sabato 26 luglio 2014

Il caos calmo del digitale che rivoluziona la lettura


Maurizio Ferraris

"La Repubblica", 24 luglio 2014

In La musa impara a scrivere (1986) Eric Havelock aveva analizzato, con lo sguardo del filologo classico, i cambiamenti epocali comportati dal passaggio dall’oralità alla scrittura: trasformazioni nei fruitori (che non avevano più bisogno di ricordare a memoria i propri testi preferiti) e nei produttori, che dovevano immaginarsi un pubblico insieme più distratto (si può leggere senza troppa attenzione, si possono saltare le pagine più noiose) e più severo (il lettore potrà tornare sul testo, e criticarlo). Pochissimi anni dopo l’uscita di quel libro, ci si è trovati di fronte a una svolta non meno radicale.
Caratterizzata dall’esplosione e diffusione capillare della scrittura (e delle registrazioni in generale) nel web. È la cosiddetta “quarta rivoluzione” — dopo il passaggio dalla oralità alla scrittura, poi dal rotolo al volume, e infine dai manoscritti alla stampa — che dà il titolo sia a un illuminante libro di Gino Roncaglia (La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro  Laterza 2010), sia, recentissimamente, a un libro di Luciano Floridi, The Fourth Revolution. How the Infosphere is Reshaping Human Reality (Oxford University Press 2014).
In brevissimo tempo i nostri computer, tablet e smartphone hanno avuto accesso alla più grande biblioteca di tutti i tempi. Se nel passaggio dall’oralità alla scrittura il fruitore era diventato necessariamente un lettore colto, cioè alfabetizzato, nel passaggio dalla scrittura su carta al digitale il fruitore è diventato un potenziale autore. E un autore esigente, che se si annoia può aprire tutti i libri che vuole, visto che ovunque sia nella realtà fisica, in quella web dispone di una biblioteca sconfinata.
Non è vero, dunque, come sosteneva un po’ catastroficamente Nicholas Carr in Internet ci rende stupidi? (Raffaello Cortina 2011) che il passaggio al digitale è fonte di degrado culturale, anzi, un [sic] costituisce potenziale pericolo per l’intelligenza (era del resto la stessa obiezione di Platone contro la scrittura, e il capovolgimento della tesi, decisamente troppo ottimistica, di Pierre Lévy in L’intelligenza collettiva, Feltrinelli 1996). Anche se è certo vero, come ha sostenuto Roberto Casati in Contro il colonialismo digitale (Laterza 2013) che è la lettura cartacea è concepita come un momento di concentrazione, mentre quella digitale ha luogo su un supporto in cui convergono mille altre sollecitazioni. Nessuno, mentre leggiamo un libro cartaceo, ci chiede di rispondere a una lettera, mentre quando leggiamo sul nostro tablet avviene in continuazione.
Questa trasformazione della lettura (e correlativamente della scrittura) è al centro di un articolo di Maria Konnikova sul New Yorker. La lettura online è diversa da quella su carta e la letteratura non può non fare i conti con questa circostanza. Se leggendo silenziosamente l’ Iliade su carta è bene presupporre che era un’opera originariamente orale e comunque destinata a una lettura ad alta voce, leggendo la Recherche su Kindle è bene non dimenticare che si tratta di un testo uscito in sette volumi tra il 1909 e il 1922. E chi oggi si mette a scrivere un romanzo deve essere consapevole del fatto che potrebbe essere letto in un modo molto diverso da come erano letti i romanzi tradizionali. Ad esempio, dati sperimentali citati dalla Konnikova dimostrano che leggere un romanzo su Kindle rende molto meno attenti alla trama, che dunque dovrà essere o semplificata, o resa meno rilevante rispetto ad altri effetti di scrittura.
Proprio la consapevolezza della centralità del medium nella produzione e nella ricezione delle forme narrative sta al centro anche del convegno dello Igel (International Society for the Empirical Study of Literature and Media) che si tiene in questi giorni all’Università di Torino (il programma e l’abstract delle relazioni si può trovare a questo indirizzo: http:// www.igel2014.unito.it/). Richiamandosi a Bourdieu, il principale organizzatore del convegno, Aldo Nemesio, ha osservato che quei filosofi e studiosi di letteratura che insistono nel considerarla come una forma espressiva ineffabile si rendono giustizia da soli (perché se è inesplicabile non c’è bisogno di loro), e soprattutto non tengono conto del fatto che, invece, moltissime caratteristiche del fatto letterario si possono spiegare proprio a partire dal medium di cui si serve. Insomma, come la comparsa della fotografia ha decretato la fine del realismo pittorico, così la comparsa di wikipedia e ha generato una letteratura tendenzialmente più precisa e prolissa (non ci vuol niente ad accumulare dettagli e informazioni).
Queste trasformazioni, ovviamente, non riguardano solo la produzione e fruizione di testi letterari. Andare in biblioteca ormai non risponde più, in molti casi, all’esigenza di accumulare informazione ma, semmai, alla speranza di trovare un luogo in cui si possa stare tranquilli. Una speranza che, del resto, il più delle volte è illusoria, visto che oggi in biblioteca ci si va con il computer e le biblioteche sono generalmente ben connesse.
I libri restano sugli scaffali, e buona parte della lettura avviene online, il che, di nuovo, non è la stessa cosa. A parità di contenuto, la lettura digitale è più veloce, perché sfogliare le pagine è una operazione che richiede più tempo che far scorrere verticalmente lo schermo, e soprattutto più faticosa, non tanto per le caratteristiche dello schermo, quanto piuttosto per il continuo navigare fra link che è ormai tipico della lettura digitale.
Questo procedimento si trasforma nella creazione di un nuovo testo: c’è chi leggendo una pagina web aprirà certi link, e chi ne aprirà degli altri. Alla fine del processo, di lettura cursoria e insieme di continuo ampliamento del campo, i due avranno letto, di fatto, due testi diversi. Con un’impresa che nel peggiore dei casi potrebbe ondeggiare tra l’apprendistato di Bouvard e Pécuchet e quello di Rousseau, tra la volontà di sapere ottusa e pedante e la disperazione nervosa, come quando Jean-Jacques scopre che a pagina 3 di un libro si trova un passo oscuro, cerca di chiarirlo con un altro libro, che risulta però indecifrabile a pagina 2, rinviando a un terzo libro, che a pagina 4 contiene un enigma, e alla fine si trova sconfortato in una stanza piena di libri aperti.
Ma la rivoluzione in atto nelle modalità di lettura ha conseguenze forti anche sull’apprendimento. Come testimonia la scienziata americana Maryanne Wolfe, la specialista delle tematiche cognitive e linguistiche citata nell’articolo del New Yorker: dalle centinaia di segnalazioni che le giungono da insegnanti e docenti universitari, si ricava che gli studenti che si formano solo su computer, tablet, Kindle e dispositivi analoghi hanno attitudini diverse. A volte lacunose. Architetti che giunti sul luogo fisico su cui agire sembrano non orientarsi. O specializzandi in neurochirurgia con una tendenza eccessiva al copia e incolla mentale. O ancora i tanti liceali incapaci di apprezzare i classici della letteratura. Di fronte a queste sfide, e a questi problemi aperti, la questione non è tanto demonizzare le novità. Quanto imparare a essere lettori (e scrittori) digitali migliori. 

