mercoledì 31 ottobre 2012

Quando è nata l'Europa?


La culla dell'Europa sotto le mura di Troia

Un'identità che nasce con i poemi di Omero

Paolo Mieli, "Corriere  della Sera", 30 ottobre 2012

Nel 417 Claudio Rutilio Namaziano, prefetto di Roma, si imbarca al porto di Ostia per tornare in Provenza, sua terra natale. Sette anni prima (nel 410), Roma è stata presa e saccheggiata dai Goti di Alarico, che da quel momento spadroneggeranno sulle strade consolari. Rutilio Namaziano ha scelto così la via del mare per raggiungere la Gallia, dove va a sincerarsi se i Vandali, che sono transitati di lì per andare a conquistare l'Africa del Nord, hanno devastato e depredato anche le sue proprietà. Case e terreni nei quali Rutilio Namaziano ha in progetto di trasferirsi definitivamente. A quel viaggio, contrassegnato da numerose e lunghe soste, l'ex prefetto dedica un magnifico poema, De Reditu Suo (Il ritorno, pubblicato da Einaudi a cura di Alessandro Fo), in cui rimpiange la Roma che fu, elogia con punte di commozione i riti pagani a dispetto di quelli cristiani, esprime ammirazione nei confronti del generale Costanzo, che ha da poco sconfitto i Goti in Iberia. Dalla malinconia dei versi si intuisce che Rutilio Namaziano si fa poche illusioni circa la portata della vittoria di Costanzo, è consapevole che un mondo va scomparendo, e avverte la sensazione di essere alla fine della storia sua e forse anche della civiltà. Ma qui il poeta sbaglia.

Scrivono Simon Price e Peter Thonemann in un libro, assai originale, che sta per essere pubblicato da Laterza, In principio fu Troia. L'Europa nel mondo antico: «Rutilio pensa che sta lasciando il centro (Roma) per tornare a casa nella periferia (la Gallia), ovvero crede ancora di vivere nel mondo antico… In realtà egli si trova sulla soglia di un mondo nuovo, dove le periferie sarebbero diventate centri a pieno diritto e in cui la Gallia, alla fine del V secolo d.C., sarebbe stata molto più florida di Roma». È partito dalla Roma del passato ed è giunto nell'Europa del futuro. Già, ma quando è nata quell'Europa? Qual è la sua storia antica?
L'Europa in qualche modo aveva cominciato a profilarsi come tale nel I secolo d.C., quando, in tutte le province occidentali dalla Spagna alla Britannia, si notò una grande diffusione delle ceramiche aretine, recipienti di terracotta usati per cuocere, conservare e consumare cibi e bevande. Ceramiche che in forma ben più rudimentale e in misura infinitamente minore avevano cominciato a circolare già cinque o sei secoli prima. Nell'Europa nordoccidentale preromana la fonte principale di carboidrati, scrivono Price e Thonemann, era stata fino a quel momento una pappa di cereali inzuppata in una scodella di birra: la comparsa delle ceramiche aretine di cui si è detto segnò il passaggio, almeno per le élite, alla cottura del pane. Quelle stesse élite celtiche iniziarono poi ad assaporare vino importato — anche qui si era iniziato centinaia di anni prima — da Massalia (Marsiglia); mentre le classi più povere ancora bevevano birra di frumento mescolata con il miele o birra d'orzo senza aggiunte. Nel corso di quel primo secolo dell'era cristiana il consumo della birra andò declinando a vantaggio di quello del vino, prodotto per oltre la metà nella regione di Besançon in vigneti gallici.
Il mercato delle ceramiche di tipo romano raggiunse proporzioni tali che nella Gallia meridionale cominciarono a fiorire officine che ne producevano ottime imitazioni a beneficio del mercato locale. La più nota si trovava a La Graufesenque, nei pressi di Millau, regione francese Midi Pirenei: i piatti di La Graufesenque si diffusero non solo nelle province galliche, ma anche in Britannia e persino nell'Africa del Nord. Particolare molto importante è che su ogni singolo prodotto di quel vasellame era apposto un sigillo con il nome del produttore o del destinatario, tradotto dal celtico in latino. I vasai di La Graufesenque volevano apparire romani in tutto e per tutto e a tal fine quegli stessi vasai adottarono, per la loro pregiata opera, la lingua di Roma. A poco a poco gli idiomi locali cedevano il posto al latino (a Occidente) e al greco (a Oriente).
È in questo momento che molte delle varie lingue dell'Asia minore (il licio, il lidio, il galatico, il cario) spariscono dalle iscrizioni su pietra, dai papiri, dalle tavolette scrittorie e dagli stampi di ceramica. Solo nella campagna più sperduta può accadere che, nel III secolo d.C., il frigio resista su qualche pietra tombale, peraltro bilingue; stesso discorso vale per il pisidio. Per il resto niente o quasi niente. Così fa una certa impressione leggere all'interno del Nuovo Testamento, negli Atti degli Apostoli, che a metà del I secolo, quando Paolo e Barnaba arrivarono nella piccola colonia romana di Listra, la popolazione locale li salutò «in licaonico». «Non ci resta neanche una parola della lingua licaonica», osservano Price e Thonemann, «evidentemente sia a La Graufesenque sia a Listra c'era una netta divisione tra le lingue dell'amministrazione e degli affari pubblici (rispettivamente latino e greco) e le lingue che la gente parlava effettivamente nella vita quotidiana (celtico e licaonico)».

