venerdì 28 febbraio 2014

La biblioteca di Alessandria uccisa dai tagli alla cultura


L’Egitto di età romana come l’Italia d’oggi: secondo una storica americana non fu l’incendio a distruggere la più ricca raccolta di libri dell’antichità ma la decisione dell’imperatore Marco Aurelio di sospendere i finanziamenti


Vittorio Sabadin

“La Stampa - TuttoScienze“, 26 febbraio 2014

La Biblioteca di Alessandria, il luogo che custodiva la conoscenza nell’antichità, non ha finito eroicamente i suoi giorni in un incendio come i miti e i film di Hollywood ci hanno fatto credere. È deperita lentamente, quasi in modo meschino, distrutta come una qualunque biblioteca comunale dai tagli dei finanziamenti statali, dall’incompetenza e dall’instabilità politica. A rileggerne la storia, riscritta con argomenti convincenti in un saggio della storica Heather Phillips pubblicato dall’Università del Nebraska, sembra di guardare un ritratto dell’Italia di oggi, che è riuscita a fare in pochi decenni i danni che ad Alessandria hanno però impiegato secoli a produrre.
Realizzata intorno al 280 a.C. sotto il regno di Tolomeo II Filadelfo, figlio del capostipite della dinastia tolemaica ellenistica che governò l’Egitto alla morte di Alessandro Magno, la più famosa biblioteca del mondo rappresentava l’ideale greco della conoscenza universale. Poco tempo dopo l’apertura custodiva già 490.000 rotoli in pergamena e papiro di ogni lingua e cultura, e ospitava in modo permanente 100 studiosi di varie nazionalità, a cui offriva, oltre allo stipendio, anche ospitalità e esenzione fiscale. Erano tra i più eminenti professori dell’epoca, che si avvalevano dell’aiuto di decine di dipendenti statali assunti a tempo pieno per catalogare, tradurre, copiare, riscrivere, acquisire nuovi testi per la Biblioteca e per il vicino tempio delle Muse, il Museo.
L’edificio era aperto al pubblico, ma non tutti potevano accedervi: bisogna dimostrare di possedere una buona conoscenza delle cose e una attitudine a impararne altre prima di esservi ammessi. La Biblioteca non era solo un deposito di volumi ben catalogati. Era un centro di cultura e di diffusione del sapere unico nel mondo antico, che attirava a sé il meglio dell’intelligenza umana. Ma la sua epoca d’oro non durò che un paio di secoli, e i guai cominciarono come di solito cominciano per la cultura, con un cambio di governo e con l’instabilità politica.
Nel 48 a.C., quando Giulio Cesare impose Cleopatra come regina dell’Egitto, la popolazione di Alessandria non approvò la decisione e lo costrinse a bruciare le navi nel porto per evitare che cadessero nelle mani degli egiziani ribelli. L’incendio si propagò a 40.000 rotoli custoditi nei magazzini sul molo, appena arrivati per nave o destinati a essere spediti da qualche parte. È con queste fiamme che è nata la leggenda dell’incendio che ha distrutto la Biblioteca, che in quella occasione non patì invece alcun danno serio. Nemmeno Aureliano, che bruciò nel 270 parte di Alessandria nella sua battaglia contro la regina Zenobia, causò danni rilevanti ai testi. Sicuramente meno dell’imperatore Teodosio I, che nel 391 ordinò di mandare al rogo la «saggezza pagana» e fu in parte accontentato. Nel 639, il generale arabo Amr ibn al-As pose fine, in base alle ricostruzioni finora accreditate, all’opera di demolizione.
«Siamo abituati a pensare a un singolo evento catastrofico – scrive Heather Phillips – ma il declino è stato parallelo a quello della stessa città: è stato graduale, burocratico, per nulla eroico». La storica americana sostiene che un danno significativo venne fatto dall’imperatore Marco Aurelio Antonino (121-180), quello che nella finzione del film Il gladiatore viene ucciso dal figlio Commodo nell’accampamento di Vindobona, l’attuale Vienna. Marco Aurelio ordinò di sospendere i finanziamenti al tempio delle Muse, di bloccare gli stipendi dei docenti e di cacciare gli studiosi stranieri, operando il primo importante taglio alla cultura della storia deciso nei palazzi romani.
Di fronte alla prospettiva di uno stipendio risicato e incerto, e a una situazione politica instabile che vedeva la città al centro di continui scontri e lotte di potere, i migliori ricercatori dell’epoca si sono in seguito tenuti ben lontani da Alessandria, dai suoi libri e dai suoi studenti, determinando il progressivo degrado della Biblioteca.
Sembra strano che un imperatore come Marco Aurelio, il saggio filosofo autore dei Colloqui con se stesso, abbia deciso tagli alla cultura pur se in una provincia del regno. Forse è stato qualche suo zelante funzionario. Forse, in mancanza di controlli e nell’inerzia generale, anche ad Alessandria molti professori avevano ormai il doppio lavoro e alcuni dipendenti statali andavano sul molo a pescare, dopo avere timbrato la pergamena di presenza.
Quando nel 639 le truppe del califfo Omar entrarono nella Biblioteca, ha scritto lo storico Luciano Canfora nel libro La biblioteca scomparsa, negli scaffali c’era solo l’ombra della conoscenza di un tempo: i vecchi preziosi manoscritti erano stati distrutti dall’incuria e dal tempo, e restavano solo atti burocratici, letteratura «sacra» e testi di poco conto. Nessuno parlava più il greco, l’ideale della conoscenza universale era di nuovo svanito. Gli arabi alimentarono con i rotoli e i libri il fuoco dei loro bagni termali. Anche dopo secoli di decadenza, ci vollero sei mesi per bruciarli tutti.

Doctorow: dai corsi di scrittura il rischio di autori senz’anima


«Non insegno a diventare romanzieri ma a leggere i classici»
intervista di Livia Manera

“Corriere della Sera“, 28 febbraio 2014

«Ha in mente quando Philip Roth a 80 anni ha detto che smetteva di scrivere? Beh, io non ho nessuna intenzione di fare altrettanto!». 
Se la ride Edgar Doctorow, che a ottantatré ha appena pubblicato negli Usa un romanzo straordinario, Andrew’s Brain, in cui accompagna il lettore nel lucido delirio mentale di un neuroscienziato, attraverso tali cambiamenti di piani narrativi e sorprese, da risultare il libro più cerebralmente ardito della sua carriera. Il cervello di Andrew sarà pubblicato nel 2015 dalla Mondadori, che intanto manda in libreria in questi giorni una sua raccolta di racconti dal titolo — quasi ironico, in questo contesto — Tutto il tempo del mondo (traduzione di Carlo Prosperi). 
Se la ride, dunque, Doctorow, anche se è costretto a camminare con una stampella perché si è fatto male giocando a tennis nel campo di un albergo della Cinquantasettesima strada a Manhattan, dove mi ha dato appuntamento per un caffè e quattro chiacchiere su un tema di attualità culturale come il fenomeno dei corsi di scrittura creativa, di cui è un veterano con quasi mezzo secolo di esperienza. L’idea è nata quando Richard Ford, in una conversazione recente, mi ha detto che il primo a insegnargli a scrivere è stato E.L. Doctorow. E Ford ha appena compiuto 70 anni. 
Lei, Doctorow, deve essere il professore più di lungo corso dei master di «creative writing». Quando ha cominciato? 
«Ho cominciato nel ‘69, quando stavo scrivendo Il libro di Daniel e ho capito di essere a un bivio. O continuavo la carriera che avevo intrapreso nell’editoria dieci anni prima — ero direttore editoriale della “Dial Press” — o diventavo uno scrittore. E in quel momento mi è piovuto dal cielo un invito a insegnare alla University of California, Irvine: un lavoro che mi avrebbe permesso di scrivere. Ho messo moglie e bambini in macchina e abbiamo attraversato il Paese. Era il mio primo incarico di insegnante e nella mia classe c’era Richard Ford. E ho pensato. Caspita! È facile insegnare! Sono bravi questi studenti!», ride. 
E poi? 
«Poi ho insegnato a varie riprese: Princeton, Yale, Sarah Lawrence College… E ho scoperto che era un lavoro che non interferiva con la scrittura perché potevo dedicare la mattina ai miei libri e il pomeriggio a insegnare». 
Tra le università in cui è stato professore, non ha nominato la New York University (Nyu), di cui è da anni la stella più brillante… 
«Questa è una storia buffa», sorride. «La NYU mi aveva invitato a insegnare solo un corso temporaneo. Poi un giorno mi chiama il presidente dell’università e mi dice: abbiamo ricevuto un grosso finanziamento per una cattedra nel dipartimento di inglese, a condizione che questa cattedra sia in permanenza affidata a te. E io ho pensato: questo è un errore. Nessuno scrittore dovrebbe prendere un impegno simile. Ma quando ho cercato di spiegare le mie ragioni ho visto che il presidente faceva una faccia disperata. Edgar, mi ha detto alla fine, tu non capisci: se tu muori domani noi continueremo ad avere la cattedra e i soldi lo stesso», e scoppia in una risata. 
Che cosa insegna esattamente alla Nyu? 
«Un corso che si chiama “Artigianato della scrittura” in cui studiamo opere importanti di epoche e stili diversi, per insegnare agli studenti come leggono gli scrittori. Quest’anno il programma comprende Von Kleist, Kafka, Edgar Allan Poe, Virginia Woolf, Sebald, Faulkner e Mark Twain. È scioccante scoprire quanto poco siano letti questi scrittori». 
Ma per anni ha insegnato scrittura creativa. Un’invenzione tutta americana… 
«Sì, è una cosa che è nata qui alla fine della Seconda Guerra mondiale, per via del GI Bill (una legge che permetteva ai veterani di frequentare l’università gratis, ndr ). Grazie a questa legge molte persone che non avrebbero potuto andare all’università hanno avuto invece questa possibilità. Parlo di romanzieri ma anche di poeti. E quando un poeta usciva dall’università con un dottorato, aveva la possibilità di trovare un lavoro insegnando ai giovani poeti in erba. O ai romanzieri in erba. E così l’università americana è diventata lo sponsor ufficiale della letteratura del Paese». 
Quanto sono utili davvero questi corsi? 
«Molti ragazzi che frequentano i master di scrittura creativa non diventeranno mai seriamente scrittori. Diciamo che su una classe di quindici persone, ne hai due o tre bravi, quattro o cinque che diventeranno giornalisti, e altri due o tre che avevano solo bisogno di una psicoterapia», ride ancora mentre sorseggia il suo espresso decaffeinato. 
Ma non le pare che questo sistema di insegnamento abbia cambiato il modo in cui oggi si scrive in America? 
«Sì, nel senso che gli studenti ne escono tecnicamente più intelligenti dei loro predecessori che erano formati dai giornali. Ma sono anche più timidi, meno disposti ad abbracciare il mondo intero. E questo a causa della natura accademica della formazione. D’altro canto, i master di scrittura creativa sono diventati un modo di finanziare l’industria editoriale. Ai vecchi tempi un editore individuava un talento e poi doveva mantenerlo in vita per tre anni perché producesse qualcosa. Oggi gli editor valutano manoscritti già approvati da insegnanti che spesso sono scrittori affermati. E questa è una manna per l’industria editoriale. È anche un sistema che genera grossi profitti per le università». 
Allora tutti ci guadagnano e non ci rimette nessuno? 
«No. Un pericolo c’è. Quello principale è che qualcuno prenderà un diploma, pubblicherà un libro e poi troverà un lavoro in qualche college, dove insegnerà ad altri come lui a diventare scrittori-insegnanti. Il che crea una sottocultura che non ha niente a che vedere con la vita letteraria, ma ha a che vedere con insegnanti che scrivono, e che insegnano ad altre persone a diventare insegnanti che scrivono. E non c’è niente che si possa fare a riguardo». 
Il sospetto è anche che questi corsi abbiano creato una generazione di scrittori più addomesticata della precedente, con meno grinta, più secchiona… 
«No, su questo non sono d’accordo. Io penso che ci siano più veri scrittori trenta o quarantenni oggi, di quanti ce ne fossero quando ho cominciato io. C’è più vivacità, più azione. E più diversità di voci. E questo forse perché non c’è una guerra a tenerli insieme. Lei sta pensando alla crema, ai Bellow, Mailer, Styron, Vonnegut e Cheever, che la guerra ha tirato su, in un certo senso. Ma non sa quanti loro coetanei oggi sono dimenticati. Aspetti vent’anni e vedrà quanti nomi di questa nostra epoca saranno ancora in circolazione».

