domenica 24 maggio 2015

Grande guerra & identità


1915, punto di non ritorno

Gennaro Sangiuliano

"Il Sole 24 ore - Domenica",  24 maggio 2015

«L’Italia si è portata magnificamente, ha superato tutte le aspettative», scrive da Roma Giuseppe Prezzolini in una lettera alla moglie Dolores. Il 16 maggio del 1915, Vittorio Emanuele riconferma in carica il Gabinetto Salandra, l'Italia, dopo un anno di neutralità, procede a tappe forzate verso l'ingresso nella Grande guerra. Sono quelle che verranno definite, non senza una punta di retorica, le “radiose giornate di maggio”. Sono le settimane che segnano la vittoria di quella che appena un anno prima, al deflagrare del conflitto europeo, appariva solo una minoranza estetizzante, quella interventista, che invece in meno di un anno trascina l’establishment del Paese sulle sue posizioni. «Stamani siamo entrati in Montecitorio, abbiamo rotto tutti i vetri e soltanto una gran bontà e un resto di debolezza ci ha impedito di bruciare l'aula… Si passa di dimostrazione in dimostrazione, di riunione in riunione. Ieri c’era tutta l’atmosfera della rivoluzione… Ho sentito parlare da vicino Albertini del Corriere e d’Annunzio… È piccolo, grazioso, un po’ buffo in fondo», scrive sempre Prezzolini.
Gli eventi si susseguono a ritmo serrato. Non manca la violenza. Per strada vengono aggrediti Facta e Bertolini, due politici di provata fede giolittiana. Gli interventisti gridano: «Fate la pelle a Giolitti».
Lo statista di Dronero diventa il bersaglio preferito del partito interventista, uno schieramento composito, originariamente fatto soprattutto di giornalisti e intellettuali a cui si sono unite le più disparate forze. Giovanni Giolitti è il monolite che divide, lo spartiacque, il muro che separa due Italie. Ecco perché appare appropriata la scelta di Luigi Compagna di affrontare l’analisi storica delle vicende di quell’anno con riferimento al politico piemontese; Italia 1915, in guerra contro Giolitti, il titolo del suo saggio, che non lascia dubbi su quella che valuta come questione centrale. «Nel 1915 l’Italia entrò in guerra per ragioni soprattutto, se non esclusivamente di politica interna», scrive Luigi Compagna, «contro Giolitti, ma col consenso del sovrano, si scelse di zittire il Parlamento». In altre parole, la guerra fu il pretesto per fare i conti con quella che era stata, nel bene e nel male, l’Italia giolittiana, per cui non appare esagerata l’intuizione di Benedetto Croce che definisce quel 1915 come un «punto di non ritorno» del sistema politico postunitario. Un anno che possiamo indicare come «un termine ad quem dei più significativi», l’antigiolittismo diventa comune denominatore di «improvvise e improvvisate legioni “democratiche” di destra e di sinistra». Non a caso, Prezzolini pubblica un numero speciale de “La Voce” con un grande titolo «Abbasso Giolitti!» e un editoriale intitolato “La rivoluzione antigiolittiana”. Anche il moderato «Corriere della Sera» è in campo a favore della guerra e contro l’uomo di Dronero, indicato addirittura come capo di un complotto.
La decisione di aderire alla guerra non matura in Parlamento, dove sarebbe stato costituzionalmente corretto, ma nelle piazze agitate dagli interventisti. Luigi Compagna cita Giovanni Spadolini che chiarisce come «le decisioni sul se, il quando e a fianco di chi entrare in guerra sfuggirono in buona parte ai consolidati e tradizionali canali politici e diplomatici» e conclude che la guerra fu «strumentalmente usata per attuare un’alternativa concreta al sistema impersonato da Giovanni Giolitti».
Tuttavia, se queste furono le premesse e se è vero che l’avversione a Giolitti giocò un ruolo simboleggiando lo scontro tra nuove pulsioni e l’ançien regime, sarebbe un errore non cogliere quello che si rivelerà essere il valore della partecipazione italiana al Primo conflitto mondiale. L’esame di massa di una nazione, la «prima esperienza collettiva degli italiani», secondo la chiara affermazione di Piero Melograni. Imposta da una minoranza culturale la guerra inciderà profondamente nella carne dell’Italia, «sul terreno dei comportamenti collettivi», scrive Francesco Perfetti, «gettò le premesse per un sempre più massiccio e coinvolgente ingresso delle masse nella vita politica del Paese».
Dunque, per l’Italia, pagando il prezzo di immani sacrifici, la Grande guerra è l’inizio della modernità che muta, rafforza, cementa l’italianità. E questo è un fatto su cui la storiografia tenta di riflettere. La Grande guerra e l’identità nazionale è il volume, a cura di Francesco Perfetti, che tenta di mettere a fuoco le enormi conseguenze psicologiche, culturali, economiche e sociali che il conflitto produsse. Fu così in tutta Europa perché questo conflitto ebbe una natura inedita, rispetto ai conflitti conosciuti nei secoli precedenti, fu la guerra totale, una fornace di vite umane e risorse, ma anche di sviluppo dell’industria e della tecnologia. Accanto alla conclusione del processo risorgimentale ci sarà «qualcosa di più profondo e duraturo», perché nello sforzo bellico «si rafforzò l’identità nazionale» e soprattutto sviluppò quel senso comune di appartenenza alla nazione che in Italia stentava ad assumere tratti comuni a quelli delle altre grandi entità europee.
L’Italia era ancora fondata su una società agraria, dove la partecipazione pubblica, nonostante Giolitti avesse aperto al suffragio universale nel 1912, restava nelle mani di un ristretto notabilariato trasversale a tutti i partiti. Il conflitto avrebbe liberato nuove forze.
Il 20 maggio si tiene alla Camera dei Deputati una seduta storica nel corso della quale Salandra chiede e ottiene i pieni poteri dal Parlamento. Il 24 maggio l’Italia entra in guerra accanto alle potenze dell’Intesa contro gli Imperi centrali. Sta per iniziare un fatto di cruciale importanza storica che porterà con sé conseguenze nell’animo del Paese che nessuno in quei giorni era in grado di soppesare. Giolitti che aveva tentato un’ultima sortita, convocando i deputati a lui fedeli, era stato sconfitto ma non del tutto perché tornerà in campo nel 1919. Il suo mondo, invece, è irrevocabilmente finito. Molti anni dopo, superando le intemperanze giovanili, Prezzolini rivedrà radicalmente la sua posizione sullo statista piemontese definendolo la «prosa della politica», Compagna ricorda che nel secondo dopoguerra toccherà a Valiani e addirittura a Togliatti rendere omaggio a questo «conservatore illuminato».
Si è molto discusso sulla circostanza che, restando neutrale, l’Italia poteva ottenere lo stesso le province irredente ma la storia non ammette queste divagazioni. Però, alla fine del conflitto, Antonio Salandra, presidente del Consiglio dal 1914 al 1916, scriverà: «Senza i giornali l’intervento dell’Italia forse non sarebbe stato possibile».

Luigi Compagna, Italia 1915 in guerra contro Giolitti, Rubbettino, Soveria Mannelli, pagg. 194
La Grande guerra e l’identità nazionale, a cura di Francesco Perfetti, Le Lettere, Firenze, pagg. 252


Grande guerra & industria
Non fu solo Caporetto
Nella memoria resta quella sconfitta, 
ma gli armamenti dispiegati dal nostro esercito consentirono di ribaltare le sorti

