mercoledì 21 gennaio 2015

Siamo tutti Alice eterni sognatori dell’altro mondo




Il classico di Lewis Carroll compie 150 anni: 
uno scrittore ci svela perché non possiamo non amarlo

Michele Mari

"La Repubblica", 21 gennaio 2015

L’autore usava filastrocche e nonsense anche durante le sue lezioni di matematica L’opera ha avuto infinite interpretazioni dalle trame algebriche alla critica sociale

ALAN Turing, il padre dell’intelligenza artificiale che il pubblico sta conoscendo grazie al film The imitation game , si suicidò nel 1954 mangiando una mela rossa in cui aveva iniettato del cianuro. Non sappiamo se una parte della sua mente meravigliosa si illudesse di poter tornare alla vita come Biancaneve; è tuttavia evidente che un suicidio così didascalicamente fiabesco ha una fortissima valenza regressivoinfantile.
Oltre a implicare una polemica dichiarazione di “innocenza” (Turing era stato processato e condannato per omosessualità).
Genio, Inghilterra, matematica, puritanesimo, taccia di immoralità, infanzia, fiaba: le coordinate che definiscono Turing portano dritto a Charles Lutwidge Dodgson, che esattamente 150 anni fa firmò Alice nel paese delle meraviglie con lo pseudonimo di Lewis Carroll. Sotto il suo vero nome pubblicò invece una cospicua serie di trattati di logica e di articoli, in uno dei quali rivelava la scoperta di un principio (noto come “regresso di Bolzano-Carroll”, essendo stato scoperto indipendentemente anche dal boemo Bernard Bolzano) del quale si sarebbe avvalso lo stesso Turing nell’elaborazione della propria “macchina” algoritmica. E pur se non drammaticamente come Turing, anche Carroll ebbe i suoi guai con la morale pubblica. A lungo è stato gravato dal sospetto di pedofilia, e sebbene oggi la maggior parte degli studiosi ritenga che il suo interesse per le bambine, per quanto morboso, non lo spingesse mai ad alcun tipo di abuso o di molestia, resta il fatto che egli stesso era consapevole dell’ambiguità, tanto da distruggere migliaia di fotografie infantili scattate in oltre venticinque anni. Compagno di strada dei preraffaeliti, in quelle bambine ritratte fra erbe e fiori cercava di cogliere l’innocenza: e cosa di più rassicurante per un cultore dell’innocenza che regredire al livello degli innocenti? Bamboleggiare, esprimersi per filastrocche e nonsense, abbandonarsi a un immaginario onirico e surreale furono il suo modo, paradossalmente, di essere “rispettabile”.
Non ci si stupisce nell’apprendere che la sua proverbiale balbuzie cessava come per incanto quando la sua frase si metricizzava in filastrocche rimate, le stesse che informano Alice nel paese delle meraviglie e il successivo Alice nello specchio.
Non solo: ma da diverse testimonianze parrebbe che Carroll, non dalla cattedra di matematica che aveva alla Christ Church ma nel salotto di casa propria, in occasione di lezioni private, insegnasse in versi, riducendo formule e teoremi a filastrocche. E ancora nel 1885, sotto il titolo A tangled tale (Una storia intricata), raccolse una serie di racconti matematici in cui l’elemento ludico era direttamente proporzionale all’intento didascalico.
La logica combinatoria insinuò in Carroll una vera ossessione per i giochi di carte e per l’enigmistica (in questo il suo scrittore fraterno è Leo Perutz, autore di romanzi fantastici e di manuali di scacchi e di bridge): tutti conoscono la tremenda Regina di Cuori e le sue cartesuddito (capitolo 8 di Alice: Il campo da croquet della Regina), ma quanti, giocando a Word ladder (“Scala di parole” o metagramma), sanno che quel gioco fu inventato da Lewis Carroll nel 1879? In quel caso si trattava di escogitare qualcosa per intrattenere due bambine, Julia ed Ethel Arnold (la prima destinata ad essere la madre di Aldous Huxley), proprio come la genesi di Alice, notoriamente, è legata a una gita in barca con le tre sorelline Liddell, il 4 luglio del 1862. Lorina, Alice e Edith Liddell, figlie del rettore della Christ Church, avevano rispettivamente tredici, dieci e otto anni, e non era la prima volta che si diportavano sul Tamigi con Carroll e con il reverendo Duckworth (un nome che sembra finto, e che infatti ispirò il personaggio dell’anatra: ma a parte questo, fosse forma deontologica o più cruciale profilassi, pare che per queste scampagnate e per le sue sessioni fotografiche Carroll facesse sempre in modo di non rimanere mai da solo con le sue giovani amiche). La leggenda vuole che, inventata lì per lì, la vicenda di una bambina che finisce in un sottomondo fantastico fosse subito attribuita a quella, delle tre sorelle, con l’età più consona: quindi non la già adolescente Lorina e non la troppo piccola Edith, ma la decenne Alice, la quale poche settimane dopo si vide consegnare da Carroll un manoscritto intitolato Alice’s adventures under ground. Da quel momento Alice si impose come “libro” anche nella coscienza del proprio autore, che per oltre due anni continuò a lavorarvi con una dedizione che nei paesi di lingua inglese ha fatto la gioia della filologia delle varianti. Nel 1865 venivano così alla luce, associate alle magnifiche illustrazioni di John Tenniel, le Alice’s adventures in Wonderland , uno dei tre o quattro libri più tradotti al mondo dopo la Bibbia. 
Leggibilissimo “letteralmente”, come di fatto è stato letto da centinaia di milioni di bambini, Alice si presta a livelli di lettura via via più complessi. Il matematico Martin Gardner ha dimostrato che dietro molte apparenti assurdità si nascondono altrettanti principii matematici, mentre altri esegeti hanno evidenziato una fittissima trama di allusioni a personaggi e vicende della società contemporanea, oltre alla continua parodia di opere letterarie e teatrali. Carroll, è questo il punto, non voleva rinunciare a dire la sua sul mondo dei “grandi”, ma voleva farlo “da bambino”, anzi da bambino che sogna, come dir e da bambino al quadrato. Ed essere bambino, per lui, significava innanzitutto non essere lì ma da un’altra parte, e poco importa che quest’altra parte fosse il sottosuolo o il paese delle meraviglie o il mondo dietro lo specchio. Coniglio bianco, dunque innocente, egli vuole essere inseguito e trovato da Alice, metafora semplicissima (e dunque ardua) per esprimere il proprio disperato bisogno di essere riconosciuto ed amato; a chi lo farà, in cambio, egli regalerà un intero universo fantastico, a partire dalla lingua. È questo il vantaggiosissimo patto che dopo un secolo e mezzo, miracolosamente, continua ad essere sottoscritto da ogni nuovo lettore.

Fino a che punto un artista può essere irresponsabile?


Dopo gli attentati di Parigi e la grande manifestazione per la libertà di espressione
 il dilemma degli intellettuali

Stefania Parmeggiani

"La Repubblica", 21 gennaio 2015

LIBERI, ovviamente. Ma anche irresponsabili? Dopo la strage di Charlie Hebdo due milioni di persone sono scese in strada per difendere la libertà di espressione. Poi sono cominciate le domande. Gli scrittori, gli artisti e gli intellettuali devono pensare alle conseguenze delle loro opere? O, come sostiene Michel Houellebecq, hanno il diritto di essere irresponsabili? Lui ha pubblicato Sottomissione senza curarsi delle reazioni, né di eventuali censure né dei fondamentalisti islamici. Charlie Hebdo è tornato in edicola con lo stesso slogan di sempre: «Giornale irresponsabile». Ma questa è veramente l’unica condizione possibile?
Lo abbiamo chiesto a filosofi, scrittori e artisti. «Credo che lo scrittore, in quanto scrittore, non possa fare altro che obbedire alla forma che l’opera sta assumendo nel suo cervello e nel suo corpo». Walter Siti riconosce a se stesso e ai suoi colleghi un solo dovere: «Capire quando una frase o un episodio sono dettati da una bassa voglia di notorietà, o quando invece sono necessari alla compiutezza della forma. In quel caso la frase o l’episodio deve scriverli, anche se possono apparire provocatori o politicamente scorretti». Irresponsabile quando crea, ma non come cittadino che «deve affrontare le reazioni che la sua opera suscita nella società intorno a lui, senza lamentarsi troppo. Giuste o ingiuste che siano». In fondo può sempre sperare nei tempi lunghi: «I parenti di Brunetto Latini non possono più querelare Dante per l’outing proditorio sul loro congiunto, né Dante poteva prevedere che l’aver messo all’Inferno Maometto e il genero Alì avrebbe potuto fruttargli un rogo della Commedia a Sana’a o a Mossul».
Anche il filosofo Remo Bodei non vuole sentire parlare di limiti: «Ci sono voluti secoli per sottrarre l’arte al potere della religione e della politica e adesso non si può tornare indietro ». Non si può negoziare un diritto acquisito. «Capisco che sia un rischio andare a toccare la fede delle persone, come dice Papa Francesco, ma il problema non è nella libertà degli artisti, ma nella suscetti- bilità dei credenti». In Occidente la tolleranza non è stata una conquista facile: «Ci sono volute le guerre di religione e tanto sangue da fare girare le ruote dei mulini, ma oggi ognuno può dire ciò che vuole purché non imponga la propria opinione con la violenza o con l’astuzia».
I limiti della decenza come ha detto Steve Bell, vignettista del Guardian, non possono essere codificati. E poi il buon gusto è un concetto ambiguo. Non piace a Rodrigo Garcia, il regista teatrale che come Romeo Castellucci si è scontrato con i fondamentalisti cristiani e ha portato i suoi spettacoli in teatri blindati dalla polizia.
Lui pensa alla pressione sociale come «a un batterio invisibile che lavora in profondità nella psiche di un artista» e, interrogato da Le Monde, si è spinto a paragonare la responsabilità «a una cellula cancerogena capace di distruggere la libertà».
Meglio la solitudine, quella che Gipi, illustratore e fumettista, estremizza fino al paradosso: «Secondo me gli artisti devono essere abbandonati a se stessi, non protetti, non garantiti... Non devono neanche porsi il problema della libertà perché se l’arte ha un senso è quella di aprire finestre, anche se quello che c’è al di là è scomodo. Se poi parliamo di religioni, per me è anche peggio: capisco il riguardo o la sensibilità nei confronti delle persone, ma non quello per delle creature invisibili o per delle ideologie».
E in teatro? Dietro la maschera dell’arte ci si può prendere gioco di tutto? «Sì, su un palcoscenico tutto è lecito», ha spiegato ai lettori francesi Shermin Langhoff, direttrice del Maxim Gorki Theater di Berlino. «Penso che nessun artista o scrittore debba esitare a produrre la sua arte perché teme o pensa o immagina che possa offendere qualcuno o provocare reazioni negative», ci spiega Alan Bennett, autore inglese che nei suoi libri come nei suoi spettacoli ha messo in luce le contraddizioni della cultura britannica. «Ogni scrittore deve scrivere quello che gli detta la sua coscienza, senza cautele o autocensure». Perché come sostiene Moni Ovadia, «rappresenta solo se stesso e i lettori sono liberi o no di sceglierlo». Lui si dichiara agnostico e disinteressato al tipo di satira pubblicata da Charlie Hebdo, ma contrario a ogni forma di censura. «E poi si è già responsabili di ciò che si scrive. Lo si è nel momento in cui il tuo testo viene pubblicato o portato in un teatro, sottoposto al giudizio di chi è libero di apprezzarlo, di contestarlo, di ignorarti o di sentirsi offeso e quindi di querelarti».
In base alle leggi e non alla morale, come precisa Maurizio Cattelan, il provocatore dell’arte, l’uomo che in una sua celebre opera raffigurò il Papa abbattuto da meteorite: «Un giudice può condannarti per aver infranto la legge, ma solo un fondamentalista può arrogarsi il diritto di condannare a morte chi ha infranto una legge morale, perché questa è soggettiva e variabile. Gli artisti, come gli scienziati, hanno la capacità di guardare oltre i limiti imposti dalla legge morale del tempo in cui vivono. È un raggio d’azione privilegiato, che comporta da sempre dei rischi. Basta pensare a Copernico o a Galileo per rendersi conto che non c’è niente di nuovo, anzi; la storia si ripete, pur con leggere variazioni. Ieri era la scienza, oggi sono gli artisti, ma la caccia alle streghe è la stessa».
Di opposta opinione Michelangelo Pistoletto, artista che da sempre lavora sui concetti di libertà e responsabilità. «Due termini fondamentali legati alla creatività. La libertà totale di per sé sfugge alla realtà e ha bisogno di un contrappeso che è la responsabilità. Solo così, attraverso una libertà responsabile, l’arte può tracciare una via, una prospettiva nella società. Abbiamo acquisito un’autonomia straordinaria sul piano artistico, ma non basta. Ci vuole responsabilità perché questa libertà possa essere bene applicata. La libertà è illimitata. La responsabilità scandisce questa libertà nelle opportunità del reale. Viviamo un tempo in cui i contrasti tornano a esplodere. Dobbiamo trovare la capacità di mettere gli opposti in equilibrio. L’arte deve assumersi una responsabilità civile. Non deve approfittare della libertà per mancare di rispetto». Ancora più radicale Will Self, autore noto per i suoi racconti satirici, grotteschi e spesso provocatori. «Io difendo la libertà di espressione, ma questa non può esistere senza la responsabilità ». La sua riflessione, consegnata a un dibattito su Channel Four , è stata una presa di posizione netta nei confronti della linea editoriale di Charlie Hebdo. «Una buona satira deve colpire i potenti, e questo non è il caso dei musulmani ». Per lui il settimanale francese appartiene a quella tradizione post ’68 «che provoca e poi sta a vedere cosa accade». Irresponsabile, dunque. Come rivendica Houellebecq, ma questa volta senza orgoglio.