mercoledì 26 febbraio 2014

L’eccesso di notizie semina ignoranza


Claudio Magris

“Corriere della Sera“, 26 febbraio 2014

Non è strano che la cultura possa essere indebolita da un eccesso di informazione che impedisce di selezionare e di riflettere e mette in difficoltà i tempi dell’autentica cultura, che non è cumulo di nozioni bensì capacità di critica e autocritica, passione e distanza. Cultura, diceva Lin Yutang, è amare e odiare con fondamento. È strano invece che a impoverirsi paurosamente sino al ridicolo sia l’informazione, anche la pura e semplice informazione priva di riflessione.
È indubbio che oggi si disponga di strumenti incredibilmente veloci di informazione, come quelli offerti dai motori di ricerca. Questi ultimi sono un grande aiuto in ogni cosa, forniscono fulmineamente notizie e dati che altrimenti potremmo acquisire solo con un lungo, faticoso e incerto lavoro. Come tutti, accade anche a me di ricorrere spesso e utilmente, sia pure con l’aiuto materiale altrui, ai motori di ricerca per le cose di cui scrivo.
Quelle informazioni, certo, non sono ancora cultura, ma ne sono la premessa. Ma stranamente oggi è proprio l’informazione a regredire paurosamente, come se, invece di disporre di strumenti così funzionali, vivessimo in un mondo senza comunicazione, senza libri, senza giornali, senza radio e tv, senza internet.
Nel loro libro La cultura si mangia (Guanda) Bruno Arpaia e Pietro Greco citano impressionanti e comici esempi di incredibile ignoranza. Una deputata del Pd della scorsa legislatura, interrogata alla tv su che cosa sia una sinagoga, risponde: «È il luogo in cui le donne musulmane vanno a pregare il loro Dio». Cinquanta, forse anche cento anni fa, anche una persona analfabeta o quasi avrebbe saputo, sia pure rozzamente, che la sinagoga ha a che fare con gli ebrei.
Un’altra esponente politica, alla domanda su chi sia Netanyahu risponde «il presidente dell’Iran». Qui il meccanismo è chiaro: avrà aperto una volta un giornale, avrà visto un titolo a grandi lettere tipo «Netanyahu protesta con l’Iran» o cose del genere, e allora nella sua testa i due termini si sono associati, come paglia, fieno, destra, sinistra nelle esercitazioni dei soldati di leva un secolo fa.
Arpaia e Greco simpatizzano col centrosinistra, ma per equità non risparmiano l’ignoranza dovunque la trovino; ovviamente nel loro libro ci sono esempi altrettanto clamorosi che riguardano esponenti di centrodestra. Di recente Umberto Eco, sull’«Espresso», ricordava come nei quiz, trasmessi in tv in prima serata, alcune persone, indicate con nome e cognome, dimostravano di credere che Mussolini fosse ancora vivo alla fine degli anni Ottanta o Novanta.
Il guaio forse peggiore è che queste persone non sono fuggite nel deserto a nascondere la vergogna per essere state colte in tale inconcepibile ignoranza; forse saranno state magari lusingate di essere apparse, sia pure con ludibrio, in tv. Ma possono consolarsi, perché sono in buona compagnia in tutto il mondo. È spesso la classe dirigente o quella che si ritiene tale o destinata a diventarlo, che affolla i banchi riservati agli scolari con le orecchie d’asino. Una giovane donna di famiglia ebraica, i cui bisnonni sono morti in un lager, dimostrava di sapere assai vagamente chi era Hitler. Quando insegnavo al Bard College, un grande college americano dove ha insegnato ed è sepolta Hannah Arendt, su 39 graduate solo uno sapeva chi era stato Tito e nove non sapevano chi era Stalin.
È difficile capire come ciò possa succedere, visto che oggi è ancora più facile e rapido sapere chi era Stalin. Forse oggi c’è un grande squilibrio tra domanda e offerta, soprattutto in campo culturale. Pochissimi vanno in libreria a chiedere un libro per un loro reale interesse, pochi vanno in libreria con delle richieste personalmente motivate. In genere si va per chiedere ciò che viene prepotentemente offerto, e i motori di ricerca presuppongono un’iniziativa del consumatore, presuppongono che sia lui o lei a porre la domanda, anche se rispondono spesso scaricando a loro volta un’offerta gonfiata e dunque talora pure fuorviante. Ma neppure ciò spiega veramente come mai nell’epoca del saper tutto si sappia sempre meno.

lunedì 24 febbraio 2014

Le avventure dell'arte. Salvate il tesoro di Montecassino!


Ricostruite le vicende dell'esodo verso Roma gestito dai tedeschi delle opere e dei cimeli dell'Abbazia
Un documento inedito rivela che il vero salvatore fu Frido von Senger

Marco Carminati

'Il Sole 24 ore - Domenica'', 23 febbraio 2014

Mentre nelle sale cinematografiche impazza il film Monuments Men di George Clooney (gran successo di pubblico, un po' meno di critica), gli editori italiani cavalcano l'onda mediatica e sfornano libri sulle peripezie delle opere d'arte durante l'ultima guerra mondiale.
Uno dei libri più avvincenti e originali è senz'altro quello scritto da Benedetta Gentile e Francesco Bianchini per la casa editrice Le Lettere di Firenze. Il volume ha un titolo e sottotitolo da feuilleton («I Misteri dell'Abbazia. La verità sul tesoro di Montecassino») che nascondono, in realtà, un rigoroso saggio storico di brillantissima scrittura il quale ribalta addirittura, con nuove prove alla mano, la versione dei fatti fin qui generalmente accettata riguardo al salvataggio delle opere d'arte conservate nell'Abbazia di Montecassino prima dei bombardamenti alleati che la rasero al suolo il 18 febbraio 1944, settant'anni fa esatti.
Secondo una vulgata più o meno consolidata la salvezza dei cimeli e delle opere d'arte conservate nell'Abbazia fu opera di due nazisti "buoni", il tenente colonnello Julius Schlegel e il capitano Maximilian Becker, entrambi appartenenti alla famigerata Divisione Hermann Göring. Sarebbero stati loro a organizzare l'esodo dei tesori conservati nell'Abbazia per portarli al sicuro in Vaticano, poco prima che i "barbari alleati" radessero al suolo il faro della civiltà benedettina.
Le cose andarono veramente così? In verità, da decenni si dubita di questa sommaria versione dei fatti, anche se il tenente colonnello Schlegel è stato ufficialmente celebrato come il "salvatore" dei tesori di Montecassino. Quando morì, nel 1958, tutte le campane dei monasteri benedettini d'Europa suonarono contemporaneamente in suo onore, e Vienna, la sua città natale, gli dedicò un monumento in un parco, una targa sulla casa di residenza e addirittura una via. A Montecassino, invece, gli anziani monaci testimoni diretti degli avvenimenti, pur avvallando la versione ufficiale del salvataggio, si opposero sempre all'affissione sui muri dell'abbazia ricostruita di una targa a ricordo del "salvatore Schlegel". 
Ma allora, che cosa accadde veramente attorno al tesoro di Montecassino? E a chi si deve la sua salvezza dalla furia della guerra?
Come già hanno sospettato storici attenti quali Sergio Romano e Carlo Gustavo di Groppello, il merito del salvataggio dei tesori di Montecassino non poteva essere ascritto a Julius Schlegel e a Maxilimian Becker, per il semplice fatto che essi appartenevano alla Divisione Göring, cioè erano alle dirette dipendenze dell'avido e potentissimo Feldmaresciallo, uno dei più famigerati ladri di opere d'arte attivi in quegli anni in Europa. Anche se i due ufficiali trascorsero la vita a mentire sui fatti e cogliere gli allori dei «salvatori dei tesori di Montecassino», sia Schlegel che Becker (che, detto per inciso, fornirono sempre due diverse versioni dei fatti), in realtà evacuarono Montecassino con l'intento sottaciuto di spedire in Germania il meglio dei "capolavori salvati" presso il loro famelico Feldmaresciallo.
Chi sventò questo piano di furto? Un altro tedesco. Fu il comandante del XIV Corpo d'Armata corazzato tedesco in Italia, il barone Frido von Senger und Etterlin. Costui era un signore d'altri tempi, un nobiluomo poliglotta che aveva studiato ad Oxford, che proveniva dalla cavalleria ed avversava i nazisti. Era inoltre cattolicissimo e vestiva le insegne dell'ordine terziario benedettino. Appena giunto in Italia, nell'autunno del 1943, sventò il piano di Göring accorgendosi che le 180 casse di opere prelevate con autocarri a Montecassino da Schlegel e Becker tra l'ottobre e il novembre del 1943 avevano già oltrepassato Roma per essere nascoste in un deposito della Divisione Göring a Spoleto, pronte per venir spedite "al sicuro" a casa del Feldmaresciallo a Carinhall in Germania. Fu dunque Frido von Senger und Etterlin il vero salvatore di Montecassino perché intimò perentoriamente a Schlegel di consegnare a Roma e al Vaticano il tesoro di Montecassino, secondo i piani stabiliti.
Senger ha sempre taciuto sul reale andamento dei fatti. Da nobile e anziano militare, volle forse evitare di gettare altro fango sulle truppe tedesche, tendendo conto che l'esito della vicenda fu comunque positiva e fu forse l'unico punto a favore dei tedeschi in Italia: il fatto di aver oggettivamente svuotato Montecassino per tempo, evitando che tutto andasse distrutto del disastro del bombardamento alleato.
La figlia di Frido von Senger ha consegnato pochi anni fa all'Imperial War Museum di Londra le carte appartenute a suo padre, e in una di esse è contenuta la prova scritta di quanto già si sospettava: che fu il barone von Senger il responsabile del salvataggio del tesoro di Montecassino.
Sottoposto nell'immediato dopoguerra al processo di "denazificazione", von Senger poté contare su numerose testimonianze che confermarono il suo corretto operato durante la guerra. Una di queste testimonianze, rilasciata da Achim Oster (un oppositore del nazismo, la cui famiglia era stata decimata da Hitler), parla senza mezzi termini del ruolo diretto rivestito da von Senger nello sventare la rapina dei tesori di Montecassino, e dell'ordine impartito da lui stesso a Schlegel di consegnare la maggior parte degli oggetti artistici dell'Abbazia ai Musei Vaticani.
Così, in effetti, avvenne. Anzi, Schlegel, vistosi costretto a obbedire a von Senger, volle che – tra il dicembre '43 e il gennaio '44 – le consegne avvenissero platealmente, davanti a fotografi e cineoperatori, in modo da pubblicizzare al massimo il "nobile gesto" sul quale poi l'ufficiale austriaco costruirà la sua fama abusiva di "buon nazista salvatore dell'arte". 
In realtà, sappiamo che Schlegel riuscì egualmente a spedire in Germania una quindicina di casse per la gioia del suo comandante-collezionista. Sì, perché il tesoro di Montecassino era in realtà un insieme di molti, mirabolanti tesori. Quando Schlegel bussò alle porte dell'Abbazia nell'ottobre del 1943, il Cenobio non custodiva solo la propria mirabile Biblioteca, il proprio fantastico Archivio con documenti e codici millenari, le reliquie di San Benedetto, le opere d'arte e gli arredi liturgici. Montecassino era diventato un "deposito" (ritenuto sicurissimo fino all'8 settembre 1943) di altri strepitosi "tesori". Come ad esempio, il Tesoro di San Gennaro di Napoli, i principali capolavori della Pinacoteca di Capodimonte, le statue più celebri del Museo Archeologico di Napoli, emerse dagli scavi di Pompei ed Ercolano. Vi erano persino due cassette con i cimeli di Keats e di Shelley.
Quando i tedeschi convinsero l'abate Gregorio Diamare a consegnare loro tutte le opere presenti nell'Abbazia per salvarle dalla possibile distruzione del cenobio riparandole in Vaticano, l'abate e i monaci si fidarono, ma fino a un certo punto. Ad esempio nascosero ai tedeschi la presenza del Tesoro di San Gennaro e delle cassette con i cimeli di Keats e di Shelley. Queste meraviglie vennero portate direttamente dai monaci a Roma, celate tra i loro effetti personali. E fecero bene, perché, come s'è visto, i piani di Schlegel erano diversi, e se non fosse intervenuto pesantemente von Senger, i tesori di Montecassino, già ammassati a Spoleto, avrebbe probabilmente preso in gran parte la via del Brennero.
Sedici casse in realtà giunsero in Germania. Nella sua residenza di Carinhall, Göring fece in tempo ad aprirne alcune e a mangiarsi con gli occhi («quasi turbato», dirà al processo di Norimberga) alcuni capolavori di Capodimonte (come la Danae di Tiziano o la Parabola dei ciechi di Brueghel) e i cervi ercolanensi del Museo Archeologico di Napoli.
Poco dopo, gli eventi militari precipitarono e la Germania nazista tracollò. Le casse provenienti da Montecassino con i tesori dei musei di Napoli, finirono nell'ultimo nascondiglio del Terzo Reich, la miniera di Altausee vicino a Salisburgo. E lì verranno ritrovati, per fortuna intatti, da due mitici Monuments Men: Ernest De Wald e Ward Perkins.