Valerio Castronovo


Nella memoria comune sulla condotta dell’Italia nella Grande Guerra ha finito col restare impresso soprattutto il marchio avvilente della disastrosa disfatta di Caporetto. Al punto da relegare in secondo piano l’impresa che, nel giro di pochi mesi da quel drammatico autunno del 1917, portò il nostro esercito a ribaltare le sorti di un conflitto che sembrava irrimediabilmente perso e a concluderlo con una brillante vittoria.
Vale perciò la pena di mettere in debita luce quale decisiva importanza ebbe a tal fine il fatto che il sistema industrial-militare prese, proprio allora, a marciare a pieno regime. Tanto da produrre una mole di armamenti nettamente superiore ai mezzi in dotazione alle truppe austriache rafforzate da vari contingenti tedeschi.
Venne così a compimento una lunga e complessa opera di potenziamento della macchina bellica che s’era dovuta allestire nel maggio 1915, dopo nove mesi di neutralità, in tutta fretta e senza sufficienti scorte di materie prime e combustibili. Perciò si era fatto affidamento inizialmente più sul numero di uomini mandati al fronte che sulle bocche da fuoco.
Soltanto a metà del 1916, alla vigilia della dichiarazione di guerra anche alla Germania, si erano registrati i primi risultati dell’opera intrapresa dal Comitato per la mobilitazione industriale, istituito nell’agosto dell’anno prima. Questo organismo, a cui facevano capo undici Comitati regionali, costituì l’architrave della nostra economia di guerra, sotto la regia del generale Alfredo Dallolio, titolare del sottosegretariato per le Armi e munizioni (trasformato nel 1917 in un ministero). Dalle sue direttive vennero infatti a dipendere oltre cinquemila funzionari e quasi duemila stabilimenti dichiarati “ausiliari”, concentrati per il 60 per cento nel “triangolo industriale” fra Milano, Torino e Genova.
La presenza sempre più estesa dello Stato nelle diverse cerniere dell’apparato produttivo e dei servizi era un fenomeno comune a tutti i paesi belligeranti. E analoghi erano i procedimenti varati per finanziare le spese di guerra col ricorso sia all’espansione della base monetaria che all’indebitamento. Ma ciò avvenne, da noi, in misura assai più pronunciata: tant’è che solo un quinto o poco più delle spese connesse direttamente o indirettamente alla guerra venne coperto da entrate di bilancio, nonostante vari prestiti nazionali e ripetute emissioni di titoli del debito pubblico.
È vero che non mancarono sprechi, speculazioni o malversazioni nelle relazioni fra autorità pubbliche e alcune grosse imprese. Ma col tempo migliorarono i controlli in materia di ordinazioni di collaudi. Così che Dallolio riuscì nel compito di esaudire le pressanti richieste degli Alti Comandi.
Vennero infatti messi in cantiere nuovi grossi calibri di artiglieria e intensificata la fabbricazione di mitragliatrici e altre armi, grazie al perfezionamento degli impianti e alla standardizzazione dei prodotti e dei materiali. Inoltre, col concorso di un Comitato scientifico-tecnico (istituito nel 1916 fra docenti universitari ed esperti in ingegneria), si progettarono un numero sempre più consistente di motori aerei e di velivoli da combattimento e da ricognizione. Nel contempo venne migliorando la logistica nella rete ferroviaria e in quella stradale, essenziali per il trasporto di rinforzi al fronte. Perciò, durante l’inverno del 1917 fu possibile far affluire più facilmente, con l’impiego soprattutto di un vasto parco di autocarri pesanti, i rifornimenti necessari per arginare, dopo la rotta di Caporetto, l’avanzata dei nemici.
Peraltro, in quei mesi la nostra industria si trovò alle prese con una crisi idroelettrica che impose un rallentamento dell’attività produttiva, ma che fu poi superata rapidamente grazie a massicci investimenti resi possibili da anticipazioni straordinarie dello Stato, all’impiego nelle fabbriche di altre maestranze (fra cui numerose donne) e all’adozione di turni massacranti di lavoro. Dalla primavera del 1918, l’esercito poté così disporre di un efficace apparato bellico e l’aviazione di varie migliaia di velivoli, mentre le veloci incursioni condotte da piccole unità navali giunsero a colpire alcune grosse corazzate austriache alla fonda nelle loro basi.
Perciò non era più soltanto un esercito di fanti-contadini quello che (passato da novembre agli ordini di Diaz) fu chiamato a reggere, nella “battaglia del solstizio” (tra il 15 e il 24 giugno 1918), la massiccia offensiva delle divisioni asburgiche, che, raddoppiati nel frattempo i propri effettivi in seguito alla defezione della Russia, miravano a impadronirsi dei raccolti delle fertili pianure venete, per poi accorrere in parte, una volta sfondato il fronte italiano, su quello occidentale in aiuto alle truppe tedesche.
Fornito di ulteriori mezzi bellici, ritemprato nel morale e ricostituito nei suoi ranghi anche grazie ai giovani dell’ultima leva (“i ragazzi del ’99”), il nostro esercito riuscì a respingere l’assalto concentrico delle armate austriache. E il suo contrattacco, negli ultimi giorni di ottobre, travolse le linee nemiche costringendo Vienna a chiedere l’armistizio una settimana prima della resa della Germania dopo la sconfitta subìta ad Amiens.
Senonché la previsione di alcune grandi imprese (e, in particolare, di quella più eminente e polisettoriale come l’Ansaldo) che la guerra si sarebbe prolungata sino alla primavera del 1919 determinò successivamente una grave crisi di sovraproduzione che avrebbe reso più ardua la riconversione post-bellica con pesanti conseguenze non solo di ordine economico.

domenica 17 maggio 2015

Ulisse come Batman, ecco perché amiamo il ritorno dell’uguale

Alberto Manguel

"La Repubblica",  17 maggio 2015

UNO dei più comuni fra i luoghi comuni della letteratura è che il numero delle trame immaginabili sia limitato. Oggi esistono dei saggi eruditi su questo argomento che oltre un secolo e mezzo fa Lewis Carroll riassumeva in Sylvie e Bruno. «Verrà il giorno», scriveva l’autore di Alice, «in cui ogni libro possibile sarà già stato scritto, perché il numero delle parole è finito». E aggiungeva: «Invece di dire “che libro scriverò?”, un autore si chiederà “quale libro scriverò?” ». A quanto pare siamo condannati alla ripetizione.
Ma questa ripetizione è dovuta alle flebili capacità della mente umana o alle percezioni associative di noi lettori? «Poiché la vita è un viaggio o una battaglia», osservava Raymond Queneau, «ogni storia è un’ Iliade o un’ Odissea ». Ma questo perché non siamo capaci di concepire una storia interamente nuova o perché in ogni storia ravvisiamo tracce delle nostre letture precedenti? Il fatto che Le avventure di Pinocchio ci sembrino una rivisitazione di Le avventure di Telemaco (entrambe raccontano la storia di un figlio in cerca del padre) e che ogni nuovo romanzo di Paulo Coelho sembri uguale a tutti i vecchi romanzi di Paulo Coelho dipende dalla scarsità di provviste delle nostra dispensa mentale o dalla nostra capacità di riconoscere la figura nel tappeto di jamesiana memoria?
Sospetto che ci sia una terza possibilità. Noi amiamo la ripetizione. Da bambini vogliamo che la stessa storia ci venga letta nello stesso identico modo, ancora e ancora. Da adulti, anche se ci proclamiamo amanti delle novità, continuiamo a cercare gli stessi giocattoli a cui siamo abituati, di solito sotto l’apparenza di gadget differenti, con la stessa confusa determinazione con cui eleggiamo gli stessi politici sotto l’apparenza di maschere differenti. In questo Chesterton pensava che fossimo come Dio, che a parer suo gioisce della monotonia. «È possibile che ogni mattina Dio dica “fallo ancora” al Sole, e ogni sera dica “fallo ancora” alla Luna», scrive Chesterton. Troviamo conforto nella monotonia.
Gli antichi non si preoccupavano di essere originali. Le storie che raccontava Omero erano ben note ai suoi ascoltatori, e Dante poteva star sicuro che il suo pubblico conosceva (fin troppo bene) i peccati puniti nell’Inferno e i pettegolezzi su Paolo e Francesca. Le cose a venire facevano già parte della nostra esperienza, anche se le ricordavamo poco o le riconoscevamo appena. La storia, come aveva capito Vico, era un ripetersi di cerchi, e noi ascendevamo (o discendevamo) attraverso spirali di tempo e cerchi di conoscenza, come rivisitando luoghi vecchi e familiari. Ora, invece, riecheggiamo il grido di D’Annunzio, «L’avvenire mi apparve spaventoso, senza speranza », perché abbiamo paura di quello che giudichiamo essere l’ignoto remoto. Non ci piacciono le sorprese.
E forse, quindi, nella nostra nuova epoca di ansia, cerchiamo consolazione ripetendo ancora una volta le stesse vecchie storie, perché rafforzano la nostra speranza che plus ça change, plus ça reste tel quel.
Gli eroi della nostra infanzia – Superman, Batman e altri uomini sexy tutti muscoli – sono tornati per aiutarci a immaginare che è possibile lottare per la giustizia, e Sherlock Holmes ha lasciato il suon buen retiro di apicoltore per risolvere problemi esecrabili nel secolo dei villains elettronici e dei truffatori finanziari. Shakespeare creava le sue trame attingendo a Boccaccio e Bandello; noi creiamo le nostre attingendo a film hollywoodiani di appena qualche decennio fa.
C’è un pericolo di stagnazione, nella ripetizione? Non credo. Inevitabilmente, ogni volta che ripetiamo una storia aggiungiamo qualcosa. Ogni storia è un palinsesto composto da strati di narrazioni e ri-narrazioni, e ogni volta che pensiamo di ripetere un aneddoto famoso le parole cambiano pelle durante il racconto e ne assumono una nuova per l’occasione. La legge di Pierre Menard, che ogni testo diventa un testo differente a ogni nuova lettura, si applica all’intera letteratura e a tutte le arti creative. La costanza che cerchiamo nella vita, la ripetizione di storie che pare assicurarci che tutto rimarrà com’era allora e com’è adesso sono, come sappiamo, illusorie. Il nostro destino (Ovidio ce lo ripete da secoli) è il cambiamento, la nostra natura è il cambiamento e ogni storia che raccontiamo e ogni storia che leggiamo è come il fiume di Eraclito, una metafora che (anche questa) andremo avanti a ripetere. Traduzione di Fabio Galimberti

