sabato 28 giugno 2014

Sarajevo: 1914-2014


Ritornano le parole di Huizinga: 
un continente simile a una macchina guidata da un ubriaco
Così incominciò la notte dell’uomo che nessuna storia può raccontare 

Guido Ceronetti

"La Repubblica",  27 giugno 2014

MEDITABILE, circa l’inizio della Grande Guerra, un pensiero di Johan Huizinga in Lo scempio del mondo, che di quella che tuttora, tanto per definire, è detta Belle Époque, frantuma l’essenza: «... la povera Europa si avviava verso la prima guerra mondiale come un’automobile sgangherata in mano di un conducente ubriaco per una strada tutta buche e cunette». Il conducente ubriaco erano i potenti di allora, i grandi coronati, e dietro di loro i predicanti intellettuali più influenti, Kaiser, Zar, D’Annunzio, Maurras, Marinetti... Ad un certo punto di quella strada tutta buche si trova un giovane bosniaco imbevuto di idee estremiste, Gavrilo Princip, che con due pistolettate contro l’arciduca erede della corona asburgica e la moglie, in visita di Stato a Sarajevo, mette a nudo senza affatto pensarci una inimmaginata degenerazione spirituale della civiltà e della figura umana.
Era cento anni fa, il 28 di giugno, e il Tempo, da allora, si è messo a correre correre, secoli sembrano passati - ma quella guerra è davvero finita? Per la storiografia materialista finisce l’8 maggio 1945; un filosofo fa bene a dubitarne. Anzi a negarlo. Come non è cominciata il 28 giugno 1914, la parola Fine non ce la metterei. L’automobile sgangherata non ha terminato la sua corsa, e al conducente ubriaco è subentrato uno senza volto, la corsa prosegue per tutte le strade del mondo.
Il disfacimento dell’impero danubiano non fu soltanto una decisione punitiva di Versailles perfettamente priva di saggezza: una brama di dissolvimento agiva nella Vienna drogata meravigliosamente dalla musica e dalla bellezza della Secession. Commuove percorrerne gli alfabeti, le supreme visioni erotiche: il grembo del baratro era là, e subito fin dalla dichiarazione di guerra alla Serbia, ingoiò tutto. L’Italia, un anno dopo, credette di far la guerra a un esercito agguerritissimo; in realtà quel che spietatamente lo reggeva non era più che un fantasma.
Già nel 1916, quando noi ci affannavamo per prendere Gorizia, ne fu consapevole l’imperatore Carlo; ma tutto, ormai, era perduto.
Non si indagano che fatti, fatti... Le analisi psicologiche trattano perlopiù del morale delle truppe, dei comportamenti al fronte, del ritorno a casa. La carneficina non riguarda soltanto i corpi materiali dei caduti. L’Europa perdette una quantità incalcolabile di sostanza virile. Uno psicanalista potrebbe vedere nella trincea una vagina con denti di tigre, che attira virilità per maciullarla. Il consumo spermatico nei sospirati bordelli militari è incalcolabilmente sorpassato dalla attenzione spossatrice del Nemico di fronte, di là dalla selva oscura di una Terra di Nessuno infestata da spiriti maligni, col dito sulle mitragliatrici. Quel che ne restava, poco più di venti anni dopo, viene liquidato in cinque anni. La successiva lunga pace, in cui Marte si nasconde dietro la maschera neutra dell’Economia, si caratterizza per la snervatezza dell’ homo pacificus e l’avanzata, su tutto il fronte dell’esistenza, del potere matriarcale. Un verso di Apollinaire, combattente in una batteria di artiglieri, è di una pregnanza infinita della realtà in ombra della guerra in cui il segno maschile è andato in pezzi, quinto (segreto) dei quattro grandi Imperi dissolti: Notte di uomini soltanto . È una notte di vigilia di un assalto e grida come una donna sopraparto, assorbendo nel lamento dei materiali da sparo anche la pena estrema della femminilità esclusa. Verso stupefacente, la verità profonda della guerra di Quattordici, che non è finita ieri né finirà domani.
Già. Il quinto Impero, che ha continuato a dissolversi negli anni. La notte degli uomini non avrà più fine, come quella guerra. Il più grande romanzo di un testimone, in lingua tedesca, All’Ovest niente di nuovo , capolavoro assoluto e inuguagliato, erutta di tutta la smisurata sofferenza di quelle nuit des hommes. In Remarque non c’è che questo, la sofferenza di sette liceali partiti volontari, di cui non sopravvivrà neppure l’Io narrante, caduto poco prima dell’armistizio. In Addio alle armi, di Hemingway, in un insopportabile lezzo di alcolici trincati dall’autore, le donne compaiono, amanti di retrovia, sussulti di giovinezza; ma è più che mai “notte di uomini soltanto” anche negli sfoghi erotici dei permessi. Un poilu di Barbusse in licenza a Parigi, vedendo tante donne sole in giro, osserva soddisfatto: «Bene, ci sono chiappe»: visto e sentito così l’essere umano da desiderare diventa equipaggiamento militare, materiale- chiappe, munizioni di carne.
Il miracolo della resistenza francese alle tremende offensive tedesche (Marna, Verdun), comandi discutibili, è un mistero spirituale, come Léon Bloy si esaltava a vederlo. Perché le classi lavoratrici in uniforme erano ancora quelle dell’ Assommoir, infradiciate d’alcool, più stregate dal vino (detto “il latte dell’operaio”) che da chiappe di bellezza. Nella canzone più popolare del fronte occidentale, la Madelon, il suo lavoro di donna emblematica dei combattenti, è esclusivamente di “versare da bere”. La salvezza da dove sarà mai venuta? Dai decreti del Fato, più forti di ogni Madonna? Dai litri e litri di “quello buono” di certo no. Eppure i formidabili corpi d’armata del Kaiser arretrarono.
Nel 1917, anno di tutti i presagi e le profezie, quarto da Sarajevo, i combattenti sono sfiniti, cedono, perdono disciplina, si ribellano; il vino, il ruhm, il cioccolato sono impotenti a rianimare delle povere brache piene, di dissenterici cronici per cibo via via più scarso e di scarto. Serpeggia la sensazione, specie nel campo inglese, che la guerra si trascinerà all’infinito, che i vecchi e i nuovi combattenti s’incontreranno tra vent’anni sulle medesime posizioni per obbedire da automi agli stessi ordini di un attacco over the top, in una desolazione lunare, mentre dall’est la propaganda bolscevica sussurrava per via subliminale e oratoria: «Mollate il fucile, mollate tutto, sparate sugli ufficiali, revolùtzia, revolùtzia...». No, se devo esprimere un mio succulento pensiero, la Grande Guerra non è finita. Ma per comprendere questo la pura storiografia dei fatti non serve che a rievocare e a fare racconto. Ai cimiteri di guerra sparsi in tutta Europa, in qualsiasi lingua siano scritti quei nomi, fate pellegrinaggi, portate fiori e fiori e fiori. E là, piangete per l’uomo.


Sarajevo, il fanatismo dei ragazzi che spinsero l’Europa nell’abisso
Lo storico Smith: «Ma forse il conflitto sarebbe esploso lo stesso»

Antonio Carioti

"Corriere della Sera",  27 giugno 2014

Erano sette i giovani appostati a Sarajevo cento anni fa, il 28 giugno 1914, per colpire l’erede al trono dell’Austria-Ungheria, arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo. Ma solo due entrarono in azione. Il primo, Nedeljko Cabrinovic, fallì il bersaglio con una bomba, ma meno di un’ora dopo il secondo, Gavrilo Princip, si trovò casualmente nelle condizioni migliori per sparare all’arciduca e alla moglie Sofia. Li uccise entrambi, avviando la reazione a catena che avrebbe fatto esplodere la Prima guerra mondiale. 
Ma chi erano gli attentatori? Lo abbiamo chiesto allo studioso inglese David James Smith, autore del libro inchiesta Una mattina a Sarajevo , pubblicato in Italia dalla Libreria Editrice Goriziana (pagine 339, e 24). «Princip e Cabrinovic - risponde - erano giovani, appassionati estremisti serbo-bosniaci, che credevano in una nazione slava unita, quella che poi sarebbe sorta con il nome di Jugoslavia. In particolare Princip aveva origini molto umili e aveva dovuto dare in pegno il soprabito per partecipare al complotto. Entrambi condividevano il sentimento di oppressione comune a molti serbi bosniaci, assoggettati al dominio straniero fin dai tempi lontani dell’invasione turca. L’Austria-Ungheria aveva offeso i serbi annettendo la Bosnia nel 1908. E gli studenti come Princip e Cabrinovic, organizzati nel gruppo Giovane Bosnia, deprecavano la sottomissione della vecchia generazione serba e la passività del governo di Belgrado, che avevano accettato l’annessione. Invece i giovani in maggioranza provavano odio per l’Austria: l’assassinio politico fu la loro arma di vendetta». 
I terroristi di Sarajevo, ricorda Smith, avevano un martire cui ispirarsi, Bogdan Zerajic: «Princip depose fiori sulla sua tomba alla vigilia dell’attentato. Zerajic aveva chiamato i serbi alle armi dicendo: “Dobbiamo liberarci o morire”. Nel 1910 aveva cercato di assassinare il governatore austriaco della Bosnia, generale Marijan Varesanin, con quattro colpi di pistola, andati tutti fuori bersaglio, prima di spararsi in testa. Del cranio di Zerajic si era impadronito il capo degli investigatori imperiali in Bosnia, Viktor Ivasjuk, che lo teneva sulla scrivania usandolo come calamaio». 
Fatti del genere infiammavano ragazzi come Princip e Cabrinovic: «Erano ingenui e romantici: Gavrilo descriveva la Bosnia come “una lacrima negli occhi della Serbia”. Li considero degli idealisti, che non capivano le conseguenze delle loro azioni: nemmeno ventenni al momento dell’attentato, inesperti della vita, morirono in carcere senza mai aver fatto l’amore». 
Per giunta, aggiunge Smith, la scelta dell’arciduca di visitare Sarajevo il 28 giugno aumentò la loro rabbia: «È difficile dire se Francesco Ferdinando si dimostrò ignorante o volle essere provocatorio. Da secoli i serbi celebravano quel giorno come una ricorrenza eroica e tragica, perché il 28 giugno 1389 il loro debole esercito era stato annientato dalle soverchianti forze turche nella battaglia di Kosovo Polje. Un poema epico racconta che uno dei capi serbi, Milos Obilic, aveva finto di tradire e di unirsi al nemico per penetrare nella tenda del sultano e tagliargli la gola, prima di essere sopraffatto e ucciso. La storia della Serbia è disseminata di martiri. Il 28 giugno, giorno di san Vito (Vidovdan per i serbi), è tuttora ricordato con fervore per la battaglia e il sacrificio di Obilic». 
Tornando all’attentato, gli austriaci erano certi che la Serbia fosse coinvolta e le inviarono un ultimatum da cui derivò la guerra mondiale. Avevano ragione? «Sono fermamente convinto - dichiara Smith - che il governo di Belgrado non ebbe nel complotto alcun ruolo che possa essere provato e verificato. La Serbia era uno Stato debole e tutto preso dai suoi problemi territoriali, a parte quelli con l’Austria. Vi erano certamente nell’esercito elementi senza scrupoli, come il colonnello Dragutin Dimitrijevic (detto Apis), capo dell’organizzazione segreta Mano nera, che fornirono le armi e un modesto appoggio agli aspiranti omicidi. Ma non credo che agissero con il sostegno del governo: erano piuttosto ferventi nazionalisti, che vedevano nel terrorismo un’arma legittima contro una potenza occupante». 
Poi venne la guerra, che Princip negò sempre di aver causato: senza l’attentato, affermò, austriaci e tedeschi avrebbero trovato un altro pretesto. «Il suo compagno Trifko Grabež riferì che Gavrilo gli aveva detto: dopo di me, il diluvio. Come se avesse capito che la loro azione avrebbe scosso il mondo. È possibile? Mi sono spesso domandato se gli attentatori avessero capito che cosa stavano facendo e ho concluso che non vedevano oltre i confini del loro mondo, della Serbia e della nazione slava a guida serba che sognavano di creare. Semmai anch’essi erano influenzati dal clima dell’epoca, in cui si avvertiva che il vecchio ordine imperiale stava crollando e incombevano grandi cambiamenti. Comunque è difficile scacciare la sensazione che la guerra fosse inevitabile per via delle mire espansioniste della Germania. Il Kaiser assicurò agli austriaci che li avrebbe appoggiati se avessero attaccato la Serbia, sapendo che la Russia si sarebbe fatta avanti, poi Francia e Gran Bretagna non sarebbero rimaste a guardare. Il modo era già sull’orlo della guerra e l’attentato segnò il punto di non ritorno». 
Nella Jugoslavia di Tito, Princip era celebrato come un eroe. Ma non certo nella Bosnia di oggi, spiega Smith: «Quando andai a Sarajevo per le mie ricerche, anni fa, constatai che i bosniaci musulmani consideravano gli attentatori dei terroristi. Allora il museo che li ricordava era chiuso e molti cimeli erano stati gettati nel fiume. Il taxista che mi portò al cimitero per vedere le loro tombe mi raccontò che era stato ferito durante la guerra degli anni Novanta, combattendo contro i suoi ex vicini e amici. Sarajevo, un tempo vivace incrocio di etnie e religioni, è stata avvelenata dalla maledizione dell’odio tribale. E la triste verità è che tutto cominciò nel 1914, con gli assalti e le devastazioni che si scatenarono, subito dopo l’attentato, contro le proprietà dei serbi. Fu un’altra conseguenza non voluta dell’azione di Princip» . 


