venerdì 30 novembre 2012

Ascoltiamo gli insegnanti


Si dà troppo spazio a voci lontane dalla realtà delle scuole



"Corriere della Sera",  29 novembre 2012

Un'aula scolastica o universitaria di oggi assomiglia ben poco a un'aula scolastica o universitaria di mezzo secolo fa: sono diversi i numeri, gli abiti, i volti, la proporzione tra i sessi, la composizione sociale, le relazioni tra studenti e professori. Ora, a fronte di questa rivoluzione culturale, l'insegnamento scolastico e universitario non è cambiato molto, sia che si guardi alle sue forme (i modi attraverso i quali il sapere viene comunicato) sia che si guardi alla sua sostanza (le cose che si insegnano).
Questo conservatorismo di fondo è, a mio avviso, del tutto legittimo, posto che il primo compito della scuola e dell'università è comunicare ai giovani il sapere accumulato. Tuttavia, dire che i giovani devono essere messi di fronte a quanto di meglio la loro civiltà, o la civiltà umana tout court ha prodotto nei secoli passati è una formula ambigua, dal momento che ogni corpus di conoscenze presuppone una selezione, e che questa selezione non può compiersi una volta per tutte ma richiede ogni volta di essere rinnovata e giustificata. Di qui, insomma, la necessità di una verifica, di qui l'opportunità della domanda intorno a «che cosa studiare a scuola».
Questa verifica, già ardua di per sé, non mi pare venga facilitata dal profilo dei verificatori. Mi pare infatti che il dibattito sulla scuola sia polarizzato tra, da un lato, enunciati teorici di sublime astrattezza formulati da docenti universitari che vivono per lo più nel mondo della luna e, dall'altro lato, disposizioni pratiche formulate da tecnici della pedagogia altrettanto alieni dalla compromissione con la realtà delle classi scolastiche, quella realtà della quale gli unici veramente esperti, gli unici dei quali sarebbe interessante ascoltare il parere, sono gli insegnanti.
Nell'ambito umanistico, che è quello che mi è più famigliare, il problema dell'acculturazione si converte soprattutto in un problema di cronologia, e insomma di distanza delle discipline e degli argomenti insegnati rispetto all'oggi. Da un lato, vogliamo che gli studenti imparino che cosa è successo nella tradizione italiana ed europea, e che entrino in contatto con opere che appartengono a epoche e mondi lontani dalla loro esperienza. Dall'altro, non vogliamo che vivano il presente da stranieri, vogliamo che tengano gli occhi aperti su ciò che li circonda e che imparino a conoscere e ad amare opere che hanno un rapporto meno mediato con la loro vita — non solo libri, dunque, ma anche film, canzoni, fumetti.
In altre parole, è ben chiaro che la formazione umanistica passa e deve continuare a passare attraverso le opere d'arte del passato, anche del passato remoto, tanto più quando ogni altra agenzia educativa cospira in una sorta di presentificazione della vita intellettuale: dove dovrebbe sopravvivere, la cura per il passato, se non nella scuola? E tuttavia, la scuola oggi non opera nel vuoto e nel silenzio ma in un ambiente che è saturo di informazioni e di stimoli latamente culturali. Oltre a svolgere la sua tradizionale funzione formativa, oltre a condividere con gli studenti il sapere accumulato, alla scuola spetta perciò anche il compito di dar loro i mezzi per reagire all'infinita quantità di cose che essi assorbono durante la loro vita extrascolastica.
Che fare, dunque? Dare ragione al mondo? Almeno in parte sì. E nel caso concreto: rinunciare alla storia? Insegnare letteratura seguendo la traccia dei generi, dei tipi testuali, mettendo in secondo piano, magari obliterando, la cronologia? La sola volta che ho esposto in pubblico queste mie perplessità, uno dei presenti mi ha risposto che «è grazie a idee come queste se gli studenti escono da scuola senza sapere la differenza tra Rinascimento e Risorgimento». È un'obiezione che prendo molto sul serio: non vorrei che succedesse questo. Però vorrei anche osservare due cose. La prima è che io conosco molte persone che, nonostante abbiano «fatto» la storia della letteratura a scuola, si trovano ad avere in testa, anziché conoscenze reali, delle etichette posticce. La macchina scolastica produce ancora troppa retorica, e la retorica produce stupidità: non è detto che ne produrrebbe di meno se cambiassimo i programmi scolastici, ma qualche rettifica potrebbe essere salutare. La seconda è che una conoscenza reale, critica, di un numero limitato di temi vale più della conoscenza superficiale del «tutto» che un corso di letteratura dalle origini ai giorni nostri (o l'equivalente in altri ambiti) promette di dare.
Vogliamo formare delle persone che vivano bene il loro tempo, non dei disadattati. Ma insegnare tutto non si può. E non solo perché manca il tempo, ma perché una sola testa non potrebbe contenere tante nozioni, e tanto disparate: verrebbe fuori soltanto confusione. D'altra parte, però, non possiamo neppure accontentarci di ripetere le cose che ci hanno insegnato nel modo in cui ce le hanno insegnate. Occorre una nuova formula, o un ventaglio di nuove formule. Nuove meno negli ingredienti (non s'inventa niente) che nel dosaggio. Tra le tante possibili, ecco due ovvietà.
La prima. Posto che attitudini come la concentrazione e la capacità di approfondimento ci stanno più a cuore della quantità delle nozioni apprese, i ragazzi dovrebbero essere incoraggiati a leggere più libri per intero, non tanto i Grandi Libri del passato remoto quanto i romanzi e, soprattutto, i saggi del Novecento. Tuttavia il momento della formazione non coincide con quello dell'informazione: perciò dovremmo resistere alla tentazione di comunicare agli studenti tutti i nostri interessi del momento, o i nostri entusiasmi. Qualcuno, sì; tutti, no.
La seconda. Non credo sia ancora abbastanza chiaro a tutti quanto l'esistenza di Internet abbia reso necessaria la conoscenza dell'inglese. Prima era un atout in più per trovarsi un lavoro o per viaggiare. Oggi leggere o non leggere l'inglese, capirlo o non capirlo, significa potere o non potere accedere ai migliori prodotti culturali che circolano in Rete: musica, film, riviste, informazione. Più del digitale (tutti sanno usare Facebook) è questa, oggi, la vera linea di separazione tra i colti e gli incolti, cioè tra i futuri ricchi e i futuri poveri...

Dello stesso autore si segnala: C’è qualcuno che rimpiange gli ittiti? 

"C’è insomma o ci può essere, nell’apprendimento attraverso la rete, un elemento di   infantilizzazione che mi sembra venga sottovalutato dagli entusiasti della rete (nel cui entusiasmo – perché non dirlo? – si nota spesso appunto qualcosa di bambinesco). È  possibile che molte cose non possano essere spettacolarizzate senza che il loro senso si perda, ed è possibile che queste cose non spettacolarizzabili spariscano dal mercato  culturale, o lascino spazio a surrogati più piacevoli, seducenti, colorati. Ma non è soltanto la rete: sono in generale le nuove tecnologie applicate all’educazione che, mentre da un lato moltiplicano all’infinito le possibilità di accumulo e di organizzazione dei dati, dall’altro spingono a una ipersemplificazione che finisce, quei dati, per tradirli, per svuotarli di senso."

Il filosofo che volle educare il tiranno


Platone cercò interlocutori a Siracusa per realizzare il suo ideale autoritario

Luciano Canfora

"Corriere della Sera ", 29 novembre 2012

Discendente dalla più antica e illustre nobiltà ateniese, Platone ha sentito sin dal principio l'attrazione della politica. Ha avuto la ventura di vivere una serie di esperienze straordinarie e traumatiche: i Trenta Tiranni — il cui capo era un suo congiunto —, la restaurazione democratica, la dispersione dei socratici, la grandezza e la miseria della tirannide siciliana, l'irretimento nelle beghe della corte siracusana, la delusione, il ritiro nella scuola. Ha idoleggiato una società comunistica e profondamente «interventista» nella vita di ogni singolo come unica via per la realizzazione non individualistica, ma collettiva del «sommo bene»; ma una tale società non ha saputo concepirla che come rigidamente castale e autoritaria; attratto, come già Crizia, da un modello che, per quanto gli appaia col tempo sempre più insoddisfacente, deludente e caduco, è pur sempre presente alla sua coscienza: quello della Sparta egualitaria, povera, virtuosa, delle leggi di Licurgo.
Assumendo i «tiranni» di Siracusa come interlocutori del suo esperimento di «monarchi-filosofi», Platone adotta un punto di vista che potremmo definire «hobbesiano»: quello della indistinguibilità tra monarca e tiranno (se non in ragione delle azioni compiute), e il rifiuto, per converso, della usuale loro distinzione basata sul giudizio soggettivo di sostenitori e avversari. (Non è inutile ricordare che proprio dalla considerazione della tirannide greca — e ateniese in particolare — Hobbes era per la prima volta approdato, nell'introduzione a Tucidide, 1629, a quella formulazione dell'inconsistenza del concetto di per sé negativo di «tirannide» che affiderà più tardi al De Cive).
Questo atteggiamento dovette essere comune anche ad altri socratici, e discende, forse, dall'atteggiamento radicalmente critico dello stesso Socrate — il quale non a caso restò in Atene durante il governo dei Trenta — nei confronti di tutte le forme politiche tradizionali.
Un socratico non trascurabile, quale Senofonte, svilupperà nello Ierone il tema della «infelicità» del tiranno. Ma Platone andrà oltre. Col suo esperimento siracusano, egli si è aperto, nella prassi, ad una empirica intesa con i tiranni. È stata una scelta di realismo politico che di solito resta in ombra, quando si parla di Platone, collocato, di norma, agli antipodi del realismo o addirittura della Realpolitik.
Non sarà forse mai del tutto esaustivo lo sforzo volto a scandagliare le molte facce di questo genere di scelte: il misto di fascinazione del potere (e della persona che eventualmente lo incarni); di illusione o ragionevole convinzione di riuscire ad incidere in dinamiche e meccanismi che, lasciati a se stessi, sarebbero, forse, di gran lunga peggiori; di certezza che una testimonianza resa fino alle estreme conseguenze può rendere frutti a distanza di tempo (a futura memoria); di fatalismo per non saper più «uscirne»; di effettiva commistione di comportamenti tra il politico e il filosofo, che si produce comunque, anche nel loro confliggere. E siamo certi che questa casistica è del tutto incompleta: non rende appieno la ricchezza di possibilità che il difficile intreccio comporta o suscita.
Il moderno fautore del Principe, che teorizzò la necessità di affidare l'educazione ad un ideal-tipico Chirone perché mezzo uomo e mezzo bestia, fu, al tempo stesso, uomo di azione che dalla diretta esperienza della politica uscì schiacciato. E tuttavia egli è riuscito a ripensare quell'esperienza con un distacco tale da finire coll'apparire ai lettori — specie a quelli non benevoli, ma non per questo impertinenti — addirittura come il «cantore» dei metodi di governo del Duca Valentino. Né risolse l'evidente aporia la gramsciana intuizione di spostare su di un soggetto collettivo, la forza, il ruolo e le prerogative del «moderno principe».
È probabilmente illusorio il proposito di conciliazione o di ricomposizione tra morale individuale e morale politica. Ed è difficile sostenere che le esperienze risolutive non siano state ancora fatte, che il ritrovato risolutivo non sia stato ancora escogitato. Al contrario, la vastità e la ripetitività delle esperienze che abbiamo alle spalle, e che la superstite Historia rerum gestarum ci documenta, è tale da indurre piuttosto a ritenere che quel ritrovato non esista. Al punto che la medesima persona, ove per avventura trapassi da intellettuale a politico — raro ma non impossibile scambio di ruoli — cambia anche morale.
Libero resta, invece, il tipo di fuoruscita individuale, quando si sia approdati ad una situazione che appare ormai insostenibile. Seneca ha lasciato alle età successive, oltre che l'esempio della grandezza e miseria di un esperimento fallito, anche la ricetta, tipica dell'aristocrazia stoicheggiante romana, per chiudere sul piano individuale la partita: «Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena del tuo corpo» (De Ira, III, 15, 4).
La politica è arte troppo grande e troppo rischiosa, già per il fatto che grazie ad essa alcuni divengono arbitri del destino di tutti gli altri, per non comportare, per chi vi si cimenta da protagonista, prezzi altissimi. Come ben sapeva il Socrate platonico, è l'unica arte che non dispone di canoni «insegnabili», e che tuttavia qualcuno, necessariamente, deve praticare. Anche il tiranno è dunque vittima, e talora vittima sacrificale. A ben vedere, è talmente «ovvio» che la morale da lui praticata sia diversa da quella individuale (e non per sua libera scelta malefica), che, a distanza di tempo, sorge talora, tra i molti, pungente nostalgia di lui: consapevoli tutti, è da pensare, che egli fosse, per così dire, costretto ad una morale diversa. Donde il sorgere, ad esempio, dopo la morte di Nerone, di «falsi Neroni» ritornanti nel tempo nella fantasia collettiva, pur dopo la fine fisica di quel determinato principe che portò quel nome e che morì esecrato. Fenomeno destinato a coesistere con l'altro, complementare e indissolubile dal primo, dell'alta stima, anche da parte dei critici più acerbi, nei confronti della «via alla libertà» che Seneca, quando lo ritenne doveroso, seppe praticare.