domenica 18 gennaio 2015

Fiat lux


L’Unesco ha dichiarato il 2015 l’anno della luce


L’informazione corre su una ragnatela scintillante
Un lungo viaggio attraverso la luminosità: dal microscopio alle stelle

Piero Bianucci

"La Stampa", 18 gennaio 2015

Le parole che state leggendo hanno percorso migliaia di chilometri sotto forma di impulsi di luce imprigionati in sottili fili di vetro. Il pianeta intero è avvolto in una ragnatela di questi fili che chiamiamo Internet. Gli impulsi corrispondono a due soli segni: 0 e 1, l’alfabeto digitale. Parole, musica, fotografie, filmati, finanza, giornali, programmi radio e tv, sms, twitter, tutto oggi è scritto con questo semplice codice di minuscoli lampi e scavalca montagne e oceani correndo a 200 mila chilometri al secondo.
Nel 1870 il fisico irlandese John Tyndall dimostrò con uno zampillo luminoso che un raggio di luce poteva essere incanalato nel percorso di un getto d’acqua. Fu quella la prima fibra ottica, poco pratica perché allo stato liquido, ma carica di promesse all’epoca insospettabili. In attesa di meglio, la scoperta fu applicata a giochi d’acqua nelle fontane di epoca vittoriana. Amico di Faraday, un ex rilegatore di libri autodidatta, pioniere nello studio dei fenomeni elettrici, Tyndall fu anche il primo scienziato a dimostrare sperimentalmente l’effetto serra. Due contributi che sarebbero stati compresi nella loro importanza solo un secolo dopo.
La prima applicazione delle fibre ottiche arriva nel 1956 in un gastroscopio: servì ai medici per guardare dentro lo stomaco dei pazienti. Nello 1965 Charles Kao, premio Nobel per la fisica nel 2009 (meglio tardi che mai), perfezionò le fibre ottiche e suggerì la loro applicazione nelle telecomunicazioni. I tempi non erano maturi: Laser e Led – tecnologie necessarie per ottenere impulsi luminosi brevi, puri e potenti – erano ai loro inizi, l’optoelettronica quasi non esisteva, le fibre erano ancora troppo poco trasparenti e flessibili, non si sapeva come saldarle e come piegarle in curve strette. Così trovarono applicazione in lampade che ebbero una effimera fortuna, zampilli di luce sotto vetro che nei salotti degli Anni 60 e 70 imitavano i getti di acqua luminosi di Tyndall.
Le fibre ottiche sono fatte di vetro o di polimeri plastici tirati in filamenti dal diametro di un capello (125 millesimi di millimetro). Nella sezione di questi esili cavi trasparenti l’indice di rifrazione varia dal centro alla periferia in modo tale che la luce venga deviata e trattenuta dentro la fibra anziché sfuggire dalla «buccia» del filamento. La luce che percorre una fibra ottica subisce quindi continue riflessioni che la mantengono incanalata, con perdite minime, su percorsi che possono essere lunghissimi. La luce utilizzata non è quella visibile ma appartiene a particolari bande dell’infrarosso, con lunghezze d’onda comprese tra 850 e 1550 milionesimi di millimetro. I nostri occhi non percepiscono questo genere di luce ma certi serpenti, insetti e altri animali che hanno occhi sensibili all’infrarosso potrebbero vederla.
Scavalcare l’Oceano Atlantico senza amplificazioni intermedie è alla portata di questa tecnologia. A questo punto «basta» avere una sorgente di luce pura e rapidamente pulsata (appunto i Laser o i Led) come trasmettitore, la fibra ottica come mezzo trasmissivo e un sensore di luce al punto di arrivo, e il gioco è fatto: abbiamo un sistema di telecomunicazione su fibra ottica. E poiché la quantità di informazioni caricabile su un’onda elettromagnetica aumenta al diminuire della lunghezza delle onde utilizzate, o se volete all’aumentare della frequenza, e gli impulsi luminosi durano miliardesimi di secondo, la luce può veicolare una quantità di dati enormemente maggiore delle onde radio, microonde incluse. Su una singola fibra, per intenderci, può viaggiare l’intero traffico telefonico tra due continenti. Il primo cavo ottico transatlantico entrò in servizio nel 1988. I cristalli fotonici segnarono nel 1996 un ulteriore miglioramento delle fibre e da allora i progressi non si sono mai fermati.
Trattandosi di cosa nuova e costosa, furono i militari americani i primi utilizzatori della comunicazione su fibra ottica. Incominciò la Marina statunitense sulla nave ammiraglia della Sesta Flotta, seguì nel 1976 l’Aeronautica militare cablando i propri aerei. La trasmissione di un segnale televisivo su fibra era già stato esibito nel 1971 alla regina Elisabetta d’Inghilterra, nel 1980 toccò al popolo in occasione delle Olimpiadi invernali di Lake Placid (Usa). Da allora la tv su fibra non ha fatto che crescere, e ancora più la trasmissione dati. Senza le autostrade ottiche non esisterebbe Internet, non esisterebbe questo mondo, questa società. La tecnologia è cultura, costume, politica.



Dio? È soprattutto luce
2015, anno della luce promosso dall'Unesco
Domani a Parigi, tra i relatori, ci sarà il cardinale Ravasi. Un brano in anteprima