RONALD SYME, AUGUSTO E LA RIVOLUZIONE ROMANA VISTI DA OXFORD


Carlo FRANCO

"Il Manifesto - Alias", 20 luglio 2014

Molti sto­rici hanno inda­gato la crisi che a Roma tra­volse la repub­blica ari­sto­cra­tica fino all’instaurazione del regime di Augu­sto. E molti hanno rac­con­tato la vita del figlio adot­tivo di Cesare, che da lea­der di una fazione della guerra civile divenne ‘prin­ceps’. Nes­suno in età moderna lo ha fatto però con la forza e l’efficacia di Ronald Syme (1903–1989), sto­rico neo­ze­lan­dese tra­pian­tato a Oxford, in The Roman Revo­lu­tion. Il libro, che esa­mina l’ascesa dell’Augusto con lo sguardo rivolto ai dit­ta­tori dell’Europa nove­cen­te­sca, uscì nel set­tem­bre del 1939. La con­co­mi­tanza con lo scop­pio del con­flitto mon­diale poteva nuo­cere: la guerra avrebbe pre­sto impo­sto una dif­fe­rente agenda all’interpretazione dei governi tota­li­tari. Ma l’opera di Syme man­tenne la pro­pria forza, e pro­prio dal dopo­guerra ha eser­ci­tato un’influenza dure­vole sugli studi. Il libro fu tra­dotto in ita­liano nel 1962, su sug­ge­ri­mento di Arnaldo Momi­gliano. Lo sto­rico, costretto all’esilio in Gran Bre­ta­gna dal 1938, aveva pron­ta­mente recen­sito Syme in una delle sue prime pub­bli­ca­zioni all’estero e firmò la pre­fa­zione all’edizione ita­liana. Altre edi­zioni nelle prin­ci­pali lin­gue euro­pee segui­rono negli anni. Nel frat­tempo, dopo la pub­bli­ca­zione degli altri suoi libri, Syme era ormai «l’imperatore della sto­ria romana» (come lo definì Glenn Bower­sock). Ora oppor­tu­na­mente La rivo­lu­zione romana torna in libre­ria, com­plice il bimil­le­na­rio della morte di Augu­sto (morto nel 14 d.C.), con nuova intro­du­zione a cura di Giu­sto Traina, che ana­lizza effi­ca­ce­mente la rice­zione del libro (tra­du­zione di Man­fredo Man­fredi, «Pic­cola Biblio­teca Einaudi Ns», pp. XXXVIII-650).
Al suc­cesso così pro­lun­gato del lavoro di Syme ha con­tri­buito, oltre al sog­getto, lo stile par­ti­co­la­ris­simo dell’autore. La sto­ria di Roma dal domi­nio di Pom­peo alla fine del prin­ci­pato di Augu­sto è rac­con­tata in pagine ner­vose e taglienti, che con­sa­pe­vol­mente guar­dano a Tacito (lo sto­rico romano a cui l’autore dedicò, anni dopo, un grande stu­dio). Sec­che frasi liqui­dano miti e gran­dezze: le cele­ber­rime Filip­pi­che di Cice­rone appa­iono «un eterno monu­mento di elo­quenza, di ran­core, di tra­vi­sa­mento dei fatti», opera di un poli­tico vit­tima di una «costante illu­sione». La poli­tica è stu­diata nella sua forma più cruda, descritta com’è senza spe­ranza e senza ideali. L’oligarchia romana non era stata in grado di man­te­nere il con­flitto entro i con­fini della lotta per potere, ric­chezza o glo­ria: altri temi erano emersi, con la forza del denaro e delle armi. Cesare, ari­sto­cra­tico fino al midollo, si era appog­giato a sena­tori e cava­lieri, ma aveva pro­mosso anche uomini che veni­vano dalla peri­fe­ria, nuovi alla poli­tica. Come risul­tato, la fazione che sostenne poi il gio­vane erede di Cesare aveva com­preso per­so­naggi «privi di scru­poli, arric­chiti dalla guerra e dalla rivo­lu­zione», e il nuovo ordine seguito alla feroce lotta era di fatto plu­to­cra­tico. Non c’era solo Mece­nate con i suoi pen­sosi letterati.
Al cen­tro del rac­conto, oltre ai sin­goli pro­ta­go­ni­sti, stanno più in gene­rale la lotta di vari ‘par­titi’ e la crisi con­vulsa di una classe diri­gente. I nodi fami­liari e poli­tici che strin­ge­vano tra loro tutti i poli­tici di primo e secondo piano nella Roma della tarda repub­blica sono evo­cati con pre­ci­sione (secondo il metodo «pro­so­po­gra­fico») ma anche con una stra­bi­liante com­pren­sione «dall’interno», che ha fatto pen­sare per ana­lo­gia allo sguardo di Proust (cui Syme dedicò uno scritto, rima­sto ine­dito ma recen­te­mente pub­bli­cato). In que­sta foca­liz­za­zione sulle éli­tes è stato rico­no­sciuto da tempo il senso e il limite del lavoro: dav­vero, come scrisse Momi­gliano, la sto­ria di Roma si poteva ridurre alla lotta tra fazioni, allo stu­dio dei ristretti gruppi che si con­te­sero il potere per decenni, quando venne meno il pre­ca­rio equi­li­brio della repub­blica? Quale fu il ruolo degli eser­citi, delle pro­vin­cie e, su un altro piano, dei moventi eco­no­mici? Temi que­sti non estra­nei a Syme, che alle car­riere di per­so­naggi ‘pro­vin­ciali’ dedicò studi par­ti­co­lari di grande rilievo, ma che restano sullo sfondo nella sua opera mag­giore. La rivo­lu­zione romana non voleva essere un lavoro esau­stivo: molto lavoro c’era da fare ancora (come l’autore espli­ci­ta­mente ammet­teva), e molto da allora è stato fatto, in ricer­che impor­tanti e sol­le­ci­tate da spinte dif­fe­renti. Ad esem­pio, The last Gene­ra­tion of the Roman Repu­blic di Eric Gruen (1974) affron­tava la stessa crisi stu­diata da Syme, ma con inte­resse agli ele­menti di con­ti­nuità e alla resi­lienza delle isti­tu­zioni rispetto alle epo­che di inquie­tu­dine (i tur­moils dei tardi anni ses­santa e dei primi anni set­tanta negli Usa). Oggi, invece, nes­suna ricerca di sto­ria antica, nem­meno sull’Augusto, fa sen­tire l’urgenza di una que­stione viva: come ha osser­vato Andrea Giar­dina, «l’impero romano non suscita più pas­sioni attua­liz­zanti», ma genera al più mostre, con­ve­gni, o serie televisive.
Non era invece così negli anni trenta, dopo la fine degli imperi ari­sto­cra­tici e la liqui­da­zione dei governi libe­rali a van­tag­gio di regimi per­so­nali a base mili­tare: il bimil­le­na­rio augu­steo del 1937-’38 fu cele­brato in Ita­lia con fer­vore fasci­sta. Impres­sio­nato da quel con­te­sto, Syme non rac­contò la vit­to­ria dell’Augusto come l’ineluttabile e «giu­sti­fi­cato» esito di un pro­cesso sto­rico (la «crisi senza alter­na­tive» di Chri­stian Meier), e ancor meno come l’affermazione di un uomo cari­sma­tico: largo spa­zio è per con­tro dato a tutte le ambi­guità del pro­ta­go­ni­sta (un cama­leonte, un ipo­crita, una sfinge, secondo le suc­ces­sive defi­ni­zioni datene da Giu­liano Impe­ra­tore, da Gib­bon, da Syme stesso). Una certa com­pren­sione va piut­to­sto alle ragioni dei suoi avver­sari: l’apprezzamento di Syme per il punto di vista di Marco Anto­nio, più che una pro­vo­ca­zione, pare una scelta di campo. Ma senza con­ces­sioni a uto­pie «repub­bli­cane»: l’Augusto, un nuovo Cesare più paziente e meto­dico del primo, dopo essere stato un pro­blema (ossia una delle forze che lace­ra­rono defi­ni­ti­va­mente la com­pa­gine sta­tale) fu anche la solu­zione. Ria­dat­tando una effi­cace for­mu­la­zione di Plu­tarco (Vita di Cesare, 28,5), forse è vero che «il potere di uno solo era l’unico rime­dio ai mali della repub­blica, e allora era meglio che quella medi­cina venisse som­mi­ni­strata dal medico più umano», anche se non dal migliore.
Con La rivo­lu­zione romana Syme scrisse, con spi­rito ari­sto­cra­tico, la sto­ria della crisi di una ari­sto­cra­zia: la tra­sfor­ma­zione vio­lenta di una società tra­di­zio­na­li­sta, scossa da un lungo tra­va­glio e final­mente da una rivo­lu­zione. Il ter­mine, così discusso, si giu­sti­fica ampia­mente per il fatto che arrivò al ver­tice poli­tico un nuovo ceto diri­gente, uscito dalle feroci lotte che ave­vano deci­mato o emar­gi­nato le fami­glie che a lungo ave­vano tenuto stretto a sé il governo della repub­blica. La sto­ria di que­sti gruppi è stata nar­rata ana­li­ti­ca­mente da Syme anni dopo in L’aristocazia augu­stea (tr. it. Riz­zoli, 1993). I nuovi gruppi di potere non sono descritti da Syme con sim­pa­tia. Ai valori cui era legato il vec­chio ceto erano suben­trate altre ener­gie, altri mores: «Quando un par­tito ha trion­fato con la vio­lenza e si è impa­dro­nito del con­trollo dello stato, sarebbe pura fol­lia con­si­de­rare il nuovo governo come un’accolita di per­so­naggi sim­pa­tici e vir­tuosi». Del resto, il prin­ci­pato segnava la vit­to­ria di quanti ave­vano rinun­ciato alla libertà per avere la pace. I giu­dizi di Syme sem­brano sug­ge­rire che il libro guar­dasse a un pub­blico di let­tori soli­dali con le dif­fi­denze dell’autore: verso la folla inco­stante, verso gli eser­citi incon­trol­lati, verso gli avidi vete­rani smo­bi­li­tati, verso i nuovi poli­tici ambi­ziosi, verso gli uomini nuovi, spesso moral­mente impari alle sfide da fron­teg­giare, e privi di dignità. La pro­spet­tiva è libe­rale di fondo, ma con­ser­va­trice: un chiaro impulso anti­ti­ran­nico la dif­fe­ren­zia però net­ta­mente dalle posi­zioni degli amici di lord Dar­ling­ton, l’immaginario (ma non troppo) per­so­nag­gio di The remains of the day di Kazuo Ishi­guro (1989).
Pur segnate dall’esperienza degli anni trenta del secolo scorso, le pagine di Syme mostrano a più di sessant’anni di distanza dalla pub­bli­ca­zione, e oltre cin­quanta dalla tra­du­zione ita­liana, intatta forza. La tesi cen­trale, che la «rivo­lu­zione romana» portò al potere le classi apo­li­ti­che dell’Italia, escluse fino ad allora dal vero potere cen­trale, è stata discussa, sfu­mata o con­te­stata. Docu­menti sco­perti suc­ces­si­va­mente hanno modi­fi­cato l’interpretazione di taluni aspetti ammi­ni­stra­tivi. La piena foca­liz­za­zione sui dati della tra­di­zione let­te­ra­ria portò Syme a lasciare ridotto spa­zio ai temi ideo­lo­gici, dal con­senso alla pro­pa­ganda, e al «potere delle imma­gini», al quale Paul Zan­ker ha dedi­cato anni fa il suo libro su Augu­sto (tr. it. Einaudi, 1989, poi Bol­lati Borin­ghieri, 2006). La scelta di Syme, nata anche dalla presa di distanza rispetto a certi lavori apo­lo­ge­tici verso l’Augusto, ha gio­vato alla strin­ga­tezza del rac­conto, lucido e disil­luso ma impe­gnato a cogliere le moti­va­zioni pro­fonde, psi­co­lo­gi­che più che politico-economiche, degli attori. I fatti sono riper­corsi con sapienza nar­ra­tiva, entro un magi­strale domi­nio delle fonti anti­che. Scarno il ricorso alla biblio­gra­fia moderna, presso che nulle le con­ces­sioni alla teo­ria. E netto il rifiuto per le sot­ti­gliezze della for­ma­liz­za­zione giu­ri­dica, cara alla tra­di­zione ger­ma­nica del Momm­sen: lo sta­li­ni­smo aveva inse­gnato che le «costi­tu­zioni» pos­sono essere sem­plici fac­ciate, che poco o nulla dicono sul reale strut­tu­rarsi del potere, per­ché «qua­lun­que sia la forma di un governo, monar­chia, repub­blica o demo­cra­zia, in ogni tempo c’è, die­tro, una oli­gar­chia». Parole tor­nate oggi, per vie impre­vi­ste, di scon­cer­tante attua­lità: e certo, ogni età ha l’oligarchia che si merita.