Ma torniamo alla storia e alla storia antica (che si confonde con quella mitica). Colpisce il fatto che nella mitologia greca il nostro continente abbia le sue origini fuori dall'attuale Europa, sull'altra sponda del Mediterraneo. Nelle Metamorfosi di Ovidio, Europa è la figlia di Agenore, re di Tiro (Sidone) in Fenicia, una ragazza che, mentre gioca con le sue amiche sulla riva del mare, viene conquistata da Zeus con le sembianze di un toro alato, ne è rapita e lo segue sulla sua groppa a Creta. Qui Zeus riprende il suo aspetto e si congiunge a lei generando Minosse, fondatore della civiltà che da lui prende il nome. Ma a ribadire la circostanza delle origini africane c'è che Agenore di Tiro mandò un altro suo figlio, Cadmo, a cercare la sorella Europa: fu nel corso di questo viaggio alla ricerca della sorella che il fenicio Cadmo si fermò in Beozia e fondò Tebe, dando origine a una dinastia che avrebbe regnato fin dopo la guerra di Troia. Va notato che «Europa, Cadmo e Agenore furono figure puramente greche, senza alcun ruolo nella mitologia fenicia indigena». Solo in un secondo tempo, nel II secolo a.C., quei personaggi entrarono a far parte della mitologia nordafricana.
In ogni caso Martin Bernal già qualche anno fa, nel libro Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica (il Saggiatore), approfondì la questione e giunse a due conclusioni: che, incontestabilmente, le origini della civiltà greca andassero cercate in Africa, a suo avviso specificamente in Egitto; e che questa realtà era stata «occultata in maniera sistematica e deliberata» dagli studiosi occidentali sin dal XVIII secolo, «per eurocentrismo o per aperto razzismo». Mary Lefkowitz, studiosa del Massachusetts, in un altro libro, Black Athena Revisited, ha confutato punto per punto le tesi di Bernal. Ma Simon Price e Peter Thonemann, dopo averle riesaminate, sostengono che esse reggono alla missione di «contrastare lo sminuimento culturale di popolazioni di origine africana, operato da teorie implicite o affermazioni esplicite secondo le quali non sarebbe mai esistita una grande cultura africana che ha contribuito complessivamente alla civiltà mondiale e secondo le quali i neri siano sempre stati schiavi». Ciò che, proseguono, «ci sembra ragionevole, equilibrato e ben argomentato». Anche se si sentono in dovere di aggiungere: «Se sia il modo corretto di fare storia oppure no, lo lasciamo decidere al lettore».
In ogni caso i primi contatti dei Fenici con il Mediterraneo occidentale sembrano risalire al X e IX secolo a.C.; ma solo a partire dall'inizio dell'VIII i mercanti nordafricani diedero vita a insediamenti stabili. La diaspora fenicia «fu sbalorditiva per la sua rapidità». A cavallo di due secoli, i Fenici avevano fondato insediamenti in Tunisia e in Sicilia occidentale, tra cui Palermo, a Malta, in Sardegna, a Ibiza, sulla costa andalusa della Spagna. Un secolo dopo, attorno al 600 a.C., i Greci fondarono Massalia, l'odierna Marsiglia.
Comunque all'inizio fu definito Europa tutto ciò che si trovava a ovest dell'Asia, dell'Ellesponto, delle terre dominate dai Persiani. E all'origine fu la guerra di Troia. Per i Greci e per i Romani Troia è la città a cui risale la memoria, in cui il mito ha iniziato a farsi storia: essa è sì alle frontiere dell'Asia, ma «storicamente» è in Europa (vale ricordare che la Daimler Benz per aver sponsorizzato i nuovi scavi nel sito di Troia iniziati nel 1988, è stata premiata dall'Unesco per l'opera a favore del «patrimonio culturale europeo»). Per i Greci, i Romani e anche altri popoli «la guerra di Troia e gli eventi immediatamente successivi costituirono il limite più antico della loro consapevolezza del passato e divennero le fondamenta dell'identità europea».
All'inizio del primo millennio a.C. la distinzione più chiara non è quella tra Est e Ovest, ma fra paesi a nord e a sud delle Alpi. E a nord cosa c'era? Sono state trovate le tracce di qualcosa di importante anche a nord, come l'insediamento, piccolo ma fortificato, di Sobiejuchy, nella Polonia centrosettentrionale, probabilmente abitato tra l'Età del Bronzo a quella del Ferro, un sito che può servire da modello per altri insediamenti centroeuropei di quello stesso periodo. Sobiejuchy, grande circa sei ettari (la coeva Micene occupava quattro ettari), sorgeva su un'isola in un lago ed era difesa da una palizzata di legno. Era fondata su un'economia rurale di sussistenza, con una coltivazione intensiva di una gran varietà di raccolti: miglio, grano, spelta, farro, fagioli, lenticchie e piselli; si allevavano maiali, pecore, cavalli, si pescava e si catturavano animali selvaggi.
Nell'Età del Ferro la regione a nord delle Alpi, a est della Borgogna e a ovest della Repubblica Ceca vide nascere un gruppo culturale stabile e relativamente omogeneo chiamato «cultura di Hallstatt», dal nome di un paese dell'Austria famoso per le miniere di salgemma. Questa cultura nel VI secolo a.C. man mano che, come si è detto, i beni di lusso di manifattura mediterranea cominciarono a viaggiare verso nord lungo il corridoio del Reno, subì una grande trasformazione: «Emerse una nuova classe dirigente che risiedeva in città collinari fortificate in stile greco e che si distinguevano da quelle contemporanee per l'utilizzo di beni di lusso greci». I nobili di Hallstatt furono «consumatori di vino massaliota» e compratori di grandi quantità di vasellame greco da degustazione.
Ma se questo è il poco che si era sviluppato in quello che è oggi il centro del nostro continente, l'Europa di quei tempi giocava la sua partita sull'Ellesponto. Nel v secolo gli asiatici furono all'attacco e gli Ateniesi li respinsero a Maratona (490 a.C.), a Salamina (480 a.C.) e a Platea (479 a.C.). Nell'anno di Platea ci fu la crocefissione di Artaitte, l'episodio dal grande valore simbolico che ci collega all'antica storia europea. Due anni prima, il re persiano Serse aveva condotto il suo immenso esercito al di là dello stretto, con lo scopo di annettere l'intera penisola greca all'impero persiano. Per trasportare l'armata al di là dell'Ellesponto, il gran re aveva unito le due coste con un ponte di barche e si addentrava nell'Europa. In quei giorni Artaitte, governatore per conto di Serse della città di Sesto, aveva «dato ai Greci del luogo una lezione memorabile sul potere persiano» saccheggiando la tomba di Protesilao, sepolcro sacro della guerra di Troia. Protesilao era stato, secondo Omero, il primo greco a essere ucciso appena balzato a terra sulla costa della Troade; la crocefissione di Artaitte fu dunque, ai tempi della sconfitta definitiva di Serse, la vendetta simbolica nei confronti di chi aveva osato violare la memoria della vittoria dell'Occidente sull'Oriente, dell'Europa sull'Asia. Di chi, in altre parole, aveva avuto l'ardimento di mettere in dubbio la supremazia europea, destinata da quel momento ad essere definitiva.
All'inizio del V secolo, il Giro della terra di Ecateo di Mileto, il primo tentativo di descrivere una geografia universale, fu diviso in due libri, il primo si chiamava «Europa», il secondo «Asia». Ecateo descrisse il mondo abitato come un «disco circolare abbracciato dall'Oceano». Tale disco era diviso in due metà uguali, l'Europa e l'Asia appunto, separate da una sola striscia d'acqua, il Mediterraneo e il Mar Nero legati tra loro dall'Ellesponto. Nel 449 a.C., quando gli Ateniesi inflissero un'altra sconfitta alla flotta e all'esercito dei Persiani, il monumento celebrativo ateniese affermava che non c'era stata una vittoria più grande «da quando l'Oceano divise l'Europa dall'Asia». Ma non c'era nessun disprezzo per gli asiatici. Erodoto di Alicarnasso, greco nato sulla costa dell'Asia Minore, nelle Storie seppe descrivere anche i popoli «non europei», le «razze barbare» con «acutezza e simpatia». Tebe ai tempi di Platea si era schierata dalla parte dei Persiani, ma non fu mai considerata una città non greca.
Questo dimostra che, anche se era molto importante sapere chi, in battaglie cruciali, era stato dalla parte dei vincitori e chi da quella dei perdenti, l'Europa non confuse mai il proprio diritto ad esistere con un senso di alterità e superiorità nei confronti degli «altri». Del resto, all'inizio della Guerra del Peloponneso, Tucidide osserva che il termine «barbaro» non è mai usato in Omero, «per il fatto che gli Elleni, a mio parere, non erano ancora riuniti sotto un nome distinto che si opponesse a quello dei barbari». Si tratta, scrivono Price e Thonemann, di «un'osservazione molto acuta». L'Iliade mostra «scarso interesse per le differenze etniche o culturali tra gli Achei e i Troiani»: Tucidide «ha colto il punto cruciale per cui il concetto di barbaro è inestricabilmente legato all'idea di grecità: solo quando i Greci cominciarono a considerarsi un unico popolo con caratteristiche comuni (templi, lingua, antenati), impararono a guardare ai non greci come ad un unico gruppo». Omero non ha alcuna idea di divisione del mondo in due continenti separati. Almeno fino all'Inno omerico ad Apollo, che è del VI secolo a.C., Europa è solo «un termine comodo per la Grecia continentale a nord dell'Istmo, senza alcuna delle connotazioni geografiche e politiche più ampie che avrebbe sviluppato due secoli dopo».
Si calcola che nel 400 a.C. il mondo greco ospitasse almeno 862 città-Stato indipendenti, la stragrande maggioranza delle quali erano situate nel bacino egeo. La loro fu la prima cultura veramente urbana a emergere in Europa: la popolazione totale della Beozia classica può essere stimata tra i 165 e i 200 mila abitanti, di cui circa 100 mila (il 50 per cento o più) vivevano in centri urbani. Si tratta di una percentuale «eccezionalmente alta», fanno notare i due storici; 2.400 anni dopo, nel Settecento, la popolazione urbana dell'Europa nel suo complesso sarebbe stata all'incirca solo il 12 per cento di quella totale: «Nei Paesi Bassi, una delle regioni più urbanizzate dell'Europa continentale, la popolazione arrivava forse al 40 per cento». Va anche detto che quella ateniese era una singolare eccezione. La poco lontana Tracia, equivalente all'odierna Bulgaria, per come ce l'ha raccontata Senofonte, aveva villaggi che consistevano in «una manciata di capanne di legno, ognuna circondata da un'area recintata per il bestiame». Niente di più.
L'impero ateniese del V secolo era diverso da qualsiasi altro Stato mai esistito e da quelli ancora esistenti in Europa fino ad allora. C'erano 700 funzionari ateniesi in servizio permanente all'estero, più del quadruplo di quanti Roma ne avrebbe mandati secoli dopo ad amministrare le province di tutto il proprio impero. Atene imponeva ad ogni città sottomessa l'adozione di pesi, misure e monete uniformi. E in quel periodo gli Ateniesi cominciarono a registrare su pietra inventari dei templi, contabilità edilizia, vendite di proprietà ed elenchi di vittime. Un'«abitudine documentaria» che fa di quest'esperienza un unicum nella storia d'Europa nel mondo antico.
Fu quella ateniese una civiltà superiore? Non in tutto. Price e Thonemann sono colpiti per il fatto che in questa storia antica d'Europa le donne ateniesi avessero una condizione peggiore che nel resto del mondo greco. Per esempio, un codice giuridico del V secolo di Gortina, a Creta, mostra che «le donne del luogo potevano possedere ed ereditare beni, sposarsi e divorziare con relativa libertà e persino generare figli liberi da uno schiavo maschio». Allo stesso modo le donne spartane godevano di diritti legali e di un grado di libertà sociale che inorridiva gli osservatori ateniesi e si diceva che «alla fine del IV secolo due quinti della terra spartana fossero posseduti da donne». Resta dunque «il paradosso che lo Stato più egualitario del mondo greco fosse anche uno dei più repressivi nel trattamento delle donne».
L'Europa fece un importante passo avanti nell'affermazione della propria identità con la comparsa sulla scena di Filippo il macedone e poi di suo figlio Alessandro. Già l'oratore ateniese Isocrate definì Filippo «il più grande dei re dell'Europa», un modo per «identificare gli interessi di quel re con quelli dei Greci», senza dover sostenere che era greco lui stesso. E non è certo un caso che a sua figlia, nata poco dopo la vittoria di Cheronea, Filippo diede il nome Europa. Con l'ascesa della Macedonia come potenza dominante nel mondo greco, «essere europeo finì necessariamente per significare qualcosa di più che essere greco». Filippo e Alessandro «nel loro tentativo di unire la sfera culturale greca e quella macedone, potrebbero essere indicati plausibilmente come i primi europei consapevoli». E quando nel 334 a.C. Alessandro si apprestò a varcare l'Ellesponto, volle prima rendere omaggio alla tomba del Protesilao di cui si è detto e, appena la sua nave approdò sulla costa della Troade, imitò quello stesso Protesilao e volle essere il primo a metter piede sul suolo asiatico.
Dopodiché, se così si può dire, l'Europa travolse l'Asia. Tra il 334 e il 330 a.C. Alessandro conquistò la penisola dell'Asia Minore, la Siria, l'Egitto, il cuore dell'impero persiano cioè la Mesopotamia e l'Iran occidentale fino a spingersi, all'inseguimento di Dario III, in Afghanistan, Uzbekistan e Tagikistan (in quella zona del mondo è stata ritrovata la colonia greca di Ai-Khanoum), in India. Ed è curioso notare che un anno prima di questa colossale impresa, che avrebbe spostato sia pure provvisoriamente in Asia il baricentro dell'impero, nel 335, Alessandro incontrò una delegazione dei Celti. I Celti all'epoca erano scesi dalle foreste del Nord per spadroneggiare nell'odierna Europa, si erano spinti fino a Roma (386) e il grande re macedone fu — forse — sul punto di stringere con loro un'alleanza che ad ogni evidenza, se si fosse realizzata, avrebbe cambiato il corso della storia.
Ma quell'incontro non si concretizzò, così come non ebbe un seguito concreto e duraturo la magnifica avventura di Alessandro in Asia. Toccò a Roma respingere le bande razziatrici venute dal Nord e qualche tempo dopo domare sia i Greci (in soli 53 anni a partire dalla fine della dinastia macedone nel 220 a.C.) che i Fenici. La distruzione di Cartagine e quella di Corinto (entrambe nel 146 a.C.) «segnano un punto di svolta nella storia del Mediterraneo». Da quel momento «anche la conoscenza dell'Europa subì un cambiamento» (i Greci avevano avuto scarso interesse per le aree interne del continente). Le aree dell'Europa centrale si mostrano permeabili alla penetrazione romana. La storia delle società indigene prima della conquista — diversamente da quel che accadeva in Asia — «fu ampiamente dimenticata e rimpiazzata da un passato nuovo e più accettabilmente romano… Le lingue locali entrarono in un rapidissimo declino; persino le pratiche relative al mangiare e al bere furono cancellate dalla diffusione della ceramica e delle colture romane, prima fra tutte la vite».
Fu così che vennero in primo piano popoli un tempo periferici rispetto al mondo greco e che adesso cercavano di assicurarsi un posto in quel mondo, riconnettendo il proprio passato a quello greco più remoto. «Il viaggio di Enea da Troia in fiamme attraverso Cartagine verso l'Italia divenne un punto di riferimento ricorrente per i popoli del mondo romano… La storia che parte da Enea e Romolo, quella dell'ascesa di Roma, che per Agostino d'Ippona (tra il IV e il V secolo d.C.) era la principale città terrena, entrò a far parte del nuovo bagaglio ideologico trasmesso all'Europa cristiana». Il greco divenne l'idioma dominante nel Mediterraneo («il che spiega perché i primi testi cristiani, incluso il Nuovo Testamento, furono scritti in greco e non in aramaico, che pure era la lingua di Gesù»), ma fu il latino che — dopo una lunga stagione in cui l'aristocrazia aveva l'obbligo di essere bilingue — divenne la lingua dominante dell'Occidente. La storia stava procedendo lungo l'itinerario di Rutilio Namaziano, che aveva creduto di andare da un centro ancora vitale (Roma) in una regione priva di prospettiva (l'Europa) e non si era accorto (probabilmente non poteva accorgersi) che stava facendo il percorso inverso.