mercoledì 28 novembre 2012

Paleopatologia


Come è morto Giovanni Dalle Bande Nere? È vero che a ucciderlo fu una cancrena diffusasi dopo l'amputazione della gamba destra? A capirlo dovranno essere i ricercatori della divisione di Paleopatologia dell'Università di Pisa che - diretti dal professor Gino Fornaciari - hanno riesumato il corpo del capitano di ventura del '500, sepolto insieme alla moglie Maria Salviati, padre e madre di Cosimo I de' Medici, primo Granduca di Toscana.
La tomba è stata aperta la scorsa settimana nella cripta del Museo delle Cappelle Medicee a Firenze nell'ambito di una ricerca finanziata dalla Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia, sotto la direzione della Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze. Scopo dell'esumazione è una revisione conservativa delle sepolture, danneggiate dall'alluvione del 1966, ma anche un'analisi antropologica e paleopatologica per comprendere meglio il tipo di intervento chirurgico che il leggendario condottiero subì prima di morire e per chiarire le cause del decesso. LEGGI TUTTO...
Per approfondire: la paleopatologia e il Progetto Medici

martedì 27 novembre 2012

La scuola è giusta? Paese al top




In Finlandia e Corea sistemi d'insegnamento opposti ma vincenti


Cristina Taglietti

"Corriere della Sera", 27 novembre 2012


I modelli sono Finlandia e Corea del Sud: sono queste le superpotenze dell'istruzione, come emerge da una corposa ricerca sui sistemi educativi di 50 Paesi, realizzata dall'Economist Intelligence Unit per la multinazionale dell'educazione Pearson. Lo studio viene presentato oggi a Londra e ha come obiettivo principale supportare politici, dirigenti scolastici e ricercatori universitari nell'individuare i fattori chiave di miglioramento della scuola.
L'idea è che, per quanto sia difficile da quantificare, c'è un collegamento evidente tra le conoscenze e le competenze con cui i giovani entrano nel modo del lavoro e la competitività economica di un Paese a lungo termine. Lo studio ha prodotto un database pubblico e open-source (da oggi consultabile al link http://thelearningcurve.pearson.com) che raccoglie oltre 60 indici comparativi da 50 Paesi: dati come spesa pubblica nell'istruzione, salari dei docenti, tasso di alfabetizzazione, raggiungimento del diploma e della laurea, tasso di disoccupazione, Pil e via dicendo.
La classifica, che vede l'Italia al ventiquattresimo posto, propone un nuovo parametro di valutazione, l'«Indice globale sulle capacità conoscitive e il raggiungimento del livello di istruzione», basato su test internazionali (quello dell'Ocse-Pisa, le valutazioni Timms e Pirls), ma anche dati nazionali sulla media di conseguimento di diploma e laurea. Hong Kong, Giappone e Singapore sono nelle posizioni più alte, mentre negli ultimi posti si trovano Messico, Brasile e Indonesia, pur essendo, queste ultime, economie in veloce via di sviluppo.
I due Paesi al vertice della classifica, Finlandia e Corea del Sud, propongono due sistemi educativi completamente diversi: mentre quello coreano è rigido, basato su verifiche, test, apprendimento mnemonico e obbliga gli studenti a investire molto tempo nella loro istruzione (oltre il 60 per cento dopo la scuola segue lezioni private), quello finlandese è molto più duttile e soft: le ore di scuola sono inferiori rispetto a molti altri Paesi (in Italia il tempo passato sui banchi è superiore di tre anni), non vengono assegnati compiti a casa, viene privilegiata la creatività sull'apprendimento mnemonico.
Ciò che accomuna i due Paesi è l'importanza attribuita all'insegnamento. La ricerca evidenzia che entrambi danno grande importanza all'arruolamento e all'aggiornamento della classe docente (Finlandia e Corea del Sud scelgono gli insegnanti tra i migliori laureati). Entrambi fanno leva sul senso di responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi e sono caratterizzati da un'idea morale diffusa nella società che motiva docenti e studenti (in entrambe le società il rispetto per l'insegnante è considerato fondamentale).
D'altro canto l'importanza dell'insegnamento è l'indicazione principale che emerge dalla ricerca e si basa soprattutto sul riconoscimento del ruolo sociale, mentre il salario degli insegnanti sembra avere scarsa rilevanza sui successi scolastici e pochi collegamenti con lo sviluppo della capacità cognitive misurate secondo i test internazionali. Uno studio su due milioni e mezzo di americani ha stabilito che gli studenti che hanno avuto insegnanti migliori hanno più probabilità di frequentare college prestigiosi, guadagnano di più, vivono in quartieri di migliore status economico-sociale, risparmiano di più per la pensione e, addirittura, hanno meno probabilità di avere gravidanze adolescenziali.
Da un punto di vista generale, dice la ricerca, l'investimento economico sull'istruzione sembra sì importante nel raggiungimento di risultati positivi, ma ancora più importante è una cultura di supporto all'educazione. Non è un caso che, negli Stati Uniti, a seconda della cultura d'origine, ci sono forti differenze, per cui è statisticamente provato che studenti provenienti da famiglie di Hong Kong o Singapore fanno meglio di studenti che vengono dall'America latina o da Haiti.
La questione dell'istruzione appropriata in vista di una futura crescita economica, in grado di offrire agli studenti gli strumenti per affrontare un futuro incerto sono il cuore di alcune riforme scolastiche sopratutto in Asia. Il fatto di anticipare, nella formazione, quelli che saranno i lavori di domani, ha fatto sì che il sistema educativo di Singapore, per esempio, fin dal 1997, sia passato da una forma di apprendimento tradizionale, con grande attenzione allo studio mnemonico, a una formazione che si basa su matematica, scienza e cultura generale combinata con l'apprendimento di come applicare le informazioni che si acquisiscono. I sistemi scolastici di alcuni dei Paesi che si collocano più in alto nella classifica si basano su un'enfasi maggiore sullo sviluppo di «creatività, personalità e collaborazione».
Dallo studio emerge che insegnare a lavorare in squadra, a interagire ed empatizzare con gli altri è la sfida della scuola di domani, tanto che un gruppo di lavoro che include i ministeri dell'Educazione di alcuni Stati stanno cercando di elaborare un metro di valutazione per queste abilità, che verrà introdotto nel programma di valutazione internazionale Pisa del 2015.

Così l’Occidente ha dipinto i sentimenti

F. Kupka, Plans par couleurs. Grand nu, 1909-1919

I colori della passione


Daria Galateria

"La Repubblica",  27 novembre 2012

Michel Pastoureau è uno studioso che si è occupato di come è cambiato l’uso delle tinte 
nella storia della rappresentazione
“Abbiamo perso il blu ed è scomparso il verde, indice degli affetti nascenti“
A metà ’800 si passa ai toni pastello e alle righe, prima riservate solo ai reietti“

Michel Pastoureau, storico e paleografo, studioso degli emblemi medioevali, con Blue La stoffa del diavolo, con cui inaugurava la serie affascinante degli studi sui colori, ha conosciuto la fama mondiale.
I colori dei nostri ricordi (Ponte alle Grazie, traduzione di Laura De Tomasi), l’ultimo suo libro pubblicato in Italia, è il diario cromatico della sua vita: offre, come sempre, una superba lettura erudita, leggera e arguta, a cui qui si aggiunge una nota sentimentale. A Roma per una conferenza al Centre Saint Louis sulla storia degli emblemi dal Medioevo a oggi, gli abbiamo chiesto di parlarci del simbolismo dei colori in amore.
È cambiato dal Medioevo il significato amoroso dei colori?
«Sì. Nel Medioevo c’è un forte simbolismo dei colori dell’amore che si protrae a lungo, fino all’epoca moderna. Ci sono almeno quattro colori da considerare. Il verde è il colore dell’amore allo stadio nascente – il verde era un colore instabile: facile da ottenere con i vegetali, ma difficile da stabilizzare, stingeva facilmente. Il blu è il colore dell’amore ordinario, ragionevole – quello coniugale per esempio. Il rosso è il colore evidentemente dell’amore passionale: dell’erotismo, della lussuria; e si può aggiungere il grigio e il nero, che sono i colori dell’amore infelice. È una tavolozza variegata. L’amore platonico poi era associato al colore bianco; solo il giallo non è associato all’amore, perlomeno in Occidente. Oggi di questo codice restano il rosso per la passione e il grigio e il nero per la pena d’amore. Invece abbiamo perso il blu ed è scomparso il verde – se ne parla solo per l’amore infantile e adolescenziale. Baudelaire dice: “Il verde paradiso degli amori infantili”».
«La nostra civiltà urbana in cerca di clorofilla ne ha fatto un simbolo di salute e di giovinezza» – cito dal Verde del suo Couleurs. Il costo dei colori incide su questi simbolismi amorosi? Il blu, colore molto costoso che si ottiene dal lapislazzulo, diventa il colore dei re: si può immaginare un lato sociologico, un prezzo dei colori amorosi?
«Oggi il costo non incide più perché si riescono a ottenere colori sintetici a basso prezzo in tutta la gamma cromatica. Nel passato non era così. Per esempio fino al XIX secolo era difficile tingere in bianco e in nero; costava molto. È per questo che in Europa fino alla fine del Settecento le spose di origine contadina si sposavano in rosso: perché i tintori nella gamma del rosso riuscivano a ottenere con poca spesa dei bei colori. Questo fino al 1830, quando la chimica dei coloranti ha fatto dei progressi e ottenere il bianco è diventato più economico. Ma quando si parla di simbolismo il lato materiale, la tecnica non hanno una rilevanza assoluta».
L’amore passionale ha cambiato colore? Qual è il ruolo del rosa?
«Il rosa è stato molto recentemente associato all’omosessualità. A lungo considerato sfumatura non satura del rosso, dal Settecento il rosa era simbolo della femminilità (ma a volte con una nota negativa di sdolcinatezza), e poi, solo ai nostri giorni, delle bambine. Ma ora l’emblema dell’omosessualità ha virato sull’arcobaleno».
Uno degli strumenti della seduzione è la biancheria, di cui lei ha scritto. Quali colori erano considerati attraenti? E oggi?
«Per secoli tutto quello che toccava la pelle doveva essere o non tinto o bianco – o meglio, quasi bianco, perché era difficile tingere in bianco; e questo valeva per la camicia, le lenzuola, gli asciugamani. Solo nella seconda metà dell’Ottocento si passa alle tinte pastello: le mezze tinte, il celeste, il verde, il giallo pallido; o perfino le righe per le camicie maschili, il materasso – le righe erano un tempo riservate ai reprobi, ai reietti: carcerati, deportati, ebrei, lebbrosi, prostitute, buffoni; poi da segno di disordine e trasgressione sono diventate emblema di igiene e di ordine (bandiere, segnali stradali). A partire dal 1950 il colore ha finalmente potuto toccare il corpo, non era più scandaloso; la biancheria assume colori vivaci e si propongono nei cataloghi lenzuola nere. Per l’erotismo, di contro al bianco dominante, le professioniste della dissolutezza all’inizio del Novecento si distinguevano per indumenti intimi rossi e neri; ora questo si è attenuato: entrano in gioco considerazioni come la resistenza al lavaggio automatico. La palette si è diversificata; il bianco dell’estrema giovinezza si è dotato di una connotazione erotica che non aveva un tempo; il codice qui si è rovesciato».
I ricordi sentimentali hanno dei colori speciali?
«Il libro I colori dei nostri ricordi ha in epigrafe una frase del poeta Gérard de Nerval, che scrive nel 1848 a un amico pittore, Paul Chenavard: il re di Francia Luigi Filippo gli aveva proposto di fare qualche scena della storia di Francia per il castello di Versailles. Il pittore esitava; e allora Nerval lo incoraggia a dipingere questi quadri “prima che si perdano nell’eternità del silenzio i colori dei nostri ricordi”: una frase magnifica. I ricordi hanno in effetti dei colori – per i sogni sarei più esitante; ma i ricordi sono colorati e spesso fortemente colorati. Più che delle donne amate, ho ricordi colorati insistenti delle mie due bambine: volevo vestirle con colori diversi, e per me una bimba è blu, l’altra rossa. Mia madre era farmacista e le scatole dei medicinali erano un gioco magnifico per un bambino. Anche oggi i calmanti hanno scatole blu, gli eccitanti arancioni, i lassativi marrone; su un armadio c’era scritto in rosso: Veleni. In famiglia poi c’erano molti pittori, e nei loro atelier ero libero di sporcare coi tubi di colori…».
Parliamo di pena d’amore. Il sonetto El desdichado (Il diseredato) di Nerval parla del “sole nero della malinconia” di cui lei ha dato, nella Storia simbolica del Medioevo, una famosa interpretazione.
«Il sonetto è del 1864-65; ma i versi di Nerval mi ricordavano alcune miniature di un famoso codice del 1360 che Nerval ammirava alla Biblioteca nazionale. Nerval ha avuto un’infanzia infelice, poi si è innamorato senza troppa fortuna di un’attrice, Eugénie: nelle opere celebra la malinconia in tutte le sue forme; malinconie blu o grigie, e il sole nero. Il desiderio per lui come per certi troubadours era più importante del piacere: Nerval desidera il desiderio; era innamorato dello stato amoroso».
La Riforma protestante ha diviso i colori in leciti e illeciti. Esistono differenze di questo genere per i colori della passione d’amore?
«Sì e no. L’amore passionale è già in sé qualcosa d’illecito per la maggior parte delle società; per il buon ordine sociale occorre che resti entro certi limiti. È vero che nella riforma protestante si tende a distinguere colori che sono onesti e altri meno, e la controriforma cattolica riprende i colori degni di un buon cristiano – di un buon cittadino semplicemente – che sono il bianco, il nero, il blu, il grigio e il bruno, colori saggi che non si notano; mentre colori disonesti erano il giallo e il verde, troppo vistosi: e il rosso violento, colore, in Europa, dell’amore passionale».
La globalizzazione crea problemi alla nostra simbolizzazione dei colori sentimentali?
«Per noi occidentali non penso; ne creerà nelle altre culture. La mondializzazione va sempre in favore delle pratiche e dei codici dell’occidente, anche in tema di colori».