Marino Niola: luoghi e leggende dell'Italia pagana



La valle incantata che nasconde Madone in attesa

"La Repubblica", 16 luglio 2014

Le dee acquatiche sono ancora fra noi. E il loro ultimo rifugio è la Valtiberina. Da questo imponente anfiteatro che, inseguendo il cammino del Tevere, scende dalle alture del monte Fumaiolo fino a Città di Castello, le ninfe non sono partite. Con buona pace di T. S. Eliot sono ancora loro le testimoni delle notti d'estate, le signore di fiumi e sorgenti che scorrono nelle vene di questa terra in stato di grazia. Fonti sulfuree, laghetti incantati, polle fumiganti, ruscelli saltellanti, zampilli trasparenti. Una natura in stato di perpetua effervescenza. Dove nulla è immobile e tutto è vivo, animato da un soffio epifanico.
Sembra l'immagine del panta rei eracliteo. Non a caso Plinio trovava qualcosa di sacro in questo pendio che, passando per Sansepolcro e Anghiari, declina dolcemente verso valle. Come l'acqua che scorre. Un movimento fluviale interrotto solo da borghi, cappelle, sacelli, tabernacoli e pievi che sembrano essere stati messi lì apposta per separare le acque dalle acque. Uno scenario da Genesi che aiuta a capire perché in principio di tutto fu l'acqua, madre degli esseri e delle cose. E perché da queste parti la generazione è da sempre il culto per antonomasia, il tabernacolo liquido dell'immaginario.
Molto prima che il cristianesimo trionfante insediasse le sue Madonne in Maestà, qui regnarono le Grandi Madri italiche. L'etrusca Uni, creatrice della vita, la romana Cerere, dea delle messi, Lucina, colei che porta i bambini alla luce. E una miriade di divinità minori partorite dal ventre di una terra madre sempre gravida di forme. Come le cosiddette pietre della gravidanza, ex voto a foggia di utero, e le pietre lattaiole, chiamate anche "mamme longobarde", che venivano usate come amuleti da appendere al collo delle puerpere perché la montata lattea fosse abbondante. Ma anche per difendere il seno materno dalle dame bianche, quelle che rubavano il latte. Fino alla fine della Seconda guerra mondiale, le donne evitavano di portare nei boschi i bambini non svezzati per paura del sortilegio delle pallide silfidi. Mentre, per propiziarsi la pro- tezione delle antiche signore dell'acqua, le donne incinte immergevano gli abitini dei nascituri nelle fonti sacre. E offrivano pane, miele, spighe di grano. Ma anche gigli, i fiori di Giunone. E delle focacce di farro che venivano chiamate addirittura placente. Gli stessi doni che dopo la cristianizzazione vengono offerti alle Madonne del latte, che raccolgono il testimone delle dee pagane. Non a caso fino a pochi decenni fa in queste campagne si usava mettere le placente in vasi a forma di utero e calarle nei pozzi vicini alle chiese e alle fontane benedette per favorire la lattazione.
Una vera e propria archeologia della maternità che ha il suo perturbante epicentro sacrale a Monterchi, dove regna sovrana la Madonna del Parto di Piero della Francesca. La più enigmatica delle Vergini col pancione. Che in questa parte d'Italia erano numerosissime, fino a quando la Chiesa a fine Cinquecento non considerò sconveniente l'esibizione del ventre gonfio, cancellando la maternità vera di Maria in favore di un dogma senza corpo. Madre-bambina e matrona implume, la definì Pasolini, che fece della giovinetta dallo sguardo adulto e dalla cera impassibile l'archetipo della maternità.
Un affresco che non è un affresco. Ma piuttosto una reincarnazione della genitrice primigenia, della Grande Madre nascosta sotto il manto della Madonna. E non è un caso che Piero l'abbia dipinta per la cappella di Santa Maria della Selva, in quel luogo silvano abita- to da sempre dagli spiriti della natura. Perché anche il suo immaginario era abitato da quelle stesse potenze femminili, da quell'abisso materno che si riflette negli occhi di nostra signora del parto.
E proprio come una padrona della vita e della morte l'ha sempre trattata il popolo della valle del Cerfone. Il fiume che fu sacro a Cerfia, la dea italica che regolava i destini femminili. È dalla fine del Quattrocento che le donne qui hanno fatto di questa icona mariana la protettrice delle puerpere, la santa delle gravidanze impossibili, la suprema levatrice celeste. E quando nel 1944 Goering ordinò alla Wehrmacht di portare l'affresco in Germania, il soprintendente di Arezzo corse a murarla nottetempo per sottrarla alla razzia. Ma si trovò accerchiato da una schiera di donne armate di falci, roncole e forconi, decise a linciarlo perché lo avevano scambiato per un ladro. La stessa cosa nel 1954, quando si sparse la voce che la Madonna sarebbe andata in prestito a Firenze per una mostra sul Rinascimento, la popolazione muliebre insorse. E non ci fu verso di far muovere il dipinto. «Come facciamo noi senza di lei», si giustificarono le ribelli, «il parto è pericoloso e un conforto a noi non ce lo dà nessuno, è solo lei che ci protegge e che ci aiuta a sopportare il dolore».
Una volta le puerpere bevevano l'acqua di una fonte vicina alla chiesa e per scongiurare il taglio cesareo toccavano il vestito e la pancia di Maria. E ancora oggi le partorienti le offrono fiori e spighe, nonostante non si trovi più nella cappella originaria, ma in un museo ospitato in una ex scuola. Facendo cortocircuitare l'immagine di culto e il culto dell'immagine. Che da oggetto di devozione diventa oggetto d'arte. Eppure non tutto è perduto. Visto che qualche mese fa mi è capitato di vedere una visitatrice che ha estratto un bouquet di spighe e roselline dalla borsa e dopo averlo appoggiato furtivamente sulla sua pancia lo ha deposto ai piedi dell'icona. Una scena da Tarkovskij. Che proprio alla Madonna di Piero dedica la bellissima sequenza iniziale di Nostalghia . «Anche lei desidera un bambino? O vuole la grazia per non averne?», dice il sacrestano alla protagonista, Eugenia, che assiste attonita a un rito di fertilità che sembra sbalzato fuori dalla notte dei tempi. E poi aggiunge, «Purtroppo, quando c'è qualcuno che è distratto, estraneo all'invocazione, allora ‘un succede nulla!». E questo antico legame di pancia tra donne e madonne resta nelle pieghe del regolamento museale che, per disposizione di Comune e Soprintendenza, concede l'ingresso gratuito a tutte le signore in attesa. Evidentemente le antiche madri non si lasciano strappare le chiavi della vita.


 "La Repubblica", 19 luglio 2014

Medea salvata dal Dioniso dei cristiani

IL SALENTO è terra di incantesimi. Stretta tra il morso della tarantola e il rimorso di Medea. Dèi e demoni si fronteggiano da sempre in questa penisola sospesa tra due mari. Proprio come Ottavia, la città-ragnatela di Calvino, è sospesa tra due abissi. Le sue strade si congiungono, si separano e si attraversano senza mai spezzare quella linea nera che striscia in tutte le direzioni, come un'inesauribile bava di ragno. Ciascun paese è collegato a tutti gli altri in una tela infinita che si estende tra l'Adriatico e lo Ionio. Sopra arenili incastonati in trasparenze cristalline si levano cattedrali di roccia rose dalla salsedine e rovine calcinate dal sole.
Torri costiere che il tempo ha tagliato letteralmente in quattro spicchi, come cocomeri di tufo ingiallito. Questi fossili di una storia in stato di ossidazione sono l'ultimo rifugio di dèi in esilio. Acquattati nei simulacri androgini di vescovi rococò. O nascosti negli occhi senza fondo di Addolorate nerovestite come Demetra in lutto. Mimetizzati nel candore abbagliante di chiese seicentesche su cui piroettano statue di santi ballerini. Sopra tutti sta San Paolo. Il signore delle tarantole, l'apostolo ambiguo di questa regione di estri smarriti e di tormenti ritmici. Lu santu governa da sempre i tremori e i furori dei tarantolati. E li guarisce facendoli ballare, come baccanti invasati da un Dioniso cristiano. Scatenati dalle spirali sinuose del violino e dal battito ostinato del tamburello che intonano l'antidoto ritmico al male oscuro di una terra in trance. Contro il quale non c'era altra cura se non la pizzica, un ballo sfrenato, circolare che durava giorni e giorni, finché San Paolo non concedeva la grazia della guarigione. Fino al nuovo morso, che arrivava puntuale a un anno dal primo. Come un'irresistibile recidiva coreutica. Una invitation à la danse cui non si poteva che obbedire.
Morso e rimorso. Era questo l'inesorabile algoritmo del tarantismo. Che all'inizio degli anni Sessanta il grande antropologo Ernesto De Martino raccontò in La terra del rimorso , un libro destinato a iconizzare il Salento, facendone il simbolo di una faglia meridiana che divideva la nazione in due. Per l'Italia del miracolo economico fu uno shock culturale. In quegli anni il Belpaese, in piena euforia da benessere, scoprì scandalizzato l'esistenza delle spose di San Paolo - così venivano soprannominate le donne morse dal ragno - che, vestite di bianco, roteavano freneticamente come dervisci sull'asse smarrito della loro vita. O saltavano come menadi sulle note ossessive di una tarantella suonata da musicisti sciamani. O si arrampicavano sull'altare della cappella di San Paolo a Galatina con l'agilità spiritata di ragni equilibristi.
Oggi, per fortuna, in pellegrinaggio nella barocchissima Galatina non ci vanno più i tarantati ma i turisti in cerca di buone vibrazioni. Perché l'ombra dell'Aracne mediterranea non ha mai abbandonato questi luoghi. Resta tra le spighe del grano e le foglie del tabacco come una cifra nascosta, che si rivela nei bagliori visionari della campagna abbacinata dal sole. E risorge nel riverbero bizantino del tramonto, quando il cielo diventa un'iperbole scarlatta sospesa sopra un orizzonte di assoluti. O risuona nelle notti di tempesta a Punta Ristola, all'estremità del sacro finisterre di Leuca, dove i pescatori dicono di sentire il pianto dei figli di Medea - Mermero e Fere - fatti a pezzi e gettati in quel tratto di mare dalla crudelissima madre. I due innocenti si trasformarono in pietre. Gli scogli dannati. Li chiamano così le donne, che ti raccontano ancora questa terribile storia in grico, il melodioso dialetto greco che si parla da queste parti. E quando le loro voci acute e concitate si accavallano sembrano lamentatrici uscite da un coro tragico.
Proprio a due passi da questo tacco d'Italia, nella chiesa di Santa Maria del Vereto a Patù, si trova ancora un affresco sbiadito che rappresenta Santu Paulu de le tarante con in mano una spada intorno alla quale sono attorcigliati due serpenti. Mentre ai suoi piedi sta uno scorpione sormontato da due serpi intrecciati a forma di caduceo. Quello che gli antichi identificavano con il magico scettro di Hermes. Ma anche con il taumaturgico colubro di Esculapio, il dio medico. Quel bastone miracoloso è come un testimone che passa dalle mani degli antichi numi della medicina a quelle dell'Apostolo delle Genti che ne ereditò i poteri. E a Giurdignano, a due passi dallo scenario mediorientale di Otranto, c'è una minuscola cripta bizantina scavata sotto un menhir. Molti ci vanno nottetempo ad accendere lumini davanti a un affresco che raffigura San Paolo sullo sfondo di una ragnatela. È la fotografia di una storia andata in polvere, che lascia il posto a una sorta di archeologia vivente, o piuttosto sopravvivente.
In realtà il sottile filo del ragno non si è mai spezzato e anche oggi la taranta continua a tessere la sua tela. La differenza è che ora quello che fu il simbolo di un Mezzogiorno dell'anima, stretto fra emigrazione e possessione, religione e superstizione, è diventato un attrattore turistico. Ispirando negli anni Novanta la politica di giovani amministratori locali che invece di vergognarsi di quell'eredità e di seppellire il ricordo della tarantola hanno rovesciato il senso di quel passato trasformandolo in una chance di futuro. Un esempio per tutti. La Notte della Taranta, che ha fatto del ragno un simbolo positivo. Il logo antico di una nuova economia sostenibile. E la pizzica, che fu l'emblema del ritardo storico del Sud, è diventata il motore di un distretto culturale e produttivo capace di coniugare tradizione e innovazione, identità locale e marketing territoriale. Ecologia e benessere. La taranta insomma pizzica ancora. Ma adesso il suo morso fa fare salti di gioia. E finalmente in Salento si balla senza rimorso.