martedì 30 ottobre 2012

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La lingua italiana nell’era digitale




L'italiano rischia la scomparsa su Internet
La percentuale di chi parla l'italiano è destinata a calare. 
Necessari investimenti sostanziali in tecnologie linguistiche

Carolina Saporiti
“Corriere della Sera”, 28 ottobre 2012

Investire o scomparire. È questo il futuro della lingua italiana su intenet. A dirlo è il rapporto La lingua italiana nell’era digitale, condotto dall’Istituto di linguistica computazionale del Cnr di Pisa (Ilc-Cnr). La percentuale delle pagine web in italiano a livello mondiale è raddoppiata passando dall’1,5% nel 1998 al 3,05% nel 2005 ed è stato stimato che nel 2004, in tutto il mondo, fossero 30,4 milioni le persone che parlavano italiano online.

I NUMERI - Oggi, secondo i ricercatori, la penetrazione del web in Italia si attesta al 51,7%, pari a 30 milioni di internauti su 58 milioni di cittadini (circa il 6,3% di quelli dell’Ue), registrando una crescita del 127,5% tra il 2000 e il 2010. Inoltre al di fuori dei confini dell’Unione Europea, parlano la nostra lingua 520 mila americani, 200 mila svizzeri e 100 mila australiani. Il numero di «navigatori» italiani però è rimasto stabile negli ultimi cinque anni mentre è aumentato il numero di quelli dei Paesi in via di sviluppo. In qualche anno la proporzione di coloro che parlano la nostra lingua subirà dunque una forte diminuzione.

RISCHI - Il rischio? Subire una sotto-rappresentazione, specialmente in confronto all’inglese. Il problema non riguarda solo l’Italia ma la maggior parte degli idiomi europei, specialmente quelli dei Paesi con pochi abitanti. Spiega Claudia Soria dell’Ilc-Cnr: «Il nostro Paese non è tra i peggiori e d’altra parte nessuna nazione dell’Ue ha supporti eccellenti. La situazione è però preoccupante perché le tecnologie linguistiche usate in Internet si basano su approcci statistici e quindi se i dati messi a disposizione in un idioma sono pochi, si innesta un circolo vizioso: pochi dati, tecnologie di bassa qualità, ulteriore limitazione dell’uso di quella lingua».

TECNOLOGIE - L’Italia ha a disposizione buone tecnologie, ma affinché un dispositivo possa riconoscere un idioma sono necessari investimenti sostanziali in tecnologie linguistiche. Al momento, invece, in Europa la maggior parte dei Paesi sta investendo poco o niente. L’ultimo programma di questo tipo promosso dall’Italia risale al 2000-2002. L’italiano come lingua non corre nessun rischio, ma in un futuro prossimo gli italiani potrebbero trovarsi nella situazione di dover usare due linguaggi differenti a seconda che si tratti di comunicazione quotidiana o digitale. «Se l’italiano non viene sostenuto, il suo utilizzo online rischia di atrofizzarsi, dal momento che la nostra vita si svolge sempre di più attraverso la rete», spiega Soria.

STUDIO - Lo studio, condotto dall’Istituto Cnr e dalla Fondazione Bruno Kessler, fa parte della ricerca Meta-Net a cui hanno lavorato più di 200 esperti. Il rapporto valuta il supporto delle tecnologie linguistiche per ogni lingua in quattro aree diverse: la traduzione automatica, l’interazione vocale, l’analisi del testo e la disponibilità di risorse linguistiche. Il 70% si colloca al livello più basso, con «supporto debole o assente» per almeno una delle aree considerate. L’islandese, il lituano, il lettone e il maltese ottengono questo voto per tutte le aree. All’estremo opposto si trova l’inglese, seguito da olandese, francese, tedesco, italiano e spagnolo. Lingue come basco, bulgaro, catalano, greco, ungherese e polacco si collocano nell’insieme «ad alto rischio». «Sono risultati allarmanti», conclude Hans Uszkoreit, coordinatore di Meta-Net. «La maggior parte delle lingue europee non dispone di risorse sufficienti e alcune sono quasi completamente ignorate. Molte di esse non hanno futuro».

Lo studio Meta-Net La lingua italiana nell'era digitale in formato PDF. CLICCA QUI.








Il numero monografico di Limes, Lingua è potere. Sommario.



L. Caracciolo, La convergenza linguistica italiana come conquista democratica. Da coltivare e difendere (articolo pubblicato su la Repubblica il 03/01/2011).