domenica 25 novembre 2012

Le Avanguardie della Cia

"Muro di Berlino",  Henry Cartier Bresson
Da Pollock a Rothko, molti artisti trasgressivi vennero sponsorizzati dai servizi segreti Usa

Pierluigi Battista

"Corriere della Sera - La Lettura",  25 novembre 2012

Nell'ultimo romanzo di Ian McEwan, tradotto e pubblicato da Einaudi con il titolo Miele, Serena Frome viene arruolata dall'agenzia di intelligence britannica. Ma la sua non è una storia di spie come tutte le altre. La missione cui è chiamata agli inizi degli anni Settanta, un'epoca di grande turbolenza sociale e culturale, è una missione ideologica: deve conquistare alla causa dell'Occidente, in funzione anticomunista, scrittori e intellettuali capaci di diffondere il verbo delle «società libere». «Libertà di parola, libertà di riunione, diritti legali, sviluppo democratico: non sono cose molto apprezzate oggigiorno da molti intellettuali», le dice il capo dei servizi segreti. Per questo il compito della neo-spia è di assoldare, a loro insaputa, esponenti della minoranza culturale attestata su posizioni filo-occidentali.
Fantapolitica, fantastoria, deformazione letteraria della realtà? No, e infatti nel romanzo di McEwan viene esplicitamente menzionata la rivista «Encounter», molto elegante e molto cool, già diretta da Stephen Spender, che nel 1966 venne travolta da una clamorosa rivelazione: finanziatrice della rivista era la Cia, attraverso le sue fondazioni. E pagate dalla Cia, si rivelò allora, erano state tutte le riviste legate al «Congresso per la libertà della cultura». Compresa una rivista bellissima e controcorrente in Italia, «Tempo presente», diretta da Nicola Chiaromonte, da Ignazio Silone e da Gustaw Herling, il grande intellettuale polacco che aveva raccontato il Gulag e che, a Napoli, sposò una figlia di Benedetto Croce. Dopo quella rivelazione «Tempo presente» entrò in uno stato di agonia. Lo stesso Chiaromonte, combattente antifascista nella guerra di Spagna, amico degli intellettuali anticonformisti negli Stati Uniti, a cominciare da Hannah Arendt e Mary McCarty, critico teatrale, polemista, nemico di ogni totalitarismo, di quello fascista e di quello comunista, morirà qualche anno dopo, stroncato da un infarto in un ascensore della Rai, dove si era recato per trattare per qualche collaborazione, oramai isolato nella comunità culturale orientata a sinistra.
McEwan, cioè, fa esplicito riferimento a uno degli episodi controversi di una grande «guerra fredda culturale» che ha diviso il mondo intellettuale lungo tutto l'arco temporale del mondo spaccato in due blocchi, quello occidentale e quello comunista. Una storia ricostruita, da due punti di vista opposti, da Massimo Teodori, filo-americano, nel suo libro Benedetti americani, e da Frances Stonor Saunders, che con il suo La guerra fredda culturale (tradotto e pubblicato in Italia dall'editore Fazi) ha rivisitato l'intera vicenda sottolineando l'aspetto scandaloso di intellettuali che hanno prestato la loro opera generosamente finanziati nientemeno che dalla Cia, considerata la quintessenza di ogni nefandezza illegale dell'Occidente, un centro di provocazione permanente, una rete perennemente impegnata nella destabilizzazione delle democrazie.
E infatti, quando vennero rivelati i finanziamenti della Cia, lo scandalo fu generale (se ne adontò persino Isaiah Berlin, dichiarando che, ad averlo saputo, non avrebbe mai collaborato con «Encounter»). Ma non tutti conoscono l'ampiezza degli interventi della Cia sulla cultura. E non è esagerato constatare, come si evince dai libri appena citati, che vennero foraggiati dal servizio segreto americano non soltanto un Koestler, veementemente impegnato nella battaglia culturale anticomunista, ma una buona parte dell'avanguardia artistica e musicale, americana ed europea. «Se si leggono i nomi dei membri dei vari comitati del Museum of Modern Art di New York (Moma)», scrive Saunders, «si scopre una proliferazione di collegamenti con l'Agenzia» e già dal 1948 le opere di molti «maestri del modernismo», da Matisse a Chagall a Kandinsky, «furono scelte dalle collezioni americane e inviate in Europa». Allo stesso Andy Warhol non furono lesinati aiuti e sostegni. Vennero promosse mostre ed esibizioni in tutto il mondo occidentale di Jackson Pollock, di De Kooning, di Mark Rothko. Un forte sostegno, ovviamente segreto, venne anche garantito sia a musicisti d'avanguardia che a storiche orchestre sinfoniche, come quella di Boston, di cui furono messe a punto lunghe e fruttuose tournée in Europa. L'aiuto non mancò nemmeno a molti maestri del cinema come John Ford, e molte opere americane destinate a importanti Festival del cinema, a cominciare da quello di Cannes, avevano ricevuto fiumi di denaro di provenienza Cia.
In Italia, la rivista «Tempo presente» era molto snobbata dalla cultura di sinistra. Gravava su Silone l'eterno sospetto riservato agli ex comunisti che, rompendo con il partito, avevano scelto una presenza militante nel campo opposto. L'onestà intellettuale di Chiaromonte era cristallina. Ma le rivelazioni pesarono moltissimo, e negativamente, sui destini di quel gruppo intellettuale sospettato di essersi messo al servizio dell'«imperialismo americano». Ma bisogna capire che le ragioni per le quali la Cia finanziava tante iniziative culturali non coincidevano con una forma di disinteressato mecenatismo. Gli Stati Uniti, intelligentemente e con grande lungimiranza, volevano dimostrare che la cultura libera dell'Occidente non aveva paura delle innovazioni formali e dell'anticonformismo delle avanguardie. E che nell'Occidente si respirava tutt'altra aria rispetto a quella, soffocata dall'oppressione e dalle regole ferree del «realismo socialista», che dominava le società comuniste obbedienti a Mosca. Di qui la libertà, di là la repressione e l'asservimento degli intellettuali al regime: questo era il motivo per cui le amministrazioni americane ritenevano indispensabili le armi della «guerra fredda culturale». Lo stesso motivo che è alla base dell'arruolamento di una giovane dinamica e vivace nell'intelligence britannica in funzione anticomunista. Una guerra militare. Una guerra psicologica. Una guerra culturale. Il mondo finito con il crollo del muro di Berlino e con la fine dell'Unione Sovietica si divideva anche nelle arti, nei suoni e nelle lettere. E tutto aveva un prezzo.

Avicenna


Il filosofo arabo che scrisse la «bibbia dei medici»