"La Repubblica", 16 luglio 2014

Quel lago fatato con vista sull'Ade

L'IMBOCCATURA dell'inferno si trova nei Campi Flegrei. A dirlo è Galileo Galilei che, nel 1588, dopo attenti calcoli matematici, comunica solennemente all'Accademia fiorentina che la selva oscura di Dante si trova proprio tra il Lago d'Averno, Monte Drago e la Solfatara di Pozzuoli. Mescolando scienza e fantascienza, l'autore del Dialogo dei massimi sistemi dimostra che quello scenario di fuoco e di acqua, dove tutto si mescola, ribolle, sbuffa, svapora è il vestibolo dell'Ade.
Del resto ne erano già convinti i Greci che, abbacinati dalla bellezza inquieta e dal tremore epifanico di questa natura, ambientarono tra i boschi sacri di Cuma e l'imponente falaise di Capo Miseno la battaglia cosmica tra Giove e i Titani.
Furono i coloni eubei a inventare il nome Campi Flegrei, da flegraios che significa ardente. Da allora gli dei dell'acqua e del fuoco, esiliati in questo perturbante underground, non hanno mai smesso di far sentire la loro voce. Certificata dall'expertise dei più grandi ingegni dell'Occidente. Da Omero a Virgilio, da Dante a Goethe, da Petrarca a Flaubert, da Boccaccio a Turner. Da queste parti ogni insenatura, bosco, fumarola, cratere segna un accapo nel mito. E in ogni sito echeggiano, come un mormorio lontano, le sorgenti remotissime dell'immaginario mediterraneo. Qui Omero avrebbe collocato il paese dei Cimmeri, eternamente avvolto dai vapori sulfurei, dove Ulisse, prima di calarsi nel regno delle ombre, viene a interrogare l'indovino Tiresia.
E sempre qui, sulle sponde di quello che ancor oggi si chiama lago d'Averno, sarebbe giunto Annibale per fare sacrifici a Plutone — re degli Inferi — e conquistarsi i favori delle tenebrose divinità del sottosuolo. Prima fra tutte Ecate, la regina della notte, cui Virgilio nell' Eneide attribuisce la custodia dei boschi che circondano tuttora questo specchio d'acqua, alimentandone l'aura soprannaturale. È dalle sue sponde che Enea scende nell'Ade, scivolando sulle acque plumbee identificate con quelle del mitico Acheronte, a causa delle esalazioni di gas che accrescevano l'aura infernale del luogo. «Ventum erat ad limen» — era giunto al limite — la scritta virgiliana che campeggia su una lapide ci ricorda che qui tutto è soglia. Ed è impossibile, anche per i più distratti, non accorgersi di esser giunti «al limitar di Dite».
L'ultima volta che ci sono andato, Ecate era di corta. Al suo posto c'era un vecchio bianco per antico pelo. Mi ha radiografato attraverso le sue lenti spesse come fondi di bottiglia e si è presentato come l'ultimo Caronte. Sono stato al gioco e dalle rovine del tempio di Apollo mi sono lasciato condurre attraverso l'intrico del bosco. Ci siamo infilati in un antro scavato nel tufo. Abbiamo attraversato un lungo corridoio appena rischiarato da una fila di lumini fino a una cisterna. Sul fondo mi è sembrato di vedere degli affreschi. A quel punto il mio accompagnatore ha detto che proprio lì la Sibilla pronunciava i suoi responsi enigmatici. E con lo sguardo perduto nel vuoto ha cominciato improvvisamente a declamare «Ibis redibis non morieris in bello ». La più celebre delle sentenze sibilline. Andrai e tornerai, non morirai in guerra. Ma basta spostare la virgola dopo il non, e significa l'esatto contrario. La metrica di Caronte era improponibile ma l'effetto irresistibile. Degno di Totò all'inferno.
In realtà, secondo gli archeologi, il vero antro della pitonessa si trova nell'acropoli di Cuma. Centotrentuno metri di cunicolo scavato nella roccia e illuminato da sei aperture laterali, senza altra funzione che guidare i passi e lo sguardo verso il profondo dello speco dove la profetessa, posseduta da Apollo, andava in trance e pronunciava i suoi oracoli. Che hanno guadagnato a Cuma la fama di Delfi italiana. E ne hanno fatto la meta di esoteristi, maghi, ghostbusters in cerca di buone vibrazioni. Fra Bacoli e l'Averno si celebrano dei veri e propri sabba di janare, o meglio di anare, le moderne adepte di Diana, che organizzano vere e proprie olimpiadi della mantica. La specialità più richiesta è la divinazione col setaccio, l'oggetto che separa la pula dal grano e, in senso figurato, il falso dal vero. Ne parla già Teocrito trecento anni prima di Cristo e nel Cinquecento il grande alchimista e filosofo tedesco Cornelio Agrippa di Nettesheim lo rilancia in tutta Europa. Il setaccio viene fatto ruotare sulla punta di una forbice, e consente alla medium di entrare in contatto con le potenze dell'aldilà. A Cuma raccontano ancora di un certo don Antonio, uno sciamano flegreo, che era capace di farsi così piccolo da entrare in una bottiglia. Come un diavoletto di Cartesio. E tra Miseno e Baia, dove nelle notti d'estate compare il fantasma di Agrippina, la dissoluta madre di Nerone, fino a pochi anni fa molti andavano a farsi leggere il futuro nei fondi di caffè da una donna misteriosa che tutti chiamavano semplicemente la Turca. L'ultima erede di quella genia di ottomane, berbere e siriane che dal tempo dei Normanni esercitavano la stregoneria nel Mezzogiorno.
Nonostante il cristianesimo abbia cercato in tutti i modi di congedare i geni pagani trasformandoli in spettri e in demoni, loro rifiutano di farsi sfrattare. E sopravvivono sotto mentite spoglie. Nei supermercati, ristoranti, spa, discoteche, stabilimenti balneari che portano ancora i loro nomi. Si nascondono perfino nelle chiese. Come quella dove fu decapitato san Gennaro, in mezzo ai bollori e ai vapori della Solfatara. Una cronaca del Seicento racconta che i frati durante la notte erano tenuti in scacco dagli dei spodestati, che scatenavano contro di loro le forze infernali. Per fronteggiare la ribellione dell'Averno, i cappuccini montavano la guardia h24. E ogni 19 settembre, quando nel duomo di Napoli il sangue più famoso del mondo ribolle prodigiosamente nelle ampolle, a Pozzuoli la pietra dove la testa del santo è caduta, risponde altrettanto prodigiosamente ravvivando le tracce ematiche del martirio. Come un display soprannaturale. Un allarme rosso, enigmatico quanto il responso della Sibilla.
Insomma qui il mito sopravvive in una sorta di presente remoto. Contaminato, plastificato. Anodizzato, come gli infissi delle costruzioni cresciute tra soffioni e fumarole. Villette abusive con vista sull'Ade.