lunedì 11 maggio 2015

Velocità è sinonimo di sopravvivenza

Armando Torno

"Il Sole 24 Ore- Domenica", 10 maggio 2015

Velocità: è una parola dalla storia infinita. Che conosciamo però approssimativamente, evocando il “piè veloce Achille” di Omero o chiedendo Internet rapido (per taluni “un diritto”). Ci sfugge, tuttavia, la molteplice gamma dei suoi significati. La velocità, per fare un esempio stranoto, è una grandezza fisica che gli scienziati, almeno con gli attuali sistemi di riferimento, rapportano al tempo e allo spazio; nel calcolarla ossequiano in ogni loro formula quella della luce. Il Codice della Strada, invece, si preoccupa dei nostri movimenti, fulminando con multe chi non rispetta i controlli diventati più numerosi dei girini in uno stagno.
I filosofi non ne parlano e la voce “velocità” non ha trovato credito nei repertori della categoria. I letterati, invece, la conoscono da millenni e le hanno tributato onori, come quegli iconoclasti dei futuristi che le dedicarono liriche; negli sport era e resta fondamentale, anzi a volte è tutto: per questo è idolatrata. Si vorrebbe eguagliare il campione di pugilato Cassius Clay, poi noto con il nome di Muhammad Ali, il quale ebbe a dichiarare in un’intervista: «Ero così veloce che potevo alzarmi dal letto, attraversare la stanza, girare l’interruttore e tornare a letto prima che la luce si fosse spenta».
La velocità gode di ottima salute, anzi trova sempre più credito. In politica, almeno nell’ultimo secolo, è diventata essenziale: le vicende del governo Renzi andrebbero spiegate tenendo conto, appunto, della notevole velocità con cui l'attuale presidente italiano sa muoversi. Anche l’economia ne ha sempre più necessità; la comunicazione ne ha fatto addirittura una ragione di vita. Si potrebbe aggiungere che l’industria la scoprì allorché ebbe bisogno di svelta manodopera per alimentare la produzione e battere la concorrenza. Inutile fissare una data, ma è certo che i primi film comici di inizio Novecento – osservava con arguzia un sottile critico come Beniamino Placido – erano montati con una velocità artificiale per abituare le masse rurali ai celeri ritmi che sarebbero stati necessari nella nuova industria. Coloro che erano cresciuti nella civiltà contadina ne ridevano, ma pagavano l’ingresso allo spettacolo e si preparavano ad accelerare i loro movimenti adattandoli alle richieste. Insomma, il film muto caratterizzato dal buffo agitarsi del mitico Larry Semon, noto come Ridolini, oltre a creare profitti va considerato una trovata geniale.
Ma è proprio sulla velocità, anche se la filosofia non la degna di uno sguardo, che si gioca il futuro. Hartmut Rosa, professore a Jena e direttore del Max-Weber-Kolleg a Erfurt, ha analizzato l’utilizzo del tempo nella tarda modernità in un saggio dal titolo “Accelerazione e alienazione” appena tradotto da Einaudi (pp. 136), evidenziando alcune verità che si potrebbero utilizzare quali leggi di un’ipotetica fisica sociale. Proviamo a riassumerne una con parole semplici: nelle civiltà occidentali le persone soffrono per mancanza di tempo e, per tale motivo, sentono il dovere di correre ancora più in fretta, non per riuscire a raggiungere un determinato obiettivo ma per non perdere posizioni. La velocità, per dirla in soldoni, si è trasformata in sinonimo di sopravvivenza. Un’aspirazione antica, aggiungerà qualcuno, divenuta il denominatore comune del presente. O forse ha questa fortuna nei momenti di crisi? D’altra parte, il grande Ralph W. Emerson ne “Il carattere e la vita umana” (si legge nei suoi magnifici “Saggi di filosofia americana”) osserva in pieno Ottocento: “Quando si pattina su ghiaccio sottile, la salvezza sta nella velocità”.
Hartmut Rosa parla dei mutamenti in corso evidenziando alcuni punti. Basta soltanto citarli e ci si accorge della rivoluzione innescata dalla velocità. Per esempio, parlando di accelerazione nota che essa sta colpendo la stessa tecnologia, i mutamenti sociali, il ritmo di vita. La decelerazione, caldeggiata a volte dalle comunità tradizionali, è in un angolo. Di più: il professore di Jena nota che l’accelerazione è “una nuova forma di totalitarismo”. Perché? Lasciamogli per qualche riga la parola: “La progressione dell’accelerazione sociale, trasformando il nostro regime spazio-temporale, può a buon diritto essere definita onnipervasiva e onninclusiva: essa esercita la sua pressione inducendo la paura permanente di poter perdere la battaglia e di non essere più capaci di tenere il ritmo, ovvero di soddisfare in modo adeguato le richieste (sempre più numerose) che ci si trova a fronteggiare; il timore, quindi, di aver bisogno di una pausa e di rimanere per questo esclusi dalla gara. O, per chi è disoccupato o malato, la preoccupazione di non riuscire più a rientrare in gara, di essere già rimasti indietro”. Insomma, la velocità non è innocente. Anche se inevitabile.

PER APPROFONDIRE vedi anche QUI.

sabato 9 maggio 2015

Dalla contemplazione alla morte tutte le versioni della nostra gioia


Maurizio Ferraris

"La Repubblica",  8 maggio 2015

La più seria obiezione nei confronti di una ricetta per la felicità è che non sarebbe molto diversa dalla ricetta per l’eleganza. Subito si dovrebbe chiedere: eleganza di chi, in quale occasione, in quale condizione sociale e in quale epoca?
Per la felicità le cose non vanno diversamente, e i filosofi sono stati i testimoni, spesso inconsapevoli, di questa circostanza. Chi, per esempio, oggi, in una cultura dominata dall’imperativo faustiano dell’agire, sarebbe disposto a pensare davvero che la felicità, come sosteneva Aristotele (seguito in questo da molti suoi contemporanei e connazionali) consiste nella contemplazione?
E non bisogna dimenticare che, mentre Aristotele, o molto tempo dopo Averroè e Dante, scrivevano di felicità mentale, molti dei loro contemporanei non ne avevano la minima idea, né la più remota aspirazione. E certo non potevano immaginare che un autorevole filosofo contemporaneo, Stanley Cavell, avrebbe intitolato La ricerca della felicità (1981) uno studio sui film americani che parlano dei secondi matrimoni.
Posto che la felicità sia un accordo tra il nostro stato interno e lo stato del mondo in cui viviamo, non è difficile concludere che ci sono tante versioni della felicità quante sono le storie e le geografie che le circondano. Questa considerazione può apparire un po’ facile ed eccessiva, ma per saggiarne la verità basterà ricordare i molti momenti della nostra vita in cui ci siamo annoiati in un contesto in cui gli altri erano felici. Per esempio: una cena di adulti quando siamo bambini. Loro scherzano e ridono, sembrano felici, ma perché? Se quegli adulti, come spesso accade, sono i nostri genitori, non apparirà sorprendente che le ragioni della felicità di un romano antico, di un mercante medioevale, di un membro di una cultura radicalmente diversa, possano non assomigliarsi in alcun modo.
Oggi ci appare retorico pensare che la semplice osservanza delle leggi possa essere fonte di felicità, eppure è in definitiva l’argomento con cui Socrate dà ragione del suo andare volontariamente alla morte. Quando i kamikaze giapponesi si davano volontariamente la morte il mondo occidentale è rimasto sconvolto, dimenticando però che c’era stato un tempo, neppure troppo lontano, in cui quella morte sarebbe apparsa una fonte di felicità anche in Occidente.
Da questo punto di vista, le indagini che si fanno sulle ragioni della felicità sono uno strumento non tanto per imparare a essere felici (è una delle arti più problematiche e dubbie che esistano), né per stabilire che cosa sia la felicità (è uno dei concetti meno definibili, a differenza del suo contrario, l’infelicità, che è quasi sempre certa) quanto piuttosto per capire quali sono i valori che contano in una società, e i totem e tabù che la guidano.
Per esempio, siamo certi che la tripletta del 1938 “sicurezza, conoscenza e religione” riveli davvero le supposte cause di felicità dei nostri nonni e non invece l’idea che fosse disdicevole aspirare anzitutto al buon umore e al tempo libero?

