domenica 28 settembre 2014

Le lacune migliorano i libri


La brevità per Nietzsche è il frutto di una cosa pensata a lungo, 
per Orazio è il segreto della satira
Nicola Gardini narra la letteratura attraverso le rinunce che l'hanno resa grande

Nicola Gardini

"Il Sole 24 ore - Domenica", 28 settembre 2014

A Cisti fornaio basta una parola per far notare a messer Geri che sta approfittando della sua generosità (Decameron VI, 2). Quando il servo viene a chiedere altro del suo ottimo vino con un recipiente troppo capace, Cisti osserva che sicuramente messer Geri intendeva mandarlo da un'altra parte. Contenitori di quelle dimensioni, infatti, sono adatti a raccogliere l'acqua. «A Arno», dice semplicemente. 
E quell'espressione lacunosa insegna a messer Geri tutto quello che occorreva sapere, e intanto induce noi al riso, che, come spiega Orazio satirico, vuole la brevità. 
La lacuna espande il senso, portando la significazione oltre i limiti fisici delle parole scritte. Sartre chiama "silence" la produzione di senso. Il lettore, cioè, organizza gli stimoli dei segni grafici in un "più" che non è dato trovare in forma scritta, ma che è l'essenza stessa dello scrivere, l'inconfondibile qualità di un testo. «Senza dubbio l'autore lo guida; ma si limita a guidarlo; i punti di riferimento che ha posto sono separati dal vuoto, occorre congiungerli, occorre andare oltre». 
Demetrio nel suo trattato Sullo stile, uno dei più significativi esempi antichi di teoria della lacunosità, dichiara che «un discorso è come un banchetto: pochi piatti possono esser sistemati in modo tale da sembrare molti» (cap. 62). Quasi due millenni dopo Nietzsche, principe dei lacunosi, in Umano, troppo umano riprende la metafora culinaria: «Una cosa detta con brevità può essere il frutto e il raccolto di molte cose pensate a lungo: ma il lettore che in questo campo è novizio e non ha ancora affatto riflettuto al riguardo, vede in tutto ciò che è detto con brevità qualcosa di embrionale, non senza un cenno di biasimo per l'autore, che gli ha messo in tavola per pranzo, col resto, simili cose non finite di crescere, non maturate».
Il testo è un organismo che trascende la sua propria apparenza o consistenza materiale. Il lettore interprete lo fa agire oltre i limiti della scrittura e, a sua volta, è attraversato dalla voce nascosta del testo. Cicerone, nel De oratore (II, 41), utilizza un'interessante metafora per spiegare il ruolo del lettore interprete: costui è un cercatore d'oro che va a scavare dove il testo gli indica. Bastano alcuni segni sul terreno, diligenza e riflessione e il prezioso metallo verrà estratto. L'interprete, dunque, entra nel mondo-miniera del testo, anzi, vi scende; e la discesa espande i confini dello spazio sensibile in cui ciascuno viveva prima della lettura. 
Seneca offre un'altra espressiva metafora. Parlando delle forme dell'istruzione filosofica, distingue tra i grandi discorsi e la comunicazione più dimessa dei precetti (Lettere a Lucilio 38, 1-2). I precetti sono come semi, producono pensieri maggiori delle loro dimensioni (tutti ricorderanno che la similitudine del seme compare anche nei Vangeli, dove indica il destino di salvezza). Lo stesso Seneca loda Lucilio per la sua capacità di significare più di quanto dica.
L'espansione di cui parlano Cicerone e Seneca significa conoscenza (anche i Vangeli, in un certo senso, parlano di una forma di conoscenza, la fede); quello stesso tipo di conoscenza di cui tratta Aristotele nella Retorica: il comprendere e il concludere attraverso il ragionamento. Una conoscenza, si badi, che procura un piacere tutto particolare. Non è solo questione, infatti, di capire, ma anche di provare felicità per mezzo dell'intelligenza. Per questo la similitudine risulta meno piacevole della metafora: perché l'aggiunta del "come" allunga l'espressione e questo nega alla mente la possibilità di costruire il senso (Retorica III, 10, 3-4).
La lacunosità della formulazione, in definitiva, è preferibile, a livello sia stilistico sia argomentativo. Quel che si capisce subito non appaga. Molto meglio ciò il cui senso si compie con un qualche ritardo, perché solo così si arriva veramente ad apprendere. 
Richiamandosi ad Aristotele, ancora Seneca afferma: «La ragione non si compie nell'ovvio; la sua parte più grande e più bella sta in quel che si nasconde…». E Demetrio, ripetendo un avvertimento di Teofrasto, che di Aristotele è stato discepolo, consiglia all'oratore di non fornire all'ascoltatore ogni dettaglio, bensì di omettere alcuni punti affinché quest'ultimo possa formarsi da sé un'idea della questione attraverso il ragionamento (cap. 222). Infatti, se ci arriva da solo, l'ascoltatore si dimostra meglio disposto verso chi parla. E perché? Perché – qui Demetrio si dimostra particolarmente acuto – si scopre intelligente grazie all'altro; il discorso dell'altro ha offerto alla sua intelligenza l'occasione di esprimersi. Pronunciare un discorso esaustivo è come trattare l'ascoltatore da stupido. 
Arthur Schopenhauer, ha fatto della concisione e dell'essenzialità una sua bandiera, ponendole al servizio del vero. Leggiamo nei Parerga e paralipomena: «Bisogna far risparmiare al lettore tempo, sforzo e pazienza; con ciò si otterrà da lui la fiducia che quanto è stato scritto è degno di essere letto con attenzione e che la sua fatica sarà ricompensata». Schopenhauer arriva ad affermare che «è sempre meglio omettere qualcosa di buono che non aggiungere cose insignificanti». E cita la massima di Esiodo che «la metà è più dell'intero» (Opere e giorni, v. 40). Al lettore si devono dire solo cose che non potrebbe pensare da sé. Via fronzoli e orpelli: la verità sia tutt'uno con la cosa, libera e incorrotta dall'ampollosità, come in questa citazione di Giobbe, con la quale non potrebbe competere nessuna declamazione: Homo, natus de muliere, brevi vivit tempore, repletus multis miseriis, qui, tanquam flos, egreditur et conteritur, et fugit velut umbra (Gb 14, 1) («L'uomo, nato di donna, vive per poco tempo, pieno di molte miserie, che, come un fiore, spunta e avvizzisce, e fugge come ombra»). La conclusione: evitare il superfluo, le idee secondarie che depistano; «bisogna industriarsi per uno stile casto». 
Anche William James, il fratello di Henry, si dimostra nemico giurato del secondario, ovvero – come lo chiama lui con formula originalissima – del «pensiero interstiziale» (interstitial thinking). Il pensatore e il conversatore eccellente – che James, ricorrendo a categorie sociali anziché a distinzioni puramente intellettuali, identifica con un membro dell'aristocrazia – evita di dire quello che non serve, abbrevia ed elide, usa una frase anziché venti o addirittura non parla proprio, a differenza dei plebei; e quando lo fa, fornisce solo i risultati, non l'accessorio. Ignorare, non degnarsi di prendere in considerazione, trascurare: questi i tratti del "gentleman". La mente volgare, invece, si perde nell'irrilevante. 
Classismo a parte (a contraddire il quale basterebbe l'esempio di un Cisti), James suggerisce qualcosa di molto significativo: che l'«eliminazione del secondario» (suppression of the secondary) consente di volare più in alto (higher flights) e comunica una rassicurante idea di verità. Per quanto vero sia quel che possiamo udire dalla bocca di una persona comune, tendiamo a non crederle. Infatti, «le migliori idee sono soffocate, ostruite e contaminate dalla ridondanza delle loro più trite associazioni». Un uomo di mondo, invece, otterrà la nostra fiducia, quand'anche dovesse esprimere opinioni e gusti fasulli. Presumere di sapere di più di quel che si dice, in ogni caso, è segno di eccellenza. 
L'intelligenza del lettore è tema cruciale nel saggio di Walter Pater Appreciations, uno dei saggi più belli che siano mai stati scritti sul lavoro degli scrittori. 
Il grande oxoniense considera la pratica dell'esclusione – la ricerca dell'inessenziale, la riduzione della lingua all'immagine mentale, la rinuncia ai facili effetti eccetera – la fonte prima dell'arte letteraria. Il suo idolo è Flaubert e su Flaubert si conclude il saggio. Ricorre nel discorso la parola restraint (variata in self-restraint): controllo, contenimento, ascetica economia, frugalità. Il troppo, se anche dilettevole al momento, lascia nella memoria del lettore disturbanti onde. Il che rammollisce la forza dell'insieme. La disciplina del linguaggio darà tanta più soddisfazione al lettore, perché dalla disciplina lo stile uscirà tanto più esatto e lui proverà la gioia di assistere al trionfo dell'arte sulla difficoltà. Il piacere associato alla lacunosità di cui parla Pater è un'altra stupenda forma di partecipazione, il piacere di vedere il successo della creazione, anzi, del creatore. Potremmo addirittura chiamarlo, questo speciale piacere, "ammirazione" – un concetto che le varie teorie della letteratura, per non parlare dei lettori comuni, sembrano aver definitivamente smarrito, quelle maledicendo la soggettività e qualunque ombra di "genio", questi non dandosi alcun pensiero della fatica del costruire attraverso l'immaginazione. Nell'utilitarismo che domina ormai le riflessioni sulla letteratura, in qualunque ambito, l'ammirazione è inutile. Ma il lettore che ammira l'opera dello scrittore sarà il primo a esigere di più da se stesso, e vorrà migliorare anche la sua opera quotidiana, che consiste nel pensare e nel dare ordine e nome ai pensieri. Ognuno dovrebbe imparare, per quel che può, l'etica del self-restraint.

Com’è snob la passione di Cavalcanti per Aristotele



Punto di riferimento culturale e letterario per il giovane Dante 
utilizza sempre al meglio tutti i termici tecnici della fenomenologia d’amore
Anche in questo sonetto il cuore è il luogo della concupiscenza 
e non porta né a Dio né all’universale

Walter Siti

"La Repubblica", 28 settembre 2014

Nei suoi versi non c’è sviluppo narrativo 
La sintassi si fonde con la metrica, 
ogni quartina e ogni terzina sono una frase compiuta 
Malgrado il suo enorme malinconico autocontrollo di stampo aristocratico 
ha lasciato alla lirica italiana una grandissima eredità: il ritmo delle parole


È COLPA di Dante se a Cavalcanti è stato affibbiato il ruolo improprio di “precursore”; fiorentino e guelfo bianco come lui, di famiglia più ricca e potente, d’una decina d’anni maggiore, Cavalcanti è stato per il giovane Dante un punto di riferimento culturale e letterario; Dante lo chiama il suo “primo amico” e dichiara di considerarlo destinatario privilegiato della Vita nova. Ma i loro temperamenti erano diversi e le loro idee finirono per essere in conflitto. All’inizio c’era tutto un gruppetto, tra Firenze e Pistoia, che partendo dalle teorie dell’amor cortese sfruttava i minimi incidenti della vita sentimentale per ragionare in versi di psicologia e nobiltà interiore. Le donne erano astratte, coperte da nomi simbolici; idealizzate, vestite di luce e d’onestà, apparivano per portare agli uomini la bellezza e il corretto sentire. Cavalcanti era il leader, forse controvoglia: il più esperto in filosofia naturale e medicina, quello che meglio padroneggiava i termini tecnici della fenomenologia d’amore.
Questo sonetto è una vera e propria rappresentazione teatrale, la cui scena è l’interiorità del poeta e i cui attori sono Amore, gli spiriti, il cuore, l’anima e la mente. La donna (a cui si dà del “voi”) è la causa iniziale del dramma oltre che la spettatrice auspicata. Voi che mi avete trafitto il cuore attraverso gli occhi, essendo da me guardata, guardate come avete ridotto la mia vita, che Amore la distrugge a forza di sospiri. Amore è un guerriero, con le sue frecce ferisce con tanta violenza che al suo avanzare i miei poveri spiriti scappano (gli spiriti, secondo una tradizione risalente ad Aristotele, sono i fluidi sottili che collegano al cuore le varie membra e presiedono alle funzioni emotive); così lasciano in potere d’Amore (“en segnoria”) il mio nudo aspetto esterno (“figura sol”), come un automa che si lamenta con un misero residuo di voce (“alquanto” nel senso di “appena un po’”). La forza partita dai vostri occhi è stata così rapida e ha centrato il bersaglio con tanta precisione al primo colpo, che l’anima si è traumatizzata vedendosi morto, sul lato sinistro, il cuore.
Per Cavalcanti il cuore è il luogo fisico della concupiscenza, l’anima è la facoltà sensitiva individuale, la mente è la facoltà intellettiva (quella che è stata “destata” al v. 2 dalla catastrofe amorosa); secondo il suo aristotelismo radicale, tra facoltà sensitiva e facoltà intellettiva universale non ci può essere continuità; quindi l’amore, che proviene dalle zone oscure del desiderio (una “oscurità che viene da Marte”, lo definisce in una canzone), non può condurre alla conoscenza della bellezza universale né avvicinare a Dio. Non c’è omogeneità tra l’idealizzazione mentale della donna e la crudezza dei sintomi fisiologici. L’amore resta dunque un ambiguo privilegio: da una parte è segno di elezione, perché solo gli uomini migliori si svegliano al suo richiamo e ne avvertono la potenza, ma dall’altra provoca al suo arrivo strazio e devastazione (“distrugge”, “disfatto”), insanabile disarmonia tra le facoltà umane. È su questo punto che la divergenza intellettuale con Dante diventa insanabile: Dante pretende che la sua Beatrice sia creatura divina, è convinto che l’amore può essere scala di comprensione universale. Bisogna superare il tema del lamento (costi biograficamente quel che costi) e sforzarsi di capire di più; il sonetto di Cavalcanti porta in filigrana le Lamentazioni di Geremia («voi che passate per la strada… guardate il mio cuore che si distrugge… il Signore tese il suo arco, mi piantò le sue frecce nei reni») ed è proprio con una citazione di quel passo biblico che dal fondo del dolore per la morte di Beatrice, nella Vita nova, faticosamente comincia la risalita — dal dolore si arriverà al riconoscimento degli occhi di Beatrice in paradiso. Nell’ansia di un distacco necessario, forse Dante ha perfino accusato l’aristotelismo radicale dell’amico di vicinanza con l’eresia di Averroè (solo l’anima intellettiva universale è sottratta alla morte, l’anima sensitiva individuale muore col corpo), se nel X canto dell’ Inferno si parla di Guido alla presenza di suo padre e di suo suocero, entrambi lì in quanto eretici.
Temperamenti diversi, si diceva: raffinato e snob Cavalcanti, più rozzo (fatta la tara del genio) e realistico Dante; il primo vive il suo teatro passionale con distacco nominalistico, pronto all’autoparodia (in un sonetto si beffa apertamente della teoria degli spiriti), il secondo prende tutto sul serio — rovescia la letteratura come un guanto per arrivare dove vuole. In Cavalcanti non c’è sviluppo narrativo: la sua poesia è bloccata nell’autocontrollo aristocratico, in una solitudine orgogliosa e malinconica. Eppure qualcosa ha lasciato a Dante e alla lirica successiva, ed è il ritmo delle parole. La sua sintassi si fonde con la metrica: ogni quartina e terzina una frase compiuta e ogni verso uno snodo (relativa, consecutiva, coordinata). Mentre la lirica si stava svincolando dall’obbligo di esser cantata, Cavalcanti ha insegnato (con la sua tastiera ristretta, gioco combinatorio di poche parole-concetto) che la poesia non ha bisogno di strumentazione da fuori, perché la musica ce l’ha dentro.

sabato 27 settembre 2014

Dal monastero alla Silicon Valley: parla il calligrafo Ewan Clayton


Un monaco amanuense a Palo Alto
Chi scrive a mano è sempre in vantaggio su chi preme dei tasti, per la memoria e per l’organizzazione del testo
Da bambino non sapeva scrivere, recuperò grazie alla nonna

Intervista di Simonetta Fiori

"La Repubblica", 27 settembre 2014


Ho imparato moltissimo da Steve Jobs. Aveva capito il valore della maestria artigiana 
E aveva studiato calligrafia
Si fece benedettino a causa della malattia. Poi lavorò alla Xerox

«SONO contento che il mio libro esca in Italia, paese cruciale nella storia della scrittura». Ewan Clayton è uno dei più famosi calligrafi del mondo, una figura senza tempo, capace di viaggiare con disinvoltura tra epoche remote e futuro tecnologico. Forse perché per cinque anni è rimasto chiuso in un monastero, «monaco amanuense del XX secolo» dice lui, per poi trovarsi catapultato nello Xerox Parc a Palo Alto, la famosa divisione di ricerca dove erano stati inventati i computer connessi in rete e le finestre di windows. «Entrambe sono state esperienze religiose», racconta dal suo studio nell’Università del Sunderland, in Gran Bretagna. La sua biografia ci aiuta a capire un’opera affascinante e ambiziosa come The Golden Thread ( ora tradotto con il titolo Il filo d’oro).
È una storia della scrittura che comincia sulle pareti rocciose nell’Alto Egitto e si ferma — al momento — nei laboratori della Silicon Valley. Tremila anni di parole scritte attraverso rotoli di papiro, tavolette di cera, marmi, pergamene, penne d’oca, pennini, penne a sfera, penne a biro, macchine da scrivere e schermi pixelati. La scrittura secondo Clayton è un atto fisico, non solo intellettuale. È il frutto di un movimento, che coinvolge dita, braccio e spalla. Possiede una dimensione artigianale e iconografica, a cui hanno lavorato moltissimi uomini per favorire la trasmissione di conoscenza. E le lettere dell’alfabeto veicolano sì suoni e significati, ma sono anche corpi sensuali, provvisti di “odore”, “consistenza”, “luminosità”, “colore”. Quello del calligrafo inglese è un inno al saper scrivere che oggi si trova davanti a una nuova sfida, forse la più difficile: scriviamo sempre di più, ma in che modo? «Le nuove tecnologie ci permettono di reinventare il nostro rapporto con la parola scritta, ma non sappiamo ancora a quali elementi affidarci. Ho pensato che la prima cosa da fare fosse raccontare in che modo la scrittura è arrivata a essere ciò che è».
Che cosa ha capito dopo aver scritto il libro?
«Oggi abbiamo bisogno di tutte le tecniche, quelle antichissime e le più innovative. Passato e futuro non sono in guerra. Al contrario, dobbiamo coltivare la ricchezza della scrittura nelle sue varie modalità, cartacee e digitali, evitando ogni fondamentalismo. E coloro che ora sono chiamati a intessere il filo d’oro della comunicazione scritta dovranno fare in modo che non si perda il senso di un’orditura secolare».
Sul futuro della scrittura lei appare molto ottimista.
«Sì, perché penso al suo ruolo che è irrinunciabile. Le tecniche vanno e vengono: ciò che oggi ci sembra all’avanguardia domani sarà superato. Ma ciò che non si esaurisce mai è la capacità inventiva dell’essere umano. Le generazioni future non smetteranno mai di provare piacere nello scrivere. E negli artefatti scritti cercheranno sempre la bellezza. In fondo è solo negli ultimi decenni che i giovani hanno sviluppato una loro cultura grafica autonoma».
Questo è vero, però non sappiamo più scrivere a mano. E non riconosciamo la nostra calligrafia.
«È anche questa la ragione per cui ho voluto scrivere questo libro. Credo che oggi la fascinazione digitale produca falsi dilemmi. Tendiamo a enfatizzare i benefici di una tecnica di scrittura a scapito di un’altra, ma se vogliamo insegnare ai ragazzi l’uso del computer non dobbiamo certo smettere di insegnare il corsivo. Chi sa scrivere a mano sarà sempre in vantaggio su chi sa premere dei tasti, sia sul piano della memoria che su quello dell’organizzazione del testo. Lo dicono anche le neuroscienze. Se durante una conferenza lei prende appunti sul taccuino, le sue note mostreranno una costruzione più strutturata rispetto a quelle del “suonatore di pianola”, che richiama i fatti più che i concetti. E chi scrive a mano tende a trattenere di più le informazioni».
Lei perché si è appassionato alla scrittura?
«Da bambino fui ipnotizzato dalla calligrafia di un dottore: pensavo che fosse la cosa più bella che avessi mai visto. Però a 12 anni cominciai a fare confusione tra le lettere. Mi avevano insegnato tre stili diversi in pochi anni e la mia grafia divenne illeggibile. Così fui rimandato in classe con i bambini di otto anni, davvero mortificante. Ma la mia fortuna è stata quella di crescere in un piccolo paese dove aveva vissuto il grande calligrafo Edward Johnson. Mia nonna andava a ballare con la signora Johnson, così mi diedero da leggere la sua biografia, e mia madre mi fece avere una tavola di prove calligrafiche. Rimasi incantato».
Imparò il mestiere di calligrafo, ma poi decise di chiudersi in un convento benedettino.
«A 28 anni mi ammalai di cancro, così pensai a tutte le cose che dovevo fare prima che fosse troppo tardi. La più folle fu senza dubbio quella di farmi monaco, una scelta ostinatamente contraria a quei tempi, l’Inghilterra di Mrs Thatcher. Restai al Worth Abbey per cinque anni. “Brother Ewan”, mi disse una volta il priore, “penso che la vita qui dentro ti stia stretta come una scarpa di un numero più piccolo”. Il giorno dopo fui investito da una macchina e pensai: “Ok, forse hai ragione”. Lasciai il convento. Per fortuna dopo pochi mesi fui chiamato in California come consulente del Palo Alto Research Centre, alla Xerox».
Dal monastero alla Silicon Valley. Come fu il passaggio?
«Fu uno shock, ma neppure tanto. Ebbi un colloquio con John Seelay Brown, direttore della Xerox, e capii subito che aveva gli stessi problemi del priore. I ricercatori si misurano con l’ignoto. Ed è come vivere una vita religiosa, che richiede contemplazione. Soprattutto bisogna convivere con ciò che ancora non si conosce, nella buona e nella cattiva sorte. John mi disse una volta che il suo principale lavoro consisteva nel fare di tutto per non sedersi davanti ai problemi. È questo che porta a nuove rivelazioni e scoperte».
Ha mai conosciuto Steve Jobs?
«No, non l’ho mai incontrato però ho imparato moltissimo da lui. Era un tecnico che aveva capito l’importanza della maestria artigiana. Ha creato oggetti bellissimi e io gli sono profondamente grato perché negli anni dell’università aveva studiato calligrafia. Fin da principio ebbe molto chiaro quanto fosse importante trasferire nel nuovo medium la tradizione della grafica e delle arti tipografiche ».
Ho letto che lei ha aiutato Apple a creare nuovi caratteri.
«No, il mio ruolo alla Xerox era più ampio. L’azienda aveva inventato molta della tecnologia che ha prodotto la rivoluzione digitale: i concetti di window, di desktop e mobile computer, la filosofia del “look and feel” che c’è dietro la Apple. Ma il management non aveva capito le potenzialità di queste invenzioni, lasciando che i loro artefici prendessero il volo. Poi la Xerox decise di puntare sulla gestione dei documenti, senza però sapere cosa fossero. Così fui assunto come calligrafo: dovevo offrire il mio sguardo d’artista a un team di scienziati».
Cosa significa essere alfabetizzati nel XXI secolo?
«Credo che si tratti di un work in progress. Le società evolvono in continuazione e la scrittura è un fenomeno sociale. Ci si chiede di scrivere in modo sempre diverso e noi dobbiamo padroneggiare non solo le diverse forme di scrittura ma anche le istituzioni che ci sollecitano a diversificare l’impiego delle nostre competenze alfabetiche. Emilia Ferreiro, allieva di Piaget, sosteneva la necessità di concepire l’alfabetizzazione come un continuum, un percorso che continua da grandi. Gli ultimi vent’anni ne sono una straordinaria conferma ».

martedì 23 settembre 2014

Il riscatto della fatica


Andrea Bajani

 “La Repubblica”, 21 settembre 2014

Lo sguardo che ha un ragazzo quando esce fuori – vincitore – da un’equazione ha una tale pasta di sorpresa, stupore e pienezza che bisognerebbe mostrarlo a tutti, a più riprese durante tutta la vita. Val la pena ricordarsene in questi giorni in cui si ritorna tra i banchi, e della scuola prevale – dentro i ragazzi e dentro gli insegnanti – l’idea della spada di Damocle, di tanta fatica per nulla, di un luogo rimasto chiuso fuori dalla storia dove si fanno cose che non servono a niente e che non interessano a nessuno. LEGGI TUTTO...

domenica 21 settembre 2014

Perché la via breve ci porta lontani dalla soddisfazione



Si può raggiungere l’appagamento solo attraverso la rinuncia al risultato immediato

Massimo Recalcati

"La Repubblica", 21 settembre 2014

FREUD ha proposto le metafore della “via breve” e della “via lunga” per identificare due diversi processi dell’apparato psichico di fronte alla esperienza di una soddisfazione disattesa o differita. Come rispondiamo quando facciamo una esperienza frustrante? Quando non possiamo realizzare immediatamente quello vorremmo poter realizzare? Quando, insomma, ci troviamo esposti all’alterità spigolosa del limite?
La “via breve” indica una risposta che non vuole accettare il limite, che non intende assumere la non-coincidenza tra le nostre aspettative e quello che accade nella realtà. Essa trova la sua massima e più drammatica espressione nel fenomeno dell’allucinazione che consiste nel rendere presente ciò che non è presente, nel realizzare, per “via breve”, quello che, in realtà, è impossibile realizzare. Si tratta di una scorciatoia poiché tollerare l’assenza, la perdita, il limite, differire la soddisfazione o la scarica pulsionale, sopportare il peso della frustrazione non è un compito facile. Per questo la via breve dell’allucinazione lo evade completamente illudendoci che tutto è possibile. Si tratta di un modello pulsionale che cortocircuita il tempo nell’istante estatico dell’appagamento che si vuole imperiosamente immediato. È quello che avviene, per esempio, per il tossicomane che non a caso Bion definisce come “colui che non sa aspettare”: la scarica della pulsione non può essere differita ma esige di raggiungere il suo oggetto in un presente continuo.
La seconda risposta – quella della “via lunga” – procede col registrare la non-coincidenza tra le aspettative del nostro desiderio e l’impatto con la realtà per poi cercare di raggiungere la soddisfazione in un tempo secondo, non schiacciato sull’urgenza imperiosa del bisogno. Il suo modello è quello della sublimazione: si può raggiungere la soddisfazione solo attraverso un lavoro psichico che suppone la rinuncia al soddisfacimento pulsionale immediato. Per incamminarsi lungo questa via è necessario tempo e fatica. Il modello sublimatorio della “via lunga” prevede la sospensione del cortocircuito allucinatorio con l’oggetto del godimento. La sua è la via che trova nel lavoro e nel desiderio le sue massime espressioni. Si tratti di fabbricare un tavolo o di leggere un libro di filosofia, di costruire un legame d’amore o di dar vita ad una impresa collettiva, la soddisfazione non può mai essere immediata, ma prevede sempre un differimento iniziale. È superfluo chiedersi quale tra le due vie prevalga nel nostro tempo. Il nostro tempo sponsorizza ciecamente il modello allucinatorio di fronte a quello sublimatorio. È un tempo che inneggia la “via breve” contro la fatica della “via lunga”. Potremmo fare diversi esempi per illustrare questa egemonia psicotica dell’allucinazione.
Mi limito a farne tre molto semplici. Il primo è quello della lettura che è un esercizio, come ricordava recentemente Stefano Bartezzaghi su queste pagine, che esige tempo, nel quale la soddisfazione è strettamente legata al movimento, necessariamente lento, del pensiero. In contrasto con questa lentezza necessaria l’attuale cultura dell’immagine sembra invece incentivare l’assimilazione avida e priva di pensiero; l’attività faticosa della lettura viene di colpo sostituita con la recezione passiva del flusso delle immagini. La televisione riempie chi ne fruisce senza esigere la fatica soggettivata dell’assimilazione.
Il secondo esempio riguarda il mondo del lavoro: l’economia finanziaria – tra i maggiori responsabili della crisi che sta colpendo l’Occidente – ha relegato il “lavoro” ad una sorta di scoria “improduttiva” dell’Ottocento. L’accumulazione rapida del profitto non può avvenire attraverso la faticosa impresa del lavoro, ma attraverso operazioni astratte che consentono una realizzazione del profitto immediata. Con la conseguenza che il carattere orgiastico di questa economia – demolendo la centralità etica del lavoro – ha fatto straripare i debiti.
Il terzo esempio è quello dei social network: mentre la costruzione di un legame – d’amore o d’amicizia che sia – implica tempo e cura – la dimensione artefatta dei legami che si moltiplicano con un clic possono dare l’illusione che tempo e cura non siano più necessari. L’amicizia diventa allora come quel pezzo di legno che una madre travolta dal lutto per la perdita del suo bambino culla (allucinatoriamente) tra le sue braccia chiamandolo con il nome del suo piccolo traumaticamente scomparso.

Anche Pericle e Augusto sotto il fuoco dei pettegoli

domenica 14 settembre 2014

"Io che vengo dalla scuola pubblica"


ALAN BENNETT

"La Repubblica", 14 settembre 2014

Salire sul pulpito è un rischio quando si scrive per il teatro. Nessuno se lo aspetta da te e, se lo fai, ti viene rimproverato. Ai poeti è concesso, ma non ai commediografi che, se hanno delle opinioni nude, è meglio che le vestano delle decorose ambiguità dei loro personaggi o le nascondano nella selva, a volte poco fitta, della trama. Basta non parlare al pubblico.
Ho sempre trovato difficile rispettare questo divieto. John Gielgud, che recitò nella mia prima commedia, pensava che rivolgersi al pubblico fosse volgare. Poi lo convinsero a provare e da allora solo in rare occasioni ha parlato con altri. Lo capisco, e anche nelle mie pièce più realistiche ho escogitato e assaporato i momenti in cui un personaggio, inaspettatamente, si volta e si rivolge al pubblico e, in poche parole, predica.
Può darsi che sia perché da bambino frequentavo regolarmente la Chiesa di St Michael a Headingley e ascoltavo tantissimi sermoni. Andavo anche alle pomeridiane del sabato al Grand Theatre di Leeds, ma a volte i sermoni erano più teatrali delle commedie. Questo in particolare quando sul pulpito erano invitati i padri della Comunità della Resurrezione di Mirfield, dal fervore quasi revivalista, che ammaliavano il pubblico dei fedeli.
Non sorprende quindi che il primo monologo da cabaret cui pensai da ragazzo sia venuto fuori in forma di sermone.
Come tutte le parodie nasceva dall’affetto e dalla familiarità e dalle funzioni anglicane che avevo nelle ossa, e c’è una certa simmetria con il primo sermone che tenni su un vero palcoscenico una cinquantina di anni fa all’Arts Theatre nel varietà Beyond the Fringe. Il testo era “Mio fratello Esaù è peloso, ma io sono glabro”. A parte quel sermone non sono mai più salito su un pulpito e lo faccio di nuovo qui a Cambridge. Avevo visto Cambridge per la prima volta quando, diciassettenne, ero venuto giù da Leeds nel dicembre 1951 per sostenere l’esame di ingresso per la facoltà di storia, alloggiando per il fine settimana, come si faceva allora, nel college che era in cima alla lista delle mie preferenze, il Sidney Sussex. Il luogo e l’università mi lasciarono a bocca aperta. Leeds, dove ero nato e cresciuto, nel 1951 era ancora intatta come le altre grandi città del nord, ma benché non fossi ignaro dei suoi splendori architettonici, per quanto all’epoca non fossero in voga, era una città annerita dalla fuliggine, prettamente ottocentesca, e da ragazzo, come Hector nel mio Gli studenti di storia, ero affamato di antichità. Non ero mai stato in un posto in cui la bellezza sbocciava di continuo come Cambridge. Quel dicembre il freddo era eccezionale, il Cam era gelato e uno spesso strato di brina ricopriva ogni corte e cortile, conferendo alla città una bellezza irreale e celestiale. Ed era vuota, come lo erano allora i posti di provincia. Mi vedo diciassettenne a zonzo per i college, come si poteva fare allora, senza licenze, fermo nel Trinity Great Court sotto la luna senza riuscire a concepire di poter essere ammesso a studiare in quei luoghi stupendi. Al Trinity non fui ammesso, infatti. Il Sidney Sussex non era proprio il massimo per i miei gusti sotto il profilo architettonico, ma bisognava essere più intelligenti di me o più in alto nella scala sociale per avere la prima scelta. Però l’esame di ammissione si teneva alla Senate House, il cui interno, fosse stata a Leeds, sarebbe stato isolato dietro cordoni rossi, e andai ad ascoltare la preghiera della sera al King’s, stupefatto che si potesse semplicemente entrare e sedersi negli stalli del coro. Era l’avvento o, come si dice oggi, il conto alla rovescia prima di Natale e uno degli inni cantati era Vieni, vieni Emmanuel , che sembra un po’ una marcia funebre, ma che da allora mi è rimasto dentro. Al colloquio con i benevoli assistenti del Sidney mi resi conto per la prima volta di avere l’accento del nord.
Se gli assistenti erano cordiali, alcuni dei candidati lo erano di meno. Quel fine settimana per la prima volta mi trovai di fronte a una massa di alunni di scuola privata e rimasi esterrefatto. Erano rumorosi, disinvolti e sembrava che si conoscessero tutti, urlavano da un capo all’altro del tavolo per dimostrarlo ed erano anche scandalosamente ingordi. Saranno anche andati alla scuola privata ma erano degli zotici. Seduti ai lunghi tavoli del refettorio sotto i ritratti pacati dei grandi delle dinastie Tudor e Stuart, ordinati, timorosi e cortesi, noi ragazzi del liceo pubblico eravamo gli intrusi; quei maiali, così li consideravo, la parte proprietaria.
Di quella parte mi sarebbe stato concesso di diventare membro dato che, pur essendo io ben lungi dall’ ottenere l’agognata borsa di studio, il Sidney Sussex mi offrì un posto per studiare storia, dopo il servizio militare.
Anche questo porta a Cambridge e se vi state chiedendo se il mio, più che un sermone, sia una camminata sul sentiero della memoria rincuoratevi, perché è a questo punto che l’omelia incerta inizia a mettere il naso sopra l’orizzonte.
Dopo un corso di avviamento in fanteria mi mandarono a imparare il russo a Cambridge, un anno senza uniforme, a ritmi molto rilassati. L’atmosfera era inebriante, sotto un certo profilo molto più che all’università vera e propria, meta di molti dei miei colleghi dopo il servizio militare. Alcuni di loro erano di un’intelligenza sconcertante, alunni di scuola privata che parlando dei tempi del liceo spesso ricordavano un insegnante memorabile, del quale raccontavano aneddoti e citavano i detti – insegnanti che, ricordo di aver pensato con amarezza, avevano presumibilmente contribuito a far ottenere a gran parte di loro la borsa di studio per Oxford e Cambridge. Per quei ragazzi l’esame di ingresso, che a me aveva fatto racimolare un posto, era stato quasi una formalità. La scuola li aveva preparati all’ esame e ai colloqui successivi, a dare quasi per scontate le borse di studio dei due livelli che ne conseguivano. Erano Oxford e Cambridge in fin dei conti; loro avevano le carte in regola. Se lo consideravo ingiusto, non era allora per altruismo. Pensavo a me stesso, mi reputavo svantaggiato assieme ai ragazzi come me. Dovrei scusarmi per il fatto di coniugare questa mia storia costantemente al maschile ma la mia istruzione, la scuola, l’esercito e infine l’università erano tutte, all’ epoca, istituzioni maschili.
Come ho detto mi sentivo svantaggiato ma mi consolava un po’ il pensiero, credo in genere condiviso dagli educatori, che la situazione fosse inevitabilmente destinata a cambiare e che la percentuale degli iscritti a Oxford e Cambridge provenienti dalle scuole statali avrebbe gradualmente superato quella dei diplomati alle scuole private per arrivare a una rappresentanza adeguata e proporzionale. Fu solo col passare del tempo senza che avvenisse nulla di tutto ciò che la mia protesta inizialmente egoistica, addirittura un piagnisteo, si fece più agguerrita, estendendosi dall’ ammissione a Oxford e Cambridge all’ accesso all’ istruzione superiore in generale, mentre anno dopo anno la lotta per i posti all’ università si faceva più disperata. Per non parlare dei costi. Ben altri cervelli si sono confrontati e si confrontano con il problema e pretendere di avere in mano la soluzione sarebbe folle da parte mia. Ma so che del problema fa parte l’istruzione privata. La mia critica a quest’ultima è molto semplice. È ingiusta. Dire che nulla è giusto non è una risposta. I governi, anche quello attuale, esistono per rendere più giusta la realtà del Paese, ma nessun governo, di qualsiasi colore, ha osato toccare l’istruzione privata.
Sarebbe stato fattibile all’ epoca delle riforme di Butler nel 1944 ma c’era altro in pentola. Il governo laburista nel 1945 avrebbe potuto tentare, ma aveva troppo da fare in altri campi. Non si presentò altra occasione fino al 1997, quando la stragrande maggioranza dei laburisti avrebbe quantomeno acconsentito a un tentativo in quella direzione, peccato che il primo ministro avesse frequentato egli stesso una scuola privata, apparentemente con soddisfazione. Così anche quell’ occasione andò sprecata.
Non sono del tutto sicuro del motivo. Quando si solleva la questione si fa un gran parlare delle conseguenze negative a livello sociale, quasi si trattasse di una novella soppressione dei monasteri. Ma sarebbe così? Dopo tutto non suggerisco l’abolizione delle scuole private, ma una riforma graduale, che inizi dalla fusione delle scuole pubbliche e private a livello di sesta classe, ad esempio, dovrebbe essere fattibile e per nulla rivoluzionaria, se c’è la volontà. E questo, ovviamente, è il problema. In parte questa mancanza di volontà è imputabile all’ ansia generalizzata dei genitori espressa in maniera che oggi suona quasi comica, nei versi di Stephen Spender del 1930: «I miei genitori mi tenevano lontano dai bambini villani che lanciavano parole come pietre e vestivano di stracci».
In breve, ancora una questione di classe. Meno comprensibile è la riluttanza a condividere in maniera più ampia (e quindi a diluire) gli indubbi vantaggi dell’istruzione privata: classi meno numerose, strutture migliori e, a quanto pare, tuttora maggiori opportunità di accedere all’ università. Al di là di questo, però, sono meno sicuro dei vantaggi sociali nel lungo periodo, di cui un tempo avrebbe fatto parte l’accento, oggi difficilmente. Però, senza nulla togliere alle molte scuole statali eccellenti, un alunno di capacità medie avrà verosimilmente risultati migliori in una buona scuola privata. Altrimenti perché ce lo manderebbero? Se si arrivasse a una riforma credo che i meno preoccupati all’ idea della commistione sarebbero proprio i ragazzi e le ragazze.
Non mi sorprenderebbe se doveste ignorare queste mie opinioni schiette considerandole le farneticazioni di un vecchio. Ho ormai ottanta anni, un’età in cui ti si può ascoltare senza per forza darti retta. Non mi sono mai occupato molto di politica fino agli anni Ottanta, quando divenne arduo astenersene. Senza essere stato particolarmente di sinistra sono lieto di non aver mai fatto quel triste safari da sinistra a destra che in genere è conseguenza dell’età, un viaggio che sembra attirare in particolare gli scrittori, Amis, Osborne, Larkin, