about a man who, being chased by a monster, jumps into a well. As the man is falling down the well, however, he sees there's a dragon at the bottom, waiting to eat him. Right then, the man notices a branch sticking out of the wall, and he grabs on to it, and hangs. This keeps the man from falling into the dragon's jaws, or being eaten by the monster above, but it turns out there's another little problem. Two mice, one black and one white, are scurrying around and around the branch, nibbling it. It's only a matter of time before they will chew through the branch, causing the man to fall. As the man contemplates his inescapable fate, he notices something else: from the end of the branch he's holding, a few drops of honey are dripping. The man sticks out his tongue to lick them. This, Tolstoy says, is our human predicament: we're the man clutching the branch. Death awaits us. There is no escape. And so we distract ourselves by licking whatever drops of honey come within our reach.” 


“She'd become an English major for the purest and dullest of reasons: because she loved to read.” 

“Mania was a mental state every bit as dangerous as depression. At first, however, it felt like a rush of euphoria. You were completely captivating, completely charming; everybody loved you. You took ridiculous physical risks, jumping out of a third-floor dorm room into a snowbank, for instance. It made you spend your year's fellowship money in five days. It was like having a wild party in your head, a party at which you were the drunken host who refused to let anyone leave, who grabbed people by the collar and said, "Come on. One more!" When those people inevitably did vanish, you went out and found others, anyone and anything to keep the party going. You couldn't stop talking. Everything you said was brilliant. You just had the best idea. Let's drive down to New York! Tonight! Let's climb on top of List and watch the sunrise! Leonard got people to do these things. He led them on incredible escapades. But at some point things began to turn. His mind felt as if it was fizzing over. Words became other words inside his head, like patterns in a kaleidoscope. He kept making puns. No one understood what he was talking about. He became angry, irritable. Now, when he looked at people, who'd been laughing at his jokes an hour earlier, he saw that they were worried, concerned for him. And so he ran off into the night, or day, or night, and found other people to be with, so that the mad party might continue...” 

“He remained heartbroken, which meant one of two things: either his love was pure and true and earthshakingly significant; or he was addicted to feeling forlorn, he liked being heartbroken.” 


“It was probably true that he objectified women. He thought about them all the time, didn't he? He looked at them a lot. And didn't all this thinking and looking involve their breasts and lips and legs? Female human beings were objects of the most intense interest and scrutiny on Mitchell's part. And yet he didn't think that a word like objectification covered the way these alluring - but intelligent! - creatures made him feel. What Mitchell felt when he saw a beautiful girl was more like something from a Greek myth, like being transformed, by the sight of beauty, into a tree, rooted on the spot, forever, out of pure desire. You couldn't feel about an object the way Mitchell felt about girls.” 




Luigi Sampietro, Il triangolo secondo Eugenides, "Il Sole 24 Ore", 29 aprile 2012

Patrimonio e matrimonio fanno coppia da sempre. Anzi, addirittura, spesso si sposano, o si sposavano, tra di loro. Quanto alla passione, quella stava per lo più nei libri – in prosa o in versi – e non nella vita, dove le condizioni ambientali erano sovente difficili, qualche volta impossibili, e perciò l'amore sopravviveva come un clandestino.