Il nostro destino nello sguardo della madre


I mille volti della figura femminile che ci dona la vita nel libro di Massimo Recalcati

Il genitore maschio rappresenta la Legge
 la donna invece il diritto all’esistenza

Tanti i riferimenti simbolici: da Maria alle due mamme del giudizio di Salomone


Benedetta Tobagi


"La Repubblica", 8 maggio 2015

SI apre con un insolito ricordo infantile, il nuovo saggio dello psicanalista Massimo Recalcati. Sul divano di casa, lui e la madre guardavano alla tv uno sceneggiato ispirato a un drammatico fatto di cronaca: a Torino, una donna aveva salvato il proprio bambino dal precipitare nel vuoto trattenendolo a mani nude, con sforzo spasmodico, per ore. A partire da quest’immagine, Le mani della madre (Feltrinelli, pag. 192) affronta, dopo il padre e il figlio, l’ultimo pilastro della triade famigliare: perché la madre, o meglio, l’amore della madre, è innanzitutto il fondamento che evita alla vita di precipitare nel vuoto di senso.
L’orizzonte del saggio è strettamente psicanalitico, non sociologico. Contro ogni riduzione della maternità alla mera biologia, Recalcati sottolinea come essa, al pari del paterno, sia soprattutto una funzione simbolica (prospettiva che la svincola sia dalla semplice genitorialità biologica che dal sesso). Se la funzione paterna veicola il senso umano della Legge, ovvero “una Legge nel desiderio” (nella prima parte Recalcati cita, invero fin troppo spesso, i propri libri precedenti), il tratto caratteristico della funzione materna è “la cura particolareggiata”, ossia l’amore per la vita incarnata nell’unicità irripetibile del figlio. «Il desiderio della madre trasmette il sentimento della vita»: attraverso le mani, il loro tocco amorevole, il loro sostegno forte, ma ancor più tramite lo sguardo. Se «l’eredità materna riguarda il diritto del figlio all’esistenza», per converso, la vita del bambino non voluto o rifiutato dalla madre (anche, si badi bene, quando sia materialmente accudito di tutto punto) «è esposta traumaticamente all’incontro violento e prematuro con l’insensatezza dell’essere». La madre è fondamento ma anche fondo oscuro dell’esistenza, come — ha notato acutamente la junghiana Enrichetta Buchli — ben sapeva il Goethe del Faust: «Un tripode infuocato ti dirà finalmente / che avrai toccato il fondo del più profondo abisso. / Alla sua luce tu vedrai le Madri. […] Fa’ cuore, allora, ché è grande il pericolo», avverte Mefistofele.
L’autore di riferimento è, come di consueto, Jacques Lacan, il cui linguaggio ostico è “tradotto” da Recalcati in termini accessibili, ma il saggio offre anche una panoramica divulgativa di riflessioni intorno al materno da Freud alla koiné psicoanalitica degli ultimi anni, passando per figure chiave come André Green, autore di uno studio fondamentale sugli effetti devastanti della “madre morta” in senso affettivo, in quanto spenta e assente per il figlio: un “lutto bianco” quasi impossibile da elaborare.
“Avere” un bambino, si dice. Ma la funzione materna si sostanzia, piuttosto, nell’essere capace di lasciar andare il figlio, a tempo debito, nella rinuncia al possesso. Se ciò non accade, il corpo della madre «può diventare una presenza in eccesso, che abolisce ogni discontinuità, ogni differenza» e ridurre il figlio a oggetto al servizio esclusivo del proprio godimento. Una presenza angosciante, come i ragni mastodontici scolpiti da Louise Bourgeois sotto il titolo Maman. Quanti bambini sono stati solo feticci, oppure, come Vincent Van Gogh, sostituti di fratellini morti in precedenza, con esiti disastrosi per la loro psiche? La maternità porta con sé fantasmi d’onnipotenza, perché il bambino offre spontaneamente «quello che nessun soggetto maschile — salvo forse certi psicotici — è in grado di offrire alla propria compagna», ossia «la sua stessa esistenza, senza riserva». L’amore divorante della madre-coccodrillo di Lacan può essere arginato, da una parte, dalla Legge del Padre, dall’altra, dalla capacità della donna di non auto-annullarsi nel ruolo di genitrice. È pericoloso, per il figlio, quando dietro la smania di diventare madre si cela il bisogno di colmare mancanze di senso e d’autostima.
A partire dal bel saggio Le Matriarche di Catherine Chalier, Recalcati rivisita alcuni topoi religiosi. Le madri del celebre giudizio di Salomone sono due facce sempre presenti, a livello inconscio, nella maternità. Le gravidanze miracolose della vergine Maria (figura non riducibile all’archetipo materno caro al sistema patriarcale, la donna desessualizzata, idealizzata e votata al sacrificio) o della vecchia e sterile Sara sono figura perfetta del fondamento simbolico della maternità come apertura audace e totale all’Altro. Senza quest’apertura, senza una disponibilità autentica, talora persino la fertilità biologica risulta compromessa: Recalcati narra vari casi di sterilità psicogena, superati sciogliendo i nodi (dai lutti non elaborati ai complessi d’inadeguatezza) attraverso l’analisi.
Le storie cliniche non mentono, la maternità è un’esperienza totalizzante che libera, immancabilmente, i fantasmi della psiche, e, talvolta, con essi, angosce profonde: come accade a una paziente anoressica che si sente “invasa”. Se non c’è desiderio autentico, il feto può essere vissuto come un corpo alieno, il neonato come un persecutore spaventoso. L’impatto con la creatura urlante così diversa ed eccedente rispetto al “bambino della notte” (come Silvia Vegetti Finzi definisce il figlio ideale immaginato nell’attesa) è uno choc. «Molti infanticidi — scrive Recalcati — hanno come presupposto un desiderio di maternità e una gravidanza non sufficientemente simbolizzati». E sempre emerge, prepotente, il fantasma della madre della madre: recidere simbolicamente questo legame è la condizione per un accesso positivo alla maternità. Tragico paradosso, la separazione è tanto più difficile quanto più il bisogno d’amore della figlia è stato frustrato. Lacan parla del “cattivo infinito” del ravage (devastazione) da cui scaturisce una recriminazione — dunque un legame — senza fine. Sempre più spesso, constata Recalcati, nello studio analitico entrano madri narcisiste che vivono (o evitano) la maternità come fosse un mero ostacolo, o figlie di queste ultime, devastate da mamme in perenne, subdola competizione — estetica, umana, professionale — con loro. Eppure sempre e ancora esistono madri capaci di trasmettere un’eredità positiva. Come Selma, l’eroina di Dancer in the dark, commovente cammeo su cui il libro si chiude: una madre innamorata dei musical ma capace del sacrificio estremo, capace di offrire fondamento alla vita e insieme incarnare la Legge paterna temprata dall’amore, capace di donare al figlio ciò che non ha.

domenica 3 maggio 2015


Quanti stereotipi sugli schermi contemporanei

Emiliano Morreale

"La Repubblica", 3 maggio 2015

COS’È un personaggio? Cosa lo definisce? La sua appartenenza sociale, la sua rete di relazioni, la sua psicologia, la funzione che ha all’interno della narrazione? E sarà vero che i ruoli, nel cinema americano, sono aumentati? L’articolo di Eric Kaplan prende spunto da una ricerca che probabilmente è sommaria, anche perché l’Imdb è una fonte non troppo affidabile, soprattutto per il cinema del passato.
Sicuramente, il cinema ha seguito l’evoluzione di una società sempre più complessa e articolata. Il che, visto da un altro punto di vista, ha un carattere più specifico. All’epoca d’oro del cinema hollywoodiano, la triade magica studios-generi-divi permetteva una produzione industriale che si basava su una serie di convenzioni narrative di forte riconoscibilità, sulla replicabilità dello sceriffo e del detective, del seduttore e della dark lady. Convenzioni che gli sceneggiatori e i registi potevano variare, sabotare, capovolgere; viceversa trasformando in caratteri rigidi anche quelli prelevati dalla letteratura, fosse essa Cime tempestose o Addio alle armi. In un cinema diventato «adulto», dagli anni ‘60 in poi, la fonte di personaggi non era più così fluente, e oggi gli stereotipi sono più nascosti, meno accettabili nella loro nudità.
Il cinema d’azione post Pulp Fiction è spesso moralmente ambiguo, al di là del bene e del male. Il nuovo stereotipo è quello del detective e del criminale che si specchiano l’uno nell’altro, «come lo yin e lo yang» si dice ogni tanto nei polizieschi. E nel contempo trionfano personaggi dalla percezione alterata, che non garantiscono nulla dello statuto di ciò che ci appare davanti agli occhi: morti che si credono vivi (Il sesto senso, The Others), uomini che vivono in un mondo costruito apposta per loro (Truman Show, The Village), folli che vedono una realtà che non c’è (A Beautiful Mind). Post-mortem movies, ha definito alcuni di essi il teorico Thomas Elsaesser in un gioco di parole con il post-modern: i film in cui i personaggi sono tra la vita e la morte, o in un mondo altro, e lo scoprono, insieme allo spettatore, solo alla fine. Ma perfino i supereroi, nell’ultimo The Avenger: Age of Ultron, vivono immersi in una serie di visioni del loro passato. Un cinema ideale per il mondo virtuale.
La psicologia freudiana, con le sue belle opposizioni tra generazioni, passa il testimone agli archetipi di Jung e ai suoi derivati, al «viaggio dell’eroe» che secondo i nuovi manuali di sceneggiatura guida ogni forma di narrazione. Ci sono l’Eroe, l’Ombra, il Guardiano della Soglia, eccetera. Ma si tratta di pure forme, vettori che poco ci dicono della carne e del sangue dei personaggi. Quali potrebbero allora essere gli eroi e gli anti-eroi del nostro tempo? I «lupi di Wall Street» narrati da Scorsese, i soldati e i reduci delle ultime guerre giuste, gli assassini che non sono più mossi da moventi razionali ma da follia e da elucubrazioni esoteriche (i serial killer). E soprattutto, tanti maschi in crisi. La crisi di quella che in Usa si chiama masculinity è il tormentone della commedia di culto di Judd Apatow o il filone di Una notte da leoni, ma anche di thriller d’autore come Gone Girl. Dall’altro lato, è ormai decennale la mascolinizzazione dei ruoli femminili (la poliziotta, la soldatessa). Ma l’elemento davvero nuovo è forse la crescita d’età. Gli attori quarantenni e i cinquantenni non sono più condannati a parti secondarie di genitori o a recitare ruoli troppo giovani per la loro età. E i film della/per la terza età non sono più una curiosità ma una norma, in una società che invecchia (al festival di Toronto dell’anno scorso, vetrina del cinema nordamericano, ce n’erano decine).
Ma la grande mutazione del personaggio contemporaneo è ancor meglio visibile nel mondo delle serie tv. Oggi al centro del grande universo narrativo delle serie c’è spesso uno stesso tipo di personaggio, alle prese con uno stesso tema: il male, inteso come qualcosa di anzitutto interiore. Li potremmo chiamare i figli di Tony Soprano: il Don Draper di Mad Men, i protagonisti di True Detective o House of Cards sono uomini che compiono, più o meno malvolentieri, il male (in varie forme) e fronteggiano l’orrore proprio e altrui. Curioso: perché la narrativa popolare, e specie quella seriale, è stata invece sempre il luogo principe delle opposizioni nette, dei buoni e dei cattivi: la fanciulla in pericolo, il sadico persecutore, il giovane di classe più elevata e la di lui infida madre, il vecchio (nonno) saggio, l’eroe mascherato dal passato nascosto. Oppure, al contrario e per bilanciare, il fascino anarchico e aristocratico del ladro gentiluomo, dell’inafferrabile primula rossa. Il percorso narrativo di questi nuovi «eroi» invece non è più quello classico, nelle varie forme (la lotta per affermarsi, l’ascesa e caduta, la perdita dell’innocenza). Piuttosto, si tratta di personaggi che l’innocenza forse non l’hanno mai avuta, e il cui scopo è sostanzialmente di evitare la propria catastrofe, salvare il proprio potere, il collasso del proprio mondo, minacciato dall’esterno ma anche dai propri fantasmi. Eroi allarmati e allarmanti di un tempo di crisi.