Armando Torno

"Corriere della Sera", 25 novembre 2012

La vicenda inizia a Bukhara, oggi Uzbekistan, in un anno poco prima del Mille. Un giovane abita qui, si chiama Ibn Sîna. Studia il Corano, anzi a dieci anni lo conosce a memoria, eccelle in letteratura, geometria, calcolo indiano e ben presto avrà anche una formazione filosofico-scientifica. A sedici anni divora opere di medicina, metafisica, diritto. A diciassette è chiamato come medico alla corte del sovrano Nûh ibn Mansur e lo guarisce da un male che lo tormentava. Per tale motivo gli vengono aperte le porte della ricca biblioteca reale, dove potrà studiare ulteriormente e approfondire quanto desidera, tanto che a diciotto anni — si mormora — conosceva ogni scienza. Ma il giovane non è mai sazio di sapere. Dalla sua autobiografia, conservataci dal discepolo Giûzgiânî, sappiamo che legge per quaranta volte la Metafisica di Aristotele: si tormenta su questo testo perché non ne comprende il senso ultimo, o almeno crede che gli sfugga. Non ne descriveremo tutta la vita, ci accontentiamo dopo queste premesse di ricordare che nella lingua arabo-spagnola il nome diventerà «Abensîna». Il medioevo latino lo conoscerà come Avicenna.
Perché occuparsi di lui? Per un semplice motivo: Olga Lizzini, che con Pasquale Porro aveva tradotto dieci anni fa la sua Metafisica, ora ha pubblicato una monografia su questo filosofo e medico. Nella collana «Pensatori» dell'editore Carocci è uscito, appunto, Avicenna. Un ritratto che spazia dalla logica all'antropologia, dalle definizioni della natura ai percorsi metafisici. La Lizzini, che insegna Filosofia dell'Islam medievale ad Amsterdam, ci offre un saggio basandosi sulle opere. Noi dell'immenso lascito di Avicenna ricordiamo in questa occasione il suo Canone della medicina, tradotto da Gherardo Cremonese a Toledo in latino nella seconda metà del secolo XII e migliorato dal medico bellunese Andrea Alpago (morto a Padova nel 1521), opera che diventerà il testo di riferimento nelle università. Venne considerata «la bibbia dei medici».
Il Canone era diviso in cinque trattati: comincia con la medicina teorica e pratica in generale, inclusa l'anatomia del corpo umano; prosegue con i medicamenti semplici, mentre la terza parte fu dedicata alle malattie di una determinata parte del corpo; si trovano poi le sezioni sulle patologie non particolari e si conclude con la composizione e applicazione dei medicamenti. Avicenna ha intuizioni avanzate. Per esempio, raccomanda al chirurgo di trattare il cancro nelle sue fasi iniziali, invitandolo ad accertarsi della rimozione completa del tessuto malato. Ricorda l'importanza della dieta, l'influenza del clima e dell'ambiente sulla salute; inoltre parla degli anestetici orali e del valore medico della musica, la quale ha un effetto particolare sullo stato fisico e psicologico dei pazienti.
Una bolla di papa Clemente del 1309 cita il nome dell'arabo accanto a quello di Galeno. Lo si valorizza particolarmente a Bologna e a Montpellier, anzi nella città francese è addirittura ritenuto superiore ai testi della medicina greca onorati dalla tradizione (in verità è anche accostato alle opere del clinico Abu Bakr Razi). Sarà adottato sino al XVII secolo; il programma di una scuola medica che lo esclude reca la data 1557, anche se in quel tempo è continuamente stampato, come prova la superba edizione in folio che esce a Roma nel 1593. Si può affermare che per secoli nessun medico avrebbe potuto ignorare il suo insegnamento teorico, come d'altra parte ricorda Chaucer nel prologo dei Racconti di Canterbury. L'influenza esercitata in Europa cominciò nella prima metà del Duecento, allorché se ne segnala la presenza negli scritti del medico danese Henrik Harpaestraeng. D'altra parte, del Canone si contano poco meno di 90 traduzioni.
E questo anche se un sommo conoscitore dei corpi umani quale Leonardo da Vinci rifiutava le concezioni anatomiche del maestro arabo e il medico alchimista Paracelso, morto nel 1541, nel giorno di San Giovanni del 1527 — così vuole la tradizione — con esuberanza e tra gli applausi degli studenti ne bruciò pubblicamente le opere a Basilea. Al di là dei critici, tuttavia, Avicenna penetra profondamente nel sapere europeo. Alberto Magno era ricorso alle sue opere per gli scritti scientifici e, inoltre, lo consegnò al pensiero di Tommaso d'Aquino; la scolastica latina non è pensabile senza la sua filosofia e gli influssi giungono sino alla Scuola di Oxford e fanno eco le lodi che gli dedica Ruggero Bacone, il quale non esita a porlo accanto ad Aristotele e a Salomone. E questo senza contare le tracce che si ritrovano nei testi dei filosofi francescani. Dante, inoltre, lo situa tra i sommi uomini di scienza. I teologi dell'età di mezzo consultano senza requie il Libro della guarigione, o come avrebbe lui detto il Kitâb al-Sifâ, che nelle biblioteche dei monasteri era noto con il titolo Liber sufficientiae: si tratta di una enciclopedia filosofica, la cui parte riguardante «la scienza delle cose divine», è la ricordata Metafisica.
Non sono che esempi. E quando si svilupperà, sotto lo sguardo vigile della Compagnia di Gesù, la Seconda Scolastica, Avicenna è ancora presente nelle immense chiose offerte all'opera di Tommaso. Soltanto nel periodo illuminista, in quel Settecento permeato di scienza che con il medico militare La Mettrie intenderà il corpo umano come una macchina, il maestro arabo cederà definitivamente il passo. Si ritirava nella storia. Dopo aver avvisato l'umanità che un «dottore ignorante è l'aiutante di campo della morte»

Nel Medioevo e nel Rinascimento in Italia fondamentali anche i «dottori rabbini»

Accanto alla medicina (e alla filosofia) degli arabi, non vanno dimenticate quelle degli ebrei. Medioevo e Rinascimento vedono in innumerevoli città italiane, a cominciare dalla Roma dei Papi, la presenza di medici rabbini, ovvero di eminenti figure che oltre ad essere guide spirituali delle loro comunità praticano l'arte di Ippocrate utilizzando il vasto sapere della tradizione ebraica. Ora un volume, curato da Myriam Silvera, in cui sono raccolti gli atti di un convegno tenutosi nel settembre 2008 presso l'Università degli Studi di Roma Tor Vergata, dal titolo Medici rabbini. Momenti di storia della medicina ebraica (Carocci, pp. 168, 19), consente di conoscere protagonisti e riflessi di una storia che merita attenzione. Ecco allora riapparire figure quali Nathan ha-Meati da Cento, traduttore dall'arabo del Canone di Avicenna e dal greco degli aforismi di Ippocrate; oppure Calonimos ben Calonimos, che ci lascia una traslazione di alcuni testi di Galeno. Si giunge anche in periodi più vicini, per esempio con personaggi quali Isacco Lampronti, al quale, nel volume di Carocci, David Gianfranco Di Segni dedica un saggio. Attivo a Ferrara, dove morì nel 1756, fu autore di una celebre enciclopedia talmudica, Pahad Izchak, che espone in ordine alfabetico questioni di natura rituale, religiosa, medica e scientifica (in Israele, nel 1942, è stata pubblicata una nuova edizione). Una lapide in via Vignatagliata 33 lo ricorda: ma, come riferisce Di Segni, fu affissa nel 1872, «dopo la fine del potere temporale della Chiesa, perché il clero, poco prima che Lampronti morisse, aveva vietato le lapidi alle tombe ebraiche»; anzi, quelle presenti nel cimitero della comunità furono «utilizzate per altri scopi, come per esempio lastricare strade». Ma il ricordo di questa figura resta soprattutto legato alla sua idea di «missione»: esercitò la professione sia tra gli ebrei che i non-ebrei, tanto che questi ultimi lo chiamavano «il famoso medico». Il libro di Carocci non si limita comunque ai personaggi. Si trovano, per esempio, notizie sulle biblioteche dei medici ebrei negli anni che seguono l'espulsione dalla Spagna o questioni di etica, come il saggio di Giuseppe Veltri, sulla medicina nella riflessione talmudica. 

Una imponente bibliografia di riferimento di Avicenna è disponibile in italiano, presso Bompiani, Metafisica, con testo arabo e latino a fronte; dall'editore Zamorani si trova Il poema della medicina. Fra i ricordati traduttori vale la pena di segnalare il saggio di Francesca Lucchetta Il medico e filosofo bellunese Andrea Alpago (1522) traduttore di Avicenna del 1964, ancora segnalato nel catalogo di Antenore. Il saggio di Olga Lizzini, ricordato in questa pagina ed edito da Carocci, ha una accurata bibliografia alle pagine 307-334 che può rispondere alle numerose esigenze. Per i medici rabbini è sempre possibile partire dalla Jewish Encyclopedia (del 1906, ma è disponibile online).
Resta importante il saggio di Cecil Roth The Jews in the Renaissance, uscito a Philadelphia nel 1959, ristampato nel 1977. Inoltre, per il mondo rinascimentale e per i molteplici aspetti che influiscono ancora sul nostro sapere, sono importanti i due volumi, curati da Germana Ernst e Guido Giglioni, intitolati I vincoli della natura e Il linguaggio dei cieli (entrambi pubblicati da Carocci, rispettivamente di pp. 320, 25 e di pp. 344, 29).
In essi si possono trovare saggi come quello di Hiro Hirai, Medicina e astrologia. Aspetti della medicina astrale platonica o altri dedicati a superstizioni, credenze popolari, segreti di natura.

I nuovi analfabeti


OGGI SI PRIVILEGIA UNA CONOSCENZA EMOTIVA E FRAMMENTATA. 
E LA SCUOLA NON AIUTA A MIGLIORARE LE CAPACITÀ ARGOMENTATIVE

Spot, politica, articoli di giornale 
Un italiano su due fatica a capire

PAOLO DI STEFANO

“La Lettura – Corriere della Sera”, 25 novembre 2012

Ci sono gli analfabeti e ci sono gli «illetterati». Rimanendo nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni, cioè tra i cittadini italiani considerati attivi, secondo il censimento del 2001, gli analfabeti sono 362 mila, gli alfabeti privi di titoli di studio sono 768 mila, le persone che vantano solo la licenza elementare sono quasi sei milioni e mezzo. Nel totale, circa il 20 per cento della popolazione è gravemente carente quanto al possesso degli strumenti culturali di base. Sono questi gli illetterati? Sì e no. Perché nella sfera che gli inglesi chiamano illiteracy si devono aggiungere coloro i quali, pur avendo percorso un regolare iter scolastico, rivelano una limitatissima capacità capacità di utilizzare la scrittura e la lettura, di comporre e comprendere testi semplici. LEGGI TUTTO...

La dittatura degli algoritmi


Fabio Chiusi

"La Lettura - Corriere della Sera", 25 novembre 2012

Gli algoritmi hanno conquistato il mondo, scrive il giornalista e ingegnere Christopher Steiner in Automate This (Portfolio Penguin), uscito recentemente negli Stati Uniti. Una dittatura silenziosa, partita da Wall Street e giunta fino ai confini della nostra quotidianità.
Così, se nel 1945 perfino un visionario come Vannevar Bush, precursore della nozione di ipertesto, poteva scrivere che «pensiero creativo e ripetitivo sono cose molto diverse», e argomentare che solo per quest’ultimo ci possono essere «potenti aiuti meccanici», oggi tutto è cambiato. Come racconta il volume di Steiner, infatti, sono gli algoritmi a decidere quali canzoni saranno le prossime hit radiofoniche o a valutare il successo al botteghino di un film prima ancora che venga realizzato. Anzi, subordinandone la realizzazione alle stime di incasso computerizzate. Non solo: in alcuni casi l’algoritmo diventa l’artista. Un artista che non soffre di blocchi compositivi, non invecchia. E non teme rivali. Già nel 1987 Emmy, ideato dal professore emerito alla University of California di Santa Cruz, David Cope, è stato in grado di creare 5 mila composizioni sulla falsariga di Johann Sebastian Bach in una pausa pranzo. Dieci anni più tardi, le sue opere erano talmente credibili da indurre un uditorio di esperti a considerarle umane — passando così una sorta di test di Turing musicale. Alcuni si sono chiesti: lo spartito era di Cope o di Emmy?
Ma anche questa domanda sarà presto consegnata alla storia, dato che il nuovo algoritmo di Cope, Annie, «impara a imparare». Certo, Steiner ammette che c’è ancora un dominio dell’umano dove l’automazione arranca. Il poker, per esempio: regno dell’infingimento, del bluff, dell’irrazionale che si rivela tutt’altro che irrazionale. Ma se sono righe di codice a studiare la personalità dei clienti così da fornire a ciascuno l’interlocutore telefonico adatto (grazie ai suggerimenti del software, i call center risolvono il doppio dei problemi nella metà del tempo), e se gli indici di influenza online iniziano a determinare le nostre chance di successo nell’ottenere un posto di lavoro, si comprende come quel dominio sia destinato a restringersi ulteriormente.
«Il nostro futuro sarà pieno di bot che ci giudicheranno, indirizzeranno e misureranno», scrive l’autore, sostenendo che «l’abilità di creare algoritmi che imitino, migliorino, e da ultimo rimpiazzino gli esseri umani è l’abilità di primaria importanza dei prossimi cento anni». E che, di conseguenza, gli studenti dovrebbero puntare sulla programmazione: «Questi posti di lavoro non scompariranno».
Se creare algoritmi serve a combattere la crisi, giova ricordare come questi ultimi siano anche sul banco degli imputati. Il tema è materia di dibattito, ma non manca chi fa notare che se oggi il mercato azionario statunitense è controllato per il 60% da algoritmi senza alcuna supervisione umana, e se il mercato fallisce, è impossibile considerare l’automazione del tutto innocente.
In un’epoca in cui si investono milioni e milioni di dollari e si squarcia il terreno per posare connessioni in fibra ottica che consentano un vantaggio competitivo di pochi millisecondi, il panico finanziario è questione di istanti. Come per il cosiddetto «flash crash» del 2010, quando pochi minuti sono bastati per far perdere, e poi altrettantomisteriosamente riguadagnare, circa 1.000 punti (il 9%) all’indice Dow Jones. All’epoca cinque secondi di stop alle transazioni furono sufficienti per fermare la spirale distruttiva, ma il problema è che — a distanza di due anni — non c’è ancora chiarezza su cosa sia realmente successo. È un aspetto imprevisto della dittatura dell’automatico: non necessariamente coincide con una perfetta conoscenza e prevedibilità delle sue conseguenze. Anzi, «stiamo scrivendo cose che non riusciamo più a leggere», ammoniva il consulente e imprenditore tecnologico Kevin Slavin a luglio 2011 durante una conferenza Ted in cui parlava dell’intrusione degli algoritmi nella creatività come della «fisica della cultura».