giovedì 17 luglio 2014

La balcanizzazione del web


FEDERICO RAMPINI

"La Repubblica",  7 luglio 2014
 
Dove sono finite "le rivoluzioni di Facebook e di Twitter", come tanti osservatori occidentali definirono frettolosamente la rivolta anti-autoritaria in Egitto e in altri paesi islamici? La presunta onnipotenza di Facebook e Twitter, l'idea che le tecnologie siano di per sé capaci di suscitare rivoluzioni, ne esce a pezzi. Attribuire a questi strumenti il potere di cambiare il corso degli eventi, di plasmare la storia, di imporre nuovi valori, è puro " feticismo tecnologico". Una perversione in cui l'Occidente sembra cadere sempre più spesso.
"Internet cambierà la Cina", profetizzava alcuni anni fa Bill Gates, e intendeva dire che il sistema autoritario di Pechino non avrebbe retto all'immenso flusso di informazioni dal mondo. Poi si è scoperto che Internet non ha affatto il potere di cambiare il sistema politico cinese. Finora è accaduto il contrario: è stato il governo di Pechino a "cambiare Internet". Su Internet opera anche la propaganda di regime. Ci sono blog specializzati nel "dare la caccia alle streghe", criminalizzando il dissenso o soffiando sul fuoco del nazionalismo anti-occidentale ogni volta che Obama o la Merkel osano ricevere il Dalai Lama. 
Vladimir Putin, il turco Erdogan, Xi Jinping, sono tutti impegnati a cercare di "rimettere il genio nella bottiglia", ad erigere nuovi Muri di Berlino, con garitte, fili spinati, posti di blocco, la minaccia di fucilazione non solo virtuale. Erdogan ha combattuto contro i "ribelli via Twitter" e in fin dei conti ha vinto: nonostante l'indignazione della società civile più evoluta, la maggioranza degli elettori turchi lo ha premiato. Prima di lui i dirigenti cinesi avevano vinto il lungo braccio di ferro con Google. E poiché la maggior parte dei cinesi usa comunque dei siti e social network autoctoni, la Grande Muraglia di Fuoco configura una sorta di gigantesco Intra-net, cioè una di quelle Reti non del tutto aperte, che servono a comunicare solo per chi sta al suo interno. 
E' il modello di alcuni sistemi aziendali "securizzati", quello che dopo la Cina vogliono costruirsi l'Iran, l'Egitto. Putin è stato un precursore, la sua "cultura Kgb" lo ha reso ipersensibile alle sfide tecnologiche. La stretta decisa da Mosca dopo l'annessione della Crimea e la crisi ucraina ha colpito Gmail, Skype e altri servizi di posta elettronica e messaggeria: vengono bloccati dalle autorità russe, se rifiutano di conservare i dati dei loro utenti in server all'interno del territorio della Federazione. Il pacchetto di "leggi anti-terrorismo" varato da Putin nella primavera del 2014 equipara i blogger con almeno 3.000 utenti giornalieri ai mass media, inserendoli in un registro speciale. Tra le vittime il più illustre è Pavel Durov, creatore del social network russo Vkontakte, obbligato a lasciare il sito con questo addio desolante: "La Russia è incompatibile con Internet". 
E' quello che spiega la studiosa americana Laura DeNardis, autrice di "The Global War for Internet Governance". In un confronto tra esperti alla School of International Public Affairs, di fronte ai membri delle Amministrazioni Bush e Obama che hanno seguito i negoziati internazionali su questi temi, la DeNardis sostiene che "Internet è il nuovo terreno di un conflitto mondiale per decidere chi controlla l'accesso a risorse strategiche, in primis l'informazione". Dalla sua nascita Internet non è una "prateria selvaggia" bensì uno spazio regolato da organismi tecnici, gruppi privati, anche governi. Ma con un'impronta dominante degli Stati Uniti. Dopo le rivelazioni di Snowden, il consenso internazionale sulla governance di Internet si è indebolito. Anche paesi democratici come la Germania e il Brasile hanno sollevato questioni di sovranità. Per i regimi autoritari, uno dei quali (la Russia) "ospita" proprio Snowden, la sua denuncia è stata provvidenziale. Già oggi secondo Eli Noam della School of International Public Affairs, "è anacronistico parlare di Internet al singolare, mentre siamo di fronte all'emergere di Reti al plurale, una balcanizzazione deplorevole, ma forse inarrestabile".
Del resto è ormai ufficiale che Internet non sarà più un monopolio americano per quanto riguarda la creazione e il controllo del "cyber-indirizzario" o registro globale. La svolta è storica, chiude una fase durata un quarto di secolo. L'addio al monopolio Usa è una concessione di Obama per venire incontro alle preoccupazioni di diversi paesi stranieri, dalla Germania al Brasile, sull'inaffidabilità di una Rete troppo esposta allo spionaggio Usa. L'annuncio è venuto il 15 marzo 2014 dallo US Commerce Department, il ministero da cui dipende l'agenzia federale di settore, la National Telecommunications and Information Administration. A parte gli addetti ai lavori e gli esperti, pochi tra la massa sterminata di utenti di Internet lo sanno, ma fin dalla sua nascita tutto il sistema di creazione di siti e indirizzi ha avuto una supervisione americana. 
L'assegnazione degli indirizzi e i criteri per farlo, è un servizio che può sembrare prosaico e banale, ma è una sorta di infrastruttura elementare che consente di ordinare e convogliare il traffico online. La responsabilità - e il potere - di assegnare i numeri o "protocolli" che identificano gli indirizzi, coi vari suffissi ". com" ". gov" ". org" è rimasta in capo agli Stati Uniti, per la semplice ragione che lo sviluppo originario della Rete ebbe in America il suo epicentro prima di diventare un fenomeno veramente globale. Un controllo attraverso un registro centrale è stato necessario fin dalle origini per impedire duplicazioni di indirizzi che avrebbero generato un caos nel traffico. 
L'Amministrazione federale Usa a sua volta diede in appalto questo mestiere ad un'istituzione non profit, la Internet Corporation for Assigned Names and Numbers, nota con l'acronimo Icann. Un organismo indipendente, teoricamente immune da influenze politiche, ma pur sempre americano: con sede a Playa Vista, Los Angeles. Fin dal 1998 gli europei si preoccuparono che Internet non fosse un monopolio Usa, e crearono il Council of European National Top Level Domain Registries (Centr), anch'esso un'organizzazione non profit, per la gestione degli indirizzari nazionali che finiscono con i vari suffissi ". it" per l'Italia, ". de" per la Germania, ". uk" per il Regno unito e così via. 
Tuttavia il coordinamento globale dei registri rimane nelle mani di Icann e quindi negli Stati Uniti. Fino alla deflagrazione del Datagate il resto del mondo, compresi i rivali strategici come la Cina e la Russia, avevano accettato il ruolo dell'Ican in nome dell'efficienza di un sistema che ha funzionato bene nell'interesse di tutti. Le rivelazioni di Snowden hanno cambiato le cose. Lo shock mondiale dopo la scoperta dell'ampiezza dello spionaggio americano in Rete, ha scatenato reazioni particolarmente accese in alcuni paesi dove gli stessi capi di governo sono stati spiati: la Germania di Angela Merkel, il Brasile di Dilma Rousseff. Per la prima volta anche in paesi alleati si è ventilata la possibilità di creare delle Reti a dimensione nazionale, "protette" contro lo spionaggio Usa. 
Di qui la decisione simbolica di Obama: nel 2015 allo scadere del contratto con Icann, quell'incarico non sarà rinnovato. Ma per sostituirlo con che cosa? Gli americani pongono una condizione: che subentri un altro ente privato, sia pure sotto vigilanza internazionale, non un'istituzione intergovernativa. Ne riprodurrebbe tutti i difetti, come i poteri di veto dettati da logiche politiche, la lentezza nelle decisioni. L'incubo peggiore, è che dietro l'alibi di una "internazionalizzazione" della Rete i governi di Mosca e Pechino possano esportare i metodi di censura già applicati dentro i loro paesi..

domenica 13 luglio 2014

Com’è camaleontico Shakespeare in love


Sulla sua bisessualità si è discusso molto ma certo doveva essere tanto scomodo 
se l’editore dei sonetti nel 1640 cercò di “purgarli” mettendoli tutti al femminile
Anche se non si tratta di un vero canzoniere 
le peripezie del doppio amore sono degne delle tragedie

Walter Siti

"La Repubblica", 13 luglio 2014

UNA grande delicatezza di cuore e di pensiero: l’innamorato sospetta che in un giorno non lontano colui che ama lo scaricherà, imbarazzato dalle chiacchiere del mondo - e che per rifarsi l’onore dovrà parlar male di lui, mettendolo in ridicolo. Ebbene, gli dice, sappi che in quel momento io sarò dalla tua parte; anzi, posso fare di più: siccome sono bravino a raccontare storie e conosco le mie debolezze, posso inventare su di me qualche calunnia che renda il tuo distacco inevitabile e ti faccia brillare di purezza. Mi darò addosso perché tu ne esca pulito, tutti i torti su di me per dimostrare alla gente che hai avuto ragione; che importa se soffrirò e se tu sarai venuto meno ai nostri giuramenti? È la stessa delicatezza, venata di masochismo, che in un altro sonetto lo spinge a dire al ragazzo «quando morirò non piangermi, non pronunciare nemmeno il mio nome, non dare adito ai pettegolezzi dei benpensanti; anzi, preferisco non essere più nei tuoi pensieri se il ricordo di me deve addolorarti».
Finora ho parlato al maschile, anche se a rigor di termini il discorso potrebbe esser rivolto a una donna; e in effetti anche alla “dark lady” degli ultimi sonetti rinfaccia «come puoi dire che non ti amo, se contro me stesso prendo le tue parti?». Sull’omosessualità o bisessualità di Shakespeare si è discusso fin troppo, la scarsità di notizie non aiuta; spesso con strane negazioni, del tipo che l’amicizia amorosa per lo “sweet boy” era solo platonica - come se omosessualità e platonismo non fossero legati da sempre. Il suo neoplatonismo nero, quell’ossessione confinante con l’idolatria devono esser sembrate assai imbarazzanti ai contemporanei, se l’editore del 1640 cercò di purgare i sonetti volgendo al femminile tutti i pronomi maschili. Eppure il sonetto 20 è chiaro: il “master-mistress” della sua passione è meglio di una donna, peccato che poi la Natura abbia aggiunto al suo corpo un ammennicolo che a lui, Shakespeare, non serve - quindi le donne si godano quello, a lui l’amore e alle donne “la fruizione”. Ma più che i particolari anatomici, mi pare decisiva la solitudine sociale a cui l’omosessualità è condannata; nel sonetto 49, che ha molti punti di contatto col nostro, dice «per lasciare il mio povero essere hai la forza delle leggi / e all’amore non posso allegare nessuna ragione». Lo ha capito benissimo Pasolini, che proprio i sonetti shakespeariani deciderà di imitare quando nel 1971 si troverà in Inghilterra e dovrà affrontare davvero un abbandono; «io son senza», scriverà, «alcun diritto nel consorzio civile/ di pretendere che non mi diate dolore».
Il guaio di Shakespeare è che è troppo bravo: noi che abbiamo in testa le parole della sua Giulietta, e del suo Jago e del suo Lear, sappiamo quanto sia diabolicamente camaleontico e come sappia rendere credibili i suoi “io” non autobiografici. Anche nei sonetti naturalmente il suo “io” è un personaggio, e la bravura è la stessa. Genialmente reinterpretando la forma metrica, ha capito che può essere il contenitore perfetto per la malafede amorosa; emotività e argomentazione si rinforzano a vicenda, i luoghi comuni del concettismo cinquecentesco diventano carne e sangue. Qui per esempio il concetto, stra-abusato nel petrarchismo europeo, del «poiché siamo una cosa sola il tuo destino è il mio» risulta imbevuto di un’ironia straziante: il “double-vantage” è, pare, metafora tennistica, quel che bisogna conseguire quando il game finisce alla pari (o forse legata all’ambito della scherma, vedi “fight”). In lui le parole diventano subito scene concrete: questo faccia a faccia tra amato e amante (“io” e “tu”, nelle varie forme pronominali e possessive, ripetuti 25 volte in 14 versi) ha l’aria di un’arringa, o di una requisitoria giudiziaria - termini come “prove”, “upon thy part”, “faults”, “right” appartengono al linguaggio forense - “forsworn” o “attainted” piegano piuttosto verso il complotto. Se è il giudizio del mondo che ti fa paura, io leggo la nostra relazione come un processo o un alto tradimento. Ma “scorn” ci porta invece verso l’evangelico e il biblico, è la derisione a cui vengono sottoposti Cristo e Giobbe; “to bend” i pensieri d’amore è quasi costringerli a genuflettersi - chi si umilia sa di valere, religiosamente si sacrifica ma in fondo si sente maggiore dell’amato: “to lose” certo qui sta per “liberarsi, sbarazzarsi di”, ma conserva pur sempre il sottosenso di “perdere” - vinceremo entrambi, ma tu mi perdi. La struttura sintattica e quella logica inglobano l’inconscio in un’architettura precisa: il fitto intreccio di frasi causali, consecutive e concessive si dispone senza sforzo nel movimento in tre tempi (coincidente con le tre quartine) che potremmo schematizzare in “quando-anzi-eppure”, per chiudersi con l’”infatti” del distico finale.
Sentimenti delicati e contorti espressi con muscolosa eloquenza: forse i suoi sonetti non sono un vero canzoniere (come invece era di moda all’epoca, da Sidney a Drayton a Spenser), forse la loro disposizione non è quella voluta dall’autore - ma le peripezie di quel doppio amore, per un uomo e per una donna con inganni incrociati, sono degne della tragedia (o della commedia) che Shakespeare non ha mai scritto.