Gianfranco Ravasi 

"Il Sole 24 ore - Domenica", 18 gennaio 2015

In tutte le civiltà la luce passa da fenomeno fisico ad archetipo simbolico, dotato di uno sterminato spettro di iridescenze metaforiche, soprattutto di qualità religiosa. La connessione primaria è di natura cosmologica: l'ingresso della luce segna l'incipit assoluto del creato nel suo essere ed esistere. Emblematico è l'avvio stesso della Bibbia, che è pur sempre il «grande codice» della cultura occidentale: Wayy'omer 'elohîm: Yehî 'ôr. Wayyehî 'ôr, «Dio disse: "Sia la luce!" e la luce fu!» (Genesi 1,3). Un evento sonoro divino, una sorta di Big bang trascendente, genera un'epifania luminosa: si squarcia, così, il silenzio e la tenebra del nulla per far sbocciare la creazione.
Anche nell'antica cultura egizia l'irradiarsi della luce accompagna la prima alba cosmica, segnata da una grande ninfea che esce dalle acque primordiali generando il sole. Sarà soprattutto questo astro a diventare il cuore stesso della teologia dell'Egitto faraonico, in particolare con le divinità solari Amon e Aton. Quest'ultimo dio, con Amenofis IV-Akhnaton (XIV sec. a. C.), diventerà il centro di una specie di riforma monoteistica, cantata dallo stesso faraone in uno splendido Inno ad Aton, il disco solare: tale riforma, però, passerà come una meteora di breve durata nel cielo del tradizionale politeismo solare egizio.
Similmente l'arcaica teologia indiana dei Rig-Veda considerava la divinità creatrice Prajapati come un suono primordiale che esplodeva in una miriade di luci, di creature, di armonie. Non per nulla, in un altro movimento religioso originatosi in quella stessa terra, il suo grande fondatore assumerà il titolo sacrale di Buddha, che significa appunto «l'Illuminato». E, per giungere in epoche storiche più vicine a noi, anche l'Islam sceglierà la luce come simbolo teologico, tant'è vero che un'intera "sura" del Corano, la XXIV, sarà intitolata An-nûr, «la Luce». Al suo interno un versetto sarà destinato a un enorme successo e a un'intensa esegesi allegorica nella tradizione "sufi" (in particolare col pensatore mistico al-Ghazali nell'XI-XII sec.).
È il verso 35 che suona così: «Dio è luce in cielo e sulla terra. La sua luce è come quella di una lampada collocata in una nicchia. La lampada è rinchiusa in un cristallo, è come una stella dallo splendore abbagliante ed è accesa dall'olio di un ulivo benedetto … Luce su luce è Dio. Egli guida chi ama verso la sua luce». Si potrebbe continuare a lungo in questa esemplificazione passando attraverso le molteplici espressioni culturali e religiose di Oriente e di Occidente che adottano come cardine teologico un dato che è alla radice della comune esperienza esistenziale umana. La vita, infatti, è un «venire alla luce» (come in molte lingue è definita la nascita), ed è un vivere alla luce del sole o guidati nella notte dalla luce della luna e delle stelle.
Dati anche i limiti della nostra analisi, noi ora ci accontenteremo di due sole osservazioni essenziali, destinate soltanto a far intuire la complessità dell'elaborazione simbolica edificata su questa realtà cosmica. Da un lato approfondiremo la qualità "teo-logica" della luce per cui essa è un'analogia per parlare di Dio; dall'altro lato, esamineremo la dialettica luce-tenebre nel suo valore morale e spirituale. Avremo come punto di riferimento esemplificativo la Bibbia che ha generato per la cultura occidentale un "lessico" ideologico e iconografico fondamentale. Essa può offrirci un paradigma sistematico esemplare generale, dotato di una coerenza interna significativa. Le Scritture ebraico-cristiane sono state, per altro, un rimando culturale capitale per interi secoli, come riconosceva un testimone ineccepibile e alternativo come il filosofo Friederich Nietzsche: «Tra ciò che noi proviamo alla lettura di Pindaro o di Petrarca e a quella dei Salmi biblici c'è la stessa differenza tra la terra straniera e la patria» («materiali preparatori» per Aurora).
A differenza di altre civiltà che, in modo semplificato, identificano la luce (soprattutto solare), con la stessa divinità, la Bibbia introduce una distinzione significativa: la luce non è Dio, ma Dio è luce. Si esclude, perciò, un aspetto realistico panteistico, e si introduce una prospettiva simbolica che conserva la trascendenza, pur affermando una presenza della divinità nella luce che rimane, però, «opera delle sue mani». Si devono intendere così le affermazioni che costellano gli scritti neotestamentari attribuiti all'evangelista Giovanni. In essi si dichiara: ho Theòs phôs estín, «Dio è luce» (Giovanni 1,8). Cristo stesso si auto presenta così: egô eímì to phôs tou kósmou, «io sono la luce del mondo» (Giovanni 8,12). In questa linea va quel capolavoro letterario e teologico che è l'inno che apre il Vangelo di Giovanni ove il Lógos, il Verbo-Cristo, è presentato come «luce vera che illumina ogni uomo» (1,9).
Quest'ultima espressione è significativa. La luce viene assunta come simbolo della rivelazione di Dio e della sua presenza nella storia. Da un lato, Dio è trascendente e ciò viene espresso dal fatto che la luce è esterna a noi, ci precede, ci eccede, ci supera. Dio, però, è anche presente e attivo nella creazione e nella storia umana, mostrandosi immanente, e questo è illustrato dal fatto che la luce ci avvolge, ci specifica, ci riscalda, ci pervade. Per questo anche il fedele diventa luminoso: si pensi al volto di Mosè irradiato di luce, dopo essere stato in dialogo con Dio sulla vetta del Sinai (Esodo 34,33-35). Anche il fedele giusto diventa sorgente di luce, una volta che si è lasciato avvolgere dalla luce divina, come afferma Gesù nel suo celebre «discorso della Montagna»: «Voi siete la luce del mondo … Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini» (Matteo 5,14.16).
Sempre in questa linea, se la tradizione pitagorica immaginava che le anime dei giusti defunti si trasformassero nelle stelle della Via lattea, il libro biblico di Daniele assume forse questa intuizione ma la libera dal suo realismo immanentista trasformandola in una metafora etico-escatologica: «I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento, coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (12,3). E nel cristianesimo romano dei primi secoli – dopo che si era scelta la data del 25 dicembre per il Natale di Cristo (quella data era la festa pagana del dio Sole, nel solstizio d'inverno che segnava l'inizio dell'ascesa della luce, prima umiliata dall'oscurità invernale) – si inizierà nelle iscrizioni sepolcrali a definire il cristiano là sepolto come eliópais, «figlio del Sole». La luce che irradiava Cristo-Sole era, così, destinata ad avvolgere anche il cristiano.
Anzi, nella successiva tradizione cristiana, si stabilirà una sorta di sistema solare teologico: Cristo è il sole; la Chiesa è la luna, che brilla di luce riflessa; i cristiani sono astri, non dotati però di luce propria ma illuminati dalla luce suprema celeste. Che si tratti di una visione squisitamente simbolica destinata a esaltare la rivelazione e la comunione tra la trascendenza divina e la realtà storica umana appare evidente in un passo sorprendente ma coerente dell'ultimo libro biblico, l'Apocalisse, ove nella descrizione della città ideale del futuro escatologico perfetto, la Gerusalemme nuova e celeste, si proclama: «Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà» (22,5). La comunione dell'umanità con Dio sarà allora piena e ogni simbolo decadrà per lasciare spazio alla verità dell'incontro diretto.

L’anno della luce 
Il 2015 fotone dopo fotone
Dall’«Ottica» di Ibn al-Haitham di mille anni fa all’ottica quantistica di oggi, 
inaugurata da Einstein nel 1905

Vincenzo Barone

                                     "Il Sole 24 ore - Domenica", 25 gennaio 2015

Sosteneva Aristotele che gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza. Lo dimostrerebbe il fatto che, tra tutti i sensi, quello che di gran lunga preferiamo è la vista, che più degli altri «ci fa acquistare conoscenza e ci presenta con immediatezza una molteplicità di differenze». Aristotele non aveva tutti i torti. La scienza, in fondo, è un tentativo (ben riuscito) di organizzare in uno schema di pensiero ciò che si vede, e di rendere visibile (all’occhio e alla mente) l’invisibile. Ma, per vedere, è necessario che un raggio di luce – o, se si preferisce, un fascio di fotoni, i quanti di luce – raggiunga i nostri occhi, o i nostri strumenti di osservazione. Non stupisce quindi che la luce sia da sempre associata al sapere e alla conoscenza, e che essa stessa sia uno dei principali oggetti di indagine scientifica. 
Per queste ragioni di ordine culturale, ma anche perché le tecnologie basate sulla luce sono di fondamentale importanza per la vita degli individui e delle società, le Nazioni Unite hanno proclamato il 2015 «Anno Internazionale della Luce». Non sappiamo se casualmente o meno, due dei premi Nobel assegnati lo scorso autunno hanno a che fare proprio con la luce. Il Nobel per la fisica è stato attribuito a tre scienziati giapponesi, Isamu Akasaki, Hiroshi Amano e Shuji Nakamura, per la realizzazione dei primi led blu, che, associati ai led rossi e verdi, disponibili già dagli anni Sessanta, permettono oggi di avere delle fonti di luce bianca più luminose e più efficienti energeticamente delle tradizionali lampadine a incandescenza e a fluorescenza. Il Nobel per la chimica è andato ai ricercatori americani Eric Betzig e William Moerner e al tedesco Stefan Hell, per l’invenzione di un microscopio ottico ad altissima risoluzione, che permette di vedere – nel vero senso della parola – il nanomondo. Per certi versi, anche il Nobel per la medicina ha riguardato la luce e la visione, perché è stato assegnato agli studiosi che hanno scoperto le cellule nervose che presiedono all’orientamento spaziale, anche in condizioni di oscurità. 
Un altro illustre scienziato, premiato con il Nobel nel 2001, Wolfgang Ketterle, aprirà domani a Torino le celebrazioni italiane dell’Anno Internazionale della Luce. Ketterle, che è stato tra i primi a realizzare uno stato ultrafreddo della materia dalle peculiari proprietà quantistiche noto come condensato di Bose-Einstein, usa la luce laser per raffreddare gli atomi fino alle più basse temperature mai raggiunte (meno di un miliardesimo di grado sopra lo zero assoluto). Assieme a lui, per il convegno Fundamental physics with light and atoms, organizzato dall’Inrim (Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica), sarà a Torino il fisico austriaco Anton Zeilinger, pioniere dell’informatica quantistica e autore del primo esperimento di teletrasporto con fotoni. 
L’ottica quantistica e la fotonica, con le straordinarie possibilità di utilizzazione e di manipolazione della luce che offrono, rappresentano il punto di arrivo di un’affascinante avventura scientifica che ha avuto nel 1905 un momento di svolta. Fu in quell’anno che Albert Einstein (il cui padre, Hermann, produceva e installava impianti di illuminazione elettrica nell’Italia settentrionale), ipotizzò che la luce fosse costituita da corpuscoli quantistici, ribattezzati poi fotoni, e, con la teoria della relatività speciale, fece assurgere la sua velocità a costante fondamentale della natura (un trait d’union tra spazio e tempo) e a limite invalicabile. In seguito Einstein avrebbe dato un ulteriore notevole contributo alla scienza della luce, scoprendo il fenomeno dell’emissione stimolata della radiazione, che è alla base del funzionamento dei laser. Ma anche la relatività generale, di cui quest’anno si celebra il centenario, ha a che fare con la luce: prevede infatti che essa abbia un “peso”, che senta cioè l’effetto della gravità. Fu proprio l’osservazione dell’incurvamento della luce stellare a causa del campo gravitazionale del Sole, effettuata durante l’eclissi totale del 1919 da Arthur Eddington, a sancire il successo definitivo della teoria e a rendere Einstein universalmente famoso: «Tutte storte le luci in cielo», titolò un giornale dell’epoca. 
Ripercorrendo a ritroso la storia scientifica della luce si incontrano altre date cruciali di cui ricorrono quest’anno gli anniversari. Nel 1865 il fisico scozzese James Clerk Maxwell pubblicò le sue famose equazioni, che rivelavano la natura elettromagnetica della luce; mezzo secolo prima, nel 1815, l’ingegnere francese Augustin-Jean Fresnel comunicava all’Accademia delle Scienze di Parigi i risultati dei suoi primi fondamentali studi sulle caratteristiche ondulatorie della luce. E non bisogna dimenticare, più indietro nel tempo, il decisivo apporto della scienza araba. Mille anni fa (anno più, anno meno) apparve una delle più importanti opere scientifiche di tutti i tempi, l’Ottica di Ibn al-Haitham (noto anche come Alhazen). Se per noi oggi la luce è un fenomeno della natura da studiare sperimentalmente, e l’occhio è il rivelatore di questo fenomeno e non la sorgente, come si credeva nell’Antichità, lo dobbiamo in gran parte proprio ad Alhazen (il quale precorse i tempi sotto molti aspetti, per esempio immaginando la propagazione non istantanea della luce). 
Viaggiare nel mondo della luce, come ci invita a fare Piero Bianucci nel suo bel libro Vedere, guardare (che si apre con la costruzione di un occhio di cartone e si chiude sulla luce del Big Bang, proponendo nel mezzo un’affascinante galleria di argomenti, dalle illusioni ottiche alle celle fotovoltaiche, dai laser ai supertelescopi) significa non solo attraversare tutta la scienza, ma anche cogliere i tanti modi, talvolta nascosti, in cui la luce determina la nostra esistenza e quella di tutti gli esseri viventi. Niente di ciò che è attorno a noi sarebbe possibile se la luce del Sole, fotone per fotone, non innescasse un gigantesco processo di riciclaggio dell’anidride carbonica dell’atmosfera, immagazzinando energia in forma di zuccheri e rilasciando ossigeno (la fotosintesi). Difficile non rimanere sbalorditi davanti alla perfezione di questo meccanismo, e non convenire, con il grande fisiologo ottocentesco Jakob Moleschott, che in fin dei conti «la vita è aria intessuta con la luce».