«Novo» fu lo stile o le idee dei poeti?


Claudio Giunta

"Il Sole 24 ore - Domenica", 3 maggio 2015

Se dovessi scrivere un saggio sullo stilnovo, proverei a non fare nomi, o quasi. Cercherei di mostrare attraverso i testi se e come questo stile, inteso in senso larghissimo (metro, forme, figure retoriche, idee), è davvero nuovo rispetto a quello dei siciliani e a quello della prima generazione tosco-emiliana, e in che modo anticipa Petrarca, in che modo cioè contribuisce a formare il primo linguaggio poetico che noi sentiamo veramente moderno (per la verità, qualcosa del genere l'ha scritto anni fa, almeno in parte, Guido Capovilla: Ascendenze culte nella lingua poetica del Trecento, «Rivista di letteratura italiana», I [1983]; le sue pagine e il suo metodo non mi pare siano entrati davvero nel dibattito, ma era un saggio interessante).
Procedere in questo modo avrebbe soprattutto due vantaggi. Da un lato, permetterebbe di recuperare dai manoscritti e dalle edizioni parecchi testi, anonimi o scritti da autori minori vissuti nell’ultimo quarto del Duecento e nel primo del Trecento, che negli studi sullo stilnovo non vengono mai citati perché non rientrano nel repertorio dello stilnovo canonico, quello di Dante giovane, Cavalcanti, Cino, Lapo Gianni, Dino Frescobaldi, e però hanno, con l’opera di questi autori, punti di contatto evidenti (l’antologia curata qualche anno fa da Marco Berisso per la BUR andava in questa direzione). Dall’altro, permetterebbe di limitare al minimo le congetture intorno ai rapporti che legano questi poeti – i loro testi, le loro biografie – l’uno all’altro, congetture che, a mio avviso, rendono molto spesso i saggi sulla (e i commenti alla) poesia medievale una specie di esercizio enigmistico: poco attendibile, poco interessante e, cosa non meno grave, abissalmente noioso.
Nel suo saggio Il dolce stil novo, Donato Pirovano prende una strada opposta rispetto a quella che ho descritto sin qui, ma lo fa con un rigore, una larghezza d’informazione e un equilibrio tali da farmi pensare che il mio immaginario saggio non aggiungerebbe poi molto a ciò che già sappiamo (e che Pirovano spiega bene), che abolire le personalità e le etichette (gli stilnovisti) non sarebbe del tutto giusto, e che insomma tutti i metodi sono buoni quando sono buoni.
Il volume di Pirovano fa parte della collana Sestante, dedicata ai grandi autori o alle grandi correnti della letteratura italiana, ma ha un problema preliminare che gli altri volumi della serie non hanno: dimostrare l’esistenza del suo oggetto. Che si debba o possa parlare di stilnovo come di una riconoscibile, descrivibile corrente poetica, infatti, molti studiosi l’hanno negato: e giustamente, dunque, il primo capitolo del libro informa sulla storia di questo «discusso concetto storiografico».
Lo stilnovo è, secondo una nota definizione di Contini, la «scuola che contiene con maggior consapevolezza e buona grazia il senso della collaborazione a un’opera di poesia oggettiva, e insomma la scuola che ha più il senso della scuola». Ora, lasciando da parte la questione della scuola, ciò che colpisce, negli autori che gli studiosi chiamano stilnovisti, è proprio la consapevolezza di sé e della propria arte che essi mostrano di avere. Perché è vero che la coscienza dello stilnovo è soprattutto Dante, che tra la Vita nova, il De vulgari eloquentia e il Purgatorio fissa il canone dei buoni e dei cattivi poeti («benché quasi tutti i Toscani siano diventati rochi nel loro turpiloquio, riteniamo che alcuni abbiano conosciuto l’eccellenza del volgare, e cioè Guido, Lapo e un altro, fiorentini, e Cino Pistoiese»: un altro, in questo passo del De vulgari eloquentia, è lui, Dante). Ma è anche vero che le poesie degli autori che stanno intorno a Dante sono il trionfo della metaletteratura: nel senso che questi sono autori che da un lato riflettono su ciò che fanno (e dicono per esempio quale tipo di amore vada messo in versi, quale tipo di donna occorra amare, a quale pubblico sia giusto rivolgersi), e dall’altro riflettono su ciò che fanno gli altri, alludendo a ciò che gli altri hanno scritto, o citandoli, oppure, e soprattutto, interagendo direttamente con loro attraverso i sonetti di corrispondenza (una buona percentuale della poesia stilnovista è fatta di tenzoni). Non c’è probabilmente un’altra epoca della storia letteraria in cui la poesia sia stata adoperata tanto assiduamente per commentare se stessa.
Molto opportunamente, Pirovano dedica tre capitoli lunghi e molto informati del suo libro allo studio di questa rete di rapporti: uno riepiloga e analizza le opinioni di Dante, un altro prova a tracciare il profilo della ’scuola’ attraverso le rime di corrispondenza, un terzo entra nei testi e illustra Aspetti e caratteri dello stil novo, cioè si concentra su alcuni temi e tratti di stile caratteristici di questi poeti. Questi sono i capitoli centrali del libro, quelli più ricchi di notizie e di spunti, ma si leggono con profitto anche quelli ’di servizio’, nei quali Pirovano riassume in poche limpide pagine vita opere e ’posizione’ degli stilnovisti e, soprattutto, informa sulla loro tradizione testuale, manoscritta e a stampa (chiunque abbia tentato di spiegare questioni così intricate sa quant’è difficile farlo con chiarezza, e limitando l’uso dei clichés). L’ultimo capitolo, Ai margini dello stil novo, introduce nomi nuovi nel canone stilnovista (l’Amico di Dante, Lupo degli Uberti, Noffo Bonaguide), e insomma complica il quadro, alludendo a una ’storia dello stilnovo’ che vada oltre la triade Dante-Cavalcanti-Cino: la storia di una maniera poetica, più che quella di un gruppo di poeti – che è appunto la prospettiva che anche secondo me sarebbe proficuo adottare.
Le obiezioni che posso fare al libro di Pirovano sono quelle a cui ho accennato in apertura: obiezioni che dipendono, più che da divergenze sull’interpretazione di questo o quel testo o autore (che non mancano, com’è naturale), da un diverso punto di vista sul modo in cui qualche aspetto di questa materia potrebbe essere trattato. Forse una maggiore profondità storica avrebbe aiutato a fissare meglio, a spiegare meglio la – diciamo – differenza stilnovista. Se si leggono in sequenza una poesia trobadorica, una siciliana, una toscana del pieno Duecento e una della Vita nova, anche l’orecchio non allenato avverte qualcosa di diverso, e si tratterebbe appunto di mettere meglio a fuoco quel qualcosa: osservare lo stilnovo in una diacronia più lunga di quella usuale potrebbe metterci nelle condizioni di capirlo meglio, e magari di segnare delle linee di continuità là dove ci pare di vedere delle fratture, o viceversa. In secondo luogo, senza affatto voler negare il tasso altissimo di metaletterarietà di questa poesia, mi pare che Pirovano accordi troppa fiducia alle (in breve) letture intertestuali che da mezzo secolo (per fissare una data: da Cavalcanti in Dante di Contini, 1968) hanno un così grande peso negli studi sulla letteratura medievale. Per la gran parte, secondo me, sono invenzioni (invenzioni che si trasmettono per prossimità, come le malattie infettive: gli allievi credono a quelle dei maestri, i pisani a quelle dei pisani, i milanesi a quelle dei milanesi, eccetera): e mi farebbe piacere se Pirovano la pensasse almeno un po’ come me. Ma sono opinioni. Ed è un’ottima cosa – un segno di vitalità della disciplina, ma anche di intelligenza da parte di chi sa riformulare i problemi – il fatto che di questi vecchi testi si possa ancora parlare, consentendo e dissentendo.
Donato Pirovano, Il dolce stil novo, Salerno Editrice, Roma, pagg, 360

Susan Neiman: “Perchè diventare grandi?”