28 giugno 1914

Franz Ferdinand e Gavrilo l’ultimo viaggio a Sarajevo
Lungo le strade percorse cent’anni fa dalla vittima e dall’attentatore fino alla città bosniaca dove ebbe inizio la Prima guerra mondiale 

 Eric Gobetti

"La Stampa",  27 giugno 2014

Sarajevo, eccoci, siamo arrivati. Domani è il grande giorno. Tutto è cominciato qui, in questo angolo d’Europa, dove un adolescente inquieto, Gavrilo Princip, ha sparato per strada a Francesco Ferdinando, l’erede al trono degli Asburgo, in una fresca mattina d’inizio estate. Era il 28 giugno 1914, cento anni fa.
Quel giorno, terminava la belle époque e prendeva inizio quello che è stato definito «il secolo breve», ma che in effetti è un lungo incubo fatto di guerre mondiali, ideologie totalitarie, massacri terrificanti. Un secolo destinato a finire, per gli storici, di nuovo a Sarajevo, con l’assedio degli anni Novanta, ma che incide ancora, pesantemente, sulla nostra quotidianità. 
Per comprendere il senso delle celebrazioni che si terranno questo 28 giugno a Sarajevo, per cercare di capire il mondo di allora ma anche questa nostra Europa di oggi, insieme con lo storico Simone Malavolti abbiamo pensato a un viaggio. Anzi due, quelli affrontati dalla vittima e dall’assassino per giungere a Sarajevo cento anni fa. Siamo in viaggio sulle strade di Franz Ferdinand e Gavrilo Princip anche per realizzare un docufilm dal titolo Sarajevo Rewind 2014>1914 (Potete seguire il progetto e i viaggi sulla pagina Facebook sarajevorewind2014 o sul blog sarajevo14.wordpress.com).
Vienna-Trieste-Mostar-Sarajevo. Franz Ferdinand arriva dal cuore dell’Impero, per dirigere le grandi manovre militari in previsione di una guerra contro la Serbia. Una guerra che doveva essere limitata, regionale, e che si è trasformata invece in una carneficina globale. Vienna conta oggi meno abitanti che nel 1914. Non è più la capitale di un grande impero sovranazionale, dove si parlavano undici lingue ufficiali. Rimane tuttavia un polo d’attrazione regionale, e mantiene la sua bellezza pura e composta. Scendiamo verso Trieste, dove l’arciduca si è imbarcato su una corazzata alla volta della Dalmazia. Qui si respira più che nella stessa Austria la nostalgia degli Asburgo e del loro impero che fece grande Trieste, porto del mondo germanico sul Mediterraneo, ponte verso l’Oriente.
Belgrado-Šabac-Tuzla-Sarajevo. Gavrilo Princip parte da Belgrado, la Torino dei Balcani. Qui si ritrovava - come nella Torino del nostro Risorgimento - chi coltivava il sogno di uno stato che comprendesse tutti gli slavi del sud. L’Italia di Mazzini e Vittorio Emanuele era il modello di riferimento: Piemonte si chiamava la rivista irredentista; Mano Nera (con riferimento alla carboneria) la società segreta più attiva; Giovane Bosnia il gruppo di patrioti a cui apparteneva Gavrilo Princip. A Belgrado domina oggi il senso di emarginazione, di esclusione dall’Europa. Cent’anni fa era la capitale di un regno in espansione, che con le Guerre balcaniche del 1912-1913 aveva raddoppiato il territorio. Era una sorta di hinterland della Mitteleuropa: si andava a studiare a Vienna, si facevano affari a Berlino e politica a Parigi. Cent’anni fa uno dei compagni di Princip aveva passato la frontiera (tra due paesi già quasi in conflitto) con la tessera studentesca di un amico. Oggi è difficile persino per noi, tra controlli asfissianti e difficoltà logistiche dovute alla spaventosa alluvione di qualche settimana fa. 
In Bosnia è ancora forte il retaggio delle guerre di vent’anni fa, ma noi ormai guardiamo con gli occhi - arrossati dalla stanchezza del viaggio - dei nostri protagonisti. L’arciduca l’attraversa in treno, sulla ferrovia Mostar-Sarajevo appena inaugurata. L’attentatore compie un lungo tragitto a piedi, dal confine a Tuzla. L’erede al trono e il suo assassino vedono due Bosnie diverse, e così noi. Mostar era allora protagonista di uno sviluppo accelerato, quasi forzato, per opera degli Asburgo, che avevano annesso la regione nel 1908 dopo trent’anni di occupazione. Oggi resta una città divisa: la linea del fronte fra croati e musulmani, che spezzava in due la città, è un confine intangibile ma ancora ben presente nella quotidianità degli abitanti. E le partite delle due nazionali, Croazia e Bosnia, acuiscono le tensioni. Tuzla era un secolo fa un grande centro contadino e tradizionalista; oggi è il simbolo della convivenza fra le diverse nazionalità, ha resistito a ogni forzatura in questa direzione persino durante l’ultima guerra, mettendosi contro avversari e alleati pur di rimanere davvero multietnica
Siamo arrivati infine a Sarajevo, la città dove le contraddizioni della Bosnia si sommano e si intersecano, così come i destini dei nostri viaggiatori. La città centro-del-mondo, simbolo di tutta l’Europa, confusa tra la paura del diverso e l’attrazione per l’alterità. Qui ognuno si può sentire a casa, può ritrovare qualcosa di se stesso e della propria cultura; ma al tempo stesso si sente un visitatore spaesato, disorientato da sinagoghe e minareti, veli e minigonne, palazzoni realsocialisti e insegne della Coca-Cola. Qui si incrociano anche le storie dei nostri due viaggiatori. Franz Ferdinand incontra finalmente la moglie tanto amata, la contessa Sofia. Lei non era di lignaggio sufficiente per un Asburgo, ma lui l’aveva sposata lo stesso con matrimonio morganatico: rinunciava ad ogni pretesa al trono per gli eredi e la moglie non avrebbe dovuto apparire pubblicamente al suo fianco nelle visite di stato. A Sarajevo era la prima volta, e fu anche l’unica. Gavrilo Princip si incontra coi congiurati. Sono in sette quel mattino ad aspettare l’erede al trono lungo il tragitto. Tutti idealisti, sognatori, adepti della religione della patria, votati al martirio. Astemi, casti, appassionati di letteratura, poeti: Princip scrive fino all’ultimo giorno prima di morire di tubercolosi nel carcere di Terezin. 
Sono passati cent’anni da quei colpi fatali ma ancora non sembra essersi fermato il vortice di intolleranze, pregiudizi, odi. Domani la biblioteca di Sarajevo - distrutta dalle bombe durante la guerra e finalmente rinnovata – ospiterà il concerto della filarmonica di Vienna. Stavolta i serbi non ci saranno; il noto regista sarajevese Kusturica – che ha convertito il suo nome musulmano, Emir, nel serbissimo Nebojša – ha organizzato le celebrazioni a Višegrad, la città del «Ponte sulla Drina» di Ivo Andric’, che nel 1914 faceva parte della stessa organizzazione irredentista di Princip. 
Domani celebriamo un’Europa rinnovata, dopo un secolo di stragi. Festeggiamo; ma non scordiamoci tutti i pericoli, le minacce, i rischi a cui il nostro mondo all’apparenza così sicuro e intoccabile va quotidianamente incontro. Sarajevo ci ha insegnato che bastano due spari per infiammare un continente intero. Facciamo tesoro di questa lezione.

giovedì 26 giugno 2014

Così nella notte di Roma capitale si aggira il fantasma della cultura

Ambizioni perdute. Chiudono i musei, muore di degrado il patrimonio archeologico
Si smantella Cinecittà che una volta dava lavoro a 250mila persone.
 E poi i teatri, anche quelli in via di estinzione.
Il sindaco Marino ancora non nomina l’assessore e forse sogna un console


Si sono spenti almeno cinquanta schermi e il Festival del cinema vive nella mediocrità
Si cerca lo sceicco che investa nel restauro del mausoleo di Augusto, servono 18 milioni
Al Macro gli artisti portano via le opere perché temono i furti, 
è un bel luogo desolato e ci piove pure dentro
L’unico museo effervescente è in periferia nel rifugio degli immigrati: 
fuori i murales, dentro artisti di livello