E se interagire con altri esseri umani dovesse diventare un problema da risolvere attraverso un numero finito, e prestabilito, di passi? La domanda non è peregrina, dato che la scuola, l’ospedale e perfino la politica, secondo Steiner, sono i prossimi territori di conquista dell’automazione. Non c’è il rischio di spersonalizzare i rapporti sociali? «Sarà una sfida», risponde l’autore alla «Lettura», immaginando il futuro: «Credo che finiremo per avere una società segregata non solo secondo fattori classici quali reddito e razza, ma anche secondo il crinale che separerà chi cercherà attivamente interazioni umane da chi non lo farà».
Comunque vada, il rischio è che l’offerta di prodotti culturali, alla mercé del giudizio di un codice, sia sempre più omogeneizzata. Steiner concorda. Perché, da un lato, è vero che «le nostre classifiche di musica pop traboccano già di musica assolutamente generica, a volte straziante». Ma, dall’altro, «dobbiamo chiederci: un algoritmo troverebbe i Nirvana?». Difficile, dato che parte della grandezza della band di Kurt Cobain è stata proprio portare alle masse ciò che prima si riteneva di nicchia. Più in generale, pensando alla quantità di funzioni svolte dagli algoritmi — dai motori di ricerca alla crittografia, dal riconoscimento facciale all’e-commerce — parrebbe corretto concludere, con l’imprenditore John Bates, che siano «i nuovi schiavi». Ma, all’alba di un’epoca in cui imparano ad autoregolarsi, il rovesciamento di prospettiva diventa un’ipotesi da prendere in seria considerazione. Senza necessariamente sposare l’assunto computazionalista — la mente è un calcolatore, quindi dal calcolo può nascere una mente — che aleggia in tutto il testo di Steiner. E che forse ne motiva l’unico difetto: la mancanza di approfondimenti critici.

sabato 24 novembre 2012

Keynes: così la Conferenza di Parigi nel 1919 preparò la tragedia

Among the Bohemians: Virginia Woolf (centre) outside a summerhouse with her house guests, economist Maynard Keynes (right) and Angelica Bell, Vanessa Bell and Clive Bell, 1930s.
Il peso insostenibile della pace

Pietro Citati

"Corriere della Sera",  24 novembre 2012

Non ho mai letto la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, che John Maynard Keynes pubblicò nel 1936. E me ne vergogno. Ma mi permetto di consigliare a qualsiasi lettore Le conseguenze economiche della pace (Adelphi), che ebbe un grande successo subito dopo la Conferenza di pace di Parigi nel 1919. Ora Adelphi pubblica un piccolo libro, Le mie prime convinzioni (a cura di David Garnett, Pierangelo Dacrema e Brunella Bruno, con un saggio di Giorgio La Malfa, pp. 148 12), che sviluppa la materia delle Conseguenze economiche della pace. Il 2 febbraio 1921 Keynes ne lesse una parte ai suoi amici di Bloomsbury. «Caro Maynard», gli scrisse Virginia Woolf, «ci faresti avere il tuo manoscritto in modo che possiamo leggere quello che ci siamo persi ieri sera? Lo terremo segreto, e te lo restituiremo subito. Ci è parso magnifico, e non so dirti quanto ti invidio per il modo come descrivi i personaggi».
Keynes aveva passato i primi mesi del 1919 a Parigi come rappresentante del ministero del Tesoro inglese alla Conferenza di pace. Tutti gli alberghi di Parigi erano occupati da rappresentanti dei vari paesi, dalla Gran Bretagna alla Germania agli Stati Uniti all'Australia al Giappone. Come un vero figlio di Ermes, Keynes si muoveva tra la protervia, la stolidità e l'inutile sottigliezza dei politici di tutto il mondo, e li guardava con un occhio spaventosamente ironico. «Un senso di incombente catastrofe — scriveva — sovrastava la frivola scena; la futilità e piccolezza dell'uomo davanti ai grandi eventi che lo fronteggiavano; il misto di impotenza e irrealtà delle decisioni; leggerezza, cecità, arroganza, grida confuse da fuori: tutti gli elementi della tragedia antica erano presenti». Ma, stando seduto tra i teatrali ornamenti nei saloni di gala francesi, Keynes si chiedeva se i volti di Wilson e Clemenceau fossero delle vere facce umane, e non «le maschere tragicomiche di qualche strano dramma o spettacolo di burattini».
A Parigi, gli Alleati stavano preparando per la Germania una pace cartaginese: la prosecuzione dell'embargo, l'occupazione del territorio tedesco, la proibizione di commercializzare, al di fuori dei propri confini, oro, titoli esteri o altre disponibilità liquide, la requisizione della flotta mercantile. Dapprima alla conferenza e poi nelle Conseguenze economiche della pace, Keynes con la sua calma voce ironica dimostrava cosa sarebbe successo: dapprima la disperazione e la fame in Germania, poi la diffusione d'odio verso i vincitori, infine la futura vendetta dei vinti, che dopo due decenni avrebbe portato all'autodistruzione dell'Europa.
Ciò che affascina e meraviglia nelle Conseguenze economiche della pace è il dono narrativo e il talento psicologico, che ne fanno un capolavoro letterario, da mettere accanto ai libri di Virginia Woolf e di Lytton Strachey.
Ecco le mirabili pagine su Clemenceau. «Nel Consiglio dei Quattro — Clemenceau portava una giubba a tagliere di buon panno nero, e alle mani, che non erano mai scoperte, guanti grigi di pelle scamosciata; le scarpe erano di grosso cuoio nero, ottime, ma di foggia campagnola, e a volte fermate sul davanti, curiosamente, da una fibbia invece dei lacci. Nella sala della casa del presidente Wilson in cui si tenevano le riunioni regolari del Consiglio dei Quattro, Clemenceau sedeva su una seggiola quadrata, rivestita di broccato, nel mezzo del semicerchio davanti al caminetto, con alla sua sinistra il primo ministro italiano Orlando e, accanto al caminetto, il presidente Wilson, e alla sua destra, dirimpetto a Wilson, il premier britannico Lloyd George». «Non aveva con sé carte né portafogli e non era assistito da un segretario personale, ma vari ministri e funzionari francesi confacenti all'argomento in esame erano presenti intorno a lui. Il suo passo, la mano e la voce non mancavano di vigore; nondimeno, specialmente dopo l'attentato di cui era stato oggetto, aveva l'aspetto di un uomo molto vecchio, che riservava le sue forze per le occasioni importanti. Parlava di rado, lasciando l'esposizione iniziale del punto di vista francese ai suoi ministri o funzionari; spesso chiudeva gli occhi e se ne stava rilasciato sulla sedia con un viso impassibile di cartapecora, le mani guantate di grigio intrecciate in grembo. Una breve frase, recisa o cinica, era in genere sufficiente, una domanda, una sconfessione netta dei suoi ministri senza salvarne la faccia, o un'impuntatura caparbia rafforzata da qualche parola in un inglese dalla pronuncia asprigna. Ma eloquenza e fervore non mancavano quando ce n'era bisogno, e l'improvvisa eruzione verbale, spesso seguita da un accesso di tosse cavernosa, produceva il suo effetto piuttosto col vigore e la sorpresa che con la persuasione».
* * *
La figura di Keynes mi incanta, e rinuncerei volentieri al posto importantissimo che egli ha segnato nella scienza economica, per raccogliere le tracce lasciate in quella meravigliosa raccolta di chiacchiere, pettegolezzi e opinioni che sono le Lettere di Virginia Woolf. Keynes vi appare dappertutto, sempre sottile, intelligente e frivolo. Frequentava Virginia: per qualche tempo abitò un pied-à-terre al piano sotto il suo: andava a trovarla nella sua casa di campagna; e quando prese in affitto una casa a Gordon Square ne fece il centro di una nuova Bloomsbury, dando feste e balli in maschera.
Nelle lettere di Virginia Woolf appare continuamente Lydia Lopokova, che aveva danzato come prima ballerina della compagnia Diaghilev nel 1916, 1919 e 1925, nelle rappresentazioni della «Boutique Fantasque», di «Les Sylphides» e della «Bella addormentata». Ritornò a ballare nel 1926 in un adattamento da Milton, e immaginava di mimare anche delle scene di Orlando. Almeno nei primi anni di conoscenza, sembrava deliziosa a Virginia Woolf: veniva a trovarla di tanto in tanto, come un uccellino che saltava allegramente da un ramo all'altro; graziosa, esuberante, spiritosa, simpaticissima. Aveva l'aria di uno scoiattolo: stava seduta per ore e ore a lustrarsi il naso con le zampe anteriori.
Malgrado una relazione con Duncan Grant, Keynes spalancava i suoi occhi limpidi sul mondo femminile, e quando vide Lydia Lopokova danzare nella compagnia Diaghilev, si innamorò di lei. Voleva sposarla, dovette affrontare ostacoli: ci riuscì soltanto il 4 agosto 1925, e venti giorni dopo diede un grande ricevimento. Malgrado la simpatia per Lydia, Virginia era stata contraria al matrimonio. «Penso veramente — aveva scritto alla sorella — che dovresti fermare Maynard prima che sia troppo tardi. Non riesco a credere che si renda conto delle possibili conseguenze. Mi vedo fin troppo bene Lydia diventare grassa, affascinante, esigente; Maynard entrare nel governo; e casa sua diventare luogo di duchi e di primi ministri. Maynard, che è un uomo semplice, sprofonderebbe irrimediabilmente prima di rendersi conto della sua condizione. Poi si sveglierebbe, per ritrovarsi con tre bambini, e controllato a vita». Lydia era molto meglio come bohèmienne senza legami, affamata e piena di speranze, che come matrona, con tutti i suoi diritti assicurati.
A Londra e nella sua casa di campagna, Virginia Woolf continuò a controllare, con ironia non sempre benevola, il matrimonio dell'uccello-scoiattolo con il grande economista scrittore. Lydia aveva un carattere gradevole e un cervello limitato. Il suo contributo era uno strillo, un ballo: poi il silenzio, come una bambina remissiva, con le mani intrecciate. «Dicono — scriveva Virginia — che ora si può conversare con Keynes solo usando parole di una sillaba. Se no, Lydia non capisce». Tutto quello che aveva preveduto intorno a Keynes e a Lydia — aggiunse — si stava avverando. «Hanno pranzato con noi due sere fa; e mio Dio! Il passerotto si sta già trasformando in una gallina, riservata, silenziosa, seria, matura, completa di uovo, penne e coccodè. Uno spettacolo davvero triste, e vedo avvicinarsi il giorno in cui non sopporterà nessuna allusione alla danza».
Credo che Virginia esagerasse. La ballerina-passerotto continuò a saltare con grazia da un ramo all'altro; e lo scoiattolo non smise di lustrarsi il naso con le piccole zampe anteriori.