È meglio crescere

Dorella Cianci

"Il Sole 24 ore - Domenica", 3 maggio 2015

Lo storico Ariés ha affermato che gli europei dell’alto Medioevo non avevano ancora chiaro il concetto di infanzia e solo nel XII secolo, a suo dire, i bambini cominciarono a essere considerati abbastanza interessanti per essere ritratti. Ariés non è stato molto condiviso in seguito, però si può concordare sul fatto che l’idea antica e medievale dell’infanzia non era quella sulla quale avrebbe riflettuto Rousseau, considerato da alcuni l’inventore dell’infanzia, e di certo non poteva combaciare con quella odierna della società delle neuroscienze, che hanno imparato a valorizzare le esperienze cerebrali del bambino, nonostante queste siano messe in continuo pericolo dalla tecnologia, che ne assalta la terza dimensione. Oggi stiamo imparando a conoscere il pensiero dei bambini e di questo si è discusso anche durante gli Stati Generali della filosofia con i bambini, ma cosa ne rimane della nostra voglia di essere adulti? Un periodo felice a cui aspirare? Un tempo liberato dalle costrizioni? Oppure, come affermò Goodman, in La gioventù assurda, stiamo creando una cultura che pur riflettendo sui bambini (anche se poi non è a misura di bambino) non lascia spazi autentici agli adulti? La gioventù di Goodman era il popolo consumatore di beni che non riconosceva, in quel tempo vacanziero di privilegi, un diritto negato, quello del lavoro. Susan Neiman, allieva di Rawls, ha di recente pubblicato un delizioso saggio: Perché diventare grandi? La risposta non è semplice e non si sa neanche bene quale sia, né si vuol proporre l’anzianità come momento assoluto di saggezza. Anzi l’autrice è ben consapevole che, di per sé, la vecchiaia non è un requisito sufficiente per avere una capacità di giudizio, però: «In molti campi l’uomo anziano è capace di visioni sintetiche e precluse ai giovani […] I giovani non hanno che delle nozioni vaghe e false» (S. de Beauvoir, La terza età). Il Contratto sociale di Rousseau precisa ossimoricamente che «gli uomini sono costretti a essere liberi», ma in realtà, in alcuni casi, l’unica costrizione che può verificarsi è quella di vedersi costretti a crescere prima del tempo. Ma delle buone ragioni per diventare grandi ci sono: da adulti, se non addirittura da anziani, si conosce, secondo alcuni studi, in maniera più consapevole, la felicità e le scansioni cerebrali hanno dimostrato che i giovani vivono la rabbia o la tristezza in maniera troppo profonda, a differenza degli adulti, i quali hanno imparato a gestire le loro emozioni. Un cinico potrebbe dire che una persona anziana riesce a esser più felice perché ha imparato anche ad abbassare le sue aspettative e ad abituarsi al suo lento declino, ma non è detto che questo sia il giusto punto di vista. La persona adulta non smette di cercare la felicità e l’appagamento, anche se «le ossa avevano cominciato a farmi male nei posti dove prima mi divertivo» (canta Cohen). Neiman concorda con la de Beauvoir nell’affermare che il tramonto della vecchiaia è il fallimento di un’intera civiltà e di un uomo che sta divenendo inaccettabile e che spesso vorremmo rifare da cima a fondo.

Che baruffe tra scienziati

Da sinistra a destra: Robert Boyle, Isaac Newton, Christopher Wren e Robert Hooke

Newton contro Hooke, l’aspra rivalità che accelerò il progresso del sapere

Andrea Frova e Mariapiera Marenzana, in un saggio pubblicato da Carocci, ricostruiscono le vicende della Royal Society inglese nel corso del Seicento