L'Italia si appresta a celebrare i suoi primi 150 anni di unità in un clima sobrio, tendente a ragionevole depressione. Fin troppo evidenti, ripetuti - spesso ripetitivi - gli argomenti che possono inclinarci al pessimismo. Varrebbe la pena soffermarci anche sui successi. Tra i quali forse il più importante è l'affermazione dell'italiano come lingua della grandissima maggioranza dei cittadini della Repubblica.
Le stime di alcuni filologi indicano in una esigua cerchia, pari all'8% degli abitanti del Regno (altri optano addirittura per il 2,5%), gli italofoni all'epoca dell'unificazione nazionale. Gli altri si esprimevano solo nei vari dialetti, spesso fra loro incomunicanti. Sotto la monarchia sabauda la prevalenza dei dialetti diminuirà, senza però che l'italica favella si affermasse come lingua maggioritaria.
Solo con la Repubblica, grazie anche ai mezzi di comunicazione di massa, televisione pubblica in testa, si compie la svolta che porta oggi nove cittadini italiani su dieci a convergere verso la lingua italiana. Come ricorda Tullio De Mauro nel quaderno speciale che Limes, in collaborazione con la Società Dante Alighieri, ha dedicato alla geopolitica delle lingue (“Lingua è potere”), “mai in tremila anni di storia le popolazioni italiane avevano conosciuto un simile grado di convergenza verso una stessa lingua”.
Non si tratta di pura ascesa culturale, né solo della rottura dei vincoli di classe che frenavano la vasta fruizione di uno dei più belli e ricchi idiomi del mondo. È soprattutto una conquista democratica. Raggiunta non per caso in età repubblicana, non con lo Stato oligarchico-liberale né sotto il fascismo.
Il fatto che la grandissima maggioranza dei nostri cittadini abbia accesso alla lingua comune – senza negare l'uso parallelo del dialetto o di altre lingue, minoritarie in Italia – è la premessa fondativa di qualsiasi società democratica. Perché permette di intendersi, di argomentare e di disputare a partire da una comune base linguistica e culturale. 
Non così negli ambiti autoritari. Ad esempio nelle organizzazioni criminali. Dove il ricorso al gergo, spesso modulato su dialetti locali, aderenti a un territorio sottratto al controllo dei poteri pubblici, è usuale e distintivo. Su un piano molto diverso, la tentazione gergale si esprime in certe disposizioni burocratiche, private o pubbliche. 
E sempre più nelle leggi, quando l'opacità espressiva serve a precludere al cittadino la comprensione delle regole del nostro vivere associato, riservata a superiori poteri. Fino al caso delle istituzioni comunitarie, che hanno sviluppato un eurogergo capace di attrarre l'attenzione di filologi irriverenti. 
È proprio sul piano europeo, dove l'italiano è sopraffatto dalla triade linguistico-geopolitica dominante (inglese, francese e tedesco, in quanto idiomi dei cosiddetti “Tre Grandi” - Regno Unito, Francia e Germania), che si svolge oggi un formidabile conflitto di potere su base linguistica. Noi italiani non sembriamo interessarcene troppo, meno ancora il nostro governo. 
A ricordarci che la convergenza linguistica è condizione necessaria ma non sufficiente della democrazia. Specie in Italia, dove l'italofonia diffusa non ha tuttavia prodotto quel grado di convergenza geopolitica e culturale che distingue i paesi usi a discutere, elaborare e difendere il proprio interesse nazionale, da quelli che vi hanno rinunciato. 
Così finiamo per rimetterci alla determinazione altrui. E svuotiamo di senso quella democrazia che la lingua ha contribuito a fondare.

domenica 28 ottobre 2012

Racconti di tutti i colori


Carlo Ossola

"Il Sole 24 Ore", 28 ottobre 2012

Quei giorni di mezzi toni, mezze intenzioni, incerti confini tra un cielo che un pulviscolo vela e una strada titubante: di vento, di cambio di stagione, di umori; quel disagio insomma di non saperci a posto, che non ha colore, indefinibile e tuttavia preciso nel pungere, nello stringerci al nulla: «Un blu che non è nemmeno blu o comunque / è un blu chiaro chiaro e la polvere / sembra mischiata nel l'aria essendo un / poco gialligno il cielo che è stesura di sabbia». Così Amelia Rosselli, in Documento (ora nel prezioso Meridiano appena uscito da Mondadori), per definire quell'«aria di sabbia» che ci veste e ci cancella.
La storia dei colori è il più affascinante percorso per comprendere la volubile incertezza del nostro percepire la superficie di ciò che ci circonda, del definire le cose col nostro sguardo, dell'attraversare la luce e ciò che essa ci disvela – alle varie ore del giorno, dell'anno –, e persino per accertare l'incalcolabile varietà di materie con cui l'uomo nei secoli «s'è fabbricato i colori» quando doveva, in arte o nei manufatti, imitare, riprodurre, le cose che ci stanno intorno. Ove è più, se non in carta, quel «bianco di ossa calcinate» che nel tardo Quattrocento serviva «cum colla dolce» a preparare il «mordente» per stendervi poi sopra «oro in muro», come ci attesta il manoscritto bolognese ora edito presso Olschki? E chi farebbe ancora il verderame alla maniera suggerita dal mirabile manoscritto? «Prendi lamine di rame sottilissime e mettile in un recipiente che metterai sottoterra, in un luogo umido, sotto tre palmi di letame di cavallo, e tienilo 30 o 40 giorni. Poi tiralo fuori e spruzza molto bene le lamine con aceto fortissimo, poi rimettile nel recipiente sotto il letame. Stiano ben coperte per un mese e sarà fatto il verderame». L'autore stesso, nei punti più ardui di queste «trasformazioni di materia in colore», dichiara: «Questa è una opera oculta filosoficale» e bene la definizione s'attaglia al ricercare di Leonardo, allo svanire dei suoi colori e – lo si comprende leggendo i trattati coevi – al l'impossibilità «storica» di un vero restauro oggi, ogni «riparazione» presente non potendo essere, senza più quella «visione della materia», che un rifacimento più che un ripristino.
Si provò a far Teoria dei colori Goethe, e poi anche Wittgenstein nelle sue Osservazioni sui colori. Ma la realtà è che noi vediamo, da un po' più di un secolo, in modo «chimico» e inorganico: ciò che ci viene incontro, che ci veste e ci colora, è un universo di reagenti spalmati sulla superficie del mondo; nei secoli che hanno preceduto il XIX, si vedeva e si viveva in modo «organico»: di terra e di letame, di «succo di erbe» di «cociole d'ova» e calce spenta, e insieme «simbolico» del l'eterno: di lapislazzuli, di oro e di allume, in un impasto di moriente e d'infinito che mai più ci verrà restituito.
Tanto ciò è vero che i Futuristi, che disfecero – con Picasso – il volto dell'uomo, provarono, quasi a risarcimento, a rimescolare i colori del mondo, a reinventare la materia del veduto, a sottrarla al dominio industriale: il prodigioso catalogo di prelievi testuali approntato da Lino Di Lallo (e che ancora cerca un editore) è largamente incentrato su quei testi, testimone Apollinaire: «Nello spazio d'un anno, Picasso visse questa pittura madida, azzurra come il fondo umido dell'abisso, e pietosa» («I pittori cubisti»). L'accenno appena – tra Pascal e Baudelaire – del finale, sui fondali d'abisso, ci ricorda che nel XX secolo la pittura metafisica s'è fatta così, liberando la materia, le paste sulla tela, da ogni richiamo all'esistente per «portarla sopra» (metà ta phusicà) o sotto, nei cieli o negli inferi, purché in una durata garantita dalla gloria o dal terrore non dalla «produzione», come nell'inobliabile passo dell'Adalgisa di Gadda ove anche il cliché del consumismo piccolo-borghese degli otia gozzaniani si riscatta in quel biblico «arancio-fuoco modello Gomorra»: «Quella ammonizione murale: "domenica! Alle ore 15 precise!", in una luce arancio-fuoco modello Gomorra, era la nube affocata di Dio latrante sopra i suoi peccati di cioccolato, l'inesorabile mane techel phares che lo attendeva al saldaconto, in cima d'una settimana di gianduia».
Si passa anzi, dall'uno all'altro secolo, dai «colori critici» alla Faldella: il predominare di «una tinta di borghesia indomenicata», ai colori – meditazione, temprati al «cristallo delle diafanità» (Andrea Zanzotto, Vocabilità, fotoni), capaci di avvolgerci per sempre negli araldici «incanti grigio-zen»: «forse cita Dante o cita fruscii di foglie / scostate dal braccio robusto / spostate dalla gonna americana / nubiloso è l'asfalto della strada / meditazioni ne esalano, incanti grigio-zen» (La maestra Morchet vive, da Fosfeni). E si può giungere più in là, a immaginare il colore non già quale coperta, dipintura, dello spazio bensì freccia del tempo, come il «color tango» dell'Italia di Bonincontro (1940) di Antonio Baldini, oppure – a parabola conchiusa – un «color di tempo svanito»: «Le signore più aristocratiche e formaliste eran vestite da sera. Altre, con quelle pamele che usavano l'altr'anno, pareva si studiassero di riprendere in sordina un color di tempo svanito» (Emilio Cecchi, America amara, 1939). E di colori si tesse, nei grandi poeti, come ha insegnato Max Milner, anche l'ombra – ombra che buio non è, ma prolungamento nell'impercepito, cono d'abbandono o di desiderio, come nella rievocazione che Sereni ci offre del mito di Rimbaud, quell'«ombra volpe o topo che sia / / sfrecciante via nel nostro sguardo / irrelata ignorandoci nella luce calante...» (Rimbaud, scritto su un muro). Il colore insomma, quell'entre-deux tra materia e persona, tra percezione e memoria, tra convenzione e invenzione, è l'impalpabile e sovrano «ambiente» del nostro scorrere nel relativo; e la poesia e le arti sole s'incaricano di «staccarlo» dal tempo per farne sinopia d'eternità: colore a venire, nome a venire, come nelle Botteghe color cannella di Bruno Schulz: «Oh, verdi più verdi dello stupore, oh, preludi e cinguettii di colori appena intuiti, ancora in cerca di un nome!». Oppure istanza finale, oltre ogni visione, s'insinua la certezza che a voler veramente fissare, fissare il tempo, interrogare le cose, scrutare in noi, un colore solo s'allarghi a macchia, cancelli gli altri, pareggi finalmente i conti: «Non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile / è il colore del vuoto?» (Vittorio Sereni, Autostrada della Cisa).

i libri di cui si parla

Per l'editore Leo S. Olschki è appena arrivato in libreria Un trattato universale dei colori. Il Ms. 2861 della Biblioteca Universitaria di Bologna, a cura di Francesca Muzio, Firenze (pagg. 312, € 32,00). Si tratta di uno dei più importanti ricettari tardo medievali per la preparazione dei colori, trascritto e pubblicato nel 1887 da Guerrini e Ricci con il titolo «Il Libro dei colori. Segreti del secolo XV». Ma delle 393 ricette in latino e volgare, di cui questo volume raccoglie anche la versione in italiano moderno furono pubblicate nel 1758 solo quelle relative agli smalti.