WILLIAM SHAKESPEARE, dai Sonnets, N. 88 1595- 1605

When thou shalt be disposed to set me light,
And place my merit in the eye of scorn,
Upon thy side, against myself I'll fight,
And prove thee virtuous, though thou art forsworn.
With mine own weakness being best acquainted,
Upon thy part I can set down a story
Of faults concealed, wherein I am attainted;
That thou in losing me shalt win much glory:
And I by this will be a gainer too;
For bending all my loving thoughts on thee,
The injuries that to myself I do,
Doing thee vantage, double-vantage me.
Such is my love, to thee I so belong,
That for thy right, myself will bear all wrong.

Quando sarai propenso a svalutarmi e metterai i miei meriti alla berlina, combatterò dalla tua parte contro di me e ti mostrerò giusto, benché tu sia spergiuro. Sono così esperto della mia indegnità che a tuo favore posso imbastire una storia di colpe nascoste, di cui mi sarei macchiato, sicché mollandomi acquisterai più gloria: così facendo sarò anch’io vincitore, perché i pensieri d’amore tanto ho inchinato a te che le ferite che io provoco a me stesso avvantaggiandoti, mi danno un doppio vantaggio. Tale è il mio amore, ti appartengo al punto che per darti ragione mi assumerò ogni torto.

lunedì 7 luglio 2014

Più esplicita che cortese la Contessa innamorata


Beatrice de Dia, ovvero Contessa di Dia, sarebbe nata nel 1140

Svalutata dagli studiosi misogini di ieri sopravvalutata dai gender studies di oggi
 la scrittura al femminile delle “trovatrici” si scopriva laica e sensuale 
oltre che sperimentale e trasgressiva 
Ma se la misteriosa autrice dei versi fosse stata in realtà un uomo?

Walter Siti


È UNA canzone di rimpianto, desiderio e promessa: equamente distribuiti nelle tre strofe. Nella prima la donna si pente di non essersi concessa all’uomo pur amandolo moltissimo, e per la sua ritrosia l’uomo l’ha abbandonata; ora, per riscattarsi, dichiara il proprio amore ad alta voce, che tutti lo sappiano e per sempre. Si rimprovera lo sbaglio, che paga con tormento e confusione (“error” è l’erranza della mente, il non saper districarsi tra le emozioni, la pena della mancanza di lucidità). Nella seconda emerge la sensualità: i due corpi nudi allacciati, lei che si offre come cuscino, un cuscino prezioso di cui lui dovrebbe sentirsi onorato (“ereubut”, participio passato da “erebre” = strappare a un pericolo; in questo caso dalla condanna del non-amore). È una dichiarazione in piena regola, avvalorata dal riferimento letterario agli amanti di un romanzo famoso (e lei, si noti, si paragona all’uomo, cioè a Florio, non a Biancofiore). Nella terza arriva la promessa-preghiera: quando potremo finalmente stare insieme, rifacendoci di quel che abbiamo perso? La donna è sfacciata, non vuole ripetere l’errore, stavolta glielo dice chiaro: vi vorrei al posto di mio marito - ma non ha ceduto in dignità, nella coppia si sente ancora in diritto di comandare: sarà lei a dettare le mosse, fin dove spingersi e come.
Chi scolasticamente ricordi la fin’amor dei provenzali, l’omaggio alla dama concepita come inaccessibile e l’idea che proprio con la rinuncia si arriva al raffinamento interiore, sarà stupito da questa trasgressiva esplicitezza. Certo, il fatto che parli una donna provoca un terremoto nel sistema: nel filone principale del trobadorismo l’amore è “da lontano” e le donne amate sono un idolo muto; così, con le donne oggetto e mai soggetto, si trasferirà in Germania e in Italia: una Beatrice che confessi a Dante di volersi infilare nel suo letto troncherebbe sul nascere la Vita nuova. Ma questa civiltà del tardo XII secolo nel sud della Francia è sperimentale, coraggiosa, fiera della sua appena conquistata laicità; intorno alle corti si sta sviluppando un dibattito culturale che coinvolge sia i nobili che i giullari giramondo - le idee appena lanciate vengono discusse, rovesciate, parodiate. È in quel clima che nasce il fenomeno delle “trobairitz”, le donne trovatrici; poche a dir la verità, dai tratti autobiografici confusi, autrici di pochi testi. Questa Contessa di Dia è un mistero: la “vida” (scritta molti anni dopo) la proclama moglie di un Guglielmo di Poitiers e amante di Raimbaut d’Aurenga - forse si chiama Beatrice, forse Isoarda. Ma le “vidas” spesso romanzano l’inesistente, inventano biografie a partire dai testi; qui forse vuol solo dire che questa canzone si inserisce tra i due trovatori (Guglielmo IX appunto, conte di Poitiers, e Raimbaut morto giovanissimo nel 1173) più dissacranti e sensualmente audaci, con l’arroganza entrambi che gli deriva dalla nobiltà.
Gli studiosi misogini del secolo scorso svalutavano le trovatrici perché rozze e banali, ora i “gender studies” le sopravvalutano cercandovi il Dna della scrittura femminile. A guardarla un po’ da vicino, questa canzone è invece in straordinario equilibrio tra semplicità e convenzione: nei primi tre versi rovescia consapevolmente due postulati della “cortesia” trobadorica - cioè il dovere di tenere nascosto il proprio amore e il dovere della “misura” nel manifestarlo. La sensualità della seconda e terza strofa si appoggia a una ritualità socialmente riconosciuta (questi testi erano sempre cantati in pubblico); l’ asag era una prova a cui la dama sottoponeva il cavaliere e consisteva nel passare la notte nudi uno accanto all’altro senza arrivare alla penetrazione. L’adulterio, come nel trattato sull’amore di Andrea Cappellano, poteva essere perfino raccomandato per salvaguardare la passione dalle secche dell’affetto coniugale. Il punto di vista di una donna forte, che si sente pari all’uomo, mette in discussione l’ideologia mainstream conservandone l’essenziale (il cuore l’amore il senno gli occhi la vita, in un’elencazione mozzafiato; il desiderio come proiezione nel futuro e nell’ottativo).
Raimbaut d’Aurenga è il più bizzarro, estroso e paradossale dei trovatori: parodiando l’inattingibilità della dama si dichiara castrato; scherzando scrive che, se una donna resiste, un buon pugno sul naso potrebbe convincerla; sostiene che Isotta ha fatto bene a ingannare re Marco e a mentire per godersi il suo Tristano. Esiste una tenzone tra trovatore e trovatrice che, siccome nel primo verso somiglia all’attacco del nostro testo, alcuni studiosi hanno attribuito a lui e alla Contessa di Dia, a strofe alterne. Però tutti i canzonieri manoscritti la attribuiscono solo a lui. E se col nostro testo avesse voluto, mimando una trovatrice un po’ inesperta (coblas doblas, cioè con le stesse rime le prime due, ma singular l’ultima; due rime femminili ipometre rispetto all’ottosillabo), se avesse voluto dire agli intendenti d’amore “vedete, quando una donna mi resiste poi si pente”? Se la misteriosa Contessa fosse lui?


Estat ai en greu cossirier
per un cavallier qu’ai agut,
e voill sia totz temps saubut
cum eu l’ai amat a sobrier;
ara vei qu’ieu sui trahida
car eu non li donei m’amor,
don ai estat en gran error
en lieig e quand sui vestida.
Ben volria mon cavallier
tener un ser en mos bratz nut,
qu’el se.n tengra per ereubut
sol qu’a lui fezes cosseiller;
car plus me.n sui abellida
no fetz Floris de Blanchaflor:
eu l’autrei mon cor e m’amor
mon sen, mos huoills e ma vida.
Bels amics, avinens e bos,
cora.us tenrai en mon poder
e que jagues ab vos un ser
e que.us des un bais amoros ?
Sapchatz, gran talan n’auria
que.us tengues en luoc del marit,
ab so que m’aguessetz plevit
de far tot so qu’eu volria.