Piero Bianucci, Vedere, guardare. Dal microscopio alle stelle, viaggio attraverso la luce, Utet, Novara, pagg. 380

Il calendario degli eventi italiani dell’Anno Internazionale della Luce (Iyl 2015) è disponibile sul sito della Società Italiana di Fisica: http://www.sif.it/attivita/iyl2015 




Nel mistero di Giuda (e di Gesù) la tragedia di un’amicizia sfregiata


Claudio Magris

"Corriere della Sera", 18 gennaio 2015

Tra i personaggi che ricorrono e riappaiono nei secoli quasi in ogni letteratura, sfuggendo di mano agli autori che li hanno creati o meglio trascendendo ogni loro precisa origine e identità — Ulisse, Antigone, Faust, Don Giovanni, Elettra e molti altri — c’è pure Giuda, anche se in questo caso il testo e l’autore che gli hanno dato vita, i Vangeli, hanno un’autorità particolare. Non è un caso che siano da poco usciti due altri possenti romanzi su Giuda, di Amos Oz e di Luca Doninelli, che cercano di interpretare, capire, indagare, far vivere il suo destino e il suo significato.
Nessuna lettura — né quelle pervase dalla fede cristiana più ortodossa né quelle più lontane da quest’ ultima — si è arrestata alla semplificazione del mero traditore mosso soltanto da basse passioni, invidia, gelosia o avidità. Le interpretazioni sono numerose: Giuda deluso perché si attendeva il Messia liberatore politico del suo popolo, Giuda autentico redentore perché, se quest’ultimo è venuto a prendere su di sé i peccati del mondo, egli, a differenza di Cristo che li assume solo simbolicamente, li prende davvero su di sé ovvero li compie, liberando in certo modo gli altri e pagando per la colpa un prezzo più atroce, perché più disperato e indegno, di quello di Cristo. Tesi che affascinava Borges. C’è anche un apocrifo Vangelo di Giuda, ricorda Gustavo Zagrebelsky nel suo saggio che, scrive Gabriella Caramore presentandolo, indaga nelle ragioni di Giuda tutte le ombre del cuore umano, la sua capacità di bene e di male, la libertà della creatura rispetto ai disegni del Creatore.
Il romanzo di Doninelli si addentra, con sobria e appassionata potenza espressiva, in un dramma apparentemente meno eclatante, ma misterioso e inquietante come ogni fondamentale relazione umana. Il suo racconto è la storia di un’amicizia, un’amicizia tragicamente mancata. In questo senso, il racconto, nella sua brevità ed essenzialità, è un originale testo sull’amicizia, questo rapporto e questo sentimento tante volte indagati — con acutezza, con nobile retorica o con sofisticata socio-psicologia. Rapporto sempre complesso, come ogni relazione essenziale umana; diverso ma non meno importante, nell’esistenza, dell’amore e della famiglia. La prima lettera che, tanti anni fa, mi scrisse Isaac Bashevis Singer si concludeva con gli affettuosi saluti «a Lei, alla Sua famiglia e ai Suoi amici», che evidentemente e giustamente il grande scrittore considerava essenziali realtà della mia vita. Non mi sono stupito di ricevere, quando ho perso qualche amico carissimo, lettere di condoglianza, in genere banalmente riservate a congiunti, parenti ed affini.
Pure l’amicizia, come l’amore, ha i suoi drammi, le sue gioie e le sue ferite. Amicizia terribilmente fallita tra Gesù e Giuda, nel libro di Doninelli, ma non estinta neppure dal tradimento e dalla morte. Ha avuto amici, Gesù? «Voi siete miei amici, se fate quello che io vi comando», dice Gesù nell’ultimo incontro con i discepoli, quando Giuda se ne è già andato, a tradirlo, ed egli è «molto turbato». Ma ci può essere il comando, nell’amicizia? Certo, in ogni momento di un rapporto c’è uno dei due che è più nel vero, che capisce meglio dell’altro le cose di quell’istante e quindi guida o almeno indica la rotta, ma in un’amicizia, paritetica per definizione, questo ruolo di comando o meglio di pilota passa di continuo dall’uno all’altro. Poteva Gesù, fra i suoi discepoli, avere veri amici? Di alcuni di loro ne sappiamo di meno, di altri — Pietro semplice impulsivo e generoso, Giovanni geniale e abissalmente profondo, Matteo prototipo per eccellenza dell’apostolo e del narratore testimone — di più.
Non è vero, come ha detto una volta Nietzsche nel suo contraddittorio odio-amore per il cristianesimo, che Gesù, per essere veramente capito, avrebbe avuto bisogno di un Dostoevskij tra i suoi discepoli, unico capace di raccontare veramente la sua vita. Gli apostoli lo hanno capito a fondo, ognuno a suo modo, e hanno narrato la sua vita con ineguagliabile forza e verità. Ma è difficile pensare a qualcuno di loro come a un amico — nel senso più autentico del termine — di Gesù. Neppure Giovanni lo è. Quei discepoli sono qualcosa d’altro, di più alto e importante dell’amicizia, ma nessuno di essi è «un amico».
Solo Giuda — come ha intuito Doninelli, estraendo dal suo cupo destino tale possibile verità — appare potenzialmente capace di un rapporto diverso con Gesù, a suo modo paritetico, almeno sul piano umano. Un rapporto di amicizia — sfigurata dal tradimento e dalla colpa, ma non cancellata, perché inestricabilmente radicata nel cuore. Amicizia che può degenerare ma non svanire (non a caso il titolo del libro parla di una strada che non deve finire mai), così come Caino può diventare l’assassino di Abele ma non può smettere di essere suo fratello. 

L’età dell’interruzione


Immersi nei social network connessi con ogni device travolti dalle informazioni viviamo mettendo il pausa di continuo ciò che stiamo facendo,
 riducendo la nostra attenzione a pura percezione 

Ecco come le nostre vite sono diventate un eterno intervallo tra gli intervalli

Maurizio Ferraris

"La Repubblica", 18 gennaio 2015

Siamo in una situazione che è di fatto quella militarizzata della mobilitazione totale, siamo sottoposti a un senso di costante inadeguatezza e frustrazione, viviamo l’opposto speculare della condizione di pienezza e di realizzazione che si accompagna di solito al portare a termine un progetto

UN RECENTISSIMO studio della University of Southern California ha stabilito che viviamo nella “età della interruzione”: siamo perennemente connessi a molteplici apparati, e di fatto la nostra attività prevalente consiste nell’interrompere quello che stavamo facendo per incominciare a fare qualcos’altro, interrompendoci di lì a pochissimo e così via all’infinito. Una situazione inconcepibile pochi decenni fa. Nel giro di un secolo abbiamo avuto almeno tre età, diverse tra loro non meno che il neolitico e l’età del bronzo. Sino a metà del Novecento siamo stati nel pieno dell’età della produzione: si fabbricavano artefatti, quelli su cui, per esempio, si è costruito il “miracolo italiano”. La produzione avveniva in tempi scanditi e in spazi ben delimitati: otto ore, e poi finisce il turno, non si può esercitare ininterrottamente una funzione che richiede energia fisica e la disponibilità di grossi apparati meccanici concentrati nelle fabbriche. Poi siamo passati all’età della comunicazione: si trasmettono notizie, i tempi sono meno scanditi, e gli spazi anche. È l’epoca (1980) in cui Gillo Dorfles pubblica L’intervallo perduto: il nostro mondo, che è fatto di interruzioni e di spazi vuoti, si riorganizza nella forma di un continuum, e vien meno l’interruzione, la separazione tra un evento e l’altro.
Da quando il web e i suoi dispositivi hanno fatto irruzione capillarmente nella nostra vita, siamo entrati in una terza età, appunto “l’età dell’interruzione” oppure “della registrazione”: come nell’epoca della produzione si fabbrica, come in quella della informazione si trasmette, ma quello che viene fabbricato e trasmesso è un documento registrato, destinato a rimanere lì dove si trova e inoltre a circolare per un tempo e uno spazio indefinito sul web. Mi spiego: ogni utente è al tempo stesso un produttore di informazioni, postate sui social network. Al tempo stesso, ogni contatto sul web produce automaticamente informazioni e documenti sugli utenti. Si crea una situazione di indistinzione tra sociale e mediale (la vita sociale è quella che ha luogo sul web) e tra privato e lavorativo (gli stessi dispositivi servono per il lavoro così come per la gestione della vita privata e per l’intrattenimento).
Qui, piuttosto che con una perdita dell’intervallo, abbiamo a che fare con una interruzione universale. In una situazione che è di fatto quella militarizzata della mobilitazione totale, siamo sottoposti non a un flusso di informazioni (che poteva anche essere seguito con una attenzione distratta), ma appunto con un flusso di documenti, vincolanti perché scritti (scripta manent) e individualizzati, cioè rivolti solo a noi, che ci spingono all’azione (minimalmente, alla reazione: il messaggio richiede risposta, e nel farlo genera responsabilità). Il che genera un senso di costante inadeguatezza e frustrazione, ossia l’inverso speculare della condizione di pienezza e di realizzazione che si accompagna al portare a termine un progetto o un oggetto.
Siamo perennemente in difetto e, nel lungo termine, questa situazione diviene strutturale. Sicuramente, chi ha inventato il web ha pensato a un veicolo di conoscenza più che a una catena di trasmissione di ordini e di azioni, proprio come chi ha inventato il telefonino non avrebbe mai previsto che si sarebbe trasformato in un archivio e in un terminale di una catena militarizzata.
Si tratta allora di mettere a fuoco la sindrome. Il moltiplicarsi delle interruzioni che ha luogo in un archivio infinito non ci porta, come ingenuamente si potrebbe credere, nel cuore dell’attualità, ma in una ucronia in cui tutto è contemporaneo di tutto. Più che il mondo in diretta, quello che ci si fa avanti attraverso il web è una montagna di giornali vecchi che circondano il giornale di oggi ponendo il quesito: qual è l’attualità? Dove siamo, oggi? Che cosa è successo? Sappiamo quando è iniziata e quando è finita la Seconda guerra mondiale, ma il confuso conflitto senza nome in corso almeno dall’11 settembre non sembra avere eventi o evoluzioni, è un continuum di cui non si riescono a prevedere gli sviluppi né meno che mai a trovare una identità.
Senza nulla togliere ai meriti e alle risorse del web, che appaiono irrinunciabili, anzi, proprio per dare senso e scansione alla ricchezza del continuum, i giornali, l’università, e anche quella istituzione in profonda trasformazione che è la televisione, possono giocare un ruolo essenziale. Difficile ricorrere ai giornali per le minute informazioni sul tempo, sul corso del dollaro, sui cinema e sui treni: i flussi sono gestiti benissimo dal web. Ma cosa siano gli oggetti, gli eventi, e la stessa nozione di attualità, quello può dircelo solo la prima pagina del giornale. E che cosa sia vero è tradizionalmente garantito dalla scienza e dalla cultura che trova nelle università e nel sistema editoriale il suo tradizionale punto di forza. Infine, che qualcosa sia “pubblico”, cattolico in senso etimologico, è stato garantito da quel tubo catodico, oggi scomparso come apparato tecnico ma che rimane il vessillo della televisione rivolta a tutti.
Senza una notizia che resti immutata per 24 ore, e su cui si possa riflettere, senza una comunicazione di cui si può avere la ragionevole certezza che raggiungerà quasi tutta l’opinione pubblica, senza la possibilità di comprovare l’attendibilità delle informazioni diviene difficile dar senso alla nozione di “informazione”, “attualità” e “opinione pubblica”. Per quanto la struttura del giornalismo, dell’editoria, dell’università e della televisioni richiedano di essere ripensate, a causa degli evidenti arcaismi che presentano di fronte alle nuove tecnologie, resta che questo ripensamento e rilancio è indispensabile e imprescindibile, pena il venir meno di quei valori (opinione pubblica, attualità, sapere) che stanno al centro del progetto della modernità. Non è escluso che questa possibilità non si realizzi, e che ci si ritrovi (non troppo diversamente dalle società tradizionali che hanno preceduto la modernità) in un eterno presente scandito dalle stagioni (per quanto a loro volta indifferenziate nel continuum del riscaldamento globale). Ma è certo che, se ciò avvenisse, sarebbe molto difficile non parlare di un danno culturale e politico, e non credo di dire niente di originale nel ricordare che il carattere fondamentale della nostra epoca, cioè l’anacronismo (chi si sarebbe immaginato la rinascita di un Califfato, sia pure su web?) non sia estraneo a questa scomparsa delle scansioni, a questa inflazione di interruzioni e di frustrazioni che generano come contrappeso la nostalgia dell’arcaico in un mondo islamico che non è meno tecnologizzato di quello occidentale.