Quel «Fiore» sospeso tra Dante e Guittone


Nuove edizioni per il poemetto e il «De vulgari eloquentia»


Cesare Segre

"Corriere della Sera", 23 novembre 2012 

Intorno al 1921, sesto anniversario della morte del poeta, l'operosità dei dantisti toccò un picco straordinario: a studiosi e amanti della poesia venne offerto un volume, diretto da Michele Barbi, contenente, in edizione critica, tutte le opere di Dante. Nell'approssimarsi del settimo centenario, il Centro Pio Rajna di Roma avvia una nuova edizione (sigla Necod: Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante, pubblicata dalla Salerno Editrice).
A quasi cent'anni dall'impresa di Barbi, questa nuova edizione permetterà non solo di fare il punto sulle principali acquisizioni dell'ultimo secolo, escludendo il troppo e il vano, ma anche di trarre il meglio, in un commento compatto ed esauriente. Continua...

venerdì 23 novembre 2012

Henri Poincaré


La formula del pensiero

Cari scienziati, affidatevi all’intuizione creativa

Tornano in libreria i saggi fondamentali del matematico e fisico francese Henri Poincaré, 
morto cento anni fa

Piergiorgio Odifreddi

"La Repubblica",  22 novembre 2012

Il francese Henri Poincaré, del quale si celebra nel 2012 il centenario della morte, fu uno dei due massimi matematici della sua epoca, insieme al tedesco David Hilbert. Fra gli innumerevoli contributi che egli diede alla matematica, il più singolare fu uno studio su un problema apparentemente futile, relativo alla stabilità del Sistema Solare «alla lunga». L’apparente futilità deriva ovviamente dal fatto che, come disse una volta Maynard Keynes, «alla lunga saremo tutti morti»: dunque, non ci importerà molto di cosa accadrà al Sistema Solare, o a qualunque altra cosa.
La scoperta più importante che Poincaré fece al riguardo fu che già il comportamento di un sistema di tre corpi è insolubile, instabile e caotico, benché si conoscano esattamente le forze in gioco. Il che permette infinite descrizioni approssimate, scientifiche o letterarie, dei rapporti attrattivi fra tre corpi, fisici o biologici; spiega perché questi loro rapporti invariabilmente degenerino, e rende impossibile prevedere dove andranno a parare o che piega prenderanno: appunto come nella vita (extra) coniugale. L’aggettivo «caotico» deriva ovviamente da «caos», un concetto che arriva da lontano. Nella Teogonia di Esiodo, Chaos è un abisso sotterraneo dal quale emersero Gaia ed Eros: la Terra e l’Amore o, se si preferisce, la materia e l’energia. Ma in origine chaos significava semplicemente «fenditura» o «apertura», e indicava lo spazio atmosferico situato tra cielo e terra.
Solo in latino il termine «caos» acquistò il significato di ammasso confuso di materia, un esempio del quale era il disordine cosmico da cui il Demiurgo trae l’ordine nel Timeo platonico, o nel libro della Genesi ebraico. Questo è il significato con cui lo si usa ancor oggi nel linguaggio comune, ma il caos scoperto da Poincaré è di tipo diverso: non emerge dal disordine, ma dall’ordine, ed è provocato dal fatto che piccoli cambiamenti iniziali possono produrre grandi variazioni finali. Il risultato è che gli effetti diventano comunque indeterministici, benché le cause rimangano perfettamente deterministiche: per questo si parla appunto, ossimoricamente, di «caos deterministico».
È chiaro che a un matematico che si confronti con situazioni del genere, ogni professione di fede nel calculemus diventa sospetta, per non dire semplicemente ridicola. E così fu appunto per Poincaré che, nei saggi raccolti nel 1902 in La scienza e l’ipotesi, e nel 1905 e 1908 nei suoi due seguiti, Il valore della scienza e Scienza e metodo, sferrò un attacco a tutto campo alla concezione della matematica allora imperante. Quella proposta, da un lato, dalla logica di Giuseppe Peano e Bertrand Russell e, dall’altro lato, dalla concezione assiomatica del già citato David Hilbert. Il motto di Poincaré era: «Con la logica si dimostra, con l’intuizione si inventa». Ovvero, per dirla alla Kant: «La logica senza intuizione è vuota, e l’intuizione senza la logica è cieca». E il richiamo a Kant, sia nel motto che nell’uso del termine «intuizione», non è affatto casuale. Poincaré riteneva infatti, diversamente da Russell, che Kant avesse ragione a credere che l’aritmetica fosse sintetica a priori e non analitica: cioè, non riconducibile alla sola logica, come poi confermerà Kurt Gödel nel 1931.
La geometria, invece, secondo Poincaré era convenzionale. Se infatti fosse stata a priori, non se ne sarebbe potuta immaginare che una: ad esempio, quella euclidea, come pensava appunto Kant, con una posizione che era stata minata dalla scoperta della geometria iperbolica. La scelta fra le varie geometrie non era comunque una questione di verità, ma di utilità e comodità: allo stesso modo, non ha senso chiedersi, fra vari sistemi di misura o di riferimento, quale sia quello giusto.
Ritornando alla logica, di essa Poincaré non aveva certo una grande opinione. Ridicolizzava le sue pretese di concisione, dicendo: «Se ci vogliono 27 equazioni per provare che 1 è un numero, quante ce ne vorranno per dimostrare un vero teorema? ». E a Giuseppe Peano che proclamava, nel suo poetico e maccheronico latino: Simbolismo da alas ad mente de homo, «il simbolismo dà ali alla mente dell’uomo », ribatteva: «Com’è che, avendole ali, non avete mai cominciato a volare?».
Al massimo Poincaré ammetteva che la logica potesse servire a controllare le intuizioni, perché obbligava a dire tutto ciò che di solito si sottintende: un procedimento certo non più veloce, ma forse più sicuro. Questo lo sapeva per esperienza, visto che nella memoria sul problema dei tre corpi, che aveva presentato nel 1889 per il «premio Oscar» messo in palio dall’omonimo re di Svezia e Norvegia, aveva sottointeso un po’ troppo: trovò un errore dopo che essa era già stata pubblicata, e gli toccò pagare le spese di correzione, che ammontarono a una volta e mezza il premio che aveva incassato.
Quanto all’assiomatizzazione, per Poincaré essa non era che un rigore artificiale, sovraimposto all’attività matematica quand’essa era ormai stata effettuata e conclusa: fra l’altro, solo temporaneamente, perché per lui nessun problema era mai definitivamente risolto, ma soltanto più o meno risolto. La finzione con la quale si presenta invece la matematica come un processo ordinato, che parte dagli assiomi e arriva ai teoremi, gli sembrava analoga alla leggendaria macchina di Chicago, nella quale i maiali entrano vivi e ne escono trasformati in prosciutti e salsicce.
Questo è certamente il modo in cui i matematici e i salumieri presentano la loro attività al pubblico ingenuo, ma la realtà è diversa. Per limitarsi ai primi produttori, basta l’esempio di Archimede, che aveva tradotto e tradito i suoi processi mentali dietro dimostrazioni analitiche e logiche. Ma li aveva trovati con un metodo sintetico ed euristico che era andato perduto, e fu ritrovato soltanto nel 1906 da uno studioso tedesco, su un palinsesto della Biblioteca di Costantinopoli.
Poincaré non aveva comunque bisogno di rifarsi all’esperienza di Archimede, perché gli bastava la sua. Come abbiamo già accennato, egli era infatti uno dei due massimi matematici della sua epoca, insieme a Hilbert: uno status che era stato loro riconosciuto non solo con l’affidamento dei discorsi di apertura ai primi due Congressi Internazionali di Matematica, nel 1897 e nel 1900, ma anche con l’assegnazione degli unici due premi Bolyai della storia, nel 1905 e nel 1910.
E l’esperienza di Poincaré gli suggeriva che i suoi risultati più famosi, come lui stesso raccontò, gli erano venuti con ispirazioni improvvise: dopo aver bevuto una tazza di caffè, sul predellino di un autobus sul quale stava salendo, passeggiando sulla spiaggia, attraversando la strada... In momenti, cioè, in cui l’inconscio aveva preso le redini del pensiero, dopo che a lungo e consciamente questo si era concentrato sui problemi da risolvere.
La cosa era confermata dalle sue abitudini di lavoro, studiate dallo psicologo Toulouse nel 1897. Esse consistevano nel concentrarsi soltanto quattro ore al giorno, dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19, lasciando la mente vagare nel resto del tempo. E nello scrivere senza piani precisi, non sapendo dove sarebbe andato a parare: se l’inizio gli risultava difficile, abbandonava l’argomento; altrimenti procedeva in esplosioni creative che produssero, in quarant’anni, cinquecento lavori di ricerca e una trentina di libri (tra i quali un romanzo giovanile).
Ne La scienza e l’ipotesi, in particolare, egli raccolse le sue prime incursioni sui fondamenti della matematica e della scienza. Per lui si trattava solo di un divertente diversivo, rispetto alla ricerca matematica e scientifica, ma anche a distanza di un secolo i suoi saggi divulgativi non hanno perduto freschezza e leggibilità. Anzi, rimangono più freschi e leggibili di quelli fondazionali dei suoi rivali Russell e Hilbert, le cui concezioni oggi sono ridotte a polverose macerie, distrutte dal terremoto del 1931 provocato dai teoremi di Gödel.

giovedì 22 novembre 2012

I nuovi scrittori tedeschi


Les nouveaux écrivains allemands


Julien Bisson, André Clavel, Philippe Delaroche et Alexandre Fillon 

"Lire", 21 novembre 2012 

La littérature allemande, ce n'est pas seulement Goethe et Schiller. 
12 écrivains allemands contemporains à découvrir.

De Günter Grass à Heinrich Böll, de Hans Magnus Enzensberger àChrista Wolf, la littérature de langue allemande de la seconde moitié du XXe siècle a imposé ses ténors à travers le monde, sans parler des grands Autrichiens - Peter Handke, Thomas Bernhard,Elfriede Jelinek - et, côté suisse, de Max Frisch ou de Friedrich Dürrenmatt
Mais quels sont ceux qui, dans les dernières décennies, ont pris la relève ? Et quels sont les nouveaux mousquetaires de la jeune garde ? C'est à ces questions que répond Lire avec ce panorama des auteurs qui, de Bernhard Schlink à Juli Zeh, se frottent presque tous à l'histoire de leur pays. Pour s'attaquer à des problèmes de société, poser la question de l'identité de l'Allemagne, interroger son passé douloureux et faire le bilan spirituel et émotionnel d'une réunification qui continue à les hanter. 

Ferdinand von Schirach

Né en 1964, Ferdinand von Schirach a passé sa jeunesse à Munich et a fait ses études chez les jésuites avant de devenir avocat au barreau de Berlin, spécialiste réputé du droit criminel. Un métier dont il s'est inspiré pour publier en 2009 un recueil de nouvelles basées sur des cas tirés des archives judiciaires : les très médiatisés Crimes, qui trônèrent pendant cinquante-quatre semaines en tête du palmarès du Spiegel. Au générique, onze affaires criminelles où le monstrueux fait soudain irruption dans le quotidien, tandis que von Schirach abandonne le registre du pur témoignage pour transformer son matériau en littérature : d'un récit à l'autre, il ne cesse de maquiller la réalité et de brouiller les pistes, tout en explorant avec un doigté d'analyste l'inconscient des criminels et la passion destructrice qui les a aveuglés. 
Ce qui frappe, sous la plume de l'avocat, c'est sa manière de décrire le sordide avec une prose totalement épurée, dénuée de tout effet de manche et de tout pathos, comme si l'assassinat devenait l'un de ces "beaux-arts" chers à Thomas De Quincey : les histoires de von Schirach sont autant de machines infernales qui, au-delà des affaires individuelles, dévoilent la violence larvée d'une Allemagne encore traumatisée par son passé, et incapable de panser les plaies de la réunification. 
Gallimard vient de publier Coupables,un second recueil de nouvelles où, une fois de plus, le monde de la justice est confronté à des destins saccagés. Pourquoi des êtres ordinaires peuvent-ils soudain basculer dans l'innommable ? Comment préserver une part d'humanité, malgré tout, lorsque l'inhumain fait irruption dans la vie du prévenu ? Et comment la machine judiciaire transforme-t-elle les êtres au moment où leur intimité devient affaire publique, sous le feu des médias ? A ces questions, von Schirach répond plus en moraliste qu'en pénaliste, ce qui explique sans doute son succès dans une Allemagne où ses livres dépassent le million d'exemplaires. 
Dernier livre paru : Coupables (Gallimard) 
A.C.