L'Errore, Signore dell'universo


...È l'evoluzione che continua in campo sociale, si seleziona il peggiore, che però risulta il più adatto; è colpa di questo universo, sbagliato all'origine, venuto male, senza seguire il libro di Ada Boni delle ricette

Ermanno Cavazzoni

'Il Sole 24 ore - Domenica'', 23 febbraio 2014

L'errore è una questione di interferenza; una forza agisce su un'altra e la devia dal suo cammino; e poiché nel mondo (e nell'universo) ci sono tante forze in azione, si può dire che ci possono essere solo errori.
Ma come può Dio Onnipotente aver fatto a un certo punto del tempo (o del non tempo) un errore? Beh, l'errore è sempre un'interferenza di forze; dunque immaginiamo Dio assopito, miliardi di miliardi di anni. Sognava? No, non sognava, era imbambolato, non ancora nella fase Rem, che è piena di sogni; era in quel dormiveglia demente che somiglia a uno stato di anestesia. Poi cosa è successo? Un'esplosione, dicono, quindici miliardi di anni fa. L'ipotesi che oggi prevale è che Dio avesse accanto una bombola di gas, cioè non di gas molecolare come il metano o il propano, ma di plasma supercompresso che ha un rendimento rispetto al metano molto superiore, anzi, massimo, Dio va pensato come un super ricco che ha sempre il meglio. E poi dicono che Dio stesse fumando, cioè si era addormentato con la sigaretta in bocca, non si sa quando, prima del tempo. Dio era un gran fumatore, lo era sempre stato, accanito, ed essendo onnipotente fumava una sigaretta che non finiva mai, la brace sempre nello stesso punto, e lui che tirava una boccata eterna, senza far sosta per espirare. L'obiezione è: se era onnipotente come mai non aveva smesso di fumare con un atto onnipotente di volontà? La risposta è che Dio era a favore del fumo, sia nei cinema che nei locali pubblici, nelle scuole, in autobus; ossia Dio non riteneva che il fumo fosse nocivo; infatti teneva sempre una sigaretta pendente dalle labbra, come si vede che fanno i gangster nei film, e in più dormiva. Ora si sa che dormire con la cicca in bocca è pericolosissimo; Dio era anche onnisciente: come mai non lo sapeva? Beh, la risposta è che lo sapeva ma se ne fregava, cioè era un irresponsabile, ed è logico che lo fosse, non aveva famiglia, figli; l'avrà poi un figlio da mantenere, disoccupato, adottato da altri, perché lui, Dio onnipotente, non si curava molto dei figli, li lasciava delinquere e sproloquiare; e quindi col metro umano era un asociale, e fumava senza riflettere sui danni alla salute sua e dei circostanti col fumo passivo. Dunque dobbiamo immaginare Dio semi sdraiato, con la cicca in bocca, solo in tutto l'universo, tranne la bombola di gas vicino a lui. Come mai c'era la bombola? Beh, l'ipotesi oggi più accreditata è che gli universi fossero due, in uno c'era Dio che fumava, nell'altro c'era una bombola. Come mai una bombola? è stato detto. Beh, è stato risposto, era la forma della divinità dell'altro universo, dove credevano in una bombola, non ci trovo niente di male, ci sono universi che credono in un maritozzo, che credono in una cipollina sott'aceto, ogni universo ha il suo simbolo, e quando si contrae si riduce a questo; per cui galleggiano nell'infinito questi oggetti incomprensibili, una cassapanca, un paio di forbicine da unghie, un filo di nailon. 
Dunque nel nostro caso i due universi hanno interferito, qualcuno aveva lasciato la bombola aperta (dicono sia stato il demonio, che abitava un terzo universo ed era disordinato e distratto); fatto sta che quando a Dio è caduta la cicca di bocca c'è stata un'immane esplosione, circa quindici miliardi di anni fa, cioè il nostro universo è nato da un errore, l'hanno anche chiamata fluttuazione quantistica, che si poteva evitare, certo, se qualcuno svegliava Dio dal suo torpore, ma non c'era nessuno, neanche un segnalatore automatico di fughe di gas, Dio abbiamo detto che era un irresponsabile, ma d'altronde non poteva immaginare di avere vicino una bombola, era sorta da un'interferenza, e le interferenze sono all'origine di tutti gli errori. Se Dio avesse fumato in solitudine, che poteva succedere? Niente. Qualcuno dice un tumore ai polmoni. Ma non è provato ci sia un rapporto di causa effetto; Dio l'avrebbe saputo, sarebbe passato alla pipa, o alla sigaretta elettronica. Se non l'ha fatto, nella sua onnipotenza, significa che fumare per lui non era dannoso; anzi, magari gli faceva bene, che ne sappiamo noi di Dio, metafisicamente? Ha i polmoni? i puri spiriti hanno i polmoni? o una vescichetta di galleggiamento? o sono anfibi? Niente! Non se ne sa niente.
Comunque abbiamo appurato che al l'origine c'è stato un errore; e poi nell'errore si è continuato. La Terra ad esempio lanciata nello spazio a 113mila chilometri l'ora andrebbe in linea retta per sempre, se la forza del Sole non la tirasse a sé; per cui si è arrivati al compromesso che la Terra al Sole ci gira attorno, cioè è in uno stato reiterato e continuo di errore. Da questo errore ne ha dei benefici, ad esempio viene scaldata a spese del Sole; ma se viaggiasse in linea retta nello spazio nero, potrebbe scaldarsi in maniera più autarchica con il suo nucleo incandescente; i mari potrebbero essere caldi grazie ai vulcani sottomarini, circa trenta gradi (i vulcani sono però un errore rispetto all'uniformità della crosta, come i brufoli); l'atmosfera sarebbe tiepida, e il tepore mantenuto da nubi permanenti che fan da soffitto, o involucro atermico. Non vedremmo le stelle; poco male… ci sarebbe buio, cioè non usufruiremmo delle onde elettromagnetiche nella gamma del visibile dispensate dal Sole; anche qui poco male; avremmo sviluppato un sistema percettivo come i pipistrelli, cioè un sonar, col quale avremmo una visione analoga, leggermente rallentata per gli oggetti lontani; sono sicuro che ci troveremmo bene, autonomi, in linea retta nello spazio, sempre giorno (perché il sonar non ha bisogno di luce esterna), temperatura costante; anche l'uomo avrebbe le idee più chiare, sarebbe migliore, magari volerebbe, e le sue città sarebbero nate attorno ai vulcani, che producono acqua calda e varie sostanze, come zolfo, le automobili andrebbero a zolfo, o a idrogeno per non inquinare; ci fosse un monte come su Marte, il monte Olympus, alto 27mila metri; ci affacceremmo oltre le nubi, e da lì, con apparecchi sensibili alle onde elettromagnetiche, potremmo andare a vedere le stelle, che percepiremmo come suoni, ogni stella una nota, bellissimo, l'universo come un concertino, non ci sarebbe il concetto di panorama, di bel panorama, ma di concerto, che bel concerto! che vibrazioni!
Saremmo esenti da errore? No, perché se si rimedia a un errore, ne nasce un altro. Ad esempio prendiamo l'evoluzione: il fatto che l'umanità è fatta di tanti individui, tutti leggermente diversi, ognuno con i suoi gusti, le sue idee; gli Stati cercano di rendere tutti uguali e intercambiabili; ma è fatica vana; lo stesso sistema di riproduzione della specie, tramite la duplicazione del Dna e la combinazione di un maschio e una femmina, genera individui diversi, cioè errori, ogni individuo è geneticamente un errore. E poi nella vita ogni individuo, per quanto retto, integerrimo, costante, coerente, subisce l'influsso degli altri, pure loro retti, integerrimi, ma in modo diverso, per cui tutti e due deviano dalla loro via, e se si moltiplicano le deviazioni per il numero dell'umanità, si capisce quanto un povero essere è sballottato di errore in errore. Per questo un monaco andava in mezzo al deserto; ma anche lì è fatica vana perché uno si porta dietro gli orrendi discorsi sentiti, gli esempi infami visti, le immagini, che prendono corpo e sono le tentazioni, cioè l'attrazione verso una via storta, erronea.
E se l'errore fosse la legge fondamentale dell'universo? Magari ci sono universi dove tutto è perfetto e simmetrico, una particella ogni metro, ovunque; ma qui da noi si parla di grumi, già all'origine; cioè la bombola poteva esplodere uniformemente, invece ha formato grumi irregolari, come un budino mal fatto, dai quali sono venute le galassie, dicono; che sono errori, un universo da buttare via … poi ci stupiamo che ci sono ladri, farabutti, una classe politica corrotta, nepotista, sodomita, sbagliata; lo si poteva immaginare subito, quindici miliardi di anni fa; se un budino vien male, cosa vuoi stare a mescolare?
Infatti in genetica l'errore è rimasto fondamentale. Il Dna viene copiato di padre in figlio, se non ci fossero errori saremmo ancora amebe o protozoi o semplici virus, e ci duplicheremmo sempre identici; invece di errore in errore si sono create le differenze, individui più adatti, nati dal caso, e quindi le specie. Un pesce ad esempio anomalo che usciva dall'acqua; era considerato asmatico dagli altri pesci, gli avevano dato pochissimi anni di vita, e invece scopre che può respirare; suo padre lo chiama e gli dice: Cos'è che ci trovi là fuori, nello spazio siderale? (perché per i pesci lo spazio siderale incomincia appena fuori dall'acqua), che cosa ci trovi in quel vuoto disidratato? Il figlio, che rispetto alla media dei figli era un po' scemo, era cioè un errore, altrimenti non usciva dall'acqua come tutti i pesci assennati, non sa cosa rispondere e dice: Niente papà, non ci trovo niente, però delle volte quando mi voglion menare, io scappo là fuori, e ci sto fin che non si sono calmati. - Perché invece non lo dici al maestro? (supponendo che anche tra i pesci ci sia qualcuno come un maestro di ruolo). - Eh papà … perché anche il maestro mi mena. - Perché ti mena? - Dice che non studio. - Come? non studi? con tutti i sacrifici che facciamo per farti studiare?... eccetera eccetera. E il pesce padre corre dietro a suo figlio per menarlo, così il figlio guizza fuori dall'acqua e ha un enorme vantaggio sul padre, sul maestro e sui coetanei che gli danno sempre del fesso, del minorato, mentre il maestro gli da dell'ignorante, e il padre del disgraziato dice che finirà delinquente. Questo pesce è un errore, e là fuori sta solitario nel deserto disabitato, trovando non male la respirazione aerea, finché trasmetterà i suoi difetti ai figli, che di errore in errore si metteranno a gracidare. - Dove hai imparato questi modi volgari? - dirà il pesce capostipite ai figli. - Finirai delinquente! Ma i figli dopo un milione di anni saranno rane, e guarderanno i pesci dall'alto in basso, i pesci non smetteranno di considerarli dei degenerati, nell'acqua si sta così bene! si annulla la gravità, mentre fuori uno è schiacciato dal peso, bel gusto saltare e cadere giù!
E così siamo arrivati all'uomo, che dicono sia il vertice della scala zoologica, cioè sia la massima degenerazione. Scimpanzé e gorilla ci guardano con compatimento, loro che dal punto di vista di una proscimmia sono già dei degenerati.
Ma prendiamo la storia: gli uomini vivevano di caccia e pesca, era bello! alla sera accendevano il fuoco, le donne cucivano dei pellicciotti, in fondo alla grotta un pittore disegnava i mammut, niente conservanti nei cibi, cottura media delle carni, pochi grassi, dopo cena niente televisione, neanche il telegiornale, perché i fatti erano pochi, non c'erano partiti, quindi niente dibattiti elettorali, se qualcuno era stato investito da un mammut lo sapevano già, «poveretto!» dicevano, anzi «che fortuna!» dicevano, piuttosto che finire con la badante, mal tollerato; poi cori alpini, braccio di ferro, questi erano gli svaghi; non venivano in mente a nessuno le ferie, perché si consideravano in ferie sempre, né avevano quell'orribile istituzione che sarà il weekend, di cui già Leopardi diceva che è un'illusione malefica, anche se ai suoi tempi non c'erano ancora le file in autostrada, se no non avrebbe detto della domenica «diman tristezza e noia»; avrebbe detto «diman liti e bestemmie», ma anche del sabato non avrebbe detto che è il più gradito; maledizioni sia al sabato che alla domenica.
E quindi nacque la civiltà, che fu tutta un errore. Schiavi, frustate, piramidi; i monarchi volevano soprattutto piramidi, era la mania del tempo, con tutte le conseguenze per la popolazione. Poi ci fu l'impero romano, Nerone, Caligola, Eliogabalo, che si presentava come figlio del Sole, o comunque nipote o discendente, e di errore in errore l'impero crollò. E continua a crollare, anzi direi che è sempre crollato e crolla tuttora, a volte anche in modo penoso, tra festini danzanti, nanetti e baiadere. È l'evoluzione che continua in campo sociale, si seleziona il peggiore, che però risulta il più adatto; è colpa di questo universo, sbagliato all'origine, venuto male, senza seguire il libro di Ada Boni delle ricette, che dice di mescolare il budino sul fuoco, e non lasciarlo lì abbandonato; perché anche non avesse fatto i grumi (cioè le galassie), si sarebbe bruciato e risulterebbe comunque immangiabile. Quindi dall'errore impariamo a cavarci il bene possibile, come dicevano gli stoici, la più giusta ed erronea delle filosofie.