Il grande flusso che confonde il pensiero critico

Paolo Legrenzi

NELLA prima metà del secolo scorso, scrittori come Aldous Huxley (Il nuovo mondo, 1932) o George Orwell (1984, 1948), avevano immaginato il mondo del futuro. Il futuro è diventato presente, ma è tutt’altra cosa. Nei mondi di Huxley e Orwell le informazioni provenivano da un’unica fonte, un governo totalitario che ritroviamo in film come Fahrenheit 451 di Truffaut (1966) o Blade Runner di Ridley Scott (1982). In questi film un comando centrale serve per lavare il cervello e creare una finta tranquillità un po’ beota.
Dov’è oggi questa tranquillità uniforme? Nei paesi occidentali avanzati, i più sono continuamente bombardati da un flusso continuo di messaggi e, a loro volta, interrompono gli altri. Un incubo? Non proprio. Quando siamo sconnessi e lasciati in pace, proviamo spesso un senso di abbandono, una solitudine non sempre piacevole. La rete che ci avvolge è unica, come i dittatori fantascientifici di un secolo fa, ma non produce un ordine totalitario. Ciascuno pesca le informazioni che più gli garbano, e scambia le informazioni più disparate. Si entra nella vita altrui e si è penetrati o intrattenuti dagli altri. Sul più bello, siamo interrotti da messaggi frequenti e sovrabbondanti. La bussola per navigare in questo mare magnum è impazzita e produce effetti in modi disordinati e casuali.
Un semplice esempio, giusto per dare un’idea. Ponete di avere queste tre informazioni: A — Tizio sta con Caia B — Caia è sposata C — Caia ha un figlio Se la sequenza arrivasse a tutti nell’ordine A-B-C, avreste una mini-storia. Le informazioni piombano invece inaspettate, come frammenti di proiettili in un bombardamento casuale. Siamo noi a dover mettere insieme i pezzi: Caia sta con Tizio, si è sposata, e ha avuto un figlio. Oppure: Caia ha avuto un figlio, si è sposata e sta con Tizio. E così via. Caia è un po’ diversa per ciascuno di noi, e Caie diverse possono convivere in noi. L’abbiamo catalogata tra le persone sposate o tra le mamme? Oppure tra le mamme poi sposate? O tra le mamme con un partner nuovo?
Noi non sappiamo sempre come ripeschiamo questi frammenti dalla memoria perché vanno a finire in tanti cassetti mentali che funzionano come compartimenti stagni. Non stupitevi se una persona vi dice che non tutti i musulmani sono terroristi, ma che tutti i terroristi sono musulmani. Questa persona può ben sapere che recentemente ci sono stati atti di terrorismo commessi da nonmusulmani, per esempio da fanatici che si dicono neo-nazisti o anarchici. E tuttavia questi spezzoni di conoscenze stanno in un altro cassetto mentale, senza mettere in crisi l’affermazione sui terroristi/musulmani e sui musulmani/terroristi. Quello che una volta si chiamava pensiero critico, o semplice riflessione ragionevole, oggi funziona male, e sembra talvolta affievolirsi, se non svanire.
L’evoluzione della nostra specie non ci ha costruito per ragionare in ambienti invasivi e intermittenti, saltabeccando qua e là. I nostri antenati dovevano reagire a informazioni sui pericoli provenienti da un ambiente ostile. Ci serviva un’attenzione concentrata che agisse rapida ed era inutile una grande memoria di lavoro. La memoria di lavoro è un filtro di piccole dimensioni per cui passano tutte le informazioni prima di essere incapsulate in un cassetto di quell’armadio che è il magazzino permanente della memoria. Se una persona vi dice un numero nuovo di telefono, dovete ripeterlo fino a quando lo depositate in una memoria artificiale esterna, un pezzo di carta o un computer. Questo filtro immodificabile che sta tra noi e il mondo funziona come un imbuto strettissimo. Se ci interrompono, dobbiamo smettere di stare attenti a quello che stiamo facendo, e concentrarci per un attimo sulla nuova informazione. Siamo dentro una melassa che cattura l’attenzione per attimi, e tuttavia ci trattiene e ci intrattiene. Spesso, se viene a mancare, sentiamo di galleggiare nel vuoto, fuori dalla grande rete dove sta l’azione e la vita. Forse in questo gli scrittori di fantascienza di un secolo fa avevano visto giusto. Il nuovo mondo ci rende un po’ beoti ma contenti, e i pochi che vengono raramente interrotti, e si concentrano, sono quelli che finiscono per cambiare il mondo.

Chi era il vero Turing oltre la fiction del cinema?


Intanto Bletchley Park diventa un’attrazione turistica

Gabriele Beccaria

"La Stampa TuttoScienze", 14 gennaio 2015

Finzione e verità si confondono e l’effetto della mostra «The Imitation Game» è un seducente gioco di specchi: a Bletchley Park la realtà è sempre stata un confine sfuocato, manipolato da migliaia di personaggi bizzarri, come militari, matematici, linguisti, criptoanalisti. E adesso uno dei luoghi più segreti della Seconda Guerra Mondiale è diventato un museo e, soprattutto, una meta di massa. Di tanti turisti, improvvisamente colti da attacchi di frenesia.
Sedotti dal film omonimo, affollano «The Imitation Game», l’esposizione che fino al prossimo novembre racconta la storia - tragica e grandiosa - di Alan Turing attraverso il kolossal che l’ha consacrato come una delle icone del XX secolo. Aggirandosi tra i costumi di scena del suo interprete, Benedict Cumberbatch, e le riproduzioni delle macchine «Enigma» e «The Bombe», si scivola rapidamente in una dimensione parallela, in cui è facile vivere i meccanismi dell’identificazione morbosa e dello spettacolo globale.
Accanto, però, ci sono altri luoghi, come la «Hut 6» e la «Hut 8», da poco restaurati, decisamente più sinistri: sono i laboratori dove il passato (quello autentico) non è stato graffiato dallo show e dove aleggia la vera eredità di Turing. Che è più complessa e contraddittoria di quanto il film diretto da Morten Tyldum riesca a suggerire.
Turing, in effetti, rimane un personaggio misterioso. Lo sostiene chi lo conosce meglio di tutti, il suo biografo, il matematico di Oxford Andrew Hodges, che è l’autore di «Alan Turing. Storia di un enigma», edito da Bollati Boringhieri. Proiettato periodicamente sul fronte della notorietà, nel 1952 per l’accusa di omosessualità (che in Gran Bretagna restò illegale fino al 1967) e la condanna alla castrazione chimica, nel 1954 per il suicidio con una mela avvelenata, nel 2009 per le scuse ufficiali a nome della nazione da parte dell’allora premier britannico Gordon Brown e nel 2012 per il centenario della nascita, solo di recente la percezione collettiva su di lui ha iniziato a trasformarsi. «Da zero fino a quella dell’eroe», sostiene lo stesso Hodges, ricostruendo i vagabondaggi di una mente imprevedibile.
Matematico straordinario, il sapere ortodosso considera Turing il padre dei fondamenti teorici che hanno scatenato la rivoluzione dei computer e allo stesso tempo il genio capace di infrangere il codice nazista generato dallo strumento «Enigma», dando un contributo fondamentale alla vittoria degli Alleati nel 1945. Fu lo stesso Winston Churchill a esaltarne i successi, definendoli «il singolo maggiore contributo alla causa della Gran Bretagna». E tuttavia Turing pubblicò pochissimo rispetto all’oceano delle proprie intuizioni e delle proprie scoperte. Nonostante i citatissimi «papers» sulla computabilità del 1936 e sull’intelligenza artificiale del 1950, rinunciò a scrivere l’opera definitiva sulla scienza del computing per lanciarsi, dopo la guerra, in un’altra avventura, altrettanto incompiuta. Quella della biologia matematica che sarebbe sfociata nell’abbozzo di una teoria della morfogenesi.
Visionario, fin troppo, Turing lasciò un’eredità talmente profetica da non essere stata capita. Sarà riscoperta più tardi. Non a caso, quando negli Anni 50 il matematico Max Newman lo commemora a nome della Royal Society, lo descrive come un etereo logico matematico. E lascia a margine il contributo decisivo, quello noto con la formula di «Macchina di Turing», l’apparecchiatura ideale capace di manipolare i dati contenuti su un nastro potenzialmente infinito, secondo un insieme prefissato di regole. Così sconvolgente nelle applicazioni da essere stata a lungo alterata con l’aggiunta di una dieresi sulla «u» di Turing: un’allure teutonica per una teoria destinata a scatenare l’avventura di un’élite di cervelloni.
Saranno loro a edificare la «Cattedrale di Turing», come l’ha definita lo storico George Dyson: l’era digitale nasce ufficialmente negli Usa, a Princeton, nel 1951, quando diventa operativo il calcolatore «Maniac». John Von Neumann è uno degli architetti, tra i pochi capaci di mettere mano alla cattedrale che Turing svuotò di dèi e riempì di numeri, ma che non riuscì mai a godersi.