Sono caduta in grave angoscia
Per un cavaliere che ho avuto,
e voglio sia sempre saputo
che l’ho amato a dismisura;
ora vedo che sono tradita
perché l’amore non gliel’ho concesso,
dunque sprofondo nello smarrimento
in letto e quando sono vestita.
Ben vorrei il mio cavaliere
Tenere una sera tra le braccia nudo,
e che si ritenesse fortunato
se solo gli facessi da cuscino;
perché me ne sono invaghita
più che Florio di Biancofiore:
gli affido il mio cuore e il mio amore,
il mio senno, i miei occhi e la mia vita.
Bell’amico, amabile e forte,
quando potrò avervi in mio potere
e giacermi con voi una sera
e darvi un bacio di passione ?
Sappiatelo, ne ho una gran voglia
Di stringervi al posto del marito,
purché prima voi vi impegnaste
a fare tutto quello che volessi.

Progetto Domus Aurea


La descrizione della dimora imperiale fatta costruire da Nerone nel cuore dell'Urbe
e qualche idea per il recupero 


Andrea Carandini


"Il Sole 24 ore", 6 luglio 2014 

Nerone, ultimo grande aristocratico a diventare principe dell'Impero, è stato il più stravagante. Chi ne ha dato un'interpretazione meno perversa non ha letto Decline and Fall of British Aristocracy di D. Cannadine, dove si apprende cosa possono diventare i nobili quando dominano un mondo.
Tra tante sindromi, Nerone è stato affetto della cupido iungendi. Tra le domus Augustiana e Tiberiana sul Palatino (Palatium) – sede ufficiale del potere imperiale – e gli Horti di Augusto sull'Esquilino si interponeva una rilevante e fastidiosa porzione di centro storico. Nerone ha preteso congiungere le due proprietà tramite una domus intermedia, che per questo ha chiamato Transitoria, di difficile attuazione: la città era di intralcio. Nel 64 d.C. è giunto provvidenziale il massimo incendio, di cui sono stati incolpati i Cristiani (di qui il martirio di Pietro e Paolo). Così su Velia, Oppio e Celio distrutti ed espropriati da questa fine del mondo il principe ha potuto edificare la domus Aurea, senza difficoltà alcuna: come non ritenerlo colpevole? 
Comprendeva due enormi residenze di forma compatta, immerse in campi, vigneti, boschi, pascoli e specchi d'acqua, una per uso pubblico e una strettamente privata (due residenze analoghe comprendeva anche la domus Augustiana). Era come se Luigi XIV avesse edificato Versailles dentro Parigi! Si trattava di due quinte architettoniche, lunghe e strette, che somigliavano, più che ai palazzi compatti del Palatino, alle villae lungo il mare tra Lazio e Campania. 
Per attuare questa invenzione da megalomane, che occupava 44,3 ettari di Roma, Nerone ha depredato l'Impero.
Alla residenza principale, per uso pubblico, si perveniva tramite la Sacra via – trasformata in viale fiancheggiato da portici, largo venti metri. Dove era stata sul monte Velia la casa dei Domizi Enobarbi – la famiglia paterna del principe – Nerone ha costruito un gigantesco vestibulum, quadriportico al centro del quale doveva sorgere il colossus di Nerone-Sole (ci vorranno 11 anni per realizzarlo). Esso introduceva nella residenza lunga e stretta come una villa di Baia – gli atria di Marziale –, incentrata probabilmente su una cenatio principalis rotunda, la cui cupola emisferica ruotava come il cielo: un enorme planetario. È questo il complesso analiticamente descritto da Svetonio, rivestito d'oro, gemme e madreperla. Gli atria si affacciavano su uno stagnum rettangolare, mare che doveva ospitare imbarcazioni simili a quelle di Caligola rinvenute nel lago di Nemi. Il lago era circondato sugli altri tre lati da edifici di servizio: la città in miniatura per i servizi di corte.
Il complesso era il set in cui Nerone offriva al popolino festini, un tempo riservati soltanto ai nobili. Desiderava fondersi con la gente comune, come tanti tiranni e demagoghi , di cui è diventato il prototipo. Per questi ricevimenti serviva la porticus triplex lunga un miglio, distribuita probabilmente tra vestibulum, atria e stagnum. È facile immaginare Nerone e amici banchettare al sicuro in un naviglio al centro del lago, come già aveva fatto in Trastevere e in Campo Marzio, regista Tigellino. Applaudivano e acclamavano d'intorno gli Augustiani, guardia alloggiata nelle caserme intorno al lago. 
Siamo al culmine della politica-spettacolo nel mondo antico e bisognerà attendere più di 1600 anni per riavere qualcosa di simile, che in parte dura ancora. Di questo complesso, completato da Otone, Vespasiano salverà solo il vestibulum, dove nel 75 d.C. erigerà il colossus del Sole finalmente completato, distruggendo invece atria e stagnum per dare spazio al Colosseo e alla sua piazza. La reggia spropositata è durata solamente sei anni.

La domus Aurea disponeva di una seconda residenza, sull'Oppio, a carattere strettamente privato, anch'essa di forma lunga e stretta. Una unica facciata mascherava due edifici: il primo a ovest, intorno a un triportico, che era appartenuta alla domus Transitoria (56-64 d.C.) – unica sua parte sopravvissuta all'incendio – e il secondo a est, che rientrava nella domus Aurea (64-68 d.C.), dall'architettura assai più fantasiosa. Il corpo centrale includeva su due piani gli appartamenti imperiali. Era fiancheggiato da due corti pentagonali aperte sul fronte, dotate di appartamenti secondari. Ai piedi della residenza era lo xystus, una pista lunga e stretta per correre, oltre la quale era un lungo edificio di servizio, che aiuta a immaginare quello disposto intorno al lago dell'altra residenza. 
Questa seconda reggia, durata quarant'anni, è la sola a essere sopravvissuta, ed è quella che patisce danni a pitture e stucchi da quasi duemila anni. Infatti è stata incendiata (104 d.C.), il piano superiore è stato rasato e il tutto è finito sotto il giardino delle Terme di Traiano (109 d.C.), finite a loro volta sotto quello che è oggi il Parco dell'Oppio. Da allora radici, piogge e fori in cui sono penetrati gli artisti del Rinascimento – scoprendo e reinventando i "grotteschi" – hanno lentamente consunto gli ambienti decorati, già perfettamente conservati dalla sepoltura voluta da Traiano: il Vesuvio di questa Pompei romana.

Si è continuato per troppo tempo a restaurare le pitture quando da sopra pioveva, che è come ridipingere il pianterreno di casa quando il tetto è bucato. Ma ora si apre una più assennata stagione. Presupposto è stato consolidare il piano terreno, risarcendo i laterizi asportati, ma ora resta tuttavia da intraprendere l'operazione più costosa, rischiosa ed essenziale. Essa implica: a) asportare la terra sovrastante delle Terme e del Parco; b) mettere in luce il piano superiore, possibilmente da lasciare praticabile almeno per visite guidate; c) coprire e drenare questo piano superiore per evitare i danni atmosferici, conservando all'interno il grado di umidità che le sottostanti decorazioni richiedono; d) rivestire la copertura con un prato per conservare l'amenità del Parco dell'Oppio (isolare il monumento e ricoprirlo nuovamente di terra è impossibile, perché gli isolanti non durano oltre un certo tempo). 
Specialmente interessante è il corpo centrale della residenza, dove erano gli appartamenti imperiali, divisi tra l'appartamento di monsieur e quello di madame. Al piano terreno essi sono separati dalla grande cenatio pentagonale – non sembra la cenatio rotunda di Svetonio –, con salone principale, quattro triclini minori e un ninfeo. Gli appartamenti sono composti da un cubiculum con alcova per il letto e da una saletta o oecus. Sul retro buio sono appartamenti e stanze di servizio. Al piano superiore i due appartamenti imperiali si aprivano invece su un terrazzo triangolare, dove si poteva banchettare anche all'aperto, con vista sul teatrale ninfeo che ornava il retro del Tempio del Divo Claudio (il più grande monumento di Roma del tutto sconosciuto). Essi sono composti da cubicula, oeci, exedrae, piccoli peristili e corridoi. Dietro a essi erano due portici per passeggiare e una lunga piscina, che nutriva la cascata per il sottostante ninfeo. Se la cenatio al piano inferiore rappresenta la sala più importante, gli appartamenti di sopra svelano il modo di vista più intimo e piacevole del principe, per cui sarebbe importantissimo dar loro valore.

Privati e aziende italiane, partecipando al restauro, ai servizi e al racconto di questa meraviglia di Roma, potranno avvalersi del nuovo vantaggio fiscale da poco varato. Così renderanno sé stessi famosi nel mondo e compiranno un atto di straordinaria pubblica liberalità. La residenza della domus Aurea sull'Oppio potrà rappresentare un'attrazione culturale pari a quella del Colosseo, nell'anello superiore del quale potrebbe essere illustrata l'altra residenza, conservata solo per indizi, oltre la storia dell'anfiteatro stesso. Raccontare i propri monumenti non è la missione universale che la storia ha assegnato all'Italia?

Filosofia del camminare


Quei passi rispecchiano l'anima
Per Balzac i pensieri più segreti, le emozioni più nascoste 
si rivelano osservando il modo di muoversi delle persone 