domenica 23 febbraio 2014

Ma perdere la testa per una statua di marmo non è (solo) da uomini


Laura Bossi

“Corriere della Sera - La Lettura“, 23 febbraio 2014

Qualche giorno fa, la sera di San Valentino, una signora in visita alla Gipsoteca di Possagno (Treviso), al lume delle lanterne, fu colta da malore davanti a una Venere del Canova. I giornali parlarono di Sindrome di Stendhal . Il termine fu coniato da una psichiatra fiorentina in riferimento a quel passaggio di Roma, Napoli e Firenze in cui il poeta descrive l’attrazione vertiginosa che esercitano su di lui i monumenti della chiesa di Santa Croce, e il languore, quasi uno svenimento, che lo obbliga a uscire all’aria aperta. 
Secondo la psichiatra tale stato di confusione non è raro nei turisti moderni che si avvicinano senza alcuna precauzione alle opere d’arte. Tra i casi clinici citati dalla psicoanalista Graziella Magherini, un bavarese di età matura, tale Franz, è folgorato dal Bacco del Caravaggio. Prova un’eccitazione sessuale ambigua, si sente oppresso, traspira, ha l’impressione di essere sul punto di perdere i sensi. Bisogna portarlo in ospedale. Isabella, una giovane professoressa francese di educazione artistica, in visita agli Uffizi con i suoi allievi, è presa dall’impulso di voler lacerare i quadri; quei ritratti di personalità o autoritratti di artisti le sembrano «terribilmente reali». Secondo la psichiatra, in questo caso non è Eros, piuttosto Thanatos, a provocare una tale emozione. 
Ma è soprattutto la scultura con la sua presenza nello spazio e le sue proprietà tattili a esercitare uno strano fascino, o addirittura a suscitare una varietà singolare dell’amore sensuale. 
L’agalmatofilia (dal greco agalma, statua o immagine, e philia, amore) fu particolarmente cara ai Romantici. Il poeta Joseph von Eichendorff (La statua di marmo) racconta l’avventura di Florio, giovane gentiluomo in viaggio dalle parti di Lucca, che scopre, una notte, una statua marmorea di Venere presso uno stagno, come se la dea, appena uscita dalle acque, contemplasse l’immagine della propria bellezza. A Florio sembra addirittura che gli occhi della statua si aprano, le labbra si schiudano, e la vita con il suo fuoco divino animi le belle membra. 
Heinrich Heine, nelle Notti fiorentine, ci narra di un fanciullo che prova un turbamento inesplicabile alla vista di una bianca dea di marmo che giace nell’erba di un parco. La notte egli non riesce a trovare sonno e fantasticando sotto i raggi della luna si ripromette di baciare la statua sugli angoli della bocca, dove le pieghe delle labbra formano irresistibili fossette. Infine non resiste all’imperioso desiderio, si alza, raggiunge la bella addormentata nel giardino notturno e, come se stesse per commettere un delitto, bacia la dea con un fervore, una tenerezza, un delirio come non proverà mai più. 
L’amabile Antonio Baldini, in un dialogo con Mario Praz sull’amore delle statue pubblicato all’inizio degli anni Quaranta proprio dal «Corriere della Sera», ci rivela che il poeta neoclassico Ugo Foscolo fu turbato dal collo voluttuoso della Venere italica del Canova mentre nella sua deliziosa novella Paolina fatti in là, in cui racconta una visita notturna a Villa Borghese una notte d’estate, sempre Baldini ci dà una versione Biedermeier dell’agalmatofilia. La Galleria è rimasta aperta, il poeta percorre le sale silenziose, riconosce dapprima, nella penombra, l’ermafrodita che dorme sul suo letto sfatto, il piede preso nel lenzuolo. Carezza la sua capigliatura femminea, la guancia marcata dal vaiolo. Il corpo dell’adolescente ambiguo gli pare bruciante. Un po’ più lontano, vede la bella Paolina Bonaparte, seduta sul suo letto di marmo; cioè non propriamente seduta, ma rilevata sul fianco e appoggiata con il gomito sui cuscini, e si sarebbe detto che sorrida alla luna (sempre la luna!). 
Il poeta si siede su quel poco di materasso che Paolina gli lascia a disposizione, come un medico le appoggia l’orecchio sulla gelida schiena, poi le passa il braccio intorno al collo, e le mormora tra i ricci: «Paolina, fatti in là. Dammi ancora un po’ del tuo fresco giaciglio. Non ho, tu vedi, dove andare a dormire». Poi le prende la mano che tiene il pomo e sente distintamente «la grana dolcissima della pelle e la buccia invece liscia liscia della mela e le fossette delicate sul dorso della mano e l’attaccatura del picciuolo del frutto». 
Mario Praz sottolinea la parentela tra queste fantasie e quella più esplicita di Mérimée, che echeggia il tema di un racconto medievale: il giorno delle nozze un giovane imprudente si toglie l’anello per giocare al pallone, e lo infila al dito di un’antica statua di Venere. Ma quando cerca di riprenderlo, il dito si è ripiegato. La sera stessa, la dea sale le scale di casa sua e sotto gli occhi inorriditi della sposa, lo stringe in un abbraccio mortale. Dietro la nostalgia della donna ideale sorge il convitato di pietra del Don Giovanni, la statua del Commendatore. Aveva ragione il Gran Duca Cosimo III quando ordinò di trasportare la Venere de’ Medici dai giardini della Villa alla sua attuale sede di Firenze, perché pare che fosse «ben spesso con parole e con gesti de’ più scorretti abusata». Ma si dirà: l’agalmatofilia, che ci accompagna dall’antichità, sembra colpire solo gli uomini. Ed è vero che i casi femminili sono più rari, e spesso descritti con un’intenzione parodica. L’esempio più celebre è probabilmente il monologo di Molly Bloom nell’Ulisse di Joyce, in cui Molly si domanda perché tutti gli uomini non sono fatti come una bella statuetta di marmo comprata dal marito, così bianca, pulita, innocente che si vorrebbe baciarla dappertutto. 
Con simile ironia, Mario Praz racconta, ne La casa della vita, della sua florida cameriera Dirce infatuata di una statua d’Amore. Ricordiamo anche la scena del film di Luis Buñuel, L’âge d’or («L’età dell’oro»), in cui la protagonista succhia il piede di una statua di marmo, oppure la visita solitaria di Ingrid Bergman al Museo di Napoli nel Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, in cui si arresta affascinata davanti all’Ercole Farnese . Il desiderio eccitato dallo sguardo sarebbe forse un tratto specificamente maschile? Lo sguardo dell’artista creatore che come Pigmalione vuole animare la materia inanimata sarebbe uno sguardo sessuato? David Freedberg si interroga addirittura se lo sguardo nella cultura occidentale non sia uno sguardo maschile, che ricerca il possesso. 
Ma forse è più importante notare che l’oggetto dell’agalmatofilia è una dea, un idolo immobile dalla bellezza eterna, ideale, inaccessibile. L’agalmatofilia sarebbe dunque una ierogamia , un matrimonio sacro tra una divinità e l’uomo.