Com’è promettente l’ignoto La lunga lista di ciò che non si sa


Al Festival delle Scienze di Roma le sfide della ricerca più avanzata

Caleb Scharf

"La Stampa - TuttoScienze", 14 gennaio 2015

Quando immaginiamo il frammento di tempo incredibilmente breve in cui gli uomini sono esistiti, in confronto ai miliardi di anni che ci hanno preceduto, ci sentiamo piacevolmente piccoli. E, se consideriamo i miliardi di trilioni di altri mondi che devono esistere nell’Universo, afferriamo per un istante quanto minuscola sia la nostra esistenza. Tuttavia, nulla è paragonabile alla prospettiva - scioccante o eccitante - di pensare a tutto ciò che non sappiamo.
Una pessima idea?
Non sappiamo - spiegherò al Festival delle Scienze di Roma in programma dal 22 al 25 gennaio - perché esista l’Universo: è ingiusto e ci sarebbero fondati motivi per ritenere che sia stato una pessima idea. Potrebbe darsi che scaturisca da un innato, instabile «nulla», incline alla spontanea generazione di materia ed energia. L’Universo, inoltre, potrebbe non essere l’unico, ma parte di un multiverso di oltre 10, elevato alla 10ma, elevato alla 16ma realtà. Aspettiamo ancora la prossima generazione di misurazioni per aiutarci nelle ricerche. E siamo in attesa di teorie che forniscano ipotesi più testabili e non solo eleganza matematica.
Ignoriamo anche di cosa sia fatta gran parte dell’Universo: la materia comune, quella di cui siamo fatti voi e io, i pianeti, le stelle e i panini al formaggio, ammonta a circa il 4,9% della materia e dell’energia totali. La maggior parte della materia è «oscura». Sappiamo che c’è, perché nelle scale cosmiche gli oggetti vi si muovono intorno più velocemente di quanto dovrebbero. Ma la materia oscura non si trasforma mai in stelle o in pianeti e resta in forma di particelle diffuse, invisibili, incredibilmente antisociali.
E, forse, ancora peggiore è l’energia oscura. Qualcosa sta provocando l’accelerazione dell’Universo. Prima non era così. Fino a 5-6 miliardi di anni fa l’espansione seguita al Big Bang era in diminuzione, ma poi qualcosa ha cominciato a contrastarla. Cos’è l’energia oscura? Non lo sappiamo. Abbiamo però molte idee, il che è fantastico: è sempre ottimo avere qualche idea su quel 68,3% di Universo.
Non sappiamo nemmeno se esista la vita al di là della nostra: eccoci qui, esseri senzienti su un pianeta rigoglioso di una vita che per gran parte degli ultimi 4 miliardi di anni ha plasmato e riplasmato l’ambiente. E ora siamo consapevoli che esistono decine di miliardi di altri pianeti, là fuori, molti dei quali potrebbero avere le stesse probabilità di ospitare la vita. Però ancora ignoriamo se siamo soli o meno. Nessun indizio. È alquanto problematico. Non fraintendetemi: è un problema in senso positivo, un problema intrigante, uno dei migliori. Tuttavia continuiamo a brancolare nel nostro splendido isolamento.
Intanto non abbiamo nemmeno capito il mondo quantistico: perché, se è vero che le sue matematiche possono compiere meraviglie, dal descrivere gli atomi fino ai quantum bit, ciò non significa che abbiamo chiuso il caso. Gli aspetti fondamentali della natura quantistica dell’Universo ci procurano grattacapi e controversie.
La nostra stessa biologia, d’altra parte, ci sfugge. Dopotutto, se capissimo ogni dettaglio di come funzioniamo, saremmo capaci di cancellare le malattie e l’invecchiamento. Saremmo anche in grado di modificare i circa 3 miliardi di acidi nucleici nel nostro Dna e realizzare un minimo di ingegneria molecolare. Ma non siamo vicini a niente di tutto questo. Un buon esempio di questa pietosa mancanza di conoscenza? Prendete il microbioma, l’insieme del patrimonio genetico e delle interazioni ambientali di tutti i microrganismi di un ambiente e che può essere un organismo o l’uomo stesso. I nostri 10 trilioni di cellule vengono sfruttati e nutriti da 100 trilioni di cellule microbiche, senza le quali non potremmo vivere. Non siamo che navi da crociera per il più lussuoso dei Club-Med microbiologici e tuttavia non sappiamo che cosa significhi tutto ciò.
Ignoriamo, poi, come la Terra funzioni: nessuno è mai andato più in profondità di alcuni chilometri nella crosta terrestre. Tutto il resto è estrapolazione e interpolazione. E c’è talmente tanta confusione, dopo 4 miliardi e mezzo di anni di geofisica, che alcune delle informazioni più attendibili sulle origini del Pianeta provengono dai meteoriti e dai crateri di altri mondi, il massimo del subappalto. Non siamo neanche sicuri di capire da dove sia arrivata la Luna. Forse è stato un impatto gigantesco, forse no. Per una specie presumibilmente intelligente su un piccolo pianeta roccioso questo è un fallimento di proporzioni quasi epiche.
Non possiamo dimostrare o risolvere gran parte delle nostre congetture e dei nostri problemi matematici: affinché la matematica non pensi di fuggire da questo festival dell’ignoranza, ricordiamo che c’è una lunga lista di ipotesi e di problemi insoluti e indimostrati. Non sappiamo, poi, come costruire l’intelligenza artificiale: è un problema che riguarda sia il nostro desiderio di comprendere noi stessi sia le nostre speranze di capire che cosa potrebbe esserci «là fuori», nella vastità del cosmo. L’Universo, forse, è pieno di menti come le nostre o di menti assolutamente aliene? Benché abbiamo fatto notevoli progressi tecnologici, non è affatto chiaro se i programmi di scrittura o i suggerimenti automatici per lo shopping raccolgano informazioni con meccanismi in qualche modo simili a quelli con cui le nostre menti generano le idee.
La conclusione? C’è un’enormità di cose che non sappiamo. Ma la chiave è non abbattersi, perché questa ignoranza è bellissima. È ciò che, in ultima analisi, muove la scienza e che rende l’Universo così maestoso. Che meraviglia!

Regimi. Totalitarismi uniti dall'arte


Tra la Germania nazista, l'Italia fascista e la Russia sovietica 
vi erano delle affinità estetiche
Predominarono il realismo e il monumentalismo classicheggiante

Emilio Gentile

"Il Sole 24 ore - Domenica", 11 gennaio 2015

Scriveva a metà degli anni Cinquanta lo storico tedesco dell'arte Werner Hoftmann: «Il totalitarismo è una denominazione comune sotto cui vengono a trovarsi in stretta vicinanza forme apparentemente opposte, come il bolscevismo della fase leninista-stalinista, il fascismo di Mussolini e il nazionalsocialismo di Hitler. La più evidente e sorprendente dimostrazione di questo loro intimo accordo, diretto contro la libertà umana, è proprio il fatto che quelle tre forme produssero la stessa concezione artistica. Lo stile artistico ufficiale dei Paesi totalitari è ovunque il medesimo».
Si era allora nella Guerra fredda, e il termine «totalitarismo» era usato soprattutto nella polemica anticomunista per identificare la Russia sovietica con la Germania nazista. Gli studiosi che non condividevano quella polemica o militavano nel comunismo, negavano qualsiasi affinità fra i due regimi, e taluni arrivarono fino a proporre la messa al bando del termine «totalitarismo» perché privo di validità storica e scientifica. Qualcosa di analogo avveniva nella storia dell'arte, dove tuttavia era più difficile negare le affinità estetiche fra i tre regimi, dove predominò il realismo e il monumentalismo classicheggiante per rappresentare la loro visione del mondo.
Solo dopo il 1990, con la fine del comunismo in Europa, la storiografia è tornata a riflettere sul totalitarismo con atteggiamento scientifico, considerandolo un fenomeno costituito dai regimi partito unico, senza per questo identificarli quasi fossero tronchi di uno stesso albero, ma esaminandoli piuttosto come alberi diversi, che crescendo in una particolare situazione avevano assunto caratteristiche simili.
È tuttavia significativo che la storia dell'arte sia stato il campo dove la riflessione comparativa fra i regimi totalitari si è avviata con maggior impegno, con l'organizzazione di mostre che illustravano la loro produzione estetica, come la mostra «Kunst und Diktatur 1922-1956», organizzata dalla Künstlerhaus di Vienna dal 28 marzo al 15 agosto 1994, e «Art and Power. Europe under the dictators 1930-1945», organizzata a Londra dalla Hayward Gallery dal 26 ottobre 1995 al 21 gennaio 1996, successivamente trasferita a Barcellona e a Berlino.
Queste mostre erano state precedute dalla pubblicazione di un importante studio comparativo sulla produzione estetica dei regimi totalitari, il libro dello storico dell'arte russo Igor Golomostock, L'arte totalitaria nell'Urss di Stalin, nella Germania di Hitler, nell'Italia di Mussolini e nella Cina di Mao (Leonardo, Milano 1990). Da allora si è sviluppato un nutrito filone di studi comparativi sull'arte totalitaria, nel quale si colloca il volume sull'arte di regime di Maria Adriana Giusti, docente al Politecnico di Torino e professore onorario della Xi'an Jiaotong University in Cina.
Senza apportare interpretazioni originali, e nonostante qualche svista (a pagina 16: Giuseppe Bottai non era ministro della Cultura ma dell'Educazione nazionale dal 1936), il volume offre un ricco apparato di immagini, purtroppo non collocate secondo una successione cronologica, che avrebbe consentito di percepire le variazioni di stile nelle diverse fasi dei tre regimi.
Per ciascun regime, le immagini sono divise in sezioni – arte, grafica, architettura – precedute da un'introduzione. Viene così efficacemente documentata la molteplicità delle espressioni artistiche totalitarie, dalla grafica e dal manifesto, alla pittura e alla scultura, al cinema, e soprattutto all'architettura e al progetto urbano che, scrive Giusti, «incidono profondamente sulla trasformazione degli spazi come espressioni multi-scala della visione totalitaria del regime... Le trasformazioni delle capitali, Roma, Berlino e Mosca sono al centro della strategia di affermazione del potere totalitario». Attraverso visioni oscillanti «tra la mitologia del progresso nelle avanguardie e l'antimodernismo nell'ortodossia della cultura di Stato», «filtra la sostanza utopica del sogno totalitario che proietta l'arte ben oltre la ricerca di efficacia realistica o di intenti persuasivi e mediatici».
Nella scelta dello stile estetico dei tre regimi, accomunati dalla concezione dell'arte come strumento di propaganda per diffondere fra le masse la propria ideologia, decisivo fu il ruolo dei loro dittatori, diversissimi per temperamento, formazione, cultura, e per l'atteggiamento verso la creatività artistica. Dei tre, l'unico che aveva ambizioni artistiche era Hitler, aspirante architetto mancato e mediocre pittore di paesaggi negli anni giovanili, e tuttavia convinto di essere un architetto geniale, con una concezione dell'arte condizionata da un convenzionale realismo ottocentesco e dall'ossessiva ideologia razzista.
Il capo nazista intervenne «pesantemente sulle attività artistiche, bandendo il modernismo internazionale e avvalendosi di un unico architetto e di un unico stile», mentre Stalin, che non aveva pretese artistiche ma si considerava comunque un «ingegnere di anime», impose il realismo socialista «come sintesi di cultura e potere, giungendo però al connubio tra costruttivismo e tradizionalismo». Quanto al duce, Giusti lo definisce «più ambiguo nelle scelte, volte a esaltare tensioni, movimento, inarrestabilità degli impulsi, confidando nell'eloquenza dell'architettura come sintesi di tutte le arti e nella cinematografia come migliore arma di persuasione». Ma più che di ambiguità, si può parlare di eclettismo per un politico simpatizzante, fin da giovane, per le avanguardie moderniste, che sentiva affini al suo temperamento e al dinamismo fascista.
Osservando le espressioni estetiche dei tre regimi, dove si staglia ossessiva la figura del dittatore e prevalgono le scene di vita quotidiana animate dal corale entusiasmo di collettività operose e gioiose, non si ha tuttavia l'impressione di una piatta uniformità. Pur nella prevalente retorica del realismo, del gigantismo e del monumentalismo, la creatività individuale è riuscita a farsi strada, a emergere.
Siamo di fronte a una «contraddizione irrisolvibile» tra la libertà creativa e il condizionamento ideologico, come afferma Giusti; oppure siamo di fronte al fatto tutt'altro che contraddittorio, e molto più rattristante: e cioè, che la creatività artistica – anche quella di un grande artista – non è affatto incompatibile con l'adesione convinta al sogno totalitario di dominio e di manipolazione dell'uomo?