Judith Hermann

Il lui a suffi d'un livre pour marquer la littérature allemande contemporaine. En 1998, Sommerhaus, später connaissait un succès phénoménal outre-Rhin et récoltait plusieurs prix littéraires. Quelque chose de comparable à ce qu'a pu être Anna Gavalda en France, bien que leurs univers soient fort différents. Avec les neuf nouvelles de Maison d'été, plus tard(Albin Michel, 2001), vendues à plus de 200 000 exemplaires en Allemagne et traduites dans une vingtaine de pays, la jeune Berlinoise née en 1970 imposait une voix singulière et douce-amère. Tout en subtilité, portée par une prose à la maîtrise et à la beauté étonnantes. Une prose sondant notre rapport au monde et la difficulté d'avancer dans l'existence. 

Depuis, Judith Hermann prend le temps de peaufiner ses livres. Elle en a signé trois en quatorze ans. Après Maison d'été, plus tard, il y eut Rien que des fantômes (Albin Michel, 2005), recueil de sept nouvelles ciselées dépeignant des personnages en suspens et leur questionnement intime. Puis vint Alice, sorti en France en début d'année, son plus beau livre à ce jour, couronné par le prestigieux prix Hölderlin. Il s'agit cette fois d'un roman composé de cinq nouvelles mettant en scène une femme à différentes étapes de sa vie. L'héroïne de Judith Hermann se prénomme Alice. Un hommage avoué à la grande nouvelliste canadienne Alice Munro, l'une de ses influences majeures. 
Née à Berlin un mois d'avril, Alice a une quarantaine d'années quand on la découvre. La voici d'abord face à un ancien amour. Un homme qui s'est marié après leur séparation, a eu un enfant et s'éteint lentement d'un cancer. Eblouissant d'un bout à l'autre, Alice est de ces romans que l'on sait qu'on va relire, que l'on a envie d'offrir autour de soi. Judith Hermann s'y montre un admirable peintre des sensations et des lumières. 
Elle arrive à faire ressentir le temps suspendu au-dessus d'êtres pris dans la tourmente, le quotidien qui continue malgré tout. Son sujet est l'un des plus essentiels et ardus qui soient. Quel est notre rapport à la mort ? s'interroge-t-elle. La mort que l'on prend de plein fouet, celle qui ne cesse de nous obséder, celle dont on est le témoin plus ou moins passif. L'écrivaine creuse l'absence, les souvenirs et l'attente avec un saisissant mélange de force et de beauté. 
Dominique Autrand, son éditrice et traductrice chez Albin Michel, parle d'elle mieux que quiconque. Et évoque "une personne rare, d'une grande qualité d'âme". Une femme "chaleureuse et attachante. Elégante. Fine, d'une sensibilité extrême, pudique, discrète, modeste", pleine d'humour aussi. Selon elle, Judith Hermann a besoin d'une longue maturation avant de se mettre à sa table de travail, après quoi la phase d'écriture à proprement parler est relativement courte. Son prochain livre est en cours. On sait juste qu'il devrait s'agir encore de nouvelles. Qui s'en plaindra ? 
Dernier livre paru : Alice (Albin Michel) 
Alexandre Fillon

Bernhard Schlink
A Berlin, Bernhard Schlink, né en 1944, est un juge réputé. Mais ce magistrat est aussi un brillant romancier, ce qui lui permet de jouer tous les rôles - aussi bien celui du coupable que celui de la victime - sans être jamais contraint de livrer un verdict puisque la littérature a horreur des jugements irréversibles. Dans ce domaine, Schlink a prouvé qu'il avait pas mal d'atouts, grâce à une oeuvre très intimiste qui ne cesse d'ausculter les blessures de son pays natal. 
Après un tour de piste du côté du polar, il a connu un succès phénoménal en 1995 - des centaines de milliers d'exemplaires à travers le monde - avec un roman magistral, Le Liseur, où il évoque l'inexpiable culpabilité de sa génération. Celle qui a grandi sur les décombres de la guerre avec, pour seul héritage, la monstruosité des crimes nazis. Et dans la foulée de ce livre emblématique, l'écrivain-juriste a signé un recueil de nouvelles - Amours en fuite - où il met en scène une Allemagne qui, malgré la chute du Mur, ne réussit toujours pas à digérer son passé : les personnages de ces récits sont des prisonniers des ombres, à cause de tous ces fantômes - ex-complices de Hitler, repentis de la dernière heure, anciens corbeaux de la Stasi - qui les empêchent de regarder vers l'avenir. 
C'est donc dans la chair de son pays que Schlink puise son matériau, et dans l'inconscient collectif de ses compatriotes. Une quête à la fois politique et psychologique que l'on retrouve dans Le Week-End, où il évoque les années noires de l'Allemagne : celles de la fureur terroriste qui transforma de jeunes idéalistes en assassins aveugles tout au long de la décennie Rudi Dutschke, une dérive tragique dont Schlink dresse un bilan sans concessions mais jamais manichéen. A lire, également, Mensonges d'été, un recueil de brefs récits où, cette fois, le Berlinois conjugue l'amour sous toutes ses formes, comme si son oeuvre s'ouvrait à une nouvelle quiétude. 
Dernier livre paru : Mensonges d'été (Gallimard) 
A.C.

Daniel Kehlmann
C'est sous le signe d'Umberto Eco - l'érudition revisitée par la fiction - qu'il faut ranger Daniel Kehlmann. Né en 1975 à Munich, il vit aujourd'hui entre Berlin, New York et Vienne, la ville où il a grandi et où il a ébauché une thèse sur Kant avant de caresser d'autres muses, celles de la littérature. Quatre romans modestes, d'abord, et puis, en 2005, les brillantissimes Arpenteurs du monde qui ont battu tous les records de vente outre-Rhin. Kehlmann y retrace l'épopée parallèle de deux mousquetaires du savoir, Alexander von Humboldt (1769-1859) et Carl Friedrich Gauss (1777-1855). 
Lumineuse idée, que de remettre en piste des personnages si différents puisque le premier fut un aristocrate bourlingueur et le second, un enfant du peuple casanier. Et pourtant Kehlmann parvient à les rassembler dans la même quête. Celle qui lança le géologue-botaniste Humboldt dans de rocambolesques périples à travers l'Amérique tropicale, dont il dévoila bien des mystères. Et celle qui poussa le génial Gauss à devenir "le prince des mathématiciens" : un virtuose de la physique et de l'astronomie qui, rivé à ses télescopes, déchiffra le cosmos et découvrit la fameuse courbe qui porte son nom. 
C'est encore de l'univers des sciences que s'est inspiré Kehlmann pour écrire Les Esprits de Princeton - sous forme de théâtre, cette fois. Il y ressuscite le mathématicien Kurt Gödel, un rationaliste bientôt rattrapé par une démence paranoïaque qui, à la fin de sa vie, le condamna à s'enfermer dans des mondes parallèles où il croyait tutoyer l'au-delà. A lire également, Gloire, un livre à la David Lodge où Kehlmann tisse plusieurs histoires autour d'un même thème - la foire aux vanités, dans le petit microcosme des lettres et du cinéma. 
Dernier livre paru : Les Esprits de Princeton (Actes Sud) 
A.C.

Uwe Tellkamp
Dresde est une ville fantomatique où est né - en 1968 - Uwe Tellkamp, qui fut d'abord commandant de char, passage obligé dans l'armée en RDA, avant d'entreprendre des études. Devenu médecin, il abandonna son métier en 2004, alors qu'il avait déjà publié des poèmes qui lui valurent le prix Ingeborg Bachmann. "Ma jeunesse s'est passée sous le signe du communisme, dit-il, un système dans lequel on écrivait plus qu'on ne parlait. Celui qui parlait trop était menacé et puis, d'un seul coup, le système s'est effondré et la parole s'est libérée." 
Elle coule à flots dans la monumentale Tour - seul roman traduit à ce jour -, une fresque qui a dépassé les 500 000 exemplaires en Allemagne après sa publication en 2008. Sujet : l'agonie de la RDA. Avec un scénario vertigineux, près de mille pages qui sont un document de premier ordre sur le naufrage de cette "terre engloutie". Ce sont ses ultimes soubresauts que décrit le romancier, entre la mort de Brejnev et l'automne 1989, en posant son zoom sur une famille bourgeoise des beaux quartiers de Dresde, les Hoffmann. Le père est chirurgien, il assiste sans broncher à la dégradation du système de santé et à celui d'une société gangrenée par la peur. L'oncle est éditeur, il doit se soumettre à la censure en se contentant, avec une ironie froide, de profiter des privilèges que lui octroie le Parti. Quant au fils, Christian, il aura à jouer le pire des rôles - celui de la victime expiatoire - lorsqu'il devra faire son service militaire : son goût pour la liberté et son insolence lui vaudront la prison, puis les travaux forcés. Tout est là : la main de fer de la police secrète, les combines, la pénurie, la propagande et la perfidie d'un régime où personne ne pouvait rester innocent. Pavane pour une Allemagne défunte, ce roman-fleuve résume le destin du communisme, sous la plume d'un héritier de Thomas Mann. 
Dernier livre paru : La Tour (Grasset) 
A.C.

Peter Schneider
Né en 1940 à Lübeck, le très remuant Peter Schneider a fait ses études à Fribourg, à Munich et à Berlin, où il vit depuis les années 1970. A cette époque, il devint l'un des leaders de la jeunesse révoltée, aux côtés de Rudi Dutschke, et il changea ensuite de terrain de chasse pour se frotter à l'écriture. Avec cette consigne : "Le vrai domaine de la littérature, ce n'est pas le monde extérieur mais le monde intérieur, celui des secrets, des passions et des angoisses." 
N'empêche, l'oeuvre de Schneider reste totalement chevillée à l'Histoire, à la politique et au destin complexe de l'Allemagne, depuis le nazisme jusqu'à la chute du Mur. S'ils analysent toujours ces événements du point de vue de l'individu, les livres de Schneider ne cessent de refléter des tourmentes collectives. Le mélange de dépit, de rage et de désenchantement qui a succédé à l'euphorie contestataire de Mai 68, dans le très autobiographique Lenz. La lourde suspicion et les multiples tracasseries professionnelles dont furent victimes les ex-gauchistes de la RFA, dans Te voilà un ennemi de la Constitution. Les excès de la chasse aux terroristes au sein d'une Allemagne livrée à la délation et à l'hystérie, dans Le Couteau dans la tête. Ou, dans Cet homme-là, le conflit éthique qui opposa deux générations tiraillées entre la culpabilité engendrée par le passé hitlérien et le désir de se libérer de ce fardeau inexpiable. 
Et, dans Le Sauteur de mur, un de ses livres les plus célèbres publié en 1982, Schneider pose la question de l'identité allemande, une identité bafouée dans un pays divisé jusqu'à la schizophrénie : il met en scène un écrivain de Berlin-Ouest qui passe à l'Est pour rencontrer aussi bien des dissidents que des anonymes, des personnages souvent fatalistes qui, à force d'avoir construit un mur dans leur propre tête, ne sont plus capables d'affronter les dérives de l'Histoire. Peter Schneider ? Un "écrivain-baromètre" dont l'oeuvre interroge quatre décennies allemandes, avec toutes leurs contradictions et leurs impasses. 
Dernier livre paru : Pour l'amour de Scylla (Grasset) 
A.C.