L'architetto Lino Di Lallo (giù autore di Quo Lapis?, Einaudi, 1994) ha predisposto ora la raccolta, Tavolozza d'autore, pagg. 230 circa, che attualmente è in attesa di un editore.

Colori nell'arte: 
A. Boatto, Di tutti i colori, Laterza, 2008

"La nostra percezione visiva del colore è mutata in profondità da quando ci troviamo, non già circondati, ma immersi nel mondo artificiale. Fra i colori naturali e quelli prodotti dall'industria non esiste continuità, ma differenza, scarto, distanza. La stessa differenza che separa una rosa di carta da una rosa piantata nella terra e cresciuta al soffio aperto dei venti.
I colori industriali sono, nella loro essenza, colori piatti, privi di spessore e mancanti al proprio interno di qualsiasi oscurità. Sono colori che non suscitano alcun richiamo ad altre fasce sensoriali, a cominciare in particolare dal tatto. Capovolte sono le qualità che incontriamo invece nei colori che scorgiamo nella natura: questa ci fornisce un vasto e sontuoso assortimento di colori densi, profondi e che provengono dal "dentro".
Come accade in un colloquio intimo, e non già in una chiacchiera corrente, le voci che vi prendono parte conservano ancora una nota di silenzio. In fondo, quando ci troviamo in presenza di un colore della natura, non ci limitiamo unicamente a guardarlo ma siamo spinti a toccarlo, a sfiorarlo con la punta delle dita. Dalla vista, l'atto della percezione sconfina nel senso del tatto. I colori artificiali, anziché sollecitarla, sono portati a bloccare ogni compromissione tattile".

L'eloquenza del silenzio


Dilata i confini della nostra comprensione proiettandoci nell'ascolto più profondo
Aldo Grasso
"Corriere della Sera - La Lettura", 28 ottobre 2012

L'unica forma di silenzio che ci resta è infilarci le cuffie dell'iPod. Ma non è silenzio, è isolamento, una sottile forma di autismo sociale. Prima o poi, però, bisogna fare i conti con il silenzio; finora ci ha rubato troppo tempo il rumore. Ricordo che una decina di anni fa il «New York Times» aveva sigillato in un disco di nichel i suoni più rappresentativi del ventesimo secolo in modo tale che, nel 3000, i nostri discendenti potessero riascoltare la colonna sonora del chiassoso Novecento.
La «capsula del tempo», però, riservava una sorpresa: al posto di Elvis Presley, dei Beatles, dei Rolling Stones, di Bob Dylan, di Bruce Springsteen c'erano solo i rumori di un tosaerba, di un elicottero, di un motore a scoppio, di un ascensore che si ferma al piano, di un aereo che decolla, di uno sciacquone, di un clacson e altri simili. Rumori della quotidianità, rumori spesso fastidiosi, esasperanti, intollerabili. Come mai? Le case discografiche non avevano voluto concedere il copyright delle canzoni che avevano segnato la cultura musicale del secolo. Così l'astuzia della storia si era presa una rivincita decretando l'esecrato rumore come vero timbro sonoro dei nostri anni: il suono del lavoro, della vita che pulsa, della tecnica ma anche dell'insensibilità, della sparizione del silenzio.
Quando assisto a certi talk show mi viene da invocare il ripristino dei «silentiares». Nelle corti imperiali bizantine del IV secolo erano guardie che tutelavano il silenzio nella sala colloqui: la parola era sottoposta a rigido controllo, guai a sgarrare! Già, il silenzio riusciamo a definirlo solo attraverso il suo opposto.
Ne Il silenzio del corpo, Guido Ceronetti scrive che «chi tollera i rumori è già un cadavere». Per questo sono rimasto colpito da una notizia: nel Sussex un parroco ha registrato il silenzio della chiesa e ne ha prodotto «la sua pace» su cd. Trenta minuti di silenzio, registrato all'interno di una chiesa anglicana della campagna inglese, da riascoltare a casa per rivivere l'atmosfera sacra e accogliente di un edificio di 900 anni fa. Il cd si intitola The sound of silence (Il rumore del silenzio) come la vecchia canzone di Simon & Garfunkel (ma, prima, ci si doveva accontentare de La voce del silenzio cantata da Mina: «Ci sono cose in un silenzio che non m'aspettavo mai, vorrei una voce ed improvvisamente ti accorgi che il silenzio ha il volto delle cose che hai perduto…»).
Non avendo orecchio musicale, ho letto senza troppo costrutto le teorie sul silenzio di John Cage; una cosa però mi è rimasta: il silenzio non è un'assenza, non è un vuoto, il silenzio ha una sua grammatica, una sua pienezza. Il rapporto fra rumore e silenzio ricorda molto quello fra memoria e oblio. Che è uno dei nessi più inestricabili e complessi che la storia della cultura occidentale abbia tramandato; nei racconti, nelle manifestazioni, nelle polverose teche tutto sembra parlare a favore della memoria, la quale, a differenza dell'oblio, gode di una trattatistica esuberante. Una sorta di mitologia cupa avvolge invece le pianure dell'oblio e da sempre assistiamo alla lotta sorda che l'oblio combatte per riscattare la sua fama compromessa. E infatti Baltasar Gracián diffida della memoria nemica del silenzio, delle tenebre, del segreto.
Non avendo neppure particolare attitudine filosofica, non oso affrontare i «sovrumani silenzi» e la «profondissima quïete» di cui parla Leopardi, raccogliendo piuttosto il sacrosanto invito di Wittgenstein: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Il silenzio è anche una forma di rispetto nei confronti della conoscenza cui invano aspiriamo, è accettazione della propria limitatezza.
Mi basterebbe capire perché non siamo più capaci, quando capita, di osservare un minuto di silenzio negli stadi o perché nel corso di un funerale ci abbandoniamo all'applauso. Il silenzio non ci appartiene più, non lo riconosciamo. Per esprimere quella cupa, muta e sorda ebetudine che tramortisce quando le grandi disgrazie premono, ci abbandoniamo a una sinistra euforia: sfogarci, applaudire.
Nel libro Per una storia del silenzio (edito da Mursia) Sergio Cingolani avverte che «più della metà della popolazione mondiale vive in ambienti con un livello medio di rumorosità superiore a 60 decibel, quindi assai lontana dalla possibilità di poter godere degli effetti del silenzio». Non conosciamo più cosa sia il silenzio, nemmeno nella quiete della campagna o della montagna: c'è sempre qualche fanatico del motocross che ci vuol far sapere che esiste.
Il capitolo più interessante del libro mi è parso quello dedicato al silenzio nelle regole monastiche. In quelle di Benedetto (480-547) sta scritto: «Facciamo quello che dice il Profeta: “Ho detto: custodirò le mie vie per non peccare con la mia lingua; ho posto una custodia alla mia bocca, ho tenuto il silenzio, mi sono umiliato e ho taciuto…». Dalla sua cella il monaco non può né vedere né sentire il suo vicino, l'architettura monastica è fatta per proteggere il silenzio, la meditazione, la taciturnitas. Il silenzio è una grande cerimonia, una liturgia. Dio giunge nell'anima che fa regnare il silenzio dentro di sé, ma rende muto chi si perde in chiacchiere.
La cultura laica pare poco interessata al silenzio. Per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (maggio 2012) Benedetto XVI ha invece inviato un messaggio dedicato proprio al silenzio: «Il silenzio è parte integrante della comunicazione e senza di esso non esistono parole dense di contenuto. Nel silenzio ascoltiamo e conosciamo meglio noi stessi, nasce e si approfondisce il pensiero». Il Papa non ha proposto il silenzio come alternativa all'impegno nella comunicazione, non ha chiesto di spegnere la «musica passiva» (la musica non richiesta che ci assilla nei negozi, nei locali pubblici, negli ascensori, nelle spiagge…), non ha improvvisato una di quelle lezioni per dummies o per manager in cui ci viene spiegato, da una pubblicistica improvvisata, che «in una società in cui tutti parlano, tutti tentano di esprimersi sovrapponendo la propria voce a quella degli altri e in cui gli stimoli dei soggetti emittenti si moltiplicano spesso senza raggiungere i destinatari del messaggio il rischio dell'incomunicabilità cresce a dismisura». No, ha voluto ricordare che il silenzio parla, anche nelle moderne forme di comunicazione. Il silenzio è una scelta e a volte può essere l'espressione più eloquente della nostra vicinanza, della nostra solidarietà, della nostra attenzione verso un'altra persona.
Sul mistero del silenzio Gianfranco Ravasi ha scritto: «Il silenzio per sua natura è una realtà radicalmente ambigua. Da una parte esiste il cosiddetto "silenzio nero", che è l'assenza dei suoni, delle voci. Nella Bibbia si legge: "Quando Dio maledice un popolo, fa cessare il canto dello sposo e della sposa". Cassiodoro, nel VI secolo, scrisse nelle Istituzioni una frase folgorante e straordinaria: "Se voi continuerete a commettere ingiustizia, Dio vi lascerà senza la musica". Dall'altra parte invece esiste il cosiddetto "silenzio bianco". Nelle religioni è fondamentale il nome di Dio: da dire, da invocare. Israele, nell'Antico Testamento, introduce l'idea che vada taciuto. Il profeta Elia va sul monte Sinai per ritrovare le radici della sua vocazione e vuole scoprire Dio con l'imperio, abituale, della teofania: i tuoni, il terremoto che sommuove la terra, le folgori che scorticano gli alberi... Invece lo scopre nelle frase: "E alla fine ci fu il mormorio di un vento leggero". In ebraico abbiamo soltanto tre parole: "voce, silenzio, sottile". Dio è una voce di silenzio sottile. Da lì in avanti comincia la grande via del "silenzio bianco", che non è assolutamente il terrore di star soli. L'uomo di oggi non è più capace di star solo perché ha sempre davanti il vuoto».
Sarebbe interessante affrontare un'estetica del silenzio. In Forme del parlare, il sociologo Erving Goffman capovolge il senso comune e sostiene che «il silenzio è la norma e parlare è qualcosa che esige una giustificazione». Come molti della mia generazione, sono cresciuto frequentando i cineforum, guardando i film di Ingmar Bergman, in particolare la cosiddetta «Trilogia del silenzio di Dio» (Come in uno specchio, 1961, Luci d'inverno, 1961, e Il silenzio, 1963), dominata dal tema dell'incomunicabilità. Il silenzio di Dio si riflette nel silenzio degli uomini e delle donne, lascia spazio alla violenza fisica e verbale. Ne Il silenzio Anna ed Ester sono due sorelle che stanno tornando dalle vacanze assieme a Johan, il figlio adolescente di Anna. La loro meta è la Svezia ma devono attraversare un Paese sconosciuto sull'orlo della guerra. Il rapporto conflittuale tra le due donne esplode e dopo l'ennesimo litigio Ester, gravemente ammalata di tubercolosi, viene abbandonata dalla sorella al suo destino. Ma la vera tragedia è che Dio tace perché è l'uomo ad aver stabilito le regole di questo dialogo, ad aver fissato la misura delle sue richieste. Parliamo, cerchiamo affannosamente il rumore perché copra il silenzio che più ci spaventa.
Il silenzio ci appare oggi come un vuoto angoscioso, così angoscioso da preferirgli il rumore, il chiacchiericcio, persino l'acufene, la vera colonna sonora della modernità. Eppure, la nostra epigrafe sarà solo quella dettata da Ceronetti: «La vita rimescola dati e dadi; l'ultima parola, su tutto, la dirà il silenzio».