Kokoschka. Stravolgere lo sguardo sulla realtà per riuscire a vederla davvero


Achille Bonito Oliva

“La Repubblica“, 23 febbraio 2014

VIENNA. “La mia vanità, che non ha nulla a che fare con il mio corpo, si riconoscerebbe volentieri in un mostro, se vi riconoscesse lo spirito dell’artista, e io sono orgoglioso della testimonianza di un Kokoschka, perché la verità deformante del genio è più alta di quella dell’anatomia e poiché in presenza dell’arte la realtà è solo un’illusione ottica” (Karl Kraus, Die Fackel).
L’io al centro dell’attenzione è quello di Oscar Kokoschka esposto al Leopold Museum di Vienna: pitture, grafiche e duecento fotografie fino al 3 marzo.
Nel clima della secessione viennese, Oskar Kokoschka (1886 – 1980) adopera la pittura come uno specchio anamorfico capace di alterare la distanza simmetrica tra il modello e il dipinto, di annullare la semplice vista dell’uomo comune che usa l’occhio come un organo di semplice riproduzione visiva e invece fondare una nuova dimensione dello sguardo che presuppone il nervo di una sensibilità particolare e stravolgente.
Lo sguardo diventa un organo con doppia polarità che funziona attraverso un elemento d’introversione a un altro di estroversione. La prima adatta a restituire le tre dimensioni delle cose, il secondo capace di catturarne un’altra, la quarta, quella psichica e interiore. Dunque lo sguardo ha una capacità creativa che appartiene soltanto all’artista, armato di una sensibilità particolare e di un sistema di allarme di estrema e necessaria fragilità. L’intensità di questo sguardo scavalca la temporalità, intesa come pura percezione del presente, ed accede ad una allargata e profetica. Wolf Dieter Dube racconta del ritratto del biologo Forel rifiutato dalla famiglia dello scienziato in quanto ritenuto non rassomigliante. Successivamente il professor Forel, dopo un colpo apoplettico, ha cominciato sempre più a rassomigliare al quadro dipinto da Kokoschka. L’immagine è portatrice di una dimensione allucinata che svela nodi e ferite, cicatrici e ingorghi, stratificati sotto la coltre della rimozione e dell’inibizione. A conferma il suo testo teatrale Assassino speranza delle donne.
L’assassinio delle convenzioni diventa la pulsione originaria dell’arte linguistiche o morali, politiche o sociali. Tutto si realizza attraverso la costruzione di un’immagine che è per definizione un gesto di rifondazione, dopo quello destrutturante delle convenzioni, e dunque di affermazione vitale. Chi produce questo sano, feroce ed anche allegro assassinio è l’artista O.K. che affonda il suo sguardo oltre la soglia del privato senza mai indietreggiare davanti alle indicibili e indecenti apparizioni di verità nascoste.
La pittura dell’artista austriaco passa attraverso una fase di scarnificazione grafica che annulla ogni dettaglio sovrastrutturale e, secondo le cadenze di una sensibilità anche giapponese, capace di una riduzione all’essenzialità della linea, accede ad un segno concentrato in un “punto focale”, lo svelamento di una nascosta ed inaccessibile identità.
Tale punto focale sviluppa una forza di irradiazione e dilatazione dell’immagine, un’energia vitale che trasfigura il soggetto e lo sposta su un versante estremamente interiorizzato. Nello stesso tempo la scarnificazione grafica trova un suo ispessimento attraverso la materia pittorica e stratificata che ricorda la grande lezione italiana di Tiziano, Tintoretto e Veronese. Un doppio passaggio dall’apparenza alla sostanza, dallo scheletro all’opulenza di una nuova carne.
L’arte di O.K. è la pratica di uccisione e resurrezione, di uno svelamento e rivestimento, di una riduzione e una rifondazione della materia: “Ora io costruisco composizioni da volti umani (modelli come le persone che hanno resistito con me per lungo periodo, persone che mi conoscono e che io conosco perfettamente, tanto che mi perseguitano come incubi) e in queste composizioni un essere è in conflitto con un altro in rigida contrapposizione come l’odio e l’amore, e in ogni quadro cerco ‘l’accidente’ drammatico che salderà gli spiriti individuali in un ordine superiore”.
Amore e odio, morte e resurrezione, assassinio e speranza. Due linee attraversano l’opera di Kokoschka: una gotica e una barocca. Quella gotica tende alla scarnificazione e alla restituzione di un permanente motivo dolente, quella barocca a riscattare tale impulso negativo e a rovesciarlo in un’istanza vitale e positiva. Materia e spirito si fronteggiano assiduamente nel campo dell’arte e si attraversano in una sana ambivalenza senza che una sopravanzi l’altra. In questo senso la pittura di O.K. arricchisce il senso comune, creando uno spostamento dalla pura vista allo sguardo complesso.

sabato 22 febbraio 2014

Nell’universo dell’inconscio. Così l’arte dell’altra Europa affascinò l’Italia di inizi ‘900


Vento del Nord

Francesca Montorfano

“Corriere della Sera“, 21 febbraio 2014

Veniva dai paesaggi innevati, dai fiordi, dalle foreste, da quegli spazi reali e fantastici popolati di miti e di simboli che si aprivano al sogno e al mistero dell’esistenza, l’ondata di arte e pittura che tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento avrebbe segnato profondamente l’esperienza culturale italiana. Ossessione nordica, l’aveva definita nel 1901 il grande critico Vittorio Pica, sintetizzando con straordinaria efficacia quel fenomeno, quasi una malia, che stava caratterizzando le prime Biennali veneziane, con largo spazio riservato a Böcklin, indiscusso maestro che aveva introdotto questo nuovo filone artistico in atmosfere mediterranee, o a Klimt, a cui nel 1910 verrà dedicata addirittura una personale. Se fino a quel momento a svolgere il ruolo da protagonista nel panorama europeo era stata la Francia, ecco che adesso l’asse si spostava e proprio gli artisti nordici apparivano più svincolati da seduzioni ottocentesche e ingessature accademiche, liberi di esplorare i territori della modernità, di sperimentare soluzioni tra le più avanzate e dirompenti. 
Sarà oggi la mostra di Palazzo Roverella, curata da Giandomenico Romanelli, a raccontare attraverso più di 150 opere tra dipinti, incisioni, manifesti delle prime Biennali, fotografie, illustrazioni, tutta l’importanza di questo momento della grande arte europea, ricco di infinite sfaccettature e di reciproche corrispondenze. «Furono scelte, quelle veneziane, fatte a ragion veduta, che determinarono orientamenti critici e di gusto, che seppero evitare le secche del tardo impressionismo e guardare al di là delle Alpi, ripercorrendo la linea culturale delle Secessioni, di Vienna e di Monaco, di Lipsia e di Darmstadt fino al Grande Nord, al mondo scandinavo, al filone simbolista esoterico dei fiamminghi, agli scozzesi della scuola di Glasgow e agli italiani che con sensibilità e linguaggi diversi ne hanno subito la fascinazione e condiviso le ricerche, De Chirico e De Carolis, Sartorio e Laurenti, Tito e Casorati, Tosi, De Maria o Wolf Ferrari tra i tanti. Né va dimenticato che l’Italia, da poco unificata, sentiva forte il richiamo di esperienze artistiche di carattere nazionale, come quelle nordiche, che avevano saputo recuperare un’identità comune attraverso gli antichi miti, le saghe popolari, le radici culturali», sottolinea Romanelli. 
Ad aprire il percorso della mostra, a far entrare la dimensione onirica sulla scena, sarà Arnold Böcklin, con quei suoi paesaggi notturni avvolti dal silenzio, con quella «Rovina sul mare» così inquietante e misteriosa e quell’immaginario popolato di satiri e ninfe, di tritoni e nereidi appartenenti a un’età dell’oro ancora primigenia, densa di valenze e suggestioni. Una lezione che fruttificherà in Max Klinger, in Diefenbach con i suoi universi allucinati e visionari, negli ambienti esoterici di Khnopff, nelle isole dell’italiano Wolf Ferrari, artista raffinato attento anche a citazioni klimtiane o nella celebre «Lotta di centauri» di un De Chirico non ancora metafisico. 
Da interpretazione simbolica o verista adesso il paesaggio cambia, si fa trascrizione dell’interiorità, di stati d’animo e di sentimenti, mentre la pittura appare più sintetica, essenziale, seguendo il richiamo di Pont-Aven, dei nabis e dei fauves, come in Akseli Gallen- Kallela, cui la Biennale del 1914 dedicherà una monografica, in Leo Putz, in Cuno Amiet, in Tullio Garbari o Gino Rossi. Se anche gli interni domestici mutano, diventando fiaba del quotidiano, poesia del silenzio fatta di luci e atmosfere sommesse, sarà l’immagine femminile a denotare il rinnovamento più radicale, uscendo dai ristretti confini dell’atelier per immergersi nella natura o per dar voce a ciò che la parola non riesce ancora, ai desideri, alle pulsioni più nascoste e inconfessabili dell’inconscio, prendendo le sembianze di quella femme fatale di provocante sensualità che rivolge lo sguardo allo spettatore nel celeberrimo «Peccato» di von Stuck. 
Ancora capolavori carichi di pathos, virtuosismi dai forti contrasti luminosi e i neri profondi degli inchiostri, sono le opere che chiudono il percorso, il ciclo del «Guanto» di Klinger e quello dei «Misteri» di Alberto Martini, le incisioni di Luigi Bonazza e gli altissimi esiti di Munch, che esordirà in Biennale proprio attraverso la grafica, anch’essa teatro dei suoi incubi e delle sue lacerazioni interiori. 