Herta Müller
La romancière est née en Roumanie en 1953, au Banat, dans un village isolé appartenant à la minorité germanophone du pays. Fille d'une déportée, elle a grandi dans la peur et le désarroi avant de suivre des études littéraires à l'université de Timisoara, où elle ne tarda pas à rejoindre les mouvements clandestins qui luttaient contre Ceausescu. Traductrice dans une usine de machines industrielles à la fin des années 1970, elle sera congédiée pour avoir refusé de collaborer avec la Securitate et, en 1982, son premier recueil de nouvelles sera censuré avant qu'elle ne quitte sa terre natale - en 1986 - pour se réfugier à Berlin, où elle vit aujourd'hui. Ce déracinement est l'une de ses hantises, en tant que romancière, de même que la question de la langue, cette langue allemande qui fut pour elle une sorte de refuge face aux paroles gelées d'un régime qui, dit-elle, "avait détourné les mots à son profit". Couronnée par le prix Nobel en 2009, l'oeuvre de Herta Müller (Le renard était déjà le chasseur, La Convocation, Animal du coeur) pose un regard particulièrement amer sur la vie quotidienne dans la Roumanie totalitaire, les manoeuvres machiavéliques de la police secrète, les humiliations liées à la pauvreté et au contexte politique. Face à cette oppression de tous les instants, les mots sont les seules armes de la romancière, un combat dont il est aussi question dans un de ses livres les plus poignants,La Bascule du souffle, confession d'un garçon de 17 ans qui, en janvier 1945, parce qu'il appartient à la communauté germanophone de Transylvanie, sera expédié dans un camp de travail en URSS. C'est le calvaire de ce garçon condamné à cinq ans de déportation que raconte Herta Müller : malgré le froid et la faim, les poux et les épidémies, il tiendra le coup parce que son imagination délirante lui permet de résister aux souffrances. Lire Herta Müller, c'est se heurter de plein fouet à l'Histoire, une Histoire qu'elle tente de réécrire pour offrir au tragique sa part de rédemption. 
Dernier livre paru : Animal du coeur (Gallimard) 
A.C.

Eugen Ruge
Lunettes vissées sur le crâne et barbichette blanche, il n'a plus guère l'allure d'un jeune premier. Le Berlinois Eugen Ruge a d'ailleurs déjà plusieurs pièces de théâtre et documentaires à son actif. Mais cet ancien physicien a attendu ses 57 ans pour publier son premier roman, Quand la lumière décline, largement inspiré de l'histoire familiale. Un pavé au style clair et à l'envergure rare, qui a enchanté ses compatriotes. Il a reçu, l'an passé, le Deutscher Buchpreis, équivalent allemand du Goncourt, avant de s'écouler à plus de 350 000 exemplaires. Et, de fait, il y a de quoi s'enthousiasmer à la lecture de cette imposante saga autour de trois générations d'intellectuels de l'ex-Allemagne de l'Est. 
Les premiers, Charlotte et Wilhelm, fervents communistes, décident en 1952 de rentrer de leur exil mexicain afin de participer à la construction de la jeune RDA. Leur fils, Kurt, les y rejoindra, après quelques années d'exil en Sibérie pour échapper au nazisme. Quant au petit-fils, Sacha, il grandit dans l'indifférence et l'ennui, rêvant bientôt de passer à l'Ouest... 
Roman-fleuve écrit sur les bords de la Spree, Quand la lumière décline est taillé pour le cinéma : construction en flash-back, prises de vues alternées, décors sublimés. Mais, loin d'observer avec distance le déclin de l'illusion socialiste, le récit colle au plus près des personnages, de leurs espoirs, de leurs doutes, des tabous qui enveloppent et condamnent une génération après l'autre. Sans céder à l'"ostalgie" ambiante, sans rien taire non plus des difficultés nées de la réunification, Eugen Ruge signe le portrait froid et décapant d'une poignée d'hommes et de femmes brisés par leurs utopies, écrasés par un système sans visage. Avec une seule consolation : si la lumière décline à l'est du Mur, ce n'est du moins pas le cas de sa littérature. 
Dernier livre paru : Quand la lumière décline (Les Escales) 
Julien Bisson

Juli Zeh
Fille d'une traductrice et d'un ancien directeur administratif du Bundestag, Juli Zeh - née à Bonn en 1974, aujourd'hui installée près de Berlin - est à l'évidence la principale figure de proue de la jeune littérature allemande. Après des études de droit international, elle a bifurqué vers l'écriture tout en prenant la relève des intellectuels qui, à la suite de Grass et de Böll, n'ont cessé d'intervenir dans le débat public : ce désir de s'engager l'a poussée à soutenir la coalition verte-rouge lors des élections de 2005, après avoir rapporté des Balkans - en 2001 - une enquête particulièrement amère sur le sort de ces populations abandonnées par la communauté européenne. 
C'est en 2004, avec l'effrayante Fille sans qualités, que Juli Zeh s'est définitivement imposée dans son pays. Elle s'y inspire de la tragique fusillade du lycée d'Erfurt - seize morts en 2002 - pour mettre en scène une adolescente qui sombrera dans la violence aveugle avec un cynisme déconcertant, une dérive qui permet à la romancière de souligner le profond désarroi d'une jeunesse tentée de choisir le camp du nihilisme, par désespoir et par peur de l'avenir. 
Juli Zeh a ensuite fait un détour par le polar avec L'Ultime Question et c'est au roman d'anticipation qu'elle s'est frottée en signant Corpus delicti, qui se situe en 2057 dans un pays dictatorial où les habitants doivent s'astreindre à une redoutable discipline hygiéniste, sous haute surveillance policière, avec Big Brother dans le rôle du législateur. C'est dans ce cauchemar aseptisé que débarquera une biologiste allemande qui n'a qu'un seul tort : refuser d'obtempérer et de "se soumettre aux contrôles sanitaires obligatoires, au détriment de l'ordre public"... Dans ce récit à la Orwell, Juli Zeh ausculte tous les maux de nos sociétés soumises à la tyrannie du bien-être, et gavées d'interdits. C'est dire que les débats soulevés par la romancière sont assez brûlants pour être au coeur de l'actualité littéraire, outre-Rhin. 
Dernier livre paru : Corpus delicti (Actes Sud) 
A.C.

Ingo Schulze
Ingo Schulze est né en 1962 en RDA, à Dresde, une année après la construction du mur de Berlin, ce mur dont les pierres allaient servir de matériau à certains de ses romans. Après des études de lettres à Iéna, il a travaillé comme dramaturge pour le théâtre d'Altenbourg - aux confins de la Saxe - et c'est là qu'il assista au séisme de l'automne 1989 qui déboucha sur la réunification allemande. Il profita aussitôt de ce vent de liberté pour créer un hebdomadaire, l'Altenburger Wochenblatt, et, trois ans plus tard, il fut chargé de mettre sur orbite le premier "gratuit" de Saint-Pétersbourg, où il put observer un autre séisme, celui qui venait de secouer l'ex-URSS. A son retour en Allemagne, il s'installa à Berlin, où il vit aujourd'hui et où il signa les nouvelles rassemblées dans 33 moments de bonheur, autant de chroniques d'une Russie en pleine ébullition après l'effondrement du communisme. 
Paru en 1998, le second livre de Schulze, Histoires sans gravité, est aujourd'hui considéré en Allemagne comme l'une des oeuvres les plus emblématiques de la réunification, une mutation de l'Histoire observée à travers le quotidien de citoyens tout à fait ordinaires de l'ancienne RDA. Pas de place, ici, pour les vieilles querelles politiques ni pour les règlements de comptes idéologiques : Schulze se contente de déployer un éventail de saynètes hyperréalistes - à la Perec ou à la Carver -, avec des personnages qui sortent de leur torpeur et retrouvent peu à peu le goût de la vie dans un pays rendu moribond par un régime essoufflé. 
Et, en 2005, Schulze reviendra sur ces événements dans Vies nouvelles, un roman épistolaire dont le protagoniste raconte comment "l'Ouest est entré dans sa tête". On y retrouve la même minutie narrative et les mêmes effusions du vécu à la suite de la destruction du "rempart antifasciste" mais Schulze montre aussi comment l'ex-RDA s'est brutalement ouverte aux lois du marché et au capitalisme. Un monde peut-être aussi dangereux que le précédent puisque le diable finit par y débarquer, sous la forme d'un sosie de Méphisto... 
Dernier livre paru : Adam et Evelyne (Fayard) 
A.C.

Iris Hanika
Prédestinée par son prénom - Iris, la messagère des dieux - à communiquer ou à surprendre les émotions, les paroles, les pensées et les humeurs des humains, Iris Hanika est une friponne. Elle brille par son génie de l'observation micro- sociologique, par sa sensibilité et son humour. Née le 18 octobre 1962 à Wizbourg (Franconie), qu'elle a quitté à 17 ans pour aller faire sa vie à Berlin, cette polyglotte tire sa subsistance de ses traductions de manuels d'informatique tout en poursuivant depuis dix ans une carrière d'écrivain. Sur ses cinq ouvrages publiés, un seul a été traduit en français à ce jour - paru chez Les Allusifs, Une fois deux a été heureusement repris en Livre de poche. 
Comme le suggère son titre, le roman campe deux personnages qui, au milieu de l'été berlinois, se sont rencontrés - exceptionnellement, car en général l'un et l'autre ne s'y rendent pas aux mêmes heures - dans un café de Kreuzberg. Voici Senta, une femme seule, employée d'une galerie d'art le plus souvent déserte qui, quoique lasse de ses échecs, ne cesse d'espérer la "félicité amoureuse", le mariage et les enfants. Et voilà Thomas, un homme seul, ingénieur système, qui ne s'autorise la félicité qu'après le travail, à raison de quelques chopes de bière. Dès l'instant où leurs regards se sont croisés, percutés, échangés, noyés, c'est comme si, sous la pression de ce désir tombé du ciel, chacun avait été brutalement dépouillé de son naturel, de ses réflexes ordinaires, de sa maîtrise familière. Emportée par son imagination, Senta est la plus déroutante des deux. A la violence du désir, elle oppose des comportements calculés pour paraître au maximum de son avantage. Au stade de l'exécution, sa stratégie échoue pitoyablement, au risque d'éloigner Thomas. Auteur d'une brillante variation, aussi grisante qu'un cocktail à base de Georges Perec, d'Anna Gavalda et de Michel Houellebecq, autour d'un thème pourtant rebattu, Iris Hanika a l'art de nous guider dans l'intimité de Berlin. Où, mieux que d'autres, certains quartiers inspirent d'éclatantes métaphores de la terreur ou de la félicité de l'amour. 
Dernier livre paru : Une fois deux (Les Allusifs) 
Philippe Delaroche

Christoph Hein
Né en 1944 en Basse-Silésie, Christoph Hein ne fut pas autorisé à faire ses études en RDA, parce que, comme Schiller et Hölderlin, il était fils de pasteur... Ses parents l'envoyèrent donc dans un lycée de Berlin-Ouest et, à son retour de l'autre côté du Mur, il dut se contenter de métiers improvisés avant d'être assistant à la Volksbühne, le théâtre alternatif berlinois où il verra plus tard jouer ses propres pièces. Dès la fin des années 1970, il se lança dans l'écriture de nouvelles, autant de diagnostics des carences de la société est-allemande qui obéit servilement à un pouvoir de plus en plus autoritaire. Un pouvoir avec lequel Hein devra sans cesse ruser afin de contourner la censure. 
Sa notoriété, il la doit à un roman emblématique, L'Ami étranger, écrit en 1982 sous le signe de Franz Kafka et de Robert Musil. Claudia, l'héroïne, est une femme sans ambitions, sans passions, presque sans qualités, dont la fadeur reflète un régime politique qui lamine tout, en condamnant les êtres à l'anonymat. Est-elle une simple victime du socialisme ou, au contraire, son indifférence est-elle une forme d'exil intérieur, seule résistance possible face à l'asservissement de son époque ? C'est sur cette ambiguïté que repose L'Ami étranger, remarquable mise en scène de la conspiration du silence derrière le rideau de fer. Une conspiration qui sous-tend un autre roman très célèbre de Hein, La Fin de Horn, où il montre comment la RDA a sournoisement censuré son passé, relié au IIIe Reich par une longue chaîne de compromissions et de lâchetés. 
Comptant une dizaine de romans, des essais et de nombreuses pièces de théâtre, l'oeuvre de Hein ne cesse de faire entendre une voix discordante et dissidente, une voix qui continua de déranger après la réunification : l'auteur de L'Ami étranger fut, en effet, l'un des premiers écrivains à mettre en garde son pays contre l'euphorie qui suivit la chute du Mur. De quoi s'inscrire dans la lignée des grands réfractaires d'outre-Rhin, sous la bannière de Günter Grass. 
Dernier livre paru : Paula T. une femme allemande (Métailié)