sabato 27 ottobre 2012

Da Darwin a Higgs: gli straordinari poteri dell’immaginazione


Alla ricerca del lato imprevedibile della scienza

Intervista a Giulio Giorello di Gabriele Beccaria

"La Stampa - TuttoScienze", 24 ottobre 2012

Molti hanno visto cadere le mele, ma solo un tale Isaac Newton ha capito che di mezzo c’era la gravità. Quasi due secoli dopo, il fisico inglese John Tyndall definì quel salto concettuale un atto di «prepared imagination». La razionalità scientifica, in effetti, è più sofisticata di quanto a volte suggeriscano provette e formule. Ed è questo il tema da cui sbocceranno gli incontri con i ricercatori al Festival della Scienza di Genova. 
Professor Giulio Giorello, lei è un filosofo della scienza, e nella sua lezione del 3 novembre affronterà la questione, sempre più d’attualità, degli intrecci ragione-fantasia: oggi, quando vogliono trasformarsi in divulgatori, gli scienziati sfruttano sempre più abilmente il potere delle immagini e delle provocazioni intellettuali. 
«Mi viene in mente il nuovo saggio del neuroscienziato Kevin O’Regan, che è immaginifico già dal titolo: “Perché i colori non suonano”. L’autore spiega che, se si mescolano due colori, il risultato è un colore nuovo, privo in apparenza di quelli originali, a differenza di di quanto accade invece con gli accordi musicali. Infatti, quando si uniscono note diverse, si ottiene un accordo, in cui si può ancora udire ogni nota singola. Il colore è quindi sintetico, il suono è analitico. E’ una realtà che segna una differenza tra la costruzione del mondo che facciamo con l’udito e quella che realizziamo con la vista e che dimostra come le percezioni non siano pure registrazioni, ma modi di esplorare, riprendendo un’idea che risale almeno a un filosofo come George Berkeley. Così l’immaginazione di O’Regan che definirei proprio filosofica diventa un programma di ricerca: è il suo approccio allo studio di che cos’è la coscienza». 
Lei farà un viaggio nell’immaginazione di Darwin, partendo dal libro di Desmond e Moore «La sacra causa di Darwin». Perché? 
«Il saggio propone una ricostruzione raffinata della polemica del padre dell’evoluzionismo contro i sostenitori dello schiavismo. A un avversario che simpatizza con il Sud degli Usa dice: “Anche chi scrive contro la verità può portare un buon servizio alla verità”. C’è un po’ di retorica, ma è interessante la capacità di mettere l’immaginazione al servizio della disputa scientifica. E’ una realtà che noi italiani dovremmo apprezzare, perché un maestro di questa arte della controversia è stato Galileo Galilei, il quale era capace di scovare argomenti pro e contro una teoria, seguendo l’idea che nell’incontro-scontro tra punti di vista, prima o poi, uno prevale e la scienza diceva “non può che aumentarsi”». 
Razionalità e immaginazione, scienza e arte: le due culture come le chiamava Edgar Snow ora sembrano dialogare di più. E’ così?
«In effetti sembra che esserci stata una svolta. Nel saggio “L’età dell’inconscio” il Nobel per la Medicina Eric Kandel combina l’immaginazione delle tendenze stilistiche che nascono nella Grande Vienna una cui icona è Klimt con l’immaginazione della psicoanalisi di Freud e di quella della prima fase del neopositivismo. Sono percorsi intellettuali che evocano quelli di alcuni grandi autori del passato». 
Come il classico «The art of scientific investigation» di Beveridge? 
«Sì. Penso ai lavori di Gerard Holton, uno dei curatori dell’opera di Einstein, e a Karl Popper: nel suo “Poscritto alla logica della scoperta scientifica” ha ripreso alcuni spunti che risalgono al grande matematico Poincaré. Intuizioni filosofiche, voli della fantasia e immaginazioni spiega sono la fonte da cui zampilla la verità scientifica. Certo, tutto dev’essere poi dimostrato o per usare l’immagine di Richard Ellmann, grande biografo di James Joyce si verifica una specie di ebollizione che la logica cerca poi di controllare». 
Il coinvolgimento emozionale, oltre quello intellettuale, è lo strumento per avvicinare la scienza alle persone? 
«Sì. Non credo che le emozioni possano essere tagliate fuori dalla scienza. “Il cuore mi scoppiava in petto”, disse Einstein, quando seppe che le anomalie del perielio di Mercurio confermavano la Relatività, e non è esaltante che il sogno di Peter Higgs il bosone sia stato appena confermato?».


Le meraviglie della biologia matematica
Pesci, zebre e tigri tra le equazioni di Turing
di Ian Stewart