Quelli che la verità sta nel bianco e nero

Klinger, Kubin, Martini: il disegno che dialoga con il soprannaturale

A ben guardare, l’ossessione nordica che secondo il critico Vittorio Pica aveva travolto gli artisti italiani, sedotti dalle avanguardie di matrice germanica, andava letta al contrario. La vera ossessione nordica fu infatti la passione travolgente che prese i popoli germanici per il mondo antico. Un’ossessione, appunto, fu per esempio quella di Heinrich Schliemann per Troia, che portò l’antiquario tedesco a investire la vita e i propri beni nella ricerca dell’antica città cantata da Omero. Le scoperte archeologiche, gli studi di filologia, i repertori sulle genealogie degli dei e dei miti, tutto questo materiale di conoscenze sul mondo greco fu messo insieme proprio da studiosi di area germanica, tanto che ancora oggi il tedesco è lingua imprescindibile per chi studia l’antichità. Dunque fu la Grecia, attraverso la Germania, a produrre quel nuovo e perturbante repertorio di misteri, dimensioni ignote, mostri e inquietudini che poi affascinò, di ritorno, i nostri artisti italiani. 
I centauri e le sirene di Arnold Böcklin nonché le sue isole con i cipressi che crescono in Grecia e in Italia; le Meduse, le Arpie e i Sileni di Franz von Stuck; i boschi e i fiumi coperti di neve di Akseli Gallen Kallela trovavano un’eco nel panteismo greco di fauni e ninfe. Tale mondo di simboli e di creature ibride non solo univa per affinità elettive il Nord al Sud, ma attraverso la Germania si calava senza dissonanze nella contemporaneità e infine compiva il suo viaggio di ritorno del «grand tour europeo» con i nostri De Chirico o Alberto Martini. Un’ossessione circolare, insomma, che passava dall’uno all’altro di questi artisti che fra il sentimento della modernità e il culto del passato sentivano un legame indissolubile. 
I più immaginifici fra questi spiriti inquieti prediligeranno il disegno e l’incisione, il bianco e nero, come è stata appunto intitolata una sezione della mostra di Rovigo. Secondo Fernand Khnopff, per esempio, l’artista era un vate, un eletto, e proprio per questo al medium artistico della pittura preferiva il disegno, privo com’era di mediazione con le forze soprannaturali e in diretto contatto con la dimensione onirica e mentale. 
Lo stesso rapporto che intratteneva col disegno Alfred Kubin, uno dei più geniali disegnatori del fantastico, il quale riusciva a liberarsi delle allucinazioni che lo tormentavano solo fissandole con la matita. Max Klinger, la cui produzione grafica gli ha dato maggior gloria di quella come pittore o scultore (fu lui a realizzare il monumento a Beethoven per la XIV mostra della Secessione per la quale Klimt creò invece il celebre «fregio di Beethoven») scrisse addirittura un trattato teorico in lode del bianco e nero. «Griffelkunst» (L’arte dello stilo), questo il titolo del saggio, analizza tutte le tecniche su carta che non fanno ricorso alla tavolozza. La pittura e il colore, secondo Klinger, esaltano il regno del visibile, la bellezza, la vita, la luce, lo splendore della natura. Il disegno, invece, dà forma agli aspetti oscuri dell’esistenza, ai suoi misteri e agli incubi interiori. Il disegnatore, infatti, non riproduce la realtà vista dall’occhio, ma quella della fantasia, che non esiste se non nella propria testa. Ecco perché i lavori con lo stilo sono per lo più visioni notturne o allegoriche come il sogno raccontato nel ciclo di dieci disegni (tre anni dopo eseguiti anche a incisione) intitolato «Fantasie di un guanto trovato, dedicate alla donna che lo perse». Si tratta di una narrazione illogica e surreale del ritrovamento di un guanto femminile da parte di Klinger su una pista di pattinaggio a Berlino; nel terzo foglio il protagonista si addentra nel regno dei sogni e il guanto, di volta in volta piccolo, esageratamente grande, attivo o passivo, diventa il protagonista di avventurosi episodi notturni che terminano al mattino, quando il guanto viene ritrovato su un tavolino. 
Anche uno dei nostri disegnatori più visionari, Alberto Martini, grande ammiratore di Klinger, usò la china per illustrare i racconti di Edgar Allan Poe o l’«Amleto» di Shakespeare, ovvero testi che aprono al regno del noir e della follia. «La penna — scriveva Martini — è il bisturi dell’arte del disegno, è uno strumento acuto difficile come il violino». Ciò che legava questi amanti del bianco e nero era, infatti, il culto per il virtuosismo e coloro che lo praticavano in grande solitudine si sentivano una confraternita di eletti connessa nei secoli da sentimenti di filiazione. 
Non affermava forse Eraclito, uno dei sacerdoti dell’ossessione nordica, che «Il Sovrano che si rivela nell’oracolo di Delfi non dice e non nasconde, ma fa uso di segni»? 


L’altrove mediterraneo di Böcklin (che amava litigare con Wagner)
E Savinio fu «arbitro» tra le isole dei morti e la campagna romana

Emanuele Trevi

Sono in grado di testimoniare su un episodio tardivo di «ossessione nordica». Era la fine degli anni Settanta, il fondo più buio del pozzo degli Anni di piombo, quando alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma venne allestita una piccola mostra con la celebre serie del Guanto di Max Klinger. In tantissimi abbiamo visitato quella saletta come se fosse stata la strabiliante porta d’accesso al sogno di un altro, che però poteva anche essere, catturato chissà come dalla mano di quell’infallibile disegnatore, uno degli infiniti sogni che, pur fatti da noi stessi, si dissolvono senza rimedio al risveglio. Tra le vittime del sortilegio, va ricordato almeno Francesco De Gregori, che alle avventure del più celebre guanto della storia dell’arte dedicò addirittura una delle sue canzoni. 
Se erano stati capaci di ossessionare a varie riprese i diffidenti pubblici meridionali, questi grandi maestri del Nord erano stati a loro volta ossessionati irrimediabilmente dal Sud. È questa reciprocità il segreto della storia di Klinger e anche di quella del più grande di tutti, Arnold Böcklin, che a Roma trovò anche moglie e finì i suoi giorni nella campagna di Firenze, dopo aver reinventato, a colpi di tempera all’uovo e resina di ciliegio, tutta una mitologia pagana intesa come suprema sintesi dell’umano e del bestiale — non a caso, il centro propulsivo dell’immaginazione del maestro svizzero è il centauro. In virtù di uno di quei semplici casi che danno ai posteri l’occasione di ricamarci un po’ sopra con la fantasia, Böcklin (nato nel 1827) veniva da Basilea come il grandissimo Johann Jakob Bachofen, l’autore del Matriarcato , labirintica e geniale ricostruzione del mondo antico pareggiata solo, per l’energia della visione e la profondità delle intuizioni, dalla Nascita della tragedia di Nietzsche. 
Cresciuti in un severo ambiente luterano, nel quale la stessa parola «mitologia» poteva suonare come un sinonimo di «peccato», sia il pittore che il filosofo trovarono probabilmente la loro felicità nello staccarsi dalle origini, proiettandosi con tanto slancio nell’altrove mediterraneo da farne qualcosa di completamente estraneo ai classicismi consolidati, portassero pure la firma di Goethe e Winckelmann. Furono in pochi a capire la portata dell’esperimento. In Francia si discuteva molto delle sproporzioni anatomiche del busto dei centauri (ma Böcklin affermò con fierezza: «io non dipingo per i francesi!»). Come Böcklin, anche Bachofen, più vecchio di una decina d’anni, amava la campagna romana più della stessa Roma, e se il primo sembra scrivere poemi mentre dipinge, il secondo dà l’impressione di utilizzare la sua sterminata erudizione come i pennelli e i colori di uno strabiliante affresco. Niente a che vedere, però, con la fusione delle arti predicata da Wagner. Alberto Savinio ha profuso tutta la sua inimitabile ironia nel racconto dei tre disastrosi incontri avvenuti tra il musicista e il pittore. 
Una volta Böcklin venne invitato da Wagner ad assistere a un’esecuzione per piano del Crepuscolo degli dei. Suonava Rubinstein, ma Wagner capì subito che lo svizzero si annoiava a morte, e saltò su esclamandogli in faccia: «Vedo che non vi intendete affatto di musica!». E Böcklin, di rimando: «Più di quanto voi v’intendete di pittura». Bisogna leggere la biografia che Savinio ha dedicato a Böcklin gustandone ogni singola frase. Apparve nel 1943, come secondo capitolo di una raccolta intitolata Narrate, uomini, la vostra storia . 
Nel 1943 gli uomini di lingua tedesca che si aggiravano per l’Italia erano nient’altro che orde di assassini e depredatori. Savinio guarda alla moda di Böcklin con nostalgia per il tempo dei nonni, quando la vita poteva ancora sembrare un bel gioco. Nelle loro cornici liberty, le riproduzioni dell’«Isola dei morti» figuravano immancabilmente nei salotti accanto al pianoforte e al busto di Beethoven. Cercando le ultime tracce di quel mondo scomparso, Savinio bussa alla porta della casa romana di un certo professor Pallemberg, genero di Böcklin. Nel salotto del villino sulla via Nomentana è appesa una testa di bambino. Non è un’opera del maestro, ma di uno dei suoi tanti figli, anch’esso pittore. La vicinanza di un prosaico termosifone ha sconciato il quadro di brutte macchie. Sembra di essere arrivati davvero, in quella sera di guerra, a un capolinea della memoria e del gusto. Poi inizia la storia dell’arte, che è tutta un’altra storia.