Un’autentica rivoluzione avanzò fra gelosie, ripicche ed esperimenti crudeli


Paolo Mieli

"Corriere della Sera", 27 aprile 2015

Un’epidemia di peste (1665), un incendio che devastò Londra (1666) e una serie pressoché infinita di imprevedibili dissapori, di assai meschine calunnie, di rivalità tra geni condotte all’esasperazione, furono il contesto in cui nacque la modernità scientifica. Bubboni e fiamme, assieme ai benefici effetti della rivoluzione cromwelliana, conclusasi all’inizio degli anni Sessanta del Seicento, diedero una formidabile spinta alla ricostruzione del Paese. Il clima di selvaggia competizione all’interno della Royal Society fece il resto.
La Royal Society fu fondata nel 1660 e l’anno successivo fu riconosciuta dal sovrano d’Inghilterra Carlo II, che era tornato dall’Olanda per prendere il posto di Carlo I Stuart, il «re martire» giustiziato da Cromwell nel 1649. Grazie a questa Società e alla nascita delle prime riviste scientifiche, gli scienziati dell’epoca iniziarono a interagire tra loro in modo strutturato. Ed è a questo particolarissimo frangente storico che è dedicato lo straordinario libro di Andrea Frova e Mariapiera Marenzana Newton & Co. geni bastardi (con una brillante prefazione di Piergiorgio Odifreddi), in uscita domani per Carocci. Galileo Galilei, ricordano gli autori, era morto nel 1642, lo stesso anno in cui era nato Newton: «Una sorta di epocale passaggio di testimone nel campo della scienza». Il «magnifico circolo dei devoti discepoli di Galileo» — i vari Cavalieri, Torricelli, Castelli, Viviani e altri — aveva dato un apporto fondamentale alla diffusione in Europa del metodo scientifico «fertile di sviluppi e conquiste». Ma poi la scienza in Italia andò declinando. Perché? Le condizioni della penisola, «percorsa e devastata da eserciti stranieri, politicamente divisa» assieme all’«abiura di Galileo e alla presenza minacciosa dell’Inquisizione», la «mancanza di interesse per la scienza da parte dei vari sovrani più disposti a finanziare artisti e poeti di corte, la progressiva perdita di influenza delle potenze marinare Genova e Venezia (che avrebbero potuto costituire stimoli all’avanzamento scientifico e tecnologico)» furono, secondo i due storici, i principali fattori «che contribuirono a un ripiegamento provinciale su se stesso del Paese, incapace di tenere il passo con quanto accadeva nel resto d’Europa, in Francia, in Olanda e più ancora in Inghilterra».
Qui viene naturale un’obiezione: anche in Inghilterra la situazione politica nel XVII secolo era tesissima, le contese religiose erano più che infuocate, drammatici furono gli eventi bellici e politici, più che precaria la situazione economica… Perché allora questo boom della scienza ai tempi di Carlo II? Il fatto è, mettono in rilievo Frova e Marenzana, che «il regno, pur con molte difficoltà, riuscì a superare le crisi e ad acquistare stabilità». E senso di sé. L’espansione coloniale, inoltre, portò ricchezze e conoscenze, stimoli per la scienza e per le sue applicazioni pratiche, che favorirono l’interesse e l’appoggio dei governanti. Isaac Newton, Robert Hooke e gli altri membri della Royal Society si trovarono a vivere questo particolare e stimolante momento storico e, in concorrenza con la Francia, «assicurarono all’Inghilterra il primato di grandi invenzioni e scoperte». Tutto ciò «malgrado la frequente mancanza di rispetto delle regole fondamentali della ricerca scientifica, ossia cooperazione e correttezza». Si svilupparono così tra quegli scienziati «scontri violenti nati da invidie e rivalità, da questioni di priorità e prestigio, ma anche da ambizioni di carriera e di guadagno». Nonché «dal sopravvivere, persino in geni della statura di Newton e Robert Boyle, di atteggiamenti di pensiero e di pratiche prescientifiche, alchemiche, causa ulteriore di fratture, reticenze e sospetti». Al punto che i due autori si domandano se «non fu piuttosto proprio questa competitività esasperata che valse a stimolare le menti e ad acuire l’inventiva e l’impegno».
Subito dopo la conclusione della guerra civile, John Wilkins — «un carismatico intellettuale e uomo di Chiesa, che era passato con successo dalla funzione di cappellano nella casa reale a quella di influente accademico durante il periodo repubblicano di Cromwell» — aveva raccolto attorno a sé un gruppo di persone che veniva chiamato Oxford Esperimental Philosophy Group, di cui facevano parte «studiosi di varia provenienza, senza distinzioni politiche o ideologiche». All’epoca della rivoluzione, Wilkins seppe usare la sua influenza per dare una moderna impronta scientifica e matematica alla vita intellettuale dell’Università di Oxford. Fu lui, in seguito, che assieme ad altri undici studiosi del suo circolo, tra cui Christopher Wren e Robert Boyle, diede vita alla Royal Society, il cui motto poteva essere sintetizzato nelle parole di un loro lontano ispiratore, Francis Bacon (1561-1626), padre dell’empirismo scientifico: «Dio ci vieta di proporre una fantasia nata dalla nostra immaginazione come una descrizione del mondo».
Il principio ispiratore della Royal Society era che alle informazioni dovesse essere garantita la massima circolazione. La comunicazione doveva prendere il sopravvento e la segretezza avrebbe dovuto essere bandita. La comunicazione, poi, doveva «liberarsi dalla vuota eloquenza che aveva caratterizzato i filosofi del passato: via ogni artificio verbale, via ogni forma di retorica». Concretezza e semplicità avrebbero dovuto dettare legge e quando fosse stato possibile si doveva ricorrere al linguaggio della matematica. Il motto della Royal Society, Nullius in Verba , ossia «sulla parola di nessuno», stava a sottolineare «la determinazione dei fondatori di stabilire i fatti secondo il metodo sperimentale, ossia alla maniera di Galileo, e di procedere nell’indagine scientifica in modo oggettivo, ignorando l’influenza della tradizione scolastica, della politica e anche della religione, benché diversi tra i membri fossero alti prelati».
La Royal Society non produsse solo grandi scoperte. La sperimentazione ebbe anche un volto che i due autori non esitano a definire «criminale». Hooke, ad esempio, fece esperimenti d’ogni tipo, «talvolta di dubbio valore scientifico — come nel caso di alcune crudeli dimostrazioni su animali, che peraltro eseguiva controvoglia — per soddisfare la curiosità dei soci scientificamente meno competenti e motivati». Una volta «dovette aprire la cassa toracica di un cane per vedere quanto sarebbe sopravvissuto grazie al semplice pompaggio di aria nei polmoni (in certo senso il primo tentativo di respirazione artificiale), ma fu così disturbato dalla vicenda che in seguito si rifiutò di ripetere un tale esperimento». Hooke si rifiutò poi di partecipare all’«esperimento Coga»: uno studente molto povero, Arthur Coga, accettò il 26 novembre 1667, per il compenso di una ghinea, che il medico Richard Lower e altri membri della Società — su suggerimento del vescovo di Salisbury — gli iniettassero sangue di pecora. Il paziente «non parve mostrare alcuna conseguenza negativa, e lo stesso accadde alla ripetizione dell’esperimento, tre settimane più tardi, di fronte a un diverso pubblico non meno eccitato del precedente». La notizia si sparse per tutta l’Europa, e la sperimentazione fu ripetuta più e più volte: «spesso, però, con esiti fatali». Il che, scrivono gli autori, «getta qualche ombra sulla veridicità del resoconto ufficiale in merito al caso Coga, conservato nei registri della Royal Society».
Qualcosa di esemplare ebbe luogo nel dicembre di quello stesso 1667 a Parigi, nel palazzo del «nobile e ricchissimo» Henry-Louis Habert de Montmor, che aveva fondato una libera accademia scientifica che portava il suo nome (tra i membri figuravano Pierre Gassendi, Marin Mersenne, Christiaan Huygens). In quel palazzo, il medico Jean-Baptiste Denis e il barbiere chirurgo Paul Emmerez procedettero alla trasfusione del sangue di un vitello ad un clochard mentalmente instabile, Antoine Mauroy. Denis sosteneva che tale operazione «avrebbe permesso di rendere l’uomo placido quanto un vitello». Una folla di «medici, chirurghi e altri osservatori, per lo più aristocratici», assistette all’evento. Che fu ripetuto, due giorni dopo, visto il «buon esito» della prima esperienza. Quattro mesi più tardi Mauroy morì e Denis fu sottoposto a processo per omicidio. Processo che si concluse con un’assoluzione, perché Denis riuscì a «dimostrare» che Mauroy era stato avvelenato con l’arsenico dalla moglie. Ma lo stesso Denis non dovette essere del tutto convinto dalle sue argomentazioni difensive e abbandonò la pratica medica. E anche gli altri scienziati si persuasero che quel genere di trasfusione non fosse proficua. Tant’è che fu messa al bando dapprima in Francia (1670), poi in Gran Bretagna e successivamente in quasi tutti gli altri Paesi europei. Solo nel 1829, l’ostetrico inglese James Blundell dimostrò l’efficacia della trasfusione tra esseri umani, ma erano trascorsi 160 anni. È interessante notare, poi, come alla base dei divieti alla fine del Seicento non era tanto «la pietà per le vittime, quanto il timore che la mescolanza di sangue di specie diverse potesse minare la purezza del genere umano e condurre alla creazione di esseri abnormi». In un’era in cui, scrivono Frova e Marenzana, «i confini tra scienza, magia e superstizione non erano ancora ben definiti, ci si chiedeva se per caso gli uomini non avrebbero cominciato a muggire, o magari i vitelli a parlare».
Ma non fu su questo che si litigò all’interno della Royal Society. Furono semmai differenze di carattere e di comportamento. Newton fu quasi un asceta (Voltaire nel 1773 scrisse che non aveva mai «avvicinato» una donna). Hooke invece, assieme a Christopher Wren e Edmond Halley, era un gran frequentatore di coffee houses, seduceva abitualmente le domestiche, nonché la figlia di suo fratello, la nipote Grace, con la quale convisse fino alla prematura morte di lei nel 1684. Newton e Hooke, secondo i due autori, «non avrebbero mai potuto andare d’accordo, né cercare di comporre le loro controversie in maniera civile e utile alla scienza oltre che a sé stessi».
L’avversione di Newton nei confronti del più anziano collega «crebbe nel tempo a tal punto che, divenuto nel 1703 presidente della Royal Society — carica cui giunse, secondo alcuni, brigando in varie maniere — egli pose il massimo impegno nel far sparire ogni traccia di Hooke, morto quello stesso anno». Compresi i ritratti, tant’è che oggi «nessuno è in grado di dire con sicurezza quali fossero le fattezze di Hooke». E non furono, i loro, dissidi dettati solo da divergenze, per così dire, d’ordine morale. Newton scrisse a Halley per denunciare Hooke: «È accettabile che un uomo che pensa di saperla lunga e ama dimostrarlo correggendo e istruendo il suo prossimo, venga da voi quando siete impegnato, e, nonostante le vostre scuse, vi assilli con discorsi e vi corregga attraverso i suoi stessi errori, e dopo discorsi e ancora discorsi si vanti di avervi insegnato tutto ciò di cui vi ha parlato e vi obblighi a dargliene riconoscimento, gridando all’offesa e all’ingiustizia se non lo fate? Penso che lo giudichereste una persona afflitta da uno strano temperamento asociale». Oggi, scrivono i due autori, è evidente che Newton e Hooke «pur nella loro diversità avevano entrambi caratteri difficili e, per dirla secondo l’uso inglese che si fa di questo vocabolo nel mondo della competizione professionale, anche scientifica, erano entrambi dei bastard di discreto calibro».
Nel caso di Hooke, «la mancanza di riconoscimento del suo contributo alla teoria della gravitazione universale da parte di Newton, in aggiunta al fatto che nessuno dei suoi amici, neppure Wren, parlò mai pubblicamente in sua difesa, danneggiò la sua reputazione, lo fece sentire vittima di ingiustizia e di tradimento e avrebbe concorso a rendere assai amara la parte finale della sua vita». Hooke e Newton non si riappacificarono mai, anzi Newton tenne al minimo la sua frequentazione della Royal Society fino a quando Hooke fu in vita. Solo alla sua morte, nel 1703, accettò di divenirne presidente. Anzi, sottolineano i due autori, «brigò alquanto per insediarsi in tale ragguardevole posizione, dalla quale ebbe modo di controllare e condizionare pesantemente la scienza del suo Paese».
Nel 1693 Newton aveva subìto un crollo psicofisico che lo condusse sulle soglie della follia. Ne scrisse lui stesso all’amico Samuel Pepys: «Sono estremamente turbato dallo stato di confusione in cui mi trovo, non ho né mangiato né dormito bene in questi ultimi dodici mesi, e non ho più la mia solidità mentale… Mi rendo conto di dover interrompere il nostro rapporto e di non dover più vedere né voi né gli altri miei amici, ma, se posso, di doverli lasciar andare tranquillamente per la loro strada». Poi ne inviò un’altra ancor più sorprendente a John Locke: «Essendo stato del parere che voi cercavate di confondermi con donne e con altri mezzi, ero così sconvolto che quando mi fu detto che eravate ammalato e non sareste vissuto, risposi che era meglio se voi foste morto… Desidero che mi perdoniate per questa mia mancanza di carità». Newton si scusava altresì con Locke «per aver detto o pensato» che fosse al centro di una macchinazione per confondergli le idee. Poi nei decenni successivi la comunità scientifica dovette assistere a una sua simile polemica con Leibniz. Certo, «per noi oggi», scrivono Frova e Marenzana, «è fin troppo facile stupirci di fronte a molte pagine di Newton che appaiono deliranti, e tuttavia una conoscenza del contesto in cui egli ha operato aiuta a capire come una mente tanto sublime potesse subire il fascino di saperi antichi e prescientifici». E, conseguentemente, abbandonarsi ai deliri di cui si è detto.

venerdì 1 maggio 2015

Ipazia, la filosofa pagana uccisa dai talebani cristiani


A Rimini una mostra nel XVI centenario della morte
Una raccolta di firme per dedicarle una piazza di Roma