UNIVERSITY OF WARWICK



Pittori, poeti e scrittori sono da sempre affascinati dalla bellezza degli animali allo stato selvaggio. Chi non restebbe colpito dall’eleganza di una tigre siberiana, dall’enormità di un elefante, dalla posa di una giraffa o dalle strisce pop di una zebra? Eppure ognuno di loro ha cominciato la propria esistenza come una singola cellula. E, allora, come si fa a stipare un elefante in una cellula?
Quando si è scoperto il Dna e si è rivelata la sua importanza, la risposta sembrava semplice. Ma non è così. Ciò che sta in un uovo di elefante sono le informazioni per farne uno, non l’elefante medesimo. Una cellula può contenere un sacco d’informazioni molecolari. E tuttavia un elefante ha un enorme numero di cellule e tutte devono essere assemblate in modo corretto. Ce ne sono così tante che una mappa di un elefante, cellula per cellula, non potrebbe essere contenuta nel Dna. I suoi geni non contengono informazioni sufficienti. Quindi qualcosa deve accadere in corso d’opera.
L’interrogativo è: che cosa? Una risposta come spiegherò al Festival della Scienza di Genova arriva dalla creatività di un grande matematico, Alan Turing, di cui si celebra il centenario. È famoso per il lavoro di crittografo durante la Seconda guerra mondiale e i fondamentali contributi all’informatica e all’intelligenza artificiale. E’ meno noto, però, che sia stato un pioniere della biologia matematica.
Nei primi Anni 50 Turing mostrava spesso ai colleghi disegni con macchie irregolari bianche e nere, chiedendo loro se fossero d’accordo sul fatto che sembrassero una mucca. Più precisamente, la pezzatura di una mucca frisona. I suoi disegni erano il risultato di complicati calcoli matematici, il primo passo di un progetto che mirava a rispondere a una delle grandi questioni della biologia. Molti animali hanno segnature sorprendenti: dalle macchie del leopardo alle strisce della tigre. Come nascono questi modelli?
Nel 1952 Turing pubblicò «Le basi chimiche della morfogenesi», in cui proponeva un meccanismo per la formazione delle macchie degli animali. Suggeriva che appaiano in due fasi. Quando l’animale è un embrione le molecole interagiscono e poi si diffondono. Il risultato è una «traccia» di sostanze chimiche che si trasforma nel modello visivo, innescato dai pigmenti. Chiamò «morfogeni» generatori di forma questi ipotetici agenti chimici. Il cuore della teoria è un sistema di equazioni «di reazione-diffusione», capace di simulare il modo in cui i morfogeni si manifestano nell’embrione.
I modelli che si generano includono righe, macchie e altre segnature complesse. Sono simili a quelli osservati su innumerevoli animali, dai pesci tropicali alle conchiglie, e sono spesso di straordinaria bellezza.
James Murray ha modificato le idee di Turing per spiegare i segni che appaiono su felini, giraffe e zebre. I due modelli classici sono le strisce e le macchie. Entrambi sono creati da strutture ondulatorie di tipo chimico. Le onde, lunghe e parallele come i cavalloni sulla spiaggia, producono le strisce. Altre onde, con angolazioni diverse, si frammentano e diventano macchie. Da un punto di vista matematico le strisce si trasformano in macchie quando il sistema delle onde parallele entra in una fase di instabilità. La scoperta ha spinto Murray a una curiosa previsione: un animale a macchie può avere una coda a strisce, ma un animale a strisce non può avere una coda maculata.
Nel ‘95 gli scienziati Shigeru Kondo e Rihito Asai applicarono le equazioni di Turing al pesce angelo imperatore, che ha suggestive strisce gialle e viola. Qui le formule producono una previsione sorprendente. Le strisce «si muovono». Quando i due hanno fotografato alcuni esemplari, hanno scoperto che le strisce stesse migrano lentamente sul corpo. Non solo. I difetti nel modello delle strisce regolari le dislocazioni si «rompono» e si riformano come prevedeva la teoria di Turing.
Hans Meinhardt ha invece dimostrato come alcune varianti delle equazioni di Turing spieghino molte caratteristiche dei segni sulle conchiglie. Questi modelli non devono essere semplici e regolari, come le macchie e le strisce. Molti sono complessi. Alcune conchiglie a cono, per esempio, sono ricoperte da casuali raccolte di triangoli. Eppure, sorprendentemente, modelli quasi identici si trovano di nuovo nelle equazioni di Turing. Si tratta dei frattali, un concetto reso popolare da Benoit Mandelbrot negli Anni 60. I frattali sono associati con il caos dinamico, un comportamento irregolare all’interno di un sistema matematico deterministico. Le conchiglie a cono combinano così le caratteristiche matematiche sia dell’ordine sia del caos.
La biologia contemporanea si incentra sulla genetica e sul Dna. Il modello di Turing, invece, è più legato allo spirito della vecchia biologia, focalizzato sugli animali stessi, e non contempla specifiche sostanze chimiche. E, tuttavia, nuove ricerche hanno iniziato a fornire maggiori dettagli.
Nel 2012 un gruppo del King’s College di Londra ha dimostrato che i modelli delle increspature nella bocca dei topi sono controllati da un «processo di Turing». Sono stati individuati due morfogeni che stabiliscono il punto in cui si forma ogni alterazione: sono il «fattore di crescita dei fibroblasti» e il «Sonic hedgehog» il riccio sonico così chiamato perché i moscerini della frutta privi di questo gene presentano molte più setole.
Altre ricerche hanno collegato il processo di «reazione-diffusione» di Turing allo sviluppo degli arti e a quello della mano dell’uomo. Si stanno così accumulando molte prove che il modello del celebre matematico sia il migliore per spiegare una vasta serie di esperimenti. E’ la realtà della biologia matematica, che ha fatto molta strada da quando Turing mostrò, per la prima volta, i suoi disegni sulle pezzature delle mucche. Traduzione di Carla Reschia

I diagrammi d'arte di Simon Patterson

The Great Bear  - L'Orsa Maggiore


Simon Patterson, 'The Great Bear' (detail), 1992. © Simon Patterson
Copyright Victoria and Albert Museum

Simon Patterson è un artista britannico contemporaneo, nato nel 1967. La sua opera più celebre è The Great Bear (1992), un adattamento della mappa della metropolitana di Londra: i nomi delle stazioni sono sostituiti da quelli di famosi personaggi.


Lo stesso principio è applicato anche alla tavola periodica di  Mendeleev:

La tavola periodica "Rhodes Reason"


Ingrandimento: CLICCA QUI:

Da Hugh Aldersey-Williams, Favole periodiche, Rizzoli, 2011:


Questa tavola periodica è una litografia di Simon Patterson, un artista britannico affascinato dai diagrammi di cui ci serviamo per organizzare il nostro mondo. Il suo modo di lavorare consiste nel riconoscere l’importanza dell’oggetto in quanto simbolo di ordine per poi sconvolgerne tutti i contenuti. Strane cose accadono alle intersezioni. Non c’è da sorprendersi che abbia voluto fare lo stesso gioco anche con la tavola periodica. Nella sua mente erano ancora vivi i tristi ricordi di quando a scuola gli veniva chiesto di impararla a memoria: «Insegnarla in quel modo era anche sensato, ma fatto sta che io non riuscivo mai a ricordarmela» mi ha raccontato Simon. Tuttavia, ne ricordava il concetto. Dieci anni dopo aver lasciato la scuola, creò così una serie di variazioni sulla tavola in cui il simbolo di ogni elemento viene associato a qualcos’altro: Cr non è il cromo, ma Julie Christie; Cu non corrisponde al rame, ma a Tony Curtis. E anche questo stesso sistema di riferimenti, già di per sé criptico, viene poi sabotato:
Ag, il simbolo dell’argento, non è Jenny Agutter, per dirne una, o Agatha Christie, ma naturalmente Phil Silvers. Ci sono anche momenti di apparente logica in questa nuova disposizione: i due elementi successivi del berillio e del boro (simboleggiati da Be e B) corrispondono così ai Bergman, rispettivamente Ingrid e Ingmar. 
I due fratelli attori Rex e Rhodes Reason compaiono l’uno di fi anco all’altro, prendendosi i simboli del renio (Re) e dell’osmio (Os). Kim Novak (Na, sodio) e Grace Kelly (K, potassio) si trovano su una medesima colonna: erano due femmes fatales di Hitchcock. In generale, però, non c’è nessun criterio, ma solo le connessioni che ognuno può trovare per proprio conto: io, per esempio, ho notato con un sorriso che Po, il simbolo del polonio – l’elemento radioattivo scoperto da Marie Curie e da lei battezzato in onore del suo Paese d’origine, la Polonia –, denota il regista polacco Roman Polanski.