Chiara Pasetti


"Il Sole 24 ore", 6 luglio 2014 

«Non si può pensare e scrivere se non seduti», affermava Flaubert. Nietzsche prenderà spunto da questa affermazione per criticare aspramente il padre di Emma Bovary, che definisce "nichilista", per il mancato (a suo avviso) riconoscimento del legame fra corpo-movimento e pensiero-scrittura: "Restare seduti è esattamente il peccato contro lo spirito santo. Solo i pensieri nati camminando hanno valore", scriverà nel Crepuscolo degli idoli. 
Questa diatriba sarebbe piaciuta molto a Honoré de Balzac, che prima di loro non solo aveva riflettuto sull'argomento del movimento umano, ma ne aveva addirittura composto un piccolo saggio psico-sociologico in cui, vestendo i panni dell'antropologo, si interroga sul significato profondo e, secondo lui, mai sondato, del camminare. La sua Théorie de la démarche, ora pubblicata dalle edizioni Elliot col titolo Teoria del camminare, comparve per la prima volta in cinque puntate, fra l'agosto e il settembre del 1833, sulle pagine de "L'Europe Littéraire", non casualmente nello stesso momento in cui Balzac stava lavorando a una delle sue opere d'elezione, la storia intellettuale di Louis Lambert, romanzo mistico, filosofico e profondamente rivelatore del pensiero più nascosto dell'autore, in cui il suo realismo visionario tocca le vette più alte, e che egli riprenderà ancora nel 1836 e nel 1842. Forse per distrarsi dagli incubi e dalle visioni del geniale e infelice Lambert, che farà sprofondare al termine della sua avventura nelle tenebre della follia (e nella Teoria del camminare, a un certo punto, scrive che egli si trova esattamente "nel punto in cui la scienza collima con la follia", e che soltanto un uomo sufficientemente audace, che senza timore sfiora "la follia e la scienza", poteva elaborare teorie sulle andature umane), forse per liberarsi dagli spiriti evocati da Swedenborg, genio (maligno) ispiratore del romanzo, Balzac passeggiava... e come tutti i grandi maestri dell'Ottocento francese, di cui lui fu il primo, osservava, per poi trarre dalle sue osservazioni materia di studio e di scrittura. Abituato a non vedere nella gente altro che "dei libri da scrivere", egli, aspettando una carrozza, guardava "spensierato" le varie scene che gli passavano davanti agli occhi, quando vide un uomo che cadde a terra e per mantenere l'equilibrio si appoggiò a un muro. 
Questo pretesto apparentemente banale, che lo induce anche a riflettere sul riso che genera sempre "un uomo che cade", accende in Balzac quella che definisce una sua "scoperta immortale", un "tesoro" in cui si è imbattuto e che prima di lui nessuno aveva visto, ossia la sua teoria del camminare. Preso dall'esaltazione febbrile che consegue ogni grande scoperta, tra l'ironico e l'enfatico dichiara che questa è davvero la sua scienza, e che per quanto si tratti in fondo dell'arte di "alzare e abbassare il piede", essa richiede un tono "epico", poiché "la dignità delle cose è inversamente proporzionale alla loro utilità": "non è davvero incredibile il fatto che, da quando l'uomo ha iniziato a camminare, nessuno si sia chiesto perché cammina, come lo fa, se potrebbe forse farlo meglio, cosa avviene mentre passeggia, se non esiste un modo per impostare, modificare e studiare la sua andatura? Domande che sono alla base di tutti i sistemi filosofici, psicologici e politici di cui il mondo si sia occupato". 
Domande alle quali lui decide di dare risposta, partendo dall'assioma per cui "la camminata è la fisionomia del corpo". Secondo questa formula i pensieri più segreti, le emozioni più nascoste, si rivelano all'occhio esperto di chi sa osservare il modo di camminare; non si tratta solo di rintracciare le leggi che presiedono a una bella andatura o i difetti delle andature sgraziate, ma di elaborare una semiotica del movimento che sappia differenziare l'andatura dei "tipi umani" a seconda delle classi sociali, dei mestieri, delle abitudini. 
La camminata è dunque articolazione espressiva, e attraverso i segni esteriori nasconde qualcosa che si cela nell'anima del marcheur. Questo breve saggio, a tratti ironico a tratti serissimo, è ancora una volta rivelatore del grande talento di Balzac, e gli fornisce anche l'occasione per sottolineare le caratteristiche del genio, del grande scopritore, di colui che, segretario della sua epoca, come Omero, Aristotele, Shakespeare, Tacito, e altri che egli cita, inventa e tramanda. Deve essere, insieme, un grande osservatore e un grande scrittore, deve possedere non solo la "vista morale", ma anche "un'eminente perfezione dei sensi e una memoria quasi divina", deve sapere guardare, come diceva Flaubert, "fin nei pori delle cose", e poi deve sapersi esprimere, deve sapere raccontare ciò che ha visto. E se qualche volta incontra momenti di sconforto, di noia o di scarsa ispirazione... può sempre camminare, per poi tornare, da seduto, a "vedere l'abisso e penetrare nei suoi segreti".


sabato 5 luglio 2014

Francesca da Rimini surclassa Beatrice nel cuore degli italiani


Così attraverso i secoli l’eroina dell’Inferno di Dante 
perde la connotazione di peccatrice
Lo racconta a Rimini “Divina Passione”, mostra sulla Commedia

Michele Brambilla

"La Stampa", 4 luglio 2014

Chi volesse compiere uno straordinario viaggio nel tempo può andare - da oggi pomeriggio fino al 28 settembre - a Rimini, al Museo della Città, a visitare la mostra «Divina Passione». Sono esposte oltre sessanta rarissime edizioni della Divina Commedia stampate dal XV secolo ai giorni nostri, e appartenenti alla più grande collezione del mondo, quella del torinese Livio Ambrogio.
Non c’è bisogno di essere bibliofili per emozionarsi già all’inizio della mostra, quando ci si imbatte nelle prime parole mai stampate della Commedia: «Nel mezo delcamin dinrã vita mi trovai p.una selva oscura...». È l’editio princeps, la prima edizione assoluta della Commedia: un volume realizzato l’11 aprile 1472 a Foligno da Johann Numeister, tipografo di Magonza formatosi nell’officina di un altro Johann, il celeberrimo Gutemberg. Sotto l’ultima riga, «lamor chemuovel sole et laltre stelle», si può leggere uno dei primi colophon della storia: «Nel mille quatro cento septe et due nel quarto mese adi cinque et sei questa opera gentile impressa fue. Io maestro Johanni Numeister opera dei alla decta impressione et meco fue. Elfulginato Evangelista mei».
È in assoluto il primo libro stampato in lingua italiana: ne esistono una trentina di copie in tutto il mondo, dieci in Italia. 
E perfino più raro (sedici nel mondo, sei in Italia) è il secondo volume che si incontra: la Commedia stampata a Mantova nello stesso 1472 da Georg di Augusta e Paul di Butzbach. C’è poi la prima edizione tascabile, intitolata «Le terze rime» e stampata a Venezia da Aldo Manuzio nell’agosto 1502: una specie di Oscar Mondadori ante litteram. E ancora, «La traducion del Dante de lengua toscana en verso castellano», prima traduzione in spagnolo dell’Inferno, stampata a Burgos il 2 aprile del 1515 e commissionata da Giovanna d’Aragona, figlia del re don Ferdinando il Cattolico e di Isabella di Castiglia. Piccolissima è poi «La Visione. Poema di Dante Alighieri», stampata a Vicenza nel 1613: è una delle appena tre edizioni della Commedia stampate in tutto il Seicento.
Questa straordinaria mostra è l’evento più importante fra quelli che accompagnano «Italian Passion», cioè l’ottava edizione del Convegno internazionale su Francesca da Rimini, che si tiene oggi e domani, sempre al museo della Città, con la collaborazione dell’Università di Los Angeles. Perché Los Angeles? Perché fu proprio là che, sentendo lo storico riminese Ferruccio Farina tenere una conferenza su Dante, agli americani venne l’idea di istituire ogni anno un convegno internazionale su una delle storie d’amore più conosciute nel mondo. Quella appunto dell’episodio narrato nel quinto canto dell’Inferno, la sventurata passione fra Paolo e Francesca. «Francesca da Rimini», dice il sindaco Andrea Gnassi, «è senz’altro il personaggio più amato della Commedia, riconosciuta universalmente come simbolo della bellezza, dell’amore eterno. Francesca, che porta il nome della mia città, è la straordinaria ambasciatrice del Paese più bello del mondo».
E attraverso il mito di Francesca di Rimini, o meglio attraverso la sua raffigurazione nella letteratura e nell’iconografia, si può cogliere com’è cambiato nel corso dei secoli il costume, il senso della morale, l’idea di peccato. Le sessanta Commedie esposte a Rimini - che sono solo una parte della collezione torinese di Livio Ambrogio, composta da più di mille volumi - raccontano infatti una storia nella storia: quella del riscatto dell’amante maledetta che Dante pone all’inferno, con il suo Paolo, nel girone dei lussuriosi.
Imperdonabile fu considerato dai contemporanei il bacio galeotto di Paolo e Francesca. Imperdonabile perché conseguenza di un adulterio - tutti e due erano già sposati - e addirittura incestuoso, perché i due amanti erano anche cognati. Così nelle prime edizioni illustrate della Commedia (in mostra c’è la prima in assoluto, quella del 1487 con il commento di Cristoforo Landino) per gli adulteri ci sono fiamme e sofferenza, senza alcuna indulgenza o pietà.
«È solo alla fine del Settecento, con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, che Francesca comincia a essere guardata con occhi nuovi», dice Ferruccio Farina, coordinatore del Convegno internazionale e curatore di questa mostra insieme con Livio Ambrogio. «Da peccatrice, comincia a essere considerata vittima di un inganno, costretta a sposare il disgustoso Gianciotto dopo che le avevano fatto credere che avrebbe sposato il fratello, Paolo. Qui in mostra abbiamo la prima opera che, dopo secoli, in qualche modo riabilita la mia concittadina, e cioè “Francesca di Arimino” di Francesco Gianni, del 1795».
All’inizio dell’Ottocento Dante, dopo un lungo periodo di oblio, viene riscoperto e riletto con una diversa sensibilità. E così la figura di Francesca: «La colpa è purificata dall’ardore della passione, e la verecondia abbellisce la confessione della libidine; e in tutti questi versi la compassione pare l’unica Musa», scrive Ugo Foscolo. Nel 1831 Mazzini pone Francesca e il suo anelito di libertà come esempio dei valori di un vero italiano. Francesco De Sanctis scriverà: «Beatrice non ha potuto divenire popolare ed è rimasta materia inesausta di dispute e di arzigogoli. Francesca al contrario acquistò un’immensa popolarità... Non ha Francesca alcuna qualità volgare o malvagia, come odio, o rancore, o dispetto, e neppure alcuna speciale qualità buona: sembra che nel suo animo non possa farsi adito ad altro sentimento che l’amore. Amore, Amore, Amore!».
Più che la lussuria c’è il segno dell’amore eterno nella Francesca raffigurata da Gustave Doré, presente in questa mostra con la sua prima tiratura, del 1861. Nella Divina Commedia illustrata a cura degli Alinari (1922-’23) «Francesca, nella piena bellezza del suo corpo nudo, più che soffrire sembra bearsi del dolce abbraccio dell’amato». L’edizione del 1921 illustrata dall’austriaco Franz von Bayros ci mostra poi una Francesca sensuale, erotica. La mostra arriva alle 56 tavole di Renato Guttuso, 1970. 

mercoledì 2 luglio 2014

Remembering Aaron's Swartz



Il documentario di Brian Knappenberger, realizzato attraverso il crowdfunding
sulla vita di Aaron Swartz. La notizia su Wired.