L’apparenza inganna. Così la scienza ci insegna che il mondo non è come sembra


Dai filosofi greci ai quanti e alle stringhe
Nel nuovo saggio di Carlo Rovelli una versione personale 
dello sviluppo teorico della fisica e dei modelli di descrizione del reale
Con un interrogativo: è tutto vero?

Piergiorgio Odifreddi

“La Repubblica“, 19 febbraio 2014

Alziamo gli occhi e osserviamo il Sole e la Luna girare in cielo, ma in un caso ci sbagliamo e nell’altro no. Guardiamo le stelle e ci illudiamo di vederle come sono ora, ma stiamo osservando la loro luce di anni o millenni fa. Passeggiamo nel silenzio di un bosco, ma siamo avvolti da innumerevoli onde radio che solo un apparecchio ci permette di udire. Ci chiniamo a osservare un fiore colorato, ma non scorgiamo gli stessi colori di un’ape che vede nell’ultravioletto. Tiriamo un pallone a poche decine di metri, ma non pensiamo che nel vuoto il calcio l’avrebbe spedito all’infinito. Alziamo con fatica un peso, e non ci rendiamo conto che è quasi tutto costituito di vuoto. Gli atomi non li vediamo neppure al microscopio, che ci rivela però un mondo alieno in cui un insetto ci appare come un mostro da film dell’orrore.
E così via, di illusione in abbaglio, perché le cose sono molto diverse da come immaginiamo o crediamo che siano. Ma qualunque libro di divulgazione scientifica decostruisce la nostra ingenua e fallace immagine del mondo, mostrandoci in maniera sorprendente che La realtà non è come ci appare. Così fa appunto l’omonimo libro di Carlo Rovelli (Cortina), un fisico quantistico e filosofo della scienza che dalle pagine del Sole 24 Ore allieta spesso le nostre domeniche con profonde meditazioni e acute recensioni, che aspettano di trovare la loro unità in quella che sarà una memorabile raccolta.
Rovelli ci ha già regalato, un paio di anni fa, una ricostruzione del pensiero di Anassimandro in Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro (Mondadori). Ponendosi, allora, sulla scia dei classici Fisica e filosofia di Werner Heisenberg e La natura e i greci di Erwin Schrödinger, che fin dalla nascita della teoria dei quanti si rivolsero al pensiero dei presocratici per trovarvi le radici della nuova fisica che avevano creato.
Con il suo nuovo libro Rovelli ci fornisce ora la propria versione dello sviluppo teorico della fisica, dalle origini ai nostri giorni. Ponendosi, questa volta, sulla scia degli innumerevoli divulgatori che hanno raccontato in tutti i modi la stessa storia, da L’evoluzione della fisica di Albert Einstein e Leopold Infeld a L’universo elegante di Brian Greene, come un pianista che si confronta con gli altri grandi interpreti del passato o del presente sul terreno dell’interpretazione di un classico.
La musica è dunque quella nota, che parte dalle intuizioni presocratiche di due millenni e mezzo fa e arriva alla relatività e ai quanti del Novecento, passando attraverso la meccanica del Seicento e l’elettromagnetismo dell’Ottocento. Anche se poi ciascun interprete, dopo essersi cimentato nella propria esecuzione, si concede una cadenza o una serie di libere variazioni. Nel caso di Rovelli, queste variazioni sono suonate sul tema dell’unificazione delle due grandi teorie del Novecento nella cosiddetta
gravità quantistica, al cui sviluppo egli stesso e i suoi collaboratori hanno contribuito.
Per quanto riguarda l’esecuzione dei temi classici, Rovelli si è ispirato, consciamente o inconsciamente, al Cartesio dei Principi di filosofia, che lo stesso autore suggeriva di «leggere come se fossero un romanzo». Ed effettivamente così si legge, d’un fiato, la prima parte del libro, che racconta con tocco leggero e convincente i fatti salienti della storia della fisica teorica.
Ad esempio, alle pagine 44-45 si ricorda che Galileo misurò l’accelerazione di gravità sulla Terra, trovando il famoso valore di 9,8 metri al secondo quadrato. Poi Newton immaginò una piccola Luna che ruotasse all’altezza delle montagne, ne calcolò con la terza legge di Keplero il periodo in un’ora e mezza, e con la formula dell’accelerazione centripeta trovò che questa era esattamente l’accelerazione calcolata da Galileo. Dunque, la piccola Luna viene tenuta in orbita dalla stessa causa che fa cadere i corpi sulla Terra.
Newton non amava però i romanzi di Cartesio, ai quali imputava di essere (come tutti i romanzi) verosimili, ma non veritieri. E a Rovelli avrebbe ricordato che in realtà Galileo aveva misurato un valore completamente sbagliato, di circa 4,6: dunque, quando Newton provò a fare il suo giochetto, si accorse che non funzionava. Fu solo quando trovò lui stesso il valore corretto, che poté riprovarci. Ma non usando la terza legge di Keplero, che non si poteva verificare per un corpo come la Terra, con un solo satellite. Bensì, calcolando l’accelerazione della Luna vera e trovando che era in proporzione inversa al quadrato della sua distanza rispetto alla Terra.
La prima parte del libro di Rovelli deve dunque essere presa cum grano salis, ricordando che è una poetica trasposizione letteraria e non un prosaico resoconto scientifico. L’esatto contrario della seconda parte, in cui invece le storie su “Isaac e Albert”, come vengono amichevolmente chiamati i protagonisti, cedono il passo alla storia della “gravità quantistica”: un tentativo di mettere insieme la gravitazione einsteniana e la meccanica quantistica, cercando di rimanere il più possibile coi piedi per terra.
Si tratta di uno dei due tentativi estremi di soluzione del problema dell’unificazione delle due grandi teorie novecentesche: l’altro è la più nota, ma anche più fantascientifica, “teoria delle stringhe”, divulgata nel citato libro di Greene. A differenza di quest’ultima, che i seguaci della prima accusano di essere un castello in aria e invidiano per il suo successo quasi monopolistico, la gravità quantistica procede con i piedi di piombo e a passettini guardinghi, senza lanciarsi in speculazioni avventate. Anche così, i risultati non sono comunque meno eccitanti, e certo sono più affidabili. L’equazione di Wheeler-DeWitt su cui si basa la teoria permette di descrivere le linee del campo gravitazionale in maniera analoga a quelle del campo elettromagnetico, ma quantizzata come le orbite degli elettroni negli atomi. Esistono limiti precisi e calcolabili alla divisibilità dello spazio (lunghezze, aree e volumi), ed esso si dissolve insieme al tempo, mentre l’infinito scompare. In una parola, la realtà cessa veramente di essere come ci appare, com’eravamo stati avvertiti fin dal titolo.
La conclusione è però sorprendente, perché dopo aver raccontato la sua storia da fisico Rovelli ricorda di essere anche filosofo, pone la domanda: «Siamo sicuri di tutto questo?», e risponde con un sonoro: «No». Ora, che gli scienziati non siano ancora sicuri delle teorie ancora in divenire, e in particolare della gravità quantistica, è ovvio. Ma che siano invece perfettamente sicuri di quelle ormai confermate oltre ogni ragionevole dubbio, come appunto la relatività generale e la meccanica quantistica, è altrettanto ovvio. Che queste teorie diano soltanto «le migliori risposte trovate finora e disponibili al momento», non significa che un giorno quelle risposte saranno sovvertite: significa, invece e soltanto, che pur continuando a rimanere valide nei loro ambiti, saranno inglobate in risposte più ampie che le includeranno come casi particolari. Naturalmente, Rovelli queste cose le sa benissimo e le ammette nel corso del libro, quando parla da fisico. Ma quando indossa i panni dell’umanista scrive parole più adatte a un postmoderno che non crede all’esistenza di verità definitive, che non a uno scienziato che non solo ci crede, ma addirittura le conosce.

mercoledì 19 febbraio 2014

Segnalazione. George Mackay Brown e Andrea Longega: A WORK FOR POETS

A Work for Poets


Una poesia di George Mackay Brown 
tradotta in italiano ed imitata nel suo dialetto 
da 
Andrea Longega 

Legni e linoleum di Gaetano Bevilacqua

Edizioni dell'Ombra

lunedì 17 febbraio 2014

Fantastica zoologia. La realtà dell'unicorno



Michel Pastoureau, instancabile indagatore dell'immaginario medievale, 
rivela i segreti dell'animale più misterioso e puro della fauna dell'epoca
E lo rende, più che mai, attuale