Gli impedimenti potevano essere i genitori dell'una o dell'altro – della futura moglie o del futuro marito – che, per ragioni di ceto o di soldi, non giudicavano opportuno che nel matrimonio l'amore ci mettesse nemmeno un dito. Potevano essere un passato legame dell'uno o dell'altra, oppure gli innumerevoli scherzi che il destino cinico e baro sapeva perpetrare nei confronti delle sue vittime. Che so? Un "lui" e una "lei" che erano del medesimo sesso, o di religione e razza diversa, o magari con uno sproposito di anni di differenza...
Il "vero amore", spinto nell'illegalità o perlomeno nella sconvenienza, diventava una forza coartata e talora irresistibile. Magari l'intera faccenda finiva in tragedia, ma chi scriveva un biglietto d'addio prima di lasciarci la pelle di solito faceva sapere che ne era valsa la pena. Erano casi che finivano sui giornali e però, quasi sempre, erano un'imitazione delle storie che si trovavano nei romanzi.
E qui bisogna fare una distinzione di carattere tecnico. Quando amore e cuore facevano rima al chiaro di luna, e spesso all'addiaccio, con un "lui" e una "lei" così presi dalla parte da smarrire persino i propri connotati psicologici, si trattava di romance. Quando invece le trame del matrimonio giravano attorno al problema del metter su casa con relativa azienda e prole a venire, i personaggi erano scolpiti a tutto tondo e si era nell'ambito del novel. Ambito nel quale prevaleva quell'ottemperanza ai rapporti di causa ed effetto che per solito chiamiamo «realismo» e con il quale, da Jane Austen a Balzac, si intendeva la concretezza nel comportamento. Soprattutto nel contare i soldi della dote matrimoniale.
In entrambi i casi – novel e romance – le storie erano solfeggiate sul pentagramma dell'amore. Non dimentichiamoci infatti che prima degli anni Sessanta – prima, cioè, della diffusione della pillola – i bambini nascevano a sciami, anche in Occidente, e l'amore consisteva soprattutto nel prevedere e provvedere per chi sarebbe quasi inevitabilmente nato. Il resto erano per lo più «grilli per la testa». O evasioni nel mondo del fantastico.
L'ultimo, trascinante, romanzo di Jeffrey Eugenides, La trama del matrimonio, non a caso cita in apertura una massima di La Rochefoucauld: «Nessuno si innamorerebbe se non avesse sentito parlare dell'amore». Siamo a un passo dall'idea centrale di un classico come L'amore e l'Occidente di Denis de Rougemont, secondo il quale il cosiddetto «amore romantico» sarebbe un'invenzione propagandistica risalente ai tempi dell'eresia catara. Perché, infatti – ci si può chiedere –, una persona sana di mente dovrebbe di propria volontà mettersi in condizione di soffrire senza trarne un vantaggio concreto?
La prima risposta viene da Frammenti di un discorso amoroso di Ronald Barthes, che è il livre de chevet nonché la guida spirituale della protagonista, Madeleine Hanna. L'amore, secondo Barthes, è una forma di follia – come del resto, aggiungiamo noi – aveva documentato, alla fine del Seicento, Robert Burton nel terzo libro della Anatomy of Melancholy. Ma Eugenides, che è un narratore trascinante e allo stesso tempo enigmatico – seppure non complicato né oscuro – fa un passo oltre e capovolge i termini della questione chiedendosi come si possa rappresentare l'amore di un folle. L'amore inteso non come malattia di una mente altrimenti sana, ma come passione di una persona malata di mente.
Il romanzo ci porta deliziosamente a spasso per quasi 500 pagine con un intreccio amoroso, e variazioni sul tema, che coinvolge tre studenti della Brown University, a partire dal giorno della consegna del diploma di laurea – tutti in tocco e toga sul campus – nella primavera del lontano 1982. Piantando in asso professori, genitori e amici, Madeleine – la "lei" del triangolo – salta la cerimonia e corre all'ospedale psichiatrico di Providence dove è ricoverato Leonard Bankhead, un brillantissimo studente di scienze che soffre di psicosi maniaco-depressiva e a cui si unirà in matrimonio entrando in un incubo a occhi aperti. L'altro "lui" della vicenda è Mitchell, che si chiama Grammaticus, viene da Detroit come Eugenides e – «forse che sì, forse che no» – sembra essere un alter ego dell'autore. Innamorato di Madeleine, Mitchell sarebbe per lei l'uomo da sposare ma la cosa non andrà in porto: partirà per la Grecia da dove provengono i genitori e di lì verso l'India, allo scopo di mettere alla prova il proprio amore per Dio e per il prossimo tra i moribondi di Madre Teresa di Calcutta. Mitchell è uno studioso di teologia e un avido lettore di libri a carattere religioso, e bisogna quindi pensare che l'esperienza che vuole vivere sia da intendere come un amore – agape – che non è comandato dal desiderio, carnale o spirituale che sia, bensì guidato dall'impulso ad amare per solo amore.
Mitchell non resisterà a lungo in mezzo ai corpi in disfacimento del cronicario di Calcutta e tornerà in America. Per un tacito patto con il lettore non svelerò come vada a finire la storia. Avverto però che il vero significato del libro non è in realtà dentro la vicenda del triangolo amoroso. È invece contenuta nella domanda che pongono al lettore sia Madeleine – studentessa e poi studiosa di letteratura vittoriana – sia lo stesso Eugenides. E cioè, se in tempi di facili divorzi e diffusi rapporti prematrimoniali, scrivere un libro sull'amore e sul matrimonio – con tutti i convenzionali ostacoli e punti di riferimento che ne sostengono la peripezia – sia ancora plausibile. Il che vuole anche dire chiedersi che cosa mai possa dire – e dare – un romanzo, quando la critica da tempo proclama che «la littérature c'est moi» e che il testo è solo un pretesto per dare inizio alle interpretazioni. Ai lettori, non necessariamente ai posteri, l'ardua sentenza, e personalmente suggerirei di dare sempre un'occhiata anche al numero di copie vendute.