Silvia Ronchey

"La Stampa", 1 maggio 2015

Anche se non esiste un martirologio laico, da più parti e in più modi, discretamente, quasi sotterraneamente, il mondo ricorda quest’anno il sedicesimo centenario del martirio di Ipazia, la filosofa bizantina assassinata ad Alessandria d’Egitto dalle milizie fondamentaliste cristiane del vescovo Cirillo nella primavera del 415, poco prima di Pasqua. Una mostra al Museo del Calcolo di Rimini (Ipazia matematica alessandrina, fino al 30 agosto. Sabato e domenica dalle 10 alle 12.30 e dalle 15 alle 18) ricorda questa donna eminente, amata dai suoi discepoli pagani e cristiani, esponente di una moderazione di pensiero cui faceva riscontro «una franchezza di parola», narrano gli storici, per cui «si rivolgeva faccia a faccia ai potenti e non aveva paura di apparire alle riunioni degli uomini, i quali, data la sua straordinaria saggezza, le erano tutti deferenti e la guardavano con timore reverenziale».
Sulla Luna
Su Ipazia, maestra di scienza e di sapienza ma anche di impegno civico, icona della libertà di pensiero, la mostra di Rimini offre ai visitatori una documentazione essenziale: documenta la sua cultura scientifica (in esposizione, insieme ad antichi strumenti di calcolo astronomico, le opere di Euclide, Apollonio, Diofanto e soprattutto di Tolomeo, di cui commentò le Tavole semplici e rivide l’Almagesto) e testimonia la devozione che lungo sedici secoli le ha tributato l’intera cultura occidentale, dalla pittura (per esempio il celebre quanto discusso ritratto segreto di Raffaello nella Scuola d’Atene) alla letteratura (uno per tutti l’omaggio di Leopardi nella Storia dell’astronomia) fino alla scienza moderna, che le ha intitolato il cratere lunare Ipazia, non lontano dal punto di allunaggio dell’Apollo 11, come evidenzia l’ultima vetrina.
In questi tempi in cui il Medio Oriente è percorso dal terrore dell’integralismo islamico e insanguinato da episodi massicci e cruenti di persecuzione religiosa, non è facile ma è importante ricordare che la chiesa cristiana ai suoi inizi si macchiò di una violenza integralista per molti versi affine, come quella dei parabalani, i monaci-barellieri, di fatto miliziani clericali che massacrarono Ipazia, la fecero a pezzi e diedero i suoi resti alle fiamme. E’ unanime la testimonianza delle fonti coeve e poi bizantine secondo cui fu il vescovo Cirillo il mandante di quell’assassinio che rifletteva non tanto un conflitto religioso o una lotta per la supremazia confessionale, già assicurata dai decreti teodosiani (che avevano appena proclamato il cristianesimo religione di stato) quanto una precisa e circostanziata strategia di appropriazione del potere statale, in una prospettiva teocratica.
Il vescovo Cirillo
Il proselitismo armato di Cirillo contraddiceva in pieno l’idea di tolleranza propugnata cento anni prima dall’editto di Costantino del 313, così come la tendenza conciliatoria del cristianesimo con il paganesimo d’élite che il primo imperatore cristiano aveva appoggiato politicamente e sancito giuridicamente. Rivendicava l’accesso della chiesa alla conduzione della politica: un vero e proprio potere temporale, più affine al modello del papato romano che alla rigorosa separazione dei poteri sancita dal cosiddetto cesaropapismo bizantino.
Anche per questo, forse, la posizione ufficiale della chiesa di Roma, nonostante le scuse e le richieste di perdono dispensate un po’ a tutti tra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo, e malgrado la gravità e la natura quasi terroristica dell’antico assassinio di Ipazia, non ha mai voluto mettere in discussione Cirillo, la sua santità, la sua probità.
Ancora a fine Ottocento Leone XIII lo ha proclamato dottore della chiesa (Doctor Incarnationis). Nella celebrazione che ne ha fatto il 3 ottobre 2007 Benedetto XVI ha lodato «la grande energia» del suo governo ecclesiastico «senza spendere due righe», com’è stato osservato, «per assolverlo dall’ombra che la storia ha fatto pesare su di lui». Anche se alcuni intellettuali cattolici hanno invitato, se non alla decanonizzazione, alla cautela, una chiesa di San Cirillo Alessandrino è stata da poco edificata a Roma a Tor Sapienza.
Ed ecco che in questa Pasqua di milleseicento anni successiva alla sanguinaria quaresima del 415 in cui si consumò l’assassinio di Ipazia una sorprendente iniziativa è stata presa dall’Associazione Toponomastica Femminile e da un’ampia e diversificata serie di associazioni cittadine romane, che si sono costituite in comitato e hanno presentato all’ufficio toponomastico del comune di Roma una petizione per dedicarle un adeguato spazio urbano nella città di Pietro: «Una piazza per Ipazia» ha raccolto oltre 1500 firme, che si sommano a quelle di altre richieste già inoltrate e alla proposta di un’intitolazione proprio a Tor Sapienza, nell’area della nuova chiesa di San Cirillo.
Tolleranza laica
Non è una provocazione, al contrario, vuol essere una pacificazione. La tolleranza laica non impedisce certo di continuare a annoverare tra i santi del calendario il «terribile vescovo», come lo chiama la Storia ecclesiastica di Socrate. Ma anche i fedeli cristiani hanno il diritto di ricordare la sua antica vittima e l’insegnamento che la storia e ha da darci sui pericoli del fanatismo religioso, in questi difficili tempi di lotte e persecuzioni.

I miti di Platone per ridare senso al mondo

Giorgio Fontana

"La Stampa - TuttoLibri", 1 maggio 2015

Esce finalmente per il Melangolo a cura di Susanna Mati una chicca di Karl Reinhardt: I miti di Platone. Smessi per un solo libro i panni del rigoroso filologo novecentesco, Reinhardt si lascia andare a una forma espositiva più libera e ricca di pathos, non priva di punte liriche. La tesi di fondo del saggio è semplice: i miti presenti nei dialoghi sono «il linguaggio dell’anima», a sua volta l’elemento fondante della filosofia platonica: qualcosa che «cresce e si estende fino a diventare Stato e cosmo, sacerdozio e divinazione, contemplazione delle Idee e mondo dei miti». Tale crescita è il ritmo di una riconquista: davanti a un mondo in crisi quale l’Atene a cavallo fra V e IV secolo, Platone accetta la sfida della sofistica rilanciandola a un livello ben più alto — il risveglio dell’antica anima ellenica sotto nuove spoglie, individuali come sociali.
Lo smarrimento che Platone deve affrontare porta così al primo grande rivolgimento verso l’interiorità, che Socrate aveva soltanto intravisto. Il dialogo invita a calarsi dentro di sé per interpretare e ridare senso a ciò che sta fuori: e il mezzo principe di questa straordinaria operazione filosofica e politica è proprio il mito. Il quale tuttavia non entra in contraddizione con l’altro pilastro del sistema platonico: la dialettica.
Certo, è solo ora che logos e mythos si separano in due forme differenti; ma al contempo si attraggono in una tensione tutta nuova: strade diverse per giungere a una più alta conoscenza dell’anima. Come il metodo dialettico si raffina di dialogo in dialogo, così gli sparsi elementi del mito si collegano in affreschi sempre più vasti — in veri e propri cosmi. «Contemplazione e produzione si equilibrano», scrive l’autore: la dialettica si rovescia in mitografia, e viceversa.
Scegliendo un andamento cronologico, Reinhardt traccia un sentiero molto simile al «romanzo della coscienza» della Fenomenologia dello spirito. La storia dei dialoghi platonici diviene così la storia della nuova anima greca: dalla sua dolorosa nascita nei primi lavori aporetici o dall’andamento erratico (il Gorgia su tutti), passando per l’affascinante duello del Simposio (dove Socrate stesso comincia a diventare sempre più una figura mitizzata), fino ai grandi racconti della maturità: la biga alata del Fedone, l’aldilà orfico del Fedro, la perfetta organizzazione della Repubblica. Per trovare compimento nella straordinaria summa del Timeo, dove «il mito si dispiega in una chiarificazione metaforica, cioè imitativa, del mondo, o più esattamente in una produzione del mondo»: non più spiegazione o esempio, ma vera e propria «dottrina sacra» — l’antico mistero cosmogonico sotto nuove vesti.
Di qui la lettura reinhardtiana della teoria delle idee: chi contempla le forme eterne diviene in automatico esperto della misura (dunque dialettico e geometra) e sfrenato creatore di immagini (da cui i miti). Un’interpretazione sulla quale si può discordare, ma che in ogni caso non inquina il valore del percorso, così suggestivo, indicato dall’autore. Un percorso dove l’elaborazione mitica è insieme lo sforzo immenso di creare un nuovo mondo e la reminiscenza dell’universo perduto da dove proveniamo. La lotta esposta nel Crizia fra l’Atene arcaica degli eroi e l’Atlantide delle leggi perfette, e la necessità di trovare una sintesi «impossibile» fra questi due modelli. Nostalgia non consolatoria, e dunque rivoluzione.