Stefano Salis

''Il Sole 24 ore - Domenica'', 16 febbraio 2014

Si potrà sempre dubitare, si farà presto a dire «è un falso, non ci credo, tutte panzane, portatemene uno vero». Sarà. Eppure se anche, facilmente, risponderete «no» alla domanda «gli unicorni esistono?», magari, come me, invece, sareste ben lieti di rispondere «sì», o potreste lasciarvi aperta ancora una minima speranza. E per tutta una serie di motivi. «Descritto per la prima volta cinque secoli prima dell'era cristiana, l'unicorno ha sempre intrigato gli zoologi, catturato l'attenzione dei viaggiatori, sedotto gli artisti e fatto sognare i poeti». Non vi basta? A me avanza, addirittura. Ed è per questo che all'unicorno, figura iconica della cultura medievale e rinascimentale – per poi sparire man mano, sopraffatto dalla zoologia reale di Linneo e dei Lumi –, animale divenuto libresco, letterario, fantasioso, meraviglioso e non per questo meno reale, seppure incantato, dovremmo prestare, oggi più che mai, non solo la nostra attenzione ma anche rinnovare la nostra sorpresa venerazione. La frase che ho citato sopra è del massimo conoscitore dei bestiari medievali, Michel Pastoureau che sui Secrets de la Licorne (il francese, curiosamente, è l'unica lingua che attribuisce all'animale il genere femminile) ha scritto un libro, in collaborazione con Élisabeth Delahaye, appena uscito in Francia e che meriterebbe senz'altro di approdare anche da noi. 
Animale gentile, solitario, purissimo, raffigurato in vari modi (quasi sempre rassomigliante a un cavallo, però) e sempre più spesso con un manto bianchissimo e un potentissimo corno in mezzo alla fronte, l'unicorno ha popolato l'immaginario umano per secoli. E non ne è ancora uscito. Avverte bene, Pastoureau, che è inutile, e persino dannoso, farsi beffe o giudicare la zoologia medievale con i criteri delle scienze attuali. Quella era una cultura nella quale l'immaginario era reale e presente non meno di ciò che poteva essere toccato. E così, se si parla di animali, insieme all'unicorno c'erano grifoni e draghi, fenici e sirene, basilischi e manticore. Ma attenzione, perché alla medesima zoologia fantastica – anzi, no, meglio a quella fantastica zoologia – appartenevano non di meno animali che ci sono oggi ben noti, che so, leoni, pantere, cervi ed elefanti. Anche per essi vigevano le regole di fantasia e immaginazione adoperate per gli animali mai repertoriati dai naturalisti. Tutto, infatti, era simbolo di qualcosa d'altro. Perché mai il non concretamente esperibile dovrebbe essere falso? Dopotutto: avete mai toccato un sogno?
Sia come sia, l'unicorno è ben reale nell'esperienza quotidiana delle alte sfere come del popolino, quando il papa Clemente VII – non proprio un pagano miscredente – manda in dono un corno di unicorno (certo, ai nostri occhi è un dente di un narvalo) al re Carlo di Francia. Per augurargli buona sorte e proteggerlo dagli eretici, viste le proprietà di quella incredibile, e rarissima, reliquia. Pare che il papa, nel 1533, avesse pagato per il regalo sontuoso 33mila ducati (per dire: a Michelangelo, per la Sistina, ne vennero riconosciuti 3mila). Non era solo un talismano contro gli eretici, del resto. L'unicorno era divenuto prima di quella data addirittura una figura cristologica (cioè era divenuto un simbolo cristiano, e non sono poche le rappresentazioni di Gesù in forma di unicorno, come di cervo o di leone) e il corno era metafora dell'unità di Spirito Santo e corpo. Ma, anche più prosaicamente, aveva poteri eccezionali, quel corno, ed ecco perché era così ricercato. Guariva dalle malattie, toglieva i veleni, rendeva potabile l'acqua agli animali, poteva allontanare dalla morte i moribondi – ancora in questa funzione lo ricorda Harry Potter nel primo episodio della saga della Rowling, quando ne incontra uno. L'animale era selvaticissimo e indomabile: l'unico modo per catturarlo era mettere una vergine su una radura e aspettare che l'unicorno, attratto irresistibilmente dall'odore della sua castità, arrivasse a inginocchiarsi davanti alla fanciulla di turno e poi dormire posando la testa sopra il di lei grembo. A quel punto, i cacciatori potevano intervenire. Sono centinaia, per tutto il Medioevo, le rappresentazioni artistiche di questo tipo di scena: si va dai capolavori pittorici (variante: le donne dell'unicorno, ritratti di fanciulle rappresentate mentre tengono in mano – sì, a volte gli unicorni sono piccoli come gatti, avete presente il Raffaello della Galleria Borghese? – o sono vicine alla bestia) a quelli di altro tipo artistico: su tutti gli arazzi raffinatissimi di Cluny, sui quali a lungo si sofferma Pastoureau. L'unicorno era dunque simbolo di purezza e innocenza, ma indubbiamente anche di forza e unione. Non a caso, dai primi del Seicento e fino a oggi (!) l'unicorno e il leone sono i simboli delle insegne della regina d'Inghilterra, arrivandole, per parte araldica, l'unicorno dal trono di Scozia. E, per verificare quanto sia ancora presente (e reale!) l'unicorno, fate un salto a Parigi al Museo della Caccia e della Natura, dove ha una sala dedicata (con tanto di prime pagine de «Le Monde» che annuncia il ritrovamento di veri unicorni in Africa, siamo negli anni Cinquanta...), o ammirate lo stupendo pesce d'aprile della British Library, che nel 2012, dichiara di avere ritrovato un antico e perduto manoscritto medievale contenente le ricette per cucinare l'unicorno, una volta catturato. Un modo intelligente e divertito di prendere con leggerezza, ma non stupidamente, la propria missione e il proprio lavoro. E, forse, uno dei lasciti più duraturi dell'unicorno è questo. Che bisogna avere occhi per "saper vedere" l'invisibile, che la forza trascendente dell'immaginario è presso di noi, è con noi, e ci rende umani. Perché siamo capaci di fabbricarci e credere, infine, agli unicorni, a dispetto della noia quotidiana. Ogni tanto, una miracolosa e inaspettata apparizione bianca, pura, ineffabile, ci ricorda la potenza della nostra immaginazione. Ed è la letteratura, è l'arte, è la poesia. L'unicorno è il richiamo del meraviglioso: io, per me, lo voglio ascoltare.


Michel Pastoureau, Élisabeth Delahaye, Le secrets de la Licorne, Editions de la Réunion des Museés Nationaux, Parigi, pagg. 140,
Da ricordare: Michel Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Einaudi, Torino, pagg. 336, € 35,00; Boria Sax, Imaginary animals, Reaction Books, Londra, pagg. 278, 

Michelangelo ultimo giorno


Anniversari dell’arte

Il 17 febbraio 1564 moriva a Roma il grande Buonarroti

Poche ore prima della fine era ancora al lavoro davanti a una scultura: 
la celebre «Pietà Rondanini»

Antonio Paolucci

''Il Sole 24 ore - Domenica'', 16 febbraio 2014

Michelangelo lascia questo mondo alle 23 del 17 febbraio 1564 a 89 anni non ancora compiuti. Le ultime ore di lucidità, prima di ammalarsi, entrare in coma e morire, le dedica alla Pietà che oggi sta al Castello Sforzesco di Milano e che tutti conoscono come "Rondanini". La testimonianza è di Daniele da Volterra, l'allievo che fu presente alla fine del maestro. Scrivendo a Vasari il 17 marzo 1564, a un mese esatto dalla morte di Michelangelo, e poi al nipote Leonardo Buonarroti l'11 giugno successivo, scrive: «Egli lavorò tutto il sabato che fu inanti al lunedì che si ammalò;…lavorò tutto il sabato della domenica di Carnevale e lavorò in piedi studiando sopra quel corpo della Pietà…». La casa studio dell'artista in Macel de' Corvi oggi non esiste più, demolita alla fine dell'Ottocento negli sventramenti per la costruzione del Vittoriano. Noi possiamo solo immaginare quella notte di sabato quando il Carnevale tumultuava al Corso di Roma distante poche centinaia di metri e il grande vecchio affrontava in solitudine il suo ultimo duello con l'arte. «In piedi» – dice Daniele da Volterra – e «studiando». Le due espressioni non sono scelte a caso. «In piedi» perché il confronto con l'arte è, appunto, un duello, un indomito affrontamento; «studiando» a significare che per Michelangelo l'espressione figurativa è stata sempre, fino all'ultima vigilia, ricerca, rovello mentale, strenuo sperimentalismo.
La prima registrazione documentata, involontariamente e inconsapevolmente "critica", della Rondanini, ci viene da una fonte del tutto imprevedibile. L'autore non è un artista né uno storico dell'arte ma un oscuro burocrate, un piccolo funzionario del Tribunale di Roma. Il 19 febbraio 1564, il giorno dopo la morte, viene stilato l'inventario delle cose esistenti nello studio dell'artista. Michelangelo era una celebrità internazionale, le sue opere avevano un altissimo valore di mercato e questo spiega la sollecitudine delle autorità. Il funzionario incaricato compila un elenco a uso legale e quindi veloce e sintetico come avviene in questi casi, allora come oggi. Ma ecco come l'impiegato in questione descrive la Rondanini: «Un'altra statua principiata per uno Christo con un'altra figura di sopra, ataccata insieme, sbozzata e non finita». L'estensore dell'inventario è così sommario nella descrizione (e forse così imperito) che non arriva nemmeno a definire l'iconografia («uno Christo con un'altra figura di sopra») eppure scrive che quelle figure, sbozzate e non finite sono «ataccate insieme». Attaccate insieme: il fulcro poetico della Rondanini sta tutto qui, in quel corpo di Cristo che si attacca alla Madonna come per annullarsi in lei, come per rientrare nel grembo materno.
La Rondanini, singolarità all'epoca più unica che rara, nasce senza committente e senza destinazione. Sembra che sia esistita e abbia preso forma soltanto per il suo autore, quale strumento e specchio di una privata riflessione spirituale e artistica. Tutte le notizie e i documenti in nostro possesso lo confermano. Giorgio Vasari che probabilmente la vide a Roma negli anni fra il 1550 e il '53, durante una sua visita allo studio dell'artista, la mette in relazione con la «Pietà» oggi custodita nel Museo dell'Opera del Duomo di Firenze. Così ne parla: «E tornando a Michelangelo, fu necessario trovare qualcosa poi di marmo perché e' potessi ogni giorno passar tempo scalpellando e fu messo un altro pezzo di marmo dove era stato già bozzato un'altra Pietà, varia da quella (s'intende la Pietà fiorentina) molto minore». 
Il passaggio non è chiaro. Si capisce tuttavia che Michelangelo nei suoi anni tardi amava lavorare a una Pietà che aveva già conosciuto una precedente parziale elaborazione. La frase vasariana («perché e' potessi ogni giorno passar tempo scalpellando») fa pensare a una attività privata, svincolata da una committenza o da una occasione precise, altrimenti lo storico non avrebbe mancato di segnalarcelo. 
Dobbiamo quindi guardare alla «Pietà Rondanini» come all'opera più privata e sperimentale di Michelangelo, un'opera alla quale egli ha lavorato solo per se stesso e che gli è servita per meditare intorno al tema del rapporto fra il Figlio e la Madre. È un tema questo che attraversa tutta la vita del Buonarroti. Dalla giovanile «Pietà» di San Pietro, quella che a Giorgio Vasari apparve come un miracolo («È un miracolo che un sasso da principio senza forma alcuna si sia mai ridotto a quella perfezione che a fatica la natura suol formare nella carne»), alla «Pietà» fiorentina dove la Madre, nel gesto di disperato possesso e quasi di fisica compenetrazione col Figlio morto «si vede sottentrare a quel corpo col petto, colle braccia e col ginocchio in mirabil atto». Così il Condivi il quale mostra di capire, meglio del Vasari, quale era l'idea che ossessionava Michelangelo negli anni della tarda maturità: l'idea cioè della Madre che si riappropria del corpo del Figlio morto quasi a volerlo riportare nel grembo che l'ha generato. La Rondanini rappresenta il punto di arrivo di questa meditazione. Lo possiamo capire da un disegno dell'Ashmolean Museum di Oxford nel quale Michelangelo elabora con finitezza maggiore o minore ma con varianti importanti fra le varie proposte, tre idee. Il tema è quello del Cristo morto in posizione verticale sostenuto dalla Madonna. Se esaminiamo le tre idee grafiche pensando alla Rondanini ci accorgiamo che c'è stato un processo di graduale avvicinamento.
I tre schizzi visti in successione testimoniano di un processo di smagrimento formale e, quasi, di spiritualizzazione. Diminuiscono a poco a poco l'evidenza e la venustà del corpo di Cristo, sempre di più la Madre che sostiene diventa la Madre che copre, che assorbe, che si identifica con il Figlio senza vita. Attraverso i disegni del l'Ashmolean Museum, la cui datazione più probabile si colloca nei primi anni Cinquanta del Cinquecento, l'idea delle due figure «attaccate insieme» prende forma, si definisce come l'immagine di un obiettivo gradualmente messo a fuoco. 
A questo, alle due figure «attaccate insieme», pensava e lavorava l'ottantanovenne Michelangelo nelle ultime ore della sua vita cosciente.