Musei vuoti, tagli ai fondi: il fallimento della capitale

Francesco Merlo

"La Repubblica", 25 giugno 2014

CINQUE miserabili biglietti al giorno! Se volete capire il magnifico fallimento e sentire anche fisicamente la morte della cultura a Roma andate nel quartiere Ostiense al museo Montemartini che in Italia è forse il più bell’esempio di riuso, anzi di “rammendo”, per usare il tic linguistico alla moda. Le statue antiche nella vecchia centrale elettrica e il frontone del tempio d’Apollo in fondo alla sala macchine sono una convivenza magica e definitiva, come vedere la cupola di San Pietro posata, a cappello, sul Pantheon. Ma l’eccitazione è più potente perché non ci sono visitatori. Ci sono invece i fantasmi: l’archeologia industriale delle turbine e delle caldaie, l’archeologia classica delle Veneri senza testa e della barba di Lisippo, e poi io e quattro americani, archeologia del turismo museale.
La Grande Bellezza sfiorisce nel caos burocratico e nell’oblio dei depositi tra reperti invisibili al pubblico
Eppure qualche eccellenza spunta, come il Maam del Prenestino. Un miracolo di vitalità
E non basta il “sogno rock” dei Rolling Stones al Circo Massimo, peraltro con coda polemica, per riaccendere le luci della città
PIÙ frequentato è ovviamente il Mosè, in San Pietro in Vincoli, ma senza mai la folla che ti aspetteresti, la fiumana della Cappella Sistina, e chissà che direbbe Michelangelo di questa disparità di trattamento dei suoi capolavori. Magari chiederebbe al Papa di far pagare l’ingresso nella chiesa, come fanno (solo) a Venezia.
La Cultura che muore a Roma non è un taglio del bilancio, che in Italia è solo una banalità, ma un territorio fisico e mentale sterminato che parte dai 19 chilometri delle mura aureliane, che franano un tanto al giorno - l’ultimo crollo è quello di piazzale Ardeatino - e arriva sino all’industria del cinema che dava lavoro a 250mila persone. Si chiude a Cinecittà. Sono cancellate “Le Notti di Cinema” a Piazza Vittorio e la Rassegna dei film dei grandi festival (Cannes, Locarno e Venezia). Il sindaco si ostina a non nominare il direttore della Casa del Cinema. Vive nella mediocrità il Festival inventato da Veltroni (non più 17 milioni, ma ancora 12). È sparita la Film commission che una volta “vendeva” i luoghi di Roma alle troupe. «Ma Roma non è solo la città “del” cinema, è anche la città “dei” cinema» mi dice Massimo Arcangeli, segretario dell’Agis-Anec. «Si sono spenti almeno 50 schermi».
Per salvare Roma dal fallimento, il sindaco Marino ri-corteggia gli emiri, sogna una “soluzione Alitalia”, uno sceicco per restaurare il mausoleo di Augusto per esempio, 18 milioni per una ferita che fu aperta dal fascismo. C’è il progetto, approvato nel 2006, con l’esposizione del plastico dello studio Cellini ma, ogni volta che cambiano, i responsabili delle Sovrintendenze costringono il povero Cellini a nuove varianti: fino ad ora 20. E chissà a Caracalla cosa farebbe il sultano Mansour dei forni sotterranei dove l’amore divenne “fornicare”: sono «chiusi per mancanza di personale».
Nel prezzario dei monumenti (Economic Reputation Index) stilato dalla Camera di Commercio della Brianza, che Marino portò con sé in Arabia Saudita, la Fontana di Trevi vale 78 miliardi e il Colosseo 91. E però non solo gli emiri, ma anche il potente Emmanuele Emanuele, barone e marchese palermitano, avvocato e banchiere, califfo ed alcalde della Roma bizantina, che fa il bagno nel Tevere ogni mattina, dopo avere promesso di finanziare il restauro del centro barocco con i soldi della sua “Fondazione Roma” pretende ora lo sconto “Rolling Stones” (“il sogno rock” di Marino, come si sa, ha reso solo 7.930 euro per l’affitto del Circo Massimo).
È l’ennesima conferma che la cultura a Roma rimane romanesca - Belli, Trilussa e Rugantino - e le statue sono tutte Pasquino, e persino nelle mascherate ci sono i gladiatori e non i legionari.
E infatti l’assessore alla Cultura, che in teoria avrebbe il potere di un console, qui non ha mai contato nulla e perciò Marino non l’ha ancora nominato dopo avere, un mese fa, costretto alle dimissioni Flavia Barca, famosa sorella di Fabrizio, a sua volta famoso figlio di Luciano. La cultura a Roma è fatta anche di cognomi. Nella classicità erano le gentes: la gens Giulia per esempio. Un cognome è Carandini. «La terra ai Carandini» diceva Maccari in rima satirica con “la terra ai contadini”. Lui, Andrea, il grande archeologo, è l’uomo che Marino sogna alla Cultura. Più che un assessore, un Primo Console Alto Imperiale. Ed è da gens anche l’esposizione al Maxxi del pittore Andrea Boldrini, fratello.
Un altro sogno impossibile di Marino è l’unificazione di tutto, a partire dai musei capitolini che sarebbero forse 22, numero variabile come le 99 cannelle della fontana dell’Aquila che nessuno riesce a contare (il compianto Gianni Borgna nel suo libro scriveva in una pagina che i musei sono 45 e in un’altra pagina 39). E si comincia con i due musei del Campidoglio dove sono esposti la Lupa, il Gàlata Morente, il San Giovannino e la Zingara del Caravaggio. Sono i soli che hanno visitatori.
Tutti gli altri sono deserti, a partire da Palazzo Braschi, pittura, e, di fronte, lo stupendo Barracco con una collezione egizia; non lontano c’è quello napoleonico, e ancora il museo delle mura Aureliane e l’Ara Pacis, il Bilotti, il Canonica, la Galleria nazionale di arte moderna, le 4 sedi espositive di Villa Torlonia con la scuola romana. Non c’è mai nessuno, tranne al caffè del Bilotti: at- tira gli assetati di villa Borghese.
È chiuso lo stupendo museo della Civiltà Romana, all’Eur, un’eccellenza mondiale di plastici e ricostruzioni (è aperto solo il Planetario). E ci sono musei mai esistiti, scatoloni di oggetti come il “museo” degli strumenti medicali che giace in un sotterraneo della Sapienza (nessuno sa dove), e il museo del giocattolo che Veltroni acquistò per 4 milioni e mezzo da un collezionista danese e fu stipato in un capannone di Perugia.
A Villa Pamphilj c’è un museo di statue che non è mai stato aperto al pubblico. E il museo di zoologia è attaccato allo zoo ma senza la possibilità di passare dall’uno all’altro, perché si fanno la guerra di frontiera, come Giappone e Cina, zoologi e zoologisti, proprio come l’Opera e l’Accademia di Santa Cecilia, che sono i Romolo e Remo della musica “ab urbe condita”.
Forse la sola unificazione realizzabile è tra il Macro e il Palazzo delle Esposizioni, che comprende le splendide Scuderie del Quirinale, quelle della recente Mostra del Caravaggio, con più di seicentomila visitatori. Se si esclude la chiusura della Casa del jazz, usata per la festa dell’Unità pur essendo un bene pubblico e per giunta un’espropriazione antimafia, il Palazzo delle Esposizioni ha una gestione d’eccellenza, nonostante Marino l’abbia messa a rischio lasciando per troppo tempo il direttore generale Mario De Simoni solo, senza presidenza (ora c’è Franco Bernabé) .
E il sindaco non nomina il direttore del Macro, il museo di arte contemporanea, che già campicchiava con piccole mostre ma adesso ha perduto pure i soldi dell’Enel e dell’Associazione “Macro-Amici” di Beatrice Bulgari : chiusi bar e ristorante, non ci sono guardiani e gli artisti portano via le opere perché temono i furti. Il Macro è un bel luogo desolato e desolante. E ci piove pure dentro (c’è un drammatico video su youtube).
L’ambizioso Maxxi, che è statale (5 milioni di finanziamento), non è riuscito a diventare il Museo Nazionale dell’arte contemporanea e dell’architettura (i modelli erano la Tate, il Centre Pompidou, il Reina Sofia). Ma nella Roma depressa fa, comunque, molto traffico: incontri, lezioni, cicli, attività multimediali, canzoni, cinema, persino lo yoga. La presidente Giovanna Melandri, che sempre contesta e sempre è contestata, insegue l’idea di “un foro romano” che forse però è solo “la Roma garage” di Moravia o “la terrazza” di Scola che si nutre di materia umana mista e di eterno vernissage. Non è la Tate, ma è già qualcosa.

«Il paradosso dell’arte contemporanea a Roma è che l’unico museo effervescente e attivo è il Maam sulla Prenestina» mi aveva suggerito Umberto Croppi, l’assessore che fu cacciato da Alemanno ma che gode di una rarissima stima trasversale. Sono dunque andato nello stabilimento ex Fiorucci (salumi, non vestiti) dove vivono circa duecento famiglie di immigrati: rom, sudamericani, nordafricani, Est europeo e pure italiani. Fuori ci sono i murales, alcuni molti belli, di Kobra e di Borondo. Dentro realizzano ed espongono artisti di ogni genere. «Vale la pena andarli a vedere — mi aveva detto Croppi — il livello è alto, e tra tutti gli esperimenti di integrazione attraverso l’arte, questo non è retorico ed è condiviso dalla comunità che ospita gli artisti».
Ho trovato straordinaria la trasformazione di un ghetto di rifugiati in un fenomeno sociale. Giorgio de Finis, antropologo, è il direttore artistico, e qui è forse tutto velleitario e naïve come lui; ma di sicuro è questa la periferia che piace a Renzo Piano, quella del pensiero laterale che costruisce razzi con i bidoni per raggiungere la luna. Sono, di nuovo, i poveri che volano di “Miracolo a Milano”, il più bel film di De Sica, proprio perché non neorealista. E ho pure visto cantare i bimbi rom: somigliano ai ladruncoli di Termini, ma sembrano più bimbi e più felici.
Ed è, questo Museo di squatter, l’uguale e il contrario dell’occupazione del teatro Valle che è invece un bene pubblico nel centro di Roma e dunque reclama una gestione pubblica. E infatti non c’è paragone rispetto al risultato artistico del Prenestino. Quando fu sciolto l’Ente teatrale italiano non venne fuori solo l’occupazione del Valle, ci fu anche il passaggio del Quirino ai privati. Ebbene, questo Quirino ha goduto dei finanziamenti del solito Emmanuele Emanuele e, non si capisce perché, anche della Regione Calabria.
Il direttore è un dandy napoletano, un attore con un nome strano, Geppy Gleijeses , di cui tutti mi dicono all’orecchio: «È lui il vero Gep Gambardella» un po’ come, una volta, si diceva del giornalista Victor Ciuffa «è lui il Mastroianni della Dolce Vita». Anche questo eterno ritorno romano, che tanto annoiava Flaiano, è un genius loci culturale: lo stravagante, la maggiorata e, appunto, il tardo vitellone che non riesce ad essere “quel flâneur che a Roma non può esistere” scrisse Benjamin.
Inutilmente a Marino hanno spiegato che i teatri non sono unificabili con i Musei e con le istituzioni musicali. Quelli di prosa sono più di cento, la loro vita è grama anche se le sale non sono mai vuote, forse perché questa è stata la città delle cantine, di Carmelo Bene e di Memé Perlini, ed è la città delle macchiette italiane più ancora che delle maschere: Albertone e Meo Patacca su tutti. Mi dice Massimo Monaci, direttore dell’Eliseo e presidente dei gestori: «Il pubblico di Roma vuole il divertimento e sa riconoscere, come nessun altro, il divertimento di qualità. E però negli ultimi due anni è calato del 20 per cento. Non garantiamo più per la prossima stagione».
Sono comunali l’Argentina, che è lo Stabile, e i 4 teatri di cintura, lottizzati politicamente, Quarticciolo, Ostia Lido, l’Elsa Morante sul Laurentino, e Tor Bella Monaca dove Michele Placido ha fatto un gran lavoro, non pagato. Per mancanza di teatro, chiude, dopo 28 anni, il “Roma Europa Festival”, che era l'unica rassegna di spettacolo contemporaneo (anche danza e musica) e alla quale la Regione ha ora negato l’uso del Palladium. E chiude, dopo 12 anni, il festival della fotografia. Collegato allo Stabile c’è l’India, che è il teatro sperimentale sul Lungotevere: da due anni è chiuso per lavori.
Anche allo Stabile, Marino ha perduto dieci mesi prima di nominare Marino Sinibaldi alla presidenza e, alla direzione, Ninni Cutaia che però è risultato incompatibile: si sa che il sindaco pasticcia con gli amati curricula. Alla fine ha nominato Antonio Calbi ma il teatro vivacchia malamente. Eppure i privati, come mi spiega Monaci, accusano il teatro pubblico di concorrenza sleale.
Ce l’hanno soprattutto con l’Auditorium, cioè con la Fondazione Musica per Roma, che fa solo spettacoli leggeri (l’ultimo è “Luglio suona bene” con Keith Jarrett, Stefano Bollani, Pino Daniele e Patty Pravo). La Fondazione, finanziata anche dal Comune con tre milioni e mezzo, da undici anni ottiene utili (quello lordo del 2013 è di 231.347 euro con 612.851 spettatori per 663 “eventi”). È dunque magnificamente amministrata da Carlo Fuortes, che è stato appena nominato sovrintendente dell’Opera, la Fondazione Lirica presieduta per legge dal sindaco, una nobile idrovora che riceve poco meno di 40 milioni pubblici (20 dal Comune), ha 490 dipendenti con 5 sindacati che scioperano persino per la pausa pranzo e fermano pure la bacchetta di Muti. Il deficit annuale è di 11 milioni, il debito patrimoniale di 30.
Marino ha minacciato di chiudere, non frequenta, non domanda. La sua strategia è «sol chi sa che nulla sa, ne sa più di chi ne sa». Adesso Fuortes, che dovrebbe scegliere tra le due cariche, vuol tenerle tutte e due e proprio mentre porta in scena il rigore, i bilanci, l’etica del lavoro.
«La Scala è Milano, la Fenice è Venezia, il San Carlo è Napoli» mi dice Croppi, «Roma invece non si identifica così immediatamente con il Costanzi, che è il nome del teatro dell’Opera», un goffo edificio sovraccarico: «Questa facciata è un’orrenda oscenità» diceva Bruno Zevi. «Quasi un quarto del bilancio comunale, che è di 70 milioni, va all’Opera» sottolineano ridacchiando gli avversari, i tifosi del Santa Cecilia, che si vanta di una maggiore rilevanza internazionale e prende dal Comune solo 4 milioni e 400mila euro. «Certo — ammette Croppi — due o tre volte l’anno all’Opera dirige il grande Muti, che non ha però cariche esecutive, anche se ha messo il nome e incide su alcune scelte». Si potrebbero unificare Opera e Santa Cecilia? «È giuridicamente molto difficile».
E di nuovo la qualità sbuca dove meno te l’aspetti. Ci sono centinaia di piccole associazioni musicali che organizzano scuole e concerti, qualche volta di ottimo livello. È il caso dell’Associazione “Orazio Vecchi” di Alessandro Anniballi, 31 anni di insegnamento di coro e composizione, esibizioni al Campidoglio, elogi dei critici, premi… Lavorava nelle aule della scuola E.Q. Visconti dove Anniballi insegna musica. Ma i tempi sono cambiati e la nuova dirigente ha disdetto il protocollo. Ora i coristi vagano nel quartiere, costretti nella chiesetta di San Bernardino dove padre Michele, un cinese, li ospita: «È come se avessero sradicato un albero che faceva frutti e fiori. Perché?». Un altro caso di qualità fuori luogo è l’Associazione “Rialto occupato”. Sono squatter che, in supplenza del municipio, propongono un progetto, “Urban Ground”, di riqualificazione dell’area che va da Porta Portese alla Piramide e comprende l’ex mattatoio e il quartiere Testaccio. Penso che i centri sociali si siano meritata la diffidenza che li circonda, ma ho girato questo loro stupefacente progetto alla Quodlibet, la raffinata casa editrice di Macerata specializzata in Architettura.
Roma è l’unica città del mondo che ha due sovrintendenze, una nazionale e l’altra comunale. E non è solo una moltiplicazione di burokrati, carte e bolli. C’è anche la p che diventa v. Quella di Stato si chiama infatti soprintendenza, quella comunale sovrintendenza. Ed è un gioco disperato di vanità. È una pacchia per il Cafonal di Dagospia l’archeologia come parodia di Indiana Jones, «a Roma se non conosci l’archeologia non riesci neanche a fermarti a uno stop» dice uno dei protagonisti del geniale film “Smetto quando voglio”. Dalle buche delle strade, che il Comune non ricopre mai, può sempre sbucare fuori, quanto meno, una lapide di Teodosio il grande. Il sovrintendente di Alemanno era Umberto Broccoli, archeologo e presentatore radiofonico, autore dei dottissimi libri “Voce del verbo amare” e “Telesogni dalla A alla Z”.
Marino, dopo otto mesi, ha nominato Claudio Parisi Presicce, già direttore dei Musei capitolini, che non è un semi vip come Broccoli però è un sovrintendente che dovrebbe puntare ad abolirsi, a perdere la v e a prendere la p. Qualche motivo? I mercati di Traiano e i fori imperiali sono del Comune, ma pochi metri più in là i fori romani, il Palatino e il Colosseo sono dello stato. La Domus Aurea è dello Stato ma le parti esterne, le grotte e il giardino sono del Comune.
Il ministro Franceschini, per completarne la restaurazione, ha fatto un appello ai privati, ma i giardini comunali sono depositi di spazzatura, accampamenti di barboni, un “non luogo” municipale che i soldi non basterebbero a recuperare. E ancora: al Teatro Marcello una parte della base è dello Stato, il corpo centrale è del comune, ma appartamenti e uffici sono privati. Sono comunali le 546 fontane, la trentina di torri medievali, i sedici obelischi egizi. È statale il Colosseo, che frutta 50 milioni l’anno, ma nessuno sa spiegarmi perché la metà dei profitti dei biglietti vanno a un gestore privato, la Coop Cultura associata alla Electa di Berlusconi, gestiscono anche Caracalla e il Palazzo Massimo, in proroga dal 1998, senza gara. È invece comunale il colosseo fuori dal Colosseo, quel posto senza legge degli accattoni-gladiatori e delle camionette dei porchettari, dove si mangia, si frega e se fa subito a cazzotti, come ai tempi del Belli, pe’ schiaffasse in saccoccia li quadrini.
Benché a Roma ci sia il maggior numero di case editrici d’Italia, 371, non ce n’è mai stata una veramente potente. Le più grosse sono comunque piccole: Newton Compton, e/o, Armando, Donzelli, Minimum Fax, Fazi, Nottetempo… E ogni dicembre all’ Eur c ‘è la fiera della piccola e media editoria, “Più libri, più liberi”, ed è la fiera del libro che funziona meglio in Italia e forse proprio perché non ci sono i grandi editori: “less is more”. E però Enrico Jacometti, che è il presidente dei Piccoli Editori, mi dice: «Dieci anni fa Roma era al primo posto, insieme a Milano, nell’indice di lettura, che è il rapporto tra numero di abitanti e numero di libri venduti. Oggi siamo al quinto; al decimo negli ebook ».
Chiudono le librerie anche a Milano e a Firenze, «ma il dato romano è clamoroso e drammatico» mi spiega Marcello Ciccaglioni, il geniale proprietario del gruppo Arion: «Negli ultimi cinque anni hanno chiuso almeno 50 librerie importanti».
Per ogni libreria che chiude si spegne una stella. Ma inaspettatamente c’è una lucciola, ed è il sistema delle biblioteche comunali. Ogni anno due milioni e trecentomila persone utilizzano queste biblioteche, che sono 42, e danno in prestito un milione e mezzo di libri. Sono cifre da capogiro rispetto ai 170mila lettori della Biblioteca nazionale, che è statale. Eppure il sindaco Marino da un anno non riesce a nominare il consiglio di amministrazione, il presidente e il direttore delle 42 biblioteche che rischiano di chiudere, come si legge nell’appello che i dipendenti gli hanno indirizzato.
Forza, dunque, signor sindaco: non spenga anche questa lucciola romana, che non è Pasolini ma è Trilussa: «Luna Piena minchionò la lucciola / - Sarà l'effetto dell'economia,/ ma quel lume che porti è deboluccio ...- / Sì, - disse quella - ma la luce è mia!».

La nostra vita da immigrati “digitali”


Ci troviamo ormai a vivere e ad agire simultaneamente online e offline
Ma lo sdoppiamento può generare rischi. Come spiega il grande sociologo

Zygmunt Bauman

"La Repubblica", 25 giugno 2014


TUTTI noi a intermittenza, ma anche contemporaneamente, viviamo ormai in due universi distinti: online e offline. Il secondo dei due è spesso definito “il mondo reale”, anche se la questione di capire se questa definizione si adatti meglio al secondo rispetto al primo diventa via via discutibile. I due universi differiscono in modo marcato per la visione del mondo che ispirano, le competenze che esigono e il codice di comportamento che raffazzonano e promuovono. Le loro differenze possono essere superate, ma difficilmente sono riconciliate. Spetta al singolo individuo, immerso in entrambi quegli universi, risolvere i conflitti che sorgono tra di essi e delineare ambiti circoscritti di applicabilità per ciascuno dei due.
L’esperienza acquisita in un universo, però, non può non influire sulle nostre modalità di percezione dell’altro universo, che valutiamo e che attraversiamo. Tra i due universi tende a esserci un traffico frontaliero ininterrotto, legale o illegale, ma pur sempre intenso. I vantaggi di Internet sono molteplici e multiformi. Su Facebook non può accadere che qualcuno si senta mai più solo o messo in disparte, scaricato, respinto, lasciato a cuocere nel proprio brodo avendo come unica compagnia sé stesso. Sempre, ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette, qualcuno da qualche parte sarà sempre pronto a ricevere un messaggio e a rispondere a esso. Grazie a Internet, ormai tutti ricevono una possibilità di vivere il loro proverbiale quarto d’ora di celebrità e l’occasione di sperare di arrivare allo status di celebrità pubblica.
Ma quali sono le perdite, documentate o previste? Tanto per cominciare, ci sono perdite che affliggono le nostre facoltà mentali; prima di tutto le qualità/ capacità ritenute indispensabili per trovare uno spazio fondamentale per la ragione e la razionalità, per dispiegarvisi e realizzarsi appieno: attenzione, concentrazione, pazienza e la possibilità di durare nel tempo. Quando per connettersi a Internet è necessario un minuto, molti di noi si irritano per la lentezza del proprio computer. Ci stiamo abituando ad aspettarci sempre risultati immediati. Desideriamo un mondo sempre più simile al caffè istantaneo. Stiamo perdendo la pazienza, eppure i grandi risultati necessitano di grande pazienza. Il periodo di tempo in cui si è in grado di tenere desta la soglia di attenzione, l’abilità a restare concentrati per un tempo prolungato – in definitiva, quindi, la perseveranza, la resistenza e la forza morale, caratteri distintivi della pazienza – sono in calo, e rapidamente.
Tra i danni meglio analizzati e al contempo teoricamente più nocivi provocati dal calo e dalla dispersione dell’attenzione ci sono il peggioramento e la graduale decrepitezza della disponibilità ad ascoltare e delle facoltà di comprendere, come pure della determinazione ad “andare al cuore della faccenda” (nel mondo online ci si aspetta di “navigare” tra le informazioni convogliate visivamente o acusticamente) – che a loro volta portano a un continuo declino delle capacità di dialogare, una forma di comunicazione di vitale importanza nel mondo offline. Strettamente connesso ai trend descritti è il danno inferto alla memoria, oggi sempre più spesso trasferita e affidata ai server, invece che immagazzinata nel cervello.
L’altra cosa di cui tenere conto è il verosimile impatto di tutto ciò sulla natura stessa dei rapporti umani. Allacciare e spezzare legami online è più comodo e meno imprudente che farlo offline. Non comporta obblighi a lungo termine, e tanto meno promesse del tipo “finché morte non ci separi, nella buona e nella cattiva sorte”; non esige un obbligo così prolungato e coscienzioso come esigono i legami offline. Non stupisce quindi che, avendo collaudato e confrontato le due tipologie, molti internauti, forse la crescente maggioranza, preferiscano la varietà online.
C’è ancora un punto, forse il più discusso tra gli argomenti che saltano fuori nel dibattito su vantaggi e svantaggi del world wide web. Numerosi osservatori hanno accolto la possibilità di assistere in “tempo reale”, in modo universale, facile e comodo agli eventi internazionali – unitamente alla possibilità di fare un ingresso altrettanto universale, ugualmente facile e indisturbato nella scena pubblica – come l’autentica, radicale, effettiva svolta nella storia breve e tempestosa, seppur ricca di avvenimenti, della democrazia moderna. Al contrario delle aspettative abbastanza diffuse secondo le quali Internet rappresenterà un grande salto in avanti nella storia della democrazia e coinvolgerà noi tutti nel processo di dar forma al mondo che condividiamo, si vanno accumulando le prove per le quali Internet potrebbe servire anche a perpetuare e a rafforzare conflitti e antagonismi. Paradossalmente, il pericolo nasce dalla propensione della maggior parte degli internauti a fare del mondo online una zona esente da conflitti. Internet porta alla creazione di una versione perfezionata di “comunità residenziale protetta”: a differenza del suo equivalente offline, ciò non impone ai residenti di pagare un affitto esorbitante e non richiede vigilantes armati o una rete complessa e avanzata di telecamere di sorveglianza a circuito chiuso; è sufficiente disporre di un semplice tasto “cancella”. Il vero problema è che in questo ambiente online, sterilizzato e decontaminato in modo artificiale, è davvero molto difficile poter sviluppare una forma di immunità nei confronti delle velenose controversie endemiche dell’universo offline.
Senz’altro, l’elenco fin qui fatto dei vizi e delle virtù reali e teoriche di una divisione del Lebenswelt (“il mondo vitale”) in un universo online e un universo offline è tutt’altro che completo. Ed è ovviamente prematuro valutare gli effetti aggregati di un cambiamento-spartiacque, così determinante nella condizione umana e nella storia culturale. Per il momento, gli asset di Internet e dell’informatica digitale nel loro complesso paiono tollerare bene una considerevole mescolanza di passività. Oggi il punteggio più alto raggiunto dall’universo online nella scala di misurazione della comodità, della convenienza, dell’immunità dal rischio e della libertà dai problemi che impongono uno scotto, sollecita, di proposito o di default, la tendenza a trasferire le opinioni sul mondo e i codici comportamentali fatti a misura della sfera di vita online nella sua alternativa offline. Ma potrebbero essere applicati a questa soltanto a costo di un grande danno sociale ed etico. A conti fatti, d’ora in poi, faremo bene a tenere d’occhio da vicino le conseguenze della spaccatura online/offline. (Traduzione di Anna Bissanti)

martedì 24 giugno 2014

Erano sotterrati tra i rifiuti i segreti dell’Egitto romano


Così due studiosi inglesi trovarono i papiri di Ossirinco

Paolo Mieli

"Corriere della Sera", 24 giugno 2014

Per i prossimi anni è programmata la pubblicazione di ben quaranta volumi degli Oxyrhynchus Papyri . Fino ad oggi ne sono già stati pubblicati settantotto, il primo dei quali nel 1898. Di che si tratta? Tutto ha inizio in una discarica. È in una montagna di rifiuti coperta dalla sabbia che si è avuto il più importante ritrovamento di preziosi papiri dell’Egitto. Ritrovamento che ha consentito una svolta nello studio della storia del mondo antico. È questo, cioè il fatto che fossero sepolti come immondizia, quel che ha più colpito Peter Parsons e che fa da filo conduttore di un suggestivo libro, La scoperta di Ossirinco. La vita quotidiana in Egitto al tempo dei Romani, che l’editore Carocci si accinge a pubblicare, in un’impeccabile traduzione e curatela di Laura Lulli. In quella discarica, che era rimasta coperta dalla sabbia
per secoli e secoli, furono ritrovati a fine Ottocento «frammenti della letteratura greca classica, in particolare di opere altrimenti perse nella grande distruzione del Medioevo, e frammenti della letteratura cristiana delle origini, soprattutto di opere poi eliminate dal canone ortodosso». I rifiuti appartenevano al villaggio di el-Behnesa, centosessanta chilometri a sud del Cairo e quindici a ovest del Nilo. Fondata ai tempi di Ramses III nel XII secolo avanti Cristo, quella piccola città era stata poi, per mille anni — dai tempi di Alessandro Magno a quelli dell’arrivo dei musulmani, dal 350 a.C. al 650 d.C. (ma anche oltre) —, Ossirinco. Agli inizi del Medioevo vantava ancora un vescovo, trenta chiese, diecimila monaci, ventimila suore. Anche oltre, dicevamo, ben oltre la conquista araba dell’Egitto nel 642 d.C. Tant’è che testimonianze del 917 attestano che, all’epoca, in quel centro si producevano tende di broccato d’oro per il palazzo del califfo di Baghdad. Il declino vero e proprio iniziò molti decenni dopo, dal XIII secolo, allorché, sotto il dominio dei mamelucchi, la città cominciò a trasformarsi in un villaggio. 
Ma al centro di questo libro c’è la Ossirinco greca. Per i Greci del III secolo a.C. l’Egitto «era un po’ come il Nuovo Mondo, una California delle opportunità». La città egiziana era nata sotto il regno degli ultimi faraoni, poi divenne una provincia persiana fino a quando fu «liberata» da Alessandro Magno nel 332, quando, conquistate l’Asia Minore e la Palestina, il re macedone attraversò il Sinai (tre giorni di marcia senz’acqua) e fece il suo ingresso in Egitto, dove fondò la città che avrebbe preso il suo nome: Alessandria. Alla sua morte (323 a. C.) l’Egitto passò a Filippo III, ma in realtà al comandante militare Tolomeo, che fondò una dinastia, quella dei Tolomei, che avrebbe governato il Paese per tre secoli, fino alla morte dell’ultima discendente, Cleopatra, nel 30 a.C. All’epoca vivevano in quel Paese trecentomila Greci assieme a sette milioni di egiziani. Tolomeo I si era fatto largo come generale e aveva oltre sessant’anni quando ottenne il titolo di sovrano, «solo di un grado inferiore a quello di un dio». Fu uno stratega assai acuto. Prelevò il corpo mummificato di Alessandro il Grande e lo fece seppellire nuovamente prima a Menfi e poi nella nuova capitale, Alessandria (e «fu un modo, questo, per rivendicare il diritto di ereditare il carisma del conquistatore del mondo»). Ai tempi di Tolomeo Alessandria, pur essendo una città greca, era adorna di sculture egiziane. Le iscrizioni geroglifiche presentavano Tolomeo con tutti i titoli tradizionali e gli attributi del faraone. 
Ossirinco visse e prosperò poi a lungo. Allorché i Romani conquistarono l’Egitto, la cultura dei vincitori, scrive Parsons, «si faceva sentire qua e là: Ossirinco si era dovuta dotare di un campidoglio, di un tempio di Cesare e di diverse terme pubbliche». Non era la prima volta «che l’Egitto apparteneva a un impero più vasto, ma questo era un impero molto grande con un imperatore molto assente». I cittadini di Ossirinco affluivano in gran numero per celebrare le rare visite dell’imperatore; altrimenti continuavano «a pregare per lui e per la sua Eterna Vittoria, anche se molte di quelle vittorie erano conseguite a migliaia di chilometri di distanza, sul Reno o sul Danubio». Per sfamare gli abitanti della città di Roma si pagavano delle tasse; per fornire supporto alle operazioni belliche, contro la Persia o altre nazioni, potevano esserci requisizioni di bestiame. I dominatori romani non modificarono il sistema amministrativo che avevano trovato («e del resto non avrebbero avuto nient’altro con cui sostituirlo, dal momento che la Repubblica romana non si era dotata di strutture burocratiche su larga scala», precisa Parsons). In realtà l’impero, con il suo sviluppo, sotto la spinta del dispotismo sempre crescente e dell’urgenza di guerre totali, adottò la complessa burocrazia gerarchica di cui l’Egitto e altri regni del Vicino Oriente avevano fornito esempi precoci. Formalmente l’Egitto restò al di fuori da questo sistema fino a quando Diocleziano (divenuto imperatore nel 284 d.C.) non cominciò a «spingere per un’integrazione attraverso la quale l’impero ormai scricchiolante fu costretto ad una forzata uniformità». 
Ossirinco all’epoca era ancora una città di prima grandezza. Alla fine del I secolo d. C., Plutarco «rifletteva sul mondo» dalla sua biblioteca a Cheronea, nel cuore rurale della vecchia Grecia: in Egitto, scriveva, «ai nostri tempi la popolazione di Cinopoli e la popolazione di Ossirinco si sono massacrate reciprocamente, in quanto gli abitanti di Cinopoli avevano mangiato il pesce sacro di Ossirinco e gli abitanti di Ossirinco avevano mangiato il cane sacro di Cinopoli». Segno, questo, che Ossirinco era anche una piccola potenza militare. Poi fu compiuto un passo ulteriore. Gli Egiziani (quantomeno i Greci d’Egitto) divennero nel 212 cittadini romani e in quello stesso anno un «egiziano» divenne, per la prima volta, membro del Senato romano. Nel III secolo dopo Cristo, Ossirinco fu denominata Città Illustre e Illustrissima, a dispetto della peste che aveva prostrato l’Egitto nel 253. Ossirinco fu tra le prime città a riprendersi. Intorno al 255 la città assume un maestro di scuola pubblico, imitando così le istituzioni culturali delle città più grandi. Dal 265 istituisce un «sussidio di grano», una razione gratuita destinata ai singoli cittadini, sul modello di quel che faceva Roma. Nel 283 costruisce una strada centrale del tipo di quella che hanno le città più importanti. Nel 284-286 assume un rilievo tale che il prefetto vi tiene udienza. Nel 273 fu addirittura scelta come sede dei giochi capitolini mondiali; «fu così che i cittadini di un borgo egiziano ospitarono il mondo e le sue celebrità, in occasione del primo festival mondiale capitolino quinquennale sacro e trionfante di teatro, atletica e corsa di cavalli che fosse tenuto in quell’epoca», fa rilevare Parsons. 
In seguito «continuò a sopravvivere e a prosperare fino al Medioevo, mentre il mondo intorno era ormai completamente cambiato». L’impero romano pagano aveva poi, a partire dalla svolta di Costantino, ceduto il posto a quello cristiano, con la sua lingua e il suo alfabeto. La scrittura egiziana, ottocento segni, era di impedimento all’alfabetizzazione («un cinese non sarebbe d’accordo», osserva però Peter Parsons), mentre la semplicità dell’alfabeto greco rendeva questa lingua scritta molto più agevole; alla fine le antiche scritture egiziane si estinsero, per essere rimpiazzate nel III e IV secolo dopo Cristo da un adattamento dell’alfabeto greco, il copto. Gli Egiziani che avevano imparato il greco erano stati certamente più numerosi dei Greci che avevano appreso l’egiziano, persone di etnia egiziana potevano prendere i nomi greci, famiglie greco-egiziane potevano adottare nomi doppi, con un elemento tratto da ognuna delle due lingue. 
I conquistatori romani avevano poi stabilito una gerarchia quasi ufficiale: al vertice della scala sociale c’erano i dignitari inviati da Roma per occupare le più alte cariche di governo; poi c’erano gli abitanti di quelle città (Alessandria, Naucrati, Tolemaide, più tardi Antinoupolis) che avevano mantenuto le istituzioni basilari di una classica città Stato; quindi le classi dirigenti delle capitali locali che fossero in grado di dimostrare la loro discendenza sociale privilegiata facendo riferimento a un registro stabilito ai tempi di Augusto; infine, il grosso della popolazione. Successivamente, ai tempi dell’Islam, si sarebbe imposto l’arabo. Ma con gli stessi effetti. L’Egitto «rimase sempre uguale, nella sua essenza: i campi e i contadini, le piene e la mietitura, l’eterno problema di come guadagnarsi il pane e — preoccupazione, questa, che ha accomunato i maghi pagani, cristiani e islamici — tenere gli insetti lontani da casa». Gradualmente la «Città Illustre e Illustrissima» si trasformò in un semplice villaggio. 
Nel luglio 1798 Napoleone Bonaparte approdò in Egitto, portando con sé un esercito di soldati e una piccola armata (167 persone) di studiosi e artisti. Mentre l’esercito francese liberava il Paese dal potere militare in decadenza che lo controllava formalmente come una provincia dell’impero turco, gli scienziati conducevano ricerche sistematiche e disegnavano schizzi dei monumenti. L’intento politico della spedizione, ovvero attaccare l’impero britannico in India dalla porta posteriore, fallì: la sconfitta navale di Abukir tagliò fuori gli invasori dalla loro patria. Il generale corso lasciò infine l’Egitto nell’agosto 1799 per realizzare un colpo di Stato nel suo Paese, mentre le sue truppe furono battute e rimpatriate nel 1801. Così il Paese tornò sotto l’autorità del sultano e dei suoi viceré. 
Sotto il profilo culturale, comunque, quella spedizione fallimentare diede luogo ad una svolta. Che ebbe quasi subito i suoi cantori. Gli splendidi volumi della Description de l’Égypte, dati alle stampe tra il 1809 e il 1826, gettarono le basi della moderna egittologia. Un passo ulteriore fu compiuto in Francia, il 29 settembre 1822, quando Jean-François Champollion lesse la sua Lettre à M. Dacier al cospetto dei saggi dell’Académie Royale des Inscriptions et Belles-Lettres. Champollion, grazie alla stele di Rosetta, riuscì a dimostrare che la scrittura geroglifica era prevalentemente fonetica, in quanto «la maggior parte dei segni rappresentava lettere o sillabe» e che la lingua che trasmetteva (come si sospettava) era la stessa di quella usata dai cristiani egiziani d’Egitto, oggi chiamata copto. Alla fine il codice era stato decrittato e così dal 1822 l’umanità fu in grado di leggere quelle iscrizioni e quei papiri. In seguito una spedizione di Champollion e Ippolito Rosellini fu interrotta dalla precoce morte, nel 1832, dello stesso Champollion. Ma i clamorosi risultati di quell’impresa, raccolti nei Monumenti dell’Egitto e della Nubia , furono dati alle stampe da Rosellini a Firenze tra il 1832 e il 1840. La spedizione di Carlo Richard Lepsius, inviato nel 1842 dal re di Prussia per registrare i monumenti dell’Egitto, produsse un ulteriore resoconto in tredici volumi, pubblicato nel 1849, che resta, secondo Parsons, «un’opera di riferimento». 
Gli inglesi avevano vinto la guerra contro Napoleone, ma in Egitto furono i francesi a continuare a dominare. Quantomeno sotto il profilo culturale. Un intraprendente commerciante albanese di tabacco, Ali Mohammed, divenne a tal punto potente che il sultano fu costretto a nominarlo viceré nel 1805. Lui, Mohammed, e la sua discendenza governarono, prima come khedivè (viceré d’Egitto) e poi come re fino al 1953, anno della vittoria della rivoluzione nasseriana. Ma Ali Mohammed e i suoi successori non furono, quantomeno in principio, consapevoli del tesoro che custodivano. Nella prima metà dell’Ottocento, iniziò la stagione delle razzie. Un italiano, Giovanni Battista Belzoni, si servì di un ariete per entrare nella tomba di un faraone; nel 1836 il colonnello inglese Richard William Howard-Vyse fece ricorso alla dinamite per entrare in alcune camere inesplorate della Grande Piramide. Come collezionisti si distinsero l’italiano Bernardino Michele Maria Drovetti (in forza all’esercito francese), che portò a Torino gran parte di quel che aveva trovato, l’inglese Henry Salt e il console generale svedese-norvegese Giovanni d’Anastasi, che trasferì il suo «bottino» in parte a Leida e in parte al British Museum. Le cose cambiarono nel 1850, quando giunse in Egitto un giovane assistente curatore del Louvre, Auguste Mariette, nominato dal khedivè nel 1858 direttore generale di tutti gli scavi. Con Mariette, scrive Parsons, «ebbe inizio nel Paese una vera e propria archeologia sistematica; fu Mariette a concepire il Museo del Cairo, in modo tale che le antichità egiziane potessero avere una loro casa in Egitto… Solo Mariette aveva diritto di scavare e l’esportazione delle antichità fu dichiarata illegale». 
Le cose cambiarono ancora una volta nel 1869, al tempo dell’apertura del canale di Suez, collegamento fondamentale tra Inghilterra e India. Erasmus Wilson espresse allora pubblicamente l’auspicio che la Gran Bretagna prestasse maggior attenzione all’archeologia egiziana. E un duo, formato dalla giornalista Amelia Edward e dallo studioso Reginald Stuart Poole, mise in atto la direttiva Wilson. Ciò fu reso possibile dal fatto che nel 1881 Mariette morì e il suo successore, Gaston Maspéro, si rese più disponibile nei confronti degli inglesi. Alla fine, nell’aprile del 1882, fu fondata una nuova società, Egypt Exploration Fund, massima istituzione dell’archeologia britannica, i cui direttori onorari furono Poole e la Edwards. E che è sopravvissuta fino ad oggi, sia pure con una leggera variazione di nome (Society al posto di Fund). Il 1° luglio del 1897 l’Exploration Egypt Fund istituì una sezione speciale chiamata Graeco-Roman Research Account, «per il ritrovamento e la pubblicazione delle vestigia dell’antichità classica e della prima epoca cristiana in Egitto». E fu questa sezione speciale ad attrarre i due giovani studenti oxfordiani protagonisti della nostra storia, Bernard Pyne Grenfell e Arthur Surridge Hunt, che riportarono alla luce, da tumuli di spazzatura sepolta dalla sabbia nei pressi del villaggio di el-Behnesa, i resti di Ossirinco, la «città del pesce dal naso aguzzo». Nel 1895 i due decisero di mettersi alla ricerca di papiri egiziani negli antichi villaggi del Fayyum. Da quel momento trascorsero il resto della loro vita «come pionieri di un nuovo ramo degli studi classici: la papirologia». Si diffuse in seguito la leggenda che Grenfell era diventato cieco per aver violato il sito e aveva riacquistato la vista solo dopo che lo sceicco del luogo si era reso conto che i poveri abitanti del villaggio ottenevano un beneficio grazie ai salari pagati dagli scavatori. Grenfell dirigeva lo scavo, mentre Hunt si occupava di catalogare gli oggetti rinvenuti. «Controllare cento uomini che cercano papiri sotto un vento forte, mentre un miscuglio di sabbia e cenere colpisce il loro viso (questo è uno dei luoghi più ventosi dell’Egitto)», annotava Grenfell, «non è esattamente semplice; Hunt è stato molto occupato nell’ordinare e distendere i papiri, ma c’è ancora una lunga strada da percorrere e non ci sarà tempo per esaminare gran parte di questa regione». I due furono ancora a el-Behnesa negli inverni dal 1903 al 1907. 
Le sei stagioni di scavi, che costarono circa quattromila sterline, portarono alla luce papiri che sarebbero stati stipati in settecento scatole, «il cui contenuto può essere stimato in mezzo milione di pezzi e frammenti». Opere di Tucidide, Platone, Isocrate, Pindaro, Euripide, liriche di Saffo, Alceo, Ibico, le invettive di Ipponatte, l’epica lirica di Stesicoro, le commedie di Menandro, le «elegie postmoderne» di Callimaco. Anche se la letteratura rappresentava forse solo il dieci per cento di ciò che si trovava tra quei rifiuti. Il resto apparteneva a un campo allora difficilmente esplorato, la vita e la società dei Greci in Egitto. Finché Grenfell «dal carattere più instabile», nel 1920 soffrì di un esaurimento nervoso che pose fine alla sua vita lavorativa. Hunt andò avanti fino al 1934; i suoi ultimi anni furono resi cupi dalla morte prematura dell’unico figlio. Ma «la loro collaborazione aveva ottenuto risultati straordinari». Dopo la scoperta del tesoro nascosto nella discarica, nel 1897, tre mesi di scavi fornirono papiri per riempire ben duecentottanta scatole. Subito ci si rese conto dell’importanza della scoperta: la «Review of Reviews» paragonò quel ritrovamento ai filoni d’oro rinvenuti nel Klondyke. Successivamente si aggiunsero spedizioni italiane (Ermenegildo Pistelli, Evaristo Breccia) che continuarono a scavare nei primi decenni del Novecento. 
Ma torniamo alla fine dell’Ottocento e a Ossirinco. Quando, un secolo prima, era stata raggiunta dagli esploratori di Napoleone, Ossirinco era apparsa loro come «un sito reso pittoresco riconoscibile soltanto dalle palme, da una solitaria colonna antica e da una serie di cumuli». Proprio quei cumuli che avevano preservato, come si sarebbe appreso cento anni dopo, «l’intera storia della città, in una forma più piena di quanto possano fare le rovine di edifici e i monumenti». Il 29 luglio 1898 si poteva leggere sul «Times» di Londra che «la guerra ispano-americana sembrava quasi al termine, il caso Dreyfus era a un’altra svolta, il ginocchio del principe di Galles era stato trattato con i raggi X, nel cricket Rugby e Marlborough avevano pareggiato a Lord’s». Ma anche, nella rubrica «Libri della settimana», che era stato pubblicato il primo volume degli Oxyrhyrinchus Papyri. Cioè dei papiri che erano venuti alla luce, non da case o uffici, ma dalle discariche di rifiuti coperte da coltri di sabbia che erano intorno alla città. I due giovani scavatori di Oxford, Grenfell e Hunt, l’avevano rinvenuta mista a detriti dentro cumuli alti nove metri: tutta la vita di una città avvolta nei brandelli di scartoffie buttate via.
 Fino a quel momento non c’era stata un’esatta percezione dell’importanza dei papiri. Pochi anni prima del ritrovamento a Ossirinco, uno studioso danese, Niels Iversen Schow, aveva acquistato un rotolo di papiro originale scritto in greco ad un mercato egiziano in cui gliene avevano offerti altri cinquanta, che poi, una volta rifiutati da Schow, gli abitanti del posto avevano bruciato per «godersi il fumo che ne emanava». E pensare che nel 1847 l’antiquario inglese Joseph Arden aveva acquistato a Tebe un notevole rotolo di papiro che conteneva diversi discorsi dell’oratore Iperide (392-322 a. C.); scoperta che aveva provocato a Londra notevole sensazione: nella primavera del 1851 Arden fece conoscere quel che aveva acquistato in una riunione tra intellettuali a casa di lord Londesborough e successivamente quel papiro fu messo in mostra nelle stanze della Royal Society of Literature. Ma fino a Grenfell e Hunt non si era capito fino in fondo quanto fossero importanti i papiri. 
Quando Grenfell e Hunt cominciarono a scavare ad el-Behnesa nel 1897, quella che trovarono fu una «capsula del tempo» di un tipo molto speciale. Pompei conserva un’immagine della vita romana, così come si presentava nel giorno dell’eruzione del Vesuvio, fissata negli edifici e nei corpi di quelli che vivevano lì. Ossirinco offre l’opposto: non corpi o edifici, ma «il nastro cartaceo (un nastro gettato via dai suoi possessori) con la registrazione di un’intera cultura». 
Ossirinco, scrive Parsons, «esiste ancora oggi come una città di carte gettate via, un paesaggio virtuale che possiamo ripopolare con persone vive e parlanti: il teatro è svanito, ma abbiamo ancora alcuni dei copioni usati dagli attori; le terme sono scomparse, ma possiamo ricostruire le generazioni degli inservienti che vi lavoravano; il mercato è sparito, ma conosciamo il banco dove si vendeva la zuppa, i mucchi di letame importati e i funzionari seccati che riscuotevano la tassa sui bordelli». Gli abitanti morti da secoli «di cui non abbiamo né ritratto né pietra tombale, comunicano con noi attraverso i loro documenti; di alcuni sappiamo abbastanza per scrivere una soap-opera». E alla fine la loro memoria almeno «sopravvive proprio per una strana ironia della sorte, grazie a quei materiali scritti che essi avevano gettato via». Strani percorsi della storia. Che talvolta passano per una discarica.

domenica 22 giugno 2014

Dove nascono le storie


Dalla realtà o dall’inconscio? Dall’esperienza o dall’infanzia? 
Dalla paura o dal piacere? Viaggio alla ricerca dell’origine dell’ispirazione

Zadie Smith

"La Repubblica", 22 giugno 2014


SPESSO, i miei soggetti sono le cose più semplici del mondo: la gioia, la famiglia, il clima, le case, le strade. Niente di fantastico. E quando mi siedo al tavolo con questi soggetti, il mio obiettivo è la chiarezza. Cerco di eliminare un po’ della confusione che ho in testa (in effetti, c’è un grande disordine nella mia testa). A volte penso che tutta la mia vita professionale si sia basata su questa intuizione che ebbi all’inizio, e cioè che molte persone si sentono confuse come me, e potrebbero essere felici di seguirmi in questa ricerca della chiarezza, della precisione. È un aspetto che amo della scrittura.
Niente mi rende più felice di sentire un lettore che mi dice: «È proprio quello che ho sempre provato anch’io, ma tu lo hai detto in un modo chiaro». Sento, allora, di aver fatto qualcosa di utile. Spesso, però, tutto ciò mi è sembrato lontano dalla vera narrativa e, a dire la verità, ci sono stati dei momenti, negli ultimi dieci anni, in cui mi sono sentita piuttosto distante dalle storie, e incerta su come raccontarle. Avevo dimenticato (come i rapper amano dire) che cosa mi avesse spinto a cominciare. Poi ho avuto dei figli. Che storia noiosa “poi ho avuto dei figli”! Però, devo essere sincera. E la verità è che è accaduto qualcosa quando ho avuto dei figli. Sono passata dal non riuscire a inventare una sola storia, al non riuscire più a smettere di vedere delle storie praticamente ovunque mi girassi. Ora, io non sono un’essenzialista biologica, né una di quelle persone convinte che, con la placenta, ci arrivi anche il dono dell’empatia. La spiegazione, a mio parere, è più semplice, e sono i libri di favole. Per la prima volta dalla mia infanzia, sono tornata nel regno delle storie e dei libri che raccontano storie (tre storie lette ad alta voce a un bambino di quattro anni, ogni sera, pena la morte) e questa pratica ha risvegliato in me qualcosa che credevo di aver smarrito molto tempo fa, forse durante la presentazione di un libro, o nell’ultima fila di un’aula universitaria.
Questa sensazione delle possibilità narrative e dello stupore, questa idea che ogni persona è un mondo. Come avevo potuto dimenticarla? Ero davvero quasi scivolata in quell’anemico percorso intellettuale in cui narrare una storia è considerato volgare e i personaggi macchie sulla purezza di una frase? Quasi, per fortuna. Oggi sono così grata di poter rientrare in contatto con storie come Il dito magico di Roald Dahl. Mi sdraio sul letto con mia figlia, le leggo ad alta voce questo racconto kafkiano di una famiglia di cacciatori di anatre, che si svegliano una mattina con le ali al posto delle braccia, e torno alla mia scrivania con una facilità e fluidità che non avevo più provato da quando ero bambina.
La storia più inverosimile della mia vita è quella di una ragazza di Willesden, (un quartiere operaio nel distretto londinese di Brent, ndt). C’era una volta, che avevo nove anni. Era estate in Inghilterra, il cielo era blu, ma anche pieno di nuvole. Non ero - come dire - stracarica di amici. Faceva caldo, ma la scuola non era ancora finita, e questo ripresentava l’irrisolto problema della ricreazione, perché non puoi aggirati all’infinito per il cortile facendo finta di cercare i tuoi compagni. Per nascondere la mia solitudine, passavo un sacco di tempo a guardare le nuvole, e una strana torre coperta di edera che si trovava accanto alla nostra scuola. Decisi che, in cima a quella torre, una giovane donna viveva la sua tragedia, prigioniera di un dio che voleva impedirle di sposare il suo vero amore, Superman. Non aveva senso, ma era una storia e diventai brava a raccontarla. Per attirare l’attenzione su di me, cominciai a raccontarla ai bambini nel cortile. Diventava più complessa ogni volta che la raccontavo, e finivo sempre col giurare sulla testa di mia madre che era tutto vero. Ve lo giuro! Vi giuro che c’è una giovane donna lassù, e manda in cielo segnali di fumo, sotto forma di nuvole: se ne vedi una che assomiglia a Superman, mettiti una puntina sotto la scarpa.
Più persone avranno delle puntine sotto le scarpe, più rumore faranno camminando, e più rumore faranno camminando... oh, non mi ricordo! Doveva avere una sua logica, ma non ricordo più quale. In ogni caso, il messaggio era: puntina sotto la scarpa. Devi metterti una puntina sotto la scarpa o quella poveretta morirà! È vero! Lo giuro su mia madre! È un miracolo che mia madre sia sopravvissuta a quell’estate.
Bene, la gente sembrava appassionarsi alla mia storia, sembrava che tutti ci si appassionassero, davvero; tutti tranne una bambina - si chiamava Anupma - che si mostrò scettica. Era molto intelligente, Anupma, il che era parte del problema. La retorica non la commuoveva. Aveva un problema logico fondamentale con la tripletta segnali di fumo/nuvole/Superman. E un giorno, di punto in bianco, venne verso di me, in cortile, e mi disse: «La tua storia non è vera. È una bugia. Lo voglio dire a tutti». E si mise a correre verso le aule. Mentre la guardavo correre, provai la versione per bambine di 10 anni di una disperazione profonda. Tutto ciò che avevo costruito, tutti i miei nuovi amici, e la mia stessa autostima, tutto sembrava dipendere da questa storia ridicola. E ora lei minacciava di rivelare quello che era: una bugia. Dovevo impedirle di raggiungere l’aula. Le corsi dietro. Era veloce, non era facile. Ma proprio vicino al recinto della sabbia, misi una gamba davanti alle sue come un calciatore italiano e la feci cadere violentemente: subito, il suo ginocchio lacerato insanguinò il cemento.
Giaceva a terra piangente, sporca, sconfitta, e mi rivolse uno sguardo che non ho mai dimenticato. Vi era una domanda inorridita: che razza di persona è questa? Arrivò l’infermiera; portarono Anupma nell’ambulatorio scolastico per medicarla, e per quanto ne so non disse nulla contro di me, né riguardo alle mie bugie, né alla mia noncurante brutalità. Almeno, mi lasciarono andare via indisturbata perché rientrassi in classe. Raggiunsi i miei compagni nell’atrio. «Che cos’è questo rumore?», chiese l’insegnante mentre entravamo nell’aula. Tap tap tap. Ci misi poco a riconoscerlo. Puntine sotto tutte le scarpe.
Narrare storie è una disciplina magica, spietata. Chi racconta storie è spesso tentato di creare una gerarchia nella sua vita, in cui le storie vengono prima di ogni altra cosa, comprese le persone. Parte della mia ansia, rispetto alla narrazione, sta nella consapevolezza di quella parte monomaniacale di me che è disposta a bloccare a terra una bambina pur di preservare l’integrità di una storia. So che questa parte di me esiste, ma cerco davvero di sopprimerla, perché voglio trovare un compromesso tra il raccontare storie sulla vita e viverla bene. 
"The Independent Newspaper",  2014 (Traduzione di Luis E. Moriones)

Dante e il libro di Maometto


Arriva la conferma che nella biblioteca frequentata dal poeta
c'era una copia del viaggio nell'aldilà del profeta dell'Islam 

Corrado Bologna

"Domenica - Il Sole 24 ore", 22 giugno 2014 

Aby Warburg elesse a epigrafe della propria ricerca un motto divenuto celebre: «Der liebe Gott steckt im Detail», «Il buon Dio abita nel dettaglio». Nel dettaglio può nascondersi il buon Dio, ma certo anche il perfido Demonio. In una massa enorme di dati, se si individua con sottile sagacia ermeneutica «il particolare giusto» e si riesce ad aprirlo come un forziere, scaturirà un tesoro inatteso, un'intera visione del mondo. Un piccolo dettaglio, allora, diventerà una cornucopia, una bacchetta magica, una lampada di Aladino.
Le ricerche delle Annales lo hanno dimostrato con dovizia, spesso affidandosi a quell'arte della lettura delle tracce che gli inglesi chiamano serendipity. Abbiamo tutti nella memoria, per evocare un caso luminoso, la straordinaria biblioteca in miniatura del mugnaio cinquecentesco Menocchio, che Carlo Ginzburg dedusse dagli interrogatori dell'Inquisizione, e che permise di restituire un fossile culturale di grande importanza: il "Fioretto della Bibbia", il "libro delle cento novelle del Boccatio", il "cavallier Zuanne de Mandavilla" (cioè i Viaggi di John Mandeville), un perturbante, quasi incredibile Corano. «Ma Menocchio», commentava Ginzburg, «non era Montaigne, era soltanto un mugnaio autodidatta».
Quel Corano tra le mani di un mugnaio del XVI secolo in odore d'eresia brilla come una pepita d'oro nella ganga della miniera. Da un'altra miniera strepitosa, gli elenchi dei libri posseduti dalle biblioteche dei grandi Ordini mendicanti dei secoli XIII-XIV e smarriti lungo i secoli, è stato appena scavato un altro simile diamante rarissimo, dalla forma curiosa, che permette d'essere incastonato alla perfezione in un'elegante collana di ricerche avviate giusto un secolo fa.
Il giacimento è la «piccola ma significativa biblioteca messa insieme da un frate converso domenicano fuori del comune di nome Ugolino, di cui per ora sappiamo soltanto che all'inizio del Trecento svolse il compito prestigioso di "arcarius" e cioè di "guardiano" della celebre arca sepolcrale di san Domenico, eseguita nel 1267 per l'omonima chiesa bolognese da Nicola Pisano e dalla sua bottega». L'elenco dei libri, che in età avanzata Ugolino decise di regalare al proprio convento, Luciano Gargan l'ha ricavato dall'atto di donazione (1312) conservato in una pergamena dell'Archivio di Stato di Bologna che in realtà era già stata pubblicata mezzo secolo fa da due storici dell'ordine domenicano, rimanendo però del tutto inerte in fondo a uno studio per specialisti. A valorizzarlo in una dimensione di storia della cultura, in particolare di cultura dantesca, è oggi la métis di Gargan, cioè il suo fiuto, la sua capacità di riconoscere i dettagli importanti immersi nel magma e di collegarli in una sottile ricostruzione filologica e storiografica. Storicizzati, i dettagli respirano, tornano a parlare di vita, di potenzialità e di realtà.
Tutte le ricerche di Gargan «per la biblioteca di Dante» sono zeppe di materiali interessantissimi. Le raccoglie ora un importante libro dell'Editrice Antenore (che sempre più si conferma faro sicuro nel settore degli studi su Medioevo e Umanesimo): una piattaforma di sintesi e di messa a punto anche bibliografica essenziale per qualsiasi futura indagine sulla cultura dantesca. Piacerebbe avere spazio per illustrare le tante novità che offre, specie sulla presenza dei Vittorini. Ma mi limito all'ultimo fra i 14 libri dell'elenco notarile bolognese del 1312, che mi fa sobbalzare mentre leggo: «Item voluit frater Hugolinus predictus quod huic donationi adderetur liber qui dicitur Scala Mahometti... ». Dunque, fra Ugolino "aggiunse" ai libri di teologia e di filosofia regalati alla biblioteca di S. Domenico di Bologna quel famoso e un po' misterioso Libro della Scala di Maometto che (annota giustamente Gargan, nella sua sobria prudenza filologica) «non è menzionato in nessun altro inventario di biblioteca medievale». Dante, durante i suoi studi bolognesi «nelle scuole delli religiosi», poté quindi leggere, tradotta in latino, la storia del viaggio di Maometto nell'oltretomba, accompagnato dall'arcangelo Gabriele.
«Poté» leggere: non «lesse certamente». È chiaro che su questo punto le polemiche tra i filologi si accenderanno. A me pare tuttavia che questo dettaglio rappresenti una punta di diamante fortissima, incisiva, per stabilire un affidabile paradigma di compatibilità logica, storica, documentaria. Per la prima volta abbiamo la prova sicura che, negli anni stessi in cui Dante scriveva la Commedia, in una delle biblioteche in cui è verosimile che egli abbia studiato si conservava il Libro della Scala, forse nella stessa versione latina approntata nel 1264 nella Toledo di Alfonso X "il Saggio" dal notaio Bartolomeo da Siena. La pubblicò nel 1949 Ernesto Cerulli, traendola da un codice parigino segnalato nel 1944 da Ugo Monneret de Villard, e congetturando che Brunetto Latini, maestro di Dante e ambasciatore di Firenze a Toledo, potesse essere stato mediatore dell'arrivo dell'opera in Italia (un'utile traduzione italiana, con il testo latino a fronte, procurò l'anno scorso un'allieva della Corti, Anna Longoni). Cerulli puntualizzava le acute ricerche del grande arabista spagnolo Miguel Asín Palacios che per primo, nel 1919, con L'escatologia islamica nella Divina Commedia, aveva segnalato l'affinità dell'impianto concettuale e figurale dell'architettura dell'aldilà dantesco rispetto a quello islamico (Carlo Ossola, definendolo «una delle poche opere-guida nella produzione erudita europea del ventesimo secolo», lo fece tradurre nel 1994). Oggi, scoprendo che nel 1312 i domenicani bolognesi possedevano il Libro della Scala, la questione va riaperta con un livello di compatibilità molto più alto.
Mentre leggo Gargan penso al sorriso solare che sarebbe sbocciato, se avesse potuto conoscere questi studi, sul volto di Maria Corti, la grande maestra coraggiosa, generosissima, che negli ultimi anni di una vita intensamente dedicata in particolare alla ricerca su Cavalcanti e Dante riprese con intelligenza l'idea di Asín Palacios, segnalando «un possibile influsso sulla metafisica della luce dantesca» da parte del Libro della Scala, ma ribadendo prudentemente che l'influenza «è più strutturale che puntuale, cioè tale da aver agito soprattutto sull'idea organizzativa del poema, e solo localmente su qualche episodio».
Quel sorriso lo immagina di certo anche Gargan quando proprio a Maria Corti dedica un altro dei suoi capitoli innovativi sui libri di logica, filosofia e medicina «che Dante poté avere occasione di leggere o rileggere mentre soggiornava a Bologna». In un inventario del 1286 (lo scoprì nel 2008 Armando Antonelli), legato a «un singolare processo in cui si trovò coinvolto il medico Tommaso d'Arezzo», per la prima volta si trova una traccia sicura della circolazione bolognese delle opere di Sigieri di Brabante e di Boezio di Dacia, che la Corti, nel suo bellissimo Dante a un nuovo crocevia (1981), propose fossero stati studiati direttamente da Dante, e poi allegoricamente cifrati nella Commedia in «un rapporto simbolico fra la vicenda di Ulisse e il pensiero degli aristotelici radicali» (fra cui Guido Cavalcanti, compagno di studi di Dante proprio a Bologna). Trent'anni fa la polemica divampò, e si disse che non esistevano prove che Dante avesse letto quei testi. L'inventario del 1286, oggi studiato minuziosamente da Gargan, dimostra che «l'incontro di Dante con l'averroismo latino» assai probabilmente ci fu, e «poté avvenire nella facoltà di arti e medicina di Bologna». Il buon Dio, abita nel dettaglio!

L'urna della dea bendata


Dalle belle pagine di Giordano Bruno dedicate alla Fortuna 
si possono trarre riflessioni critiche sul mondo attuale

Nuccio Ordine


"Domenica - Il Sole 24 ore", 22 giugno 2014 

«Ecco l'eccellente stupidità del mondo. Quando siamo vittime della fortuna, incolpiamo delle nostre sciagure il sole, la luna, le stelle, come se fossimo canaglie per necessità, furfanti, ladri e traditori per il dominio di quelle sfere»: nel Re Lear, Edmund distingue in maniera chiara le responsabilità degli uomini da quelle della Fortuna. Non serve a nulla dare la colpa alla dea bendata, al fato, alla malasorte se noi siamo dei «malfattori, dei ladri, delle canaglie». 
Sarebbe impossibile voler ripercorrere in un breve intervento ciò che gli esseri umani – nella letteratura e nell'arte, nel mito e nella filosofia – hanno voluto rappresentare sotto le spoglie della dea Fortuna. Dispensatrice della cattiva o della buona sorte, antagonista per eccellenza della virtù, ministra della provvidenza divina, espressione della casualità, messaggera delle disposizioni dei pianeti e delle stelle, occasione (kairòs) per mettere alla prova la virtù, impietosa dominatrice della ruota delle vicissitudini, alla dea bendata sono stati attribuiti, nel corso dei secoli, ruoli opposti e contraddittori. 
E per evitare di scivolare nelle sabbie mobili delle infinite occorrenze, ho voluto limitare il mio intervento alle bellissime pagine che Giordano Bruno dedica al tema della Fortuna nel suo dialogo Lo spaccio de la bestia trionfante, pubblicato a Londra nel 1584. Qui la dea bendata smonta con molta finezza tutte le accuse. E spiega che il suo ruolo incarna una necessità: nessun essere umano può scampare, infatti, all'urna della mutazione. Ma solo pochi, purtroppo, saranno favoriti da una mano che non può commettere ingiustizie, perché proprio la cecità garantisce la totale uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla sorte («Non veggio mitre, toghe, corone, arti, ingegni ...; e però quando dono, non vedo a chi dono»).
All'interno di questo meccanismo naturale non c'è possibilità di infliggere torti. La comune radice degli esseri umani viene rispettata. Nell'urna ogni «schedula è uguale a quella di tutti gli altri». Ma se la Fortuna estrae una moltitudine di ladri e di inetti la colpa non è sua. Non può esserle attribuita una responsabilità che riguarda la Virtù o la Verità. Come sarà possibile estrarre uomini virtuosi e onesti se nell'urna vengono depositati, assieme a «otto o nove» individui di valore, «otto o novecentomila» esseri bestiali e imbroglioni?
La dea bendata riconosce all'uomo la possibilità di poter condizionare gli eventi. Alla necessità che siano pochi a governare («Non è errore che sia fatto un prencipe: ma che sia fatto prencipe un forfante»), segue la possibilità che sia l'umanità stessa a determinare in maniera positiva questa scelta: «Or non è possibile che un principato sia donato a tutti; ma l'errore consiste che quel l'uno è vile, che quell'uno è forfante». Bruno aveva pensato già due anni prima, nel Candelaio, a teatralizzare la sua visione tutta umana della Fortuna. Gioan Bernardo – che con la sua astuzia conquista la bella Carubina – si vanta di esser riuscito a «apprendere pe' capelli l'occasione»: un'espressione che allude all'atteggiamento «impetuoso» di un famoso passaggio del capitolo XXV del Principe, in cui Machiavelli invita a non essere «respettivo» (cioè a non procedere con cautela) perché «la Fortuna è donna, e è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla». 
Sempre nel Candelaio, il tema della Fortuna come occasione, come irripetibile opportunità che bisogna afferrare al volo, si manifesta anche nella favola dell'asino e del leone. I due animali, infatti, decidono di andare a Roma e di passare un fiume montando, a turno, l'uno sull'altro. All'andata spetta all'asino. E il felino, temendo di cadere in acqua, «sempre più e più gli piantava l'unghie ne la pelle di sorte che gli penetrorno in sin all'ossa». 
Otto giorni dopo, il leone prende su di sé l'asino: «Il quale essendogli sopra, per non cascar ne l'acqua, co i denti afferrò la cervice del leone: e ciò non bastando per tenerlo su, gli cacciò il suo strumento (o come vogliam dire, il tu-m'intendi), per parlar onestamente, al vacuo sotto la coda, dove manca la pelle». Alle vibrate proteste del felino, l'asino risponde: «vedi ch'io non ho altr'unghia che questa d'attaccarmi». La favola, insomma, insegna che «nisciuno è tanto grosso asino, che qualche volta non si serva de l'occasione».
Le pagine eloquenti dello Spaccio e del Candelaio dedicate alla Fortuna, mi sembra inutile dirlo, non hanno niente a che fare con il nostro presente. Eppure, a rileggerle bene, finiscono per stimolare – come ogni buon classico dovrebbe fare – una riflessione critica sul mondo che ci circonda. Non possiamo considerare ingiusto che ci sia un principe, ma è profondamente ingiusto che quel principe sia un furfante. 
I recenti eventi di cronaca legati all'Expo 2015 o al Mose, al Monte dei Paschi di Siena o alla Carige, alle mutande di un ex governatore o ai gratta e vinci di anonimi consiglieri regionali non fanno certo pensare al cattivo influsso della Fortuna.
L'orazione della dea bendata non ammette eccezioni: se dall'urna vengono estratti furfanti è solo perché la Virtù, la Sapienza o la Giustizia sono state bandite dalla nostra società fondata sulla folle avidità del guadagno. Solo a noi spetta, insomma, riabilitare quei valori positivi in grado di disinfestare l'urna da ladri e da furfanti e di consentire alla Fortuna di estrarre un principe virtuoso.
Per cui, se non saremo capaci di promuovere quella radicale rivoluzione morale suggerita dalla dea bendata nello Spaccio di Giordano Bruno, sarà perfettamente inutile, come ci ricorda pure Shakespeare, continuare a lamentarci e a imprecare contro l'ingiusto Fato o contro il terribile Destino. Quel Fato e quel Destino contribuiamo a costruirlo noi stessi, stando insieme, giorno per giorno, anche con i nostri gesti e con le nostre azioni più umili. 

Machiavelli e il Nobel North
Gli argini alla sfortuna 

Paolo Legrenzi


Cinquecento anni fa, nel capitolo XXV de Il Principe, Niccolò Machiavelli cerca di rispondere alla domanda: «Quanto conta la fortuna nelle umane vicende e in che modo ci si può opporre ad essa». Per Machiavelli la fortuna è quella che oggi chiameremmo sfortuna. Lo chiarisce bene paragonandola «a uno di quei fiumi Rovinosi che, quando si adirano, allagano le pianure, travolgono gli alberi e gli edifici... tutti fuggono davanti a loro, ognuno cede al loro dominio senza potervisi opporre in nessun modo». Bisogna costruire argini e prevenire il debordare dei fiumi: «la fortuna dimostra la sua potenza dove non è stata predisposta virtù che le resista». Armando Massarenti spiega nell'elegante riedizione de Il Principe curata dal Sole 24 Ore, che le virtù di Machiavelli sono le virtù epistemiche, quelle che «hanno a che vedere con la reale capacità di sapere, e di conseguenza prevedere, di che pasta sono fatti gli uomini, come si comportano nelle mutevoli e imprevedibili vicende che li vedono coinvolti».
Settanta anni fa, Douglass North non si unì ai suoi compagni che venivano a liberare l'Europa. Scelse invece di fare l'obiettore di coscienza. S'imbarcò su un cargo portando con sé molti libri e sessanta anni dopo, diventato premio Nobel dell'economia, scrisse Capire il processo del cambiamento economico. North interpretò gli ultimi cinquecento anni come una progressiva limitazione del domino della fortuna sul nostro destino. Machiavelli pensava che la fortuna fosse «arbitra della metà delle nostre azioni», e che ne lasciasse «governare l'altra metà, o quasi, a noi». Noi siamo riusciti ad aumentare molto questa seconda metà. Parte dell'incertezza l'abbiamo domata inventando le assicurazioni, cioè il calcolo dei pericoli: «Ad esempio – dice North – nel XV secolo lo sviluppo dell'assicurazione marittima, che comportava la raccolta e il confronto d'informazioni, circa le navi, i carichi, le destinazioni, i tempi di viaggio, i naufragi e i relativi risarcimenti, ha trasformato l'incertezza in rischio». Un'altra buona parte è stata eliminata grazie ai progressi delle scienze naturali e umane, e delle tecnologie. Tutto a posto, allora? Non proprio. Oggi non abbiamo di fronte un principe da convincere, bensì dei decisori pubblici. Spesso, pur di suscitare facili consensi, trascurano la necessità di dialogare con gli esperti. Oggi sapremmo come evitare che i fiumi debordino, ma talvolta sembra che non si voglia farlo.