A tavola con l'antica Roma



​Dell’antichità romana pensiamo di conoscere molte cose. Ne conosciamo i grandi personaggi, la lingua, la storia, l’immenso patrimonio artistico, la poesia, la letteratura. Le ricerche archeologiche e gli scritti dell’epoca ci hanno fatto conoscere le abitudini quotidiane. Delle metropoli romane possiamo immaginare i colori e i suoni. Molto poco, però, conosciamo degli odori. In particolare di quelli alimentari, che in una città come Roma aleggiavano per fori, templi, terme e vicoli dalle prime ore dell’alba fino a notte avanzata, provenienti dalle cucine delle tabernae e dai banchi degli ambulanti che, racconta Marziale negli Epigrammi, «avevano sottratto la città intera», così che «le strade sembravano sentieri». Qualche decennio prima Seneca parla di bancarelle, lixae, in cui si vendono biscotti, bibite, frutta secca (i romani erano ghiotti di pistacchi, introdotti dal 37 a.C.), frutta fresca, e cibi caldi arrostiti o bolliti (come luganeghe, interiora e pollame), conditi con salse dai sapori assai difficili per i palati contemporanei. Una pittura di Pompei presenta un giovane che acquista una porzione calda di cappone da un ambulante. In un’altra celebre pittura della città vesuviana è rappresentata una rissa al di fuori dell’anfiteatro, fra le tende e i carretti dei venditori take away dell’epoca. Odori e sapori che rivivono, corredati da esaustivi riferimenti storici, oltre che da ricette autentiche, nel volume Ars culinaria (Donzelli, pagine 444) della filologa Antonietta Dosi e dell’archeologa Giuseppina Pisani Sartorio. Un po’ testo di storia, un po’ libro di cucina, riesce a rendere evidente non solo come mangiavano i romani, ma soprattutto come le ricette di duemila anni fa sopravvivano tutt’oggi, con alcune modifiche, nelle nostre cucine regionali e in molte dell’Oriente, Vicino ed Estremo. Ricette antiche poste a fronte delle loro derivate moderne. Con la possibilità, che è quel che ancor più incuriosisce, di poterle sperimentare nelle due maniere, scoprendo che la fricassea ha almeno due millenni e che il foie gras, con relativo paté, non lo hanno inventato i francesi, ma i romani, che nella versione più sofisticata lo chiamavano ficatum, perché tratto da oche ingrassate con fichi. Naturalmente necessari alcuni adattamenti. Sia per l’introvabilità di certi ingredienti, soprattutto erbe selvatiche, spezie e aromi, che i romani utilizzavano in gran numero, facendoli venire da ogni angolo del mondo; sia per l’onnipresente prescrizione del garum, nella cottura o nel condimento finale. Una salsa a base di interiora di pesce crudo, salato e speziato, che spesso doveva risultare mefitica, anche se ne esisteva una versione per commensali ricchi e raffinati, che veniva realizzata in maniera non troppo dissimile dall’attuale salagione delle acciughe. Qualcosa che somiglia al garum si trova in alcune conserve di piccoli pesci, tipiche delle popolazioni dei delta dell’Estremo Oriente, come quello del Mekong, ma anche nella più raffinata e appetitosa "sardella" calabrese, sebbene ricca di peperoncino, pianta che i romani non potevano certamente conoscere. 
Fonte primaria di queste antiche ricette è il De re coquinaria attribuito ad Apicio, forse il più celebre fra i mangioni dell’antichità e l’unico, di cui ci sia giunta notizia, che abbia codificato le conoscenze culinarie dell’epoca in uno specifico trattato. Vissuto in epoca augustea, divenne più conosciuto nei secoli del nostro Artusi, tanto che i cuochi latini, che prima venivano denominati magirii (dal greco magheiroi), cominciarono a chiamarsi apicii. Dopo di lui un egiziano di origine greche, vissuto a Roma intorno al 200 d.C., tale Ateneo, ha inserito numerose ricette in un trattato in 15 volumi, i Deipnosofisti (I sapienti a banchetto) in cui sono gli stessi filosofi a parlare di cucina. E di cucina parlano nelle loro opere (citate con ampi riferimenti) anche i grandi come Cicerone, Orazio, Virgilio, Petronio, Giovenale, Catullo, Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone il Censore. Quest’ultimo nel De agri cultura, presenta numerose ricette (fra le quali quelle di una focaccia sottile che veniva arrotolata, fatta seccare e cotta come oggi si fa con la pasta), offre uno spaccato delle sobrie abitudini, quasi del tutto vegetariane, dei romani dei primi secoli. Secondo Giovenale e Plinio, del resto, il grande Marco Curio Dentato, colui che sconfisse i sabini e Pirro, sarebbe unicamente vissuto di rape, legumi e verdure del suo orto. 
In quell’epoca la carne veniva utilizzata quasi esclusivamente nei grandi festeggiamenti in onore degli dei, anche se alla dea Cerere, nei cosiddetti cerealia, si offrivano farro e frumenti: da qui il nome poi loro attribuito di cereali. Anche il verbo "immolare", relativo ai sacrifici animali sugli altari degli dei, deriva dall’abitudine "alimentare" di cospargere la "vittima" di un tritello di farro e sale passati alla mola (mola salsa), qualcosa di simile alla moderna impanatura. Ben diversa dall’alimentazione di Curio Dentato quella dell’imperatore Massimino (235-238 d.C.), che si vantava di mangiare soltanto carne al punto che, stando a Giulio Capitolino, ne avrebbe ingerita ben 13 chili in un solo giorno. Ghiotto di frutta l’imperatore Albino (193-197), che pare giungesse a mangiare anche dieci meloni a pasto. Marziale scrive con ironia del suo avaro padrone di casa, Cecilio, che imponeva al cuoco di preparare per i suoi convitati interi pranzi a base di economica zucca per tutte le portate, dall’antipasto al dolce. Fra le carni quella di maiale era la più apprezzata e i salumi più pregiati venivano, come oggi, dalla Gallia Cisalpina. «Nessun animale – scrive Plinio – fornisce più del porco alimenti alla ghiottoneria, dato che presenta circa cinquanta sapori, mentre la carne degli altri animali non ne ha che uno». Il riferimento è all’abilità degli allevatori di far variare il sapore in base all’alimentazione. E quando il maiale era ripieno, spesso di animali più piccoli, veniva chiamato "troia", (il porcus troianus della cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio) perché farcito alla maniera in cui il famoso cavallo venne farcito da Ulisse. Una citazione colta dell’epoca, entrata poi nel gergo popolare in riferimento alla scrofa.

I pesci, il garum di Marziale e le sei salse di Apicio

I pesci e i crostacei piacevano talmente che i ricchi realizzavano nelle loro villae delle piscine per allevarli. Ateneo racconta che Apicio ne era così ghiotto da attrezzare una nave per andare a pescare gamberi e scampi sulle coste libiche, salvo poi scoprire che erano del tutto uguali a quelli tirrenici. Già nel primo secolo a.C. i romani allevavano sia ostriche che mitili. Le murene erano considerate una prelibatezza (Apicio indica ben sei salse diverse per condirle) e, stando a Plinio, il loro allevamento fece la fortuna di molti commercianti. Tale Gaio Irrio ne aveva un allevamento immenso tanto da poterne vendere semilia in una sola volta per i festeggiamenti dei trionfi di Cesare. Alla morte di Lucullo, i pesci dei suoi allevamenti vennero venduti per l’enorme cifra di quarantamila assi. Moltissime le ricette per cucinarli. Alcune in tutto simili alle attuali, come questo ius in pisce elixo (pesce alla creta con salsa) di Apicio, che sembra una variante del nostro pesce al sale: «Metti in un mortaio sale e semi di coriandolo, pestali bene e avvolgi il pesce ben pulito, poi disponilo in un tegame, sotto un coperchio bene ingessato e cuocilo al forno. Levalo, spruzzalo con aceto fortissimo e servilo». Esistevano anche numerose industrie di conservazione, soprattutto in Sicilia, per tonno, sgombri, sardine. Il garum migliore, invece, veniva da una manifattura di Cartagena. Per capire cosa fosse questo condimento che è alla base dell’intera cucina romana ecco la ricetta proposta da Gargilio Marziale nelle Geoponiche: «Si prendano pesci grassi come salmoni, anguille, salacche, sardine. Si prendano erbe aromatiche secche come aneto, menta, levistico, puleggio, serpillo. Di queste erbe si disponga un primo strato nel fondo di un grande vaso. Si faccia quindi uno strato di pesci interi o a pezzi, se sono grossi. Si copra con uno spesso strato di sale e si ripeta l’operazione fino a che il vaso sia colmo. Si chiuda e si lasci macerare per sette giorni. Poi per venti giorni si rimesti il miscuglio. Allora si raccolga il liquido che cola».


Le carni e per i grandi ricevimenti struzzi, bagnet e fricassea
Si mangiava carne di ogni tipo. Ovine, caprine, di volatili come i tacchini (a smentire la credenza che vengano dalle Americhe), i polli e persino struzzi. Il cane era una prelibatezza: Festo (Breviarium rerum gestarum populi romani) racconta che nel II d.C. i "cuccioli alla mammella" figuravano nei pranzi più importanti e in quelli in onore agli dei. Il maiale era il cibo di tutti. I bovini, usati quasi esclusivamente per i tiri agricoli, vennero introdotti nell’alimentazione comune avanti nei secoli, per una sorta di sacro rispetto per il lavoro dei campi. Venivano cotte con salse ricchissime di aromi, con aggiunte di formaggio e spesso rifinite con le uova, alla maniera della fricassea. Ed è frequente imbattersi in ricette assai simili a quelle contemporanee. Catone, per esempio, riporta un intingolo dicendo serva per «liberare il ventre», ma che depurato dalle erbe lassative e dall’onnipresente pesce sembra l’antesignano di pietanze come la cassoeula lombarda: «Prendi una marmitta, versaci seisestarii di acqua, uno zampetto di maiale, un pezzo di prosciutto, due cime di cavolo, due gambi di bieta con la radice, un germoglio di felce, un po’ di erba mercuriale, due libbre di mitili, un cefalo, un pesce scorpione, sei lumache di mare, un pugno di lenticchie. Fa cuocere finché il brodo si riduce a un terzo». E il bollito misto alla maniera piemontese sembra provenire dalla descrizione fatta da Ateneo di quel che si preparava ad Alessandria d’Egitto nei lephtopolia (botteghe del bollito), con «piedini, testa, orecchie, mascella, trippe e lingua». Espertissimo di condimenti il solito Apicio accompagnava i suoi bolliti (di singole carni) con salse fatte di pepe, levistico, menta, aceto, garum, laser, cumino, olio e miele, che ricordano il classico bagnet verde piemontese fatto con prezzemolo, aceto, olio, acciuga salata (in luogo del garum), aglio (al posto dell’introvabile laser), pepe. Nella stessa bagna cauda trionfano i sapori delle acciughe salate e dell’aglio. 
Roberto  Zanini, «Avvenire», 22 ottobre 2012

APPROFONDIMENTI: Metropolitan Museum