domenica 11 gennaio 2015

Scienza e filosofia a confronto. Facciamo pace con il caso


La smania di prevedere e calcolare non ci aiuta ad affrontare il futuro

Donatella Di Cesare

"Corriere - La Lettura", 11 febbraio 2015

Circa due terzi dei tumori non sarebbero riconducibili né alle predisposizioni ereditarie né ai fattori ambientali né, tanto meno, allo stile di vita. Lo sostengono, sulla prestigiosa rivista «Science», il genetista Bert Vogelstein e il matematico Cristian Tomasetti. Il risultato della ricerca, condotta sulla base di modelli molto complessi, culmina in due parole relativamente ordinarie: bad luck, cattiva sorte. Il cancro sarebbe, dunque, in gran parte questione di sfortuna.
La notizia ha suscitato sconcerto e persino sdegno. A irritare non è solo lo scarto tra la complessità dei mezzi impiegati e l’apparente banalità dell’esito. Piuttosto è lo spazio che in tal modo la ricerca scientifica concede a un concetto nebuloso come il «caso».
Che la guerra contro il cancro debba subire una battuta d’arresto? E per di più sotto i colpi del caso? Non ne viene allora minata la nostra fede incrollabile nella scienza? Dovremmo ammettere di esserci sbagliati confidando, per il nostro futuro, nei calcoli e nelle previsioni della medicina?
Negli ultimi decenni siamo stati portati a considerare normali quei progressi straordinari che hanno modificato, più di quanto non si immagini, il nostro rapporto con la vita. I limiti sono saltati, le frontiere sono state spostate o addirittura rimosse. Sono cambiati genesi, qualità, durata ed esito della vita. Le aspirazioni più recondite, i desideri più inesaudibili sono diventati realtà: avere figli quando prima non era possibile, guarire da malattie congenite, sconfiggere morbi virulenti. Il prolungamento della vita ha modificato la comprensione che ciascuno ha di sé.
Siamo stati presi dall’euforia vertiginosa dell’illimitato. Quel che prima era dettato dalle dure leggi della necessità, o inscritto nella imperscrutabile volontà di Dio, è divenuto risultato di una scelta. In breve: siamo stati educati alla cultura dell’antidestino.
Come potremmo accettare allora che il cancro dipenda in gran parte dal «caso»? E che cosa significa questo termine, che ci si attenderebbe semmai da un filosofo, non da uno scienziato?
Caso, connesso con il verbo cadere, è quel che cade, o meglio, quel che accade — è un evento che sopraggiunge, senza che ci sia una causa evidente, prevista o prevedibile, a provocarlo. L’uso del termine deriva dal gioco dei dadi. Il caso è la sorte che tocca a ognuno nel grande gioco della vita. Ma sono stati gli antichi Greci a riflettere sul concetto — non solo nell’ambito della filosofia. Proprio i primi medici si sono interrogati sulla possibilità di ricorrere alla parola túche, sorte. In uno scritto attribuito a Ippocrate, il fondatore della medicina scientifica, è detto che «caso è un mero nome, non ha sostanza, non significa nulla». Se la malattia è vista sin dall’inizio come un caso, che disturba il normale fluire della salute, e si manifesta attraverso i sintomi, la medicina prende tuttavia le distanze da un termine che appare sospetto.
Che cosa sarebbe il caso altro che un concetto-limite? Che cosa indicherebbe, se non l’ammissione della propria ignoranza? Non conoscere le cause della malattia, non saperne fornire una spiegazione, non autorizza, per i medici greci, a parlare di «caso». Bad luck, la formula usata dai ricercatori americani, verrebbe dunque bollata probabilmente dai medici greci come non scientifica.
I filosofi sono stati ben più indulgenti. Pur interpretando il caso in modi diversi, lo hanno accolto come parte integrante della vita. Non lo hanno respinto al limite, come quell’ignoto che resta ancora da spiegare. Hanno discusso intorno alle differenze tra sorte, fortuna, provvidenza, a seconda delle loro convinzioni e del loro credo, ma non hanno mai smesso di interrogarsi sul ruolo che il caso può svolgere non solo per la felicità umana, ma anche nelle alterne vicende della storia. Questo non vuol dire diventare fatalisti. «Nessun vincitore crede al caso», scrive Friedrich Nietzsche. E poi che ne sarebbe della libertà? E della responsabilità?
Non si può, dunque, pretendere di eliminare, dalla vita umana e dalla storia, l’imprevisto e l’imprevedibile. Cogliere il momento giusto, assecondare il caso, rimettersi all’incalcolabile, in un difficile equilibrio tra agire e attendere, costituisce la saggezza del vivere. Perciò i filosofi, anche nei tempi più recenti, hanno lanciato un monito contro il ricorso ai calcoli razionali che non di rado si rivelano ingannevoli.
Il monito è rivolto anche agli scienziati, sebbene nella scienza le cose stiano diversamente. Perché il caso viene visto come un singolo fenomeno che devia dalla legge e ne richiede una correzione. Per gli scienziati il caso, che emerge nell’applicazione pratica, rappresenta il compito ulteriore della loro ricerca, quel limite che devono ambire a superare. Sta qui il progresso della scienza: nella sua costante capacità di rettifica che ne incrementa la attendibilità. Si capisce allora perché, quando si imbatte nell’inatteso, il ricercatore miri non solo a ricondurlo ai canoni scientifici, ma anche a prevederlo. Gioca insomma d’anticipo, con statistiche e calcoli della probabilità. Dopo gli eventi traumatici che il genere umano ha sperimentato negli ultimi decenni, la previsione sembra ormai far parte della responsabilità che il ricercatore si assume verso il mondo.
Che cosa non si tenta oggi di prevedere? Dagli eventi atmosferici all’andamento della Borsa valori, dagli sviluppi demografici ai sondaggi d’opinione. L’uso smodato di misurazioni e calcoli è tuttavia la spia di un atteggiamento che, dalla scienza, si è andato pericolosamente diffondendo nella vita. Il che ha non solo reso sempre più difficile accettare l’imprevisto, ma ha danneggiato il nostro rapporto con il futuro.
Nell’ambito della medicina la questione è ancor più complessa. Come ha scritto il filosofo Hans Jonas, «la medicina è una scienza, ma la professione medica è l’esercizio di un’arte». Si tratta di un’arte che non produce nulla e contribuisce piuttosto a guarire, cioè a ristabilire l’equilibrio del paziente — non senza la partecipazione di quest’ultimo, chiamato alla cura attiva di sé.
Il «caso» di un paziente non è soltanto il singolo caso di una legge generale; è anche, e soprattutto, la caduta del malato, l’estromissione da quei rapporti in cui si svolgeva la sua vita, il suo dolore, non solo fisico, l’imprevisto mutare della sua esistenza. Ogni caso è individuale, ogni trattamento è specifico, ogni cura, se deve avere buon esito, non può che nascere da un incontro e, anzi, da un dialogo tra medico e paziente. È riduttivo vedere nella medicina una scienza come un’altra e nel medico un semplice esperto. Nulla, inoltre, dovrebbe essere affidato semplicemente a un esperto — tanto meno l’equilibrio della propria vita.
Sotto questo aspetto la conclusione a cui sono giunti Vogelstein e Tomasetti, per quanto controcorrente, non è poi così scioccante. Guardando alle cellule staminali, che nel dividersi, per sostituire quelle vecchie, danno luogo a mutazioni genetiche, a «errori del Dna», i due ricercatori hanno considerato il ruolo della cattiva sorte accanto ai fattori ambientali e ereditari. I tessuti di alcuni organi — cervello, tiroide, polmone, fegato, pancreas, e così via — si dividono con una certa frequenza. Che cosa guida l’andamento della divisione? Spesso solo il caso.
Questo è forse un parlare da filosofi, o meglio, da scienziati che desiderano indicare il limite in cui si scontra la ricerca. Non c’è traccia, però, di un vuoto fatalismo. Tanto più che Vogelstein e Tomasetti, oltre a ricordare il valore della prevenzione, del corretto stile di vita, la necessità di condizioni ambientali favorevoli, hanno sottolineato l’importanza della diagnosi precoce.
Ma prevenire non vuol dire prevedere né, tanto meno, sconfiggere il tumore. Purtroppo, accanto ai progressi della scienza, si deve constatare non di rado un regredire nella cura della salute. Sapere che la medicina non è onnipotente, che l’imprevisto è sempre in gioco, può semmai indurci a scegliere per la nostra vita quel che è giusto. E può forse spingerci a mutare atteggiamento verso l’inatteso, verso il caso, anche quello della malattia o — come si dice in italiano — del cadere malati.
Del nostro corpo siamo responsabili, non padroni. Lo prova il fatto che, a nostra insaputa, le cellule errano nel dividersi. Lottare per vivere più a lungo — e in modo degno! — non dovrebbe mai far dimenticare che, alla fin fine, della vita siamo ospiti. Rischioso non è accettare ragionevolmente il caso, bensì pretendere di decidere tutto, mantenendo un controllo che di fatto ci sfugge.
La sfida prometeica lanciata quotidianamente contro il caso nasconde a stento un malessere profondo. Non riusciamo più a immaginare un futuro condiviso; non riusciamo più a proiettarci in un dopo di noi, che sia quello di un aldilà religioso, di una storia del mondo che riscatterà il passato, delle generazioni che ci seguiranno. Si prolunga la vita, ma si contraggono le aspettative di ciascuno nell’arco breve della propria esistenza fisica. E così, mentre il presente sembra l’unico tempo in cui troviamo rifugio, il corpo diventa il solo terreno del nostro io, un terreno che tentiamo di coltivare intensamente, ciascuno per sé, e forse anche contro gli altri, mentre è irrimediabilmente friabile e caduco. Anziché aumentare le nostre capacità di previsione, dovremmo allora forse riflettere con più consapevolezza sul caso e sulla caducità.


Eventi fortuiti salvarono Hitler e Federico II

Antonio Carioti

Uno che se ne intendeva, Niccolò Machiavelli, riteneva «potere essere vero che la fortuna sia arbitra di metà delle azioni nostre». E in effetti nella storia non è raro che eventi anche di enorme portata siano condizionati da eventi casuali. Un esempio macroscopico, di cui si è parlato parecchio lo scorso anno per via del centenario, è l’attentato di Sarajevo. Quel 28 giugno 1914 il tentativo di uccidere l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo era in un primo tempo fallito e fu solo il fortuito errore di percorso compiuto in seguito dal suo autista, con la conseguente necessità di fermarsi per cambiare strada, che mise l’erede al trono di Austria-Ungheria e la moglie alla comoda portata della pistola impugnata dall’attentatore serbo Gavrilo Princip.
Oltre agli attentati riusciti per caso, ci sono anche quelli falliti per mera combinazione. Hitler se la cavò due volte in circostanze del genere: e se la congiura del 20 luglio 1944 giunse quando ormai la guerra era entrata nella sua fase finale, ben diversa era la situazione l’8 novembre 1939, a conflitto appena cominciato, quando il Führer scampò per un pelo alla bomba collocata da Georg Elser nella birreria di Monaco di Baviera dove era in corso una cerimonia celebrativa. Hitler uscì dal locale pochi minuti prima dello scoppio perché le previsioni metereologiche avverse lo avevano indotto a tornare a Berlino in treno anziché in aereo. In altre occasioni le condizioni atmosferiche hanno influenzato il corso della storia. Violenti tifoni furono determinanti nel mandare all’aria i due tentativi dell’imperatore mongolo Kublai Khan, signore della Cina, di invadere il Giappone, nel 1274 e nel 1281: tra l’altro nasce da quella vicenda il termine kamikaze , ossia «vento divino», che poi fu adottato per i piloti suicidi della Seconda guerra mondiale. Anche alcuni progetti d’invasione della Gran Bretagna vennero compromessi dalle tempeste: la Invincibile Armata del re di Spagna Filippo II, nel 1588, venne prima respinta dalle navi inglesi, ma poi distrutta dalla furia delle onde.
Fu invece la pioggia, che era caduta abbondantemente nelle ore precedenti, a ritardare l’assalto dei francesi contro gli inglesi a Waterloo rispetto ai piani di Napoleone, il 18 giugno 1815, con conseguenze fatali sull’esito della battaglia, che venne vinta da Wellington grazie al soccorso prussiano. Per tornare a Machiavelli, il segretario fiorentino era convinto che la coincidenza tra una temporanea malattia di Cesare Borgia e la morte di suo padre, il Papa Alessandro VI, fosse stata decisiva nel provocarne la rovina. Di certo un fattore del tutto contingente come la salute dei potenti influenza non poco le vicende storiche: viene da domandarsi quali altre gesta avrebbe compiuto Alessandro Magno, se non fosse scomparso a soli 33 anni, oppure che sorte avrebbe avuto Atene se il suo leader carismatico Pericle non fosse perito di peste all’inizio della guerra del Peloponneso. Di certo il re di Prussia Federico II il Grande se la sarebbe vista brutta se il 5 gennaio 1762, in piena guerra dei Sette anni, non fosse morta la zarina di Russia Elisabetta I, il cui successore Paolo III concluse con lui la pace separata che gli consentì di riprendere fiato nella lotta ad austriaci e francesi, evitando una disfatta che sembrava segnata.

mercoledì 7 gennaio 2015

Piketty rifiuta la Legion d’Onore «Il governo pensi all’economia»


Elisabetta Rosaspina


"Corriere della Sera", 2 gennaio 2015

PARIGI Nessuno adesso vorrebbe essere nei panni di Geneviève Fioraso, sottosegretario all’Istruzione superiore del governo di Parigi, che ha proposto il nome dell’economista e scrittore Thomas Piketty per la croce della Legion d’Onore, il riconoscimento più importante conferito ogni anno in Francia a quanti abbiano dato lustro alla nazione, per meriti militari o civili. Meglio sarebbe stato sondare prima la disponibilità del candidato a ricevere l’onorificenza, perché il presidente della Repubblica, François Hollande, non ha proprio preso sportivamente il pubblico smacco di quel fiero «je refuse», opposto da uno dei più quotati economisti del momento: «Non sta al governo decidere chi sia da onorare. Si preoccupi piuttosto di rilanciare la crescita della Francia e dell’Europa», è stato lo sbrigativo messaggio di Piketty, recapitato al presidente attraverso le agenzie nel giro di qualche ora.
La prima arrabbiatura di Hollande nel 2015 arriva, e forse non era imprevedibile, dall’anticonformista autore del saggio Il Capitale nel XXI secolo, best seller da un milione e mezzo di copie (in Italia pubblicato da Bompiani). Un trionfo in 32 lingue che ha fatto di Piketty «l’economista rockstar» (per usare un’espressione coniata dal pur diffidente «Financial Times»).
Consultato dai più stretti collaboratori di Barack Obama, acclamato dalle folle, applau-dito a New York da una folta schiera di premi Nobel per l’Economia (a cominciare da Paul Krugman), Piketty, 43 anni, aveva ricevuto un’accoglienza più tiepida dalle alte sfere francesi, con le sue teorie contrarie alla politica di austerity e il suo allarme sull’irresistibile aumento delle diseguaglianze nella nostra epoca.
Nel 2012 Piketty era fra i sostenitori della candidatura di Hollande alla carica di capo dello Stato; ma, una volta presidente, il leader socialista aveva tradito le aspettative dell’economista, fervente propugnatore di una riforma fiscale in favore dei redditi più bassi, infine accantonata dal governo. L’idillio era finito.
Da allora Piketty non ha risparmiato critiche e frecciate alla politica di Hollande, il quale forse sperava di recuperare la sua benevolenza con la lusinga di un cavalierato. Istituita nel 1802 da Napoleone Bonaparte, la Legion d’Onore, fin dal nome, evoca la sua natura di corporazione, simile a quella degli ordini cavallereschi cancellati all’epoca dalla Rivoluzione francese. Si divide in cinque classi: da cavaliere fino a gran maestro (il titolo più alto, che spetta in esclusiva al presidente della Repubblica in carica). E annovera in tutti i suoi gradi 92 mila membri.
Ieri mattina, come a ogni inizio d’anno, la gazzetta ufficiale francese ha pubblicato l’elenco di 691 personaggi destinati a ricevere la decorazione per i meriti acquisiti nel 2014, con il titolo di cavaliere, ufficiale o commendatore. Fra loro: il neo premio Nobel per la Letteratura, Patrick Modiano, il suo collega che ha vinto per l’Economia, Jean Tirole, l’ex ministro della Cultura e attuale presidente dell’Istituto del Mondo Arabo, Jack Lang. O imprenditori come Pierre Bergé, compagno di vita di Yves Saint Laurent e cofondatore della casa di moda. O eroi quotidiani, come Lucie Pérardel, l’infermiera di Médecins sans Frontières, contagiata da Ebola in Liberia e guarita poi in Francia.
Con la sua risposta, Piketty entra a far parte di una élite più ristretta, ma certamente non meno qualificata, accanto ai fisici Pierre e Marie Curie, agli scrittori Guy de Maupassant, Albert Camus, Jacques Prévert, George Sand, al filosofo Jean-Paul Sartre, o a celebrità come Brigitte Bardot. Quelli che hanno detto «no» alla Legion d’Onore. Wikipedia non ha perso tempo: il nome dell’economista è già iscritto nell’apposita categoria. 

Lewis, Sartre e gli altri: il premio? No, grazie

Precedenti clamorosi per il Pulitzer, il Nobel e la medaglia Fields

Antonio Carioti

«Tutti i premi, come tutti i titoli, sono pericolosi». La frase dello scrittore americano Sinclair Lewis è tratta dalla lettera con cui nel 1926 motivò il rifiuto del Pulitzer. Chi mira a vincere un premio, proseguiva Lewis, non cerca tanto l’eccellenza, quanto di compiacere i pregiudizi della giuria. E questo gli appariva un meccanismo perverso, anche perché riteneva che gli stessi termini per l’attribuzione del Pulitzer fossero assai discutibili.
Bisogna aggiungere che Lewis, assai critico verso i valori dominanti nella società americana, era rimasto scottato in precedenza, quando il Pulitzer non gli era stato assegnato, nel 1921 e nel 1923, a causa di pesanti interventi dall’alto sulla giuria. E che comunque il romanziere non ebbe problemi in seguito ad accettare il premio Nobel: fu il primo scrittore degli Stati Uniti a vederselo assegnare nel 1930. Il suo caso assomiglia un po’ a quello recente dell’autore spagnolo Javier Marías, già insignito di molti riconoscimenti all’estero, che nel 2012 ha rifiutato il premio nazionale di narrativa in polemica con il governo di Madrid.
Più intransigente il filosofo francese Jean-Paul Sartre, che nel 1964 declinò il Nobel per la letteratura, suscitando un gran clamore, dopo averlo già fatto con la Legion d’Onore (come Piketty) nel 1945: «Lo scrittore deve rifiutare di lasciarsi trasformare in istituzione», spiegò in una lettera all’Accademia svedese, pur riconoscendo che in questo caso ciò sarebbe avvenuto in maniera onorevole. Quello di Sartre fu un rifiuto spontaneo, ben diverso dal caso dello scrittore russo Boris Pasternak, che nel 1958 era stato costretto a tirarsi indietro dalle pressioni del governo sovietico, così come avevano fatto negli anni Trenta tre scienziati tedeschi — Gerhard Domagk, Richard Kuhn e Adolf Butenandt — per via del veto posto da Hitler per ragioni politiche. Solo dopo la guerra e la sconfitta del nazismo i tre ritirarono il Nobel.
Uno scienziato che invece non volle mai avere nulla a che fare con i riconoscimenti ufficiali è il matematico Alexander Grothendieck, recentemente scomparso in Francia. Nel 1966 rifiutò la medaglia Fields, l’equivalente del Nobel per la matematica, perché non intendeva andare a ritirarla a Mosca. E poi nel 1988, quando aveva ormai rotto con il mondo accademico, fece lo stesso con il premio svedese Crafoord, motivando la sua scelta in una polemica lettera su «Le Monde». In fatto di matematica va poi ricordato l’eccentrico russo Grigorij Perel’man, noto per essere venuto a capo nel 2002 della congettura di Poincaré, irrisolta da quasi un secolo, ma anche per aver rifiutato il conseguente premio Clay e la me- daglia Fields. Più o meno come Grothendieck, Perel’man si è isolato da ogni forma di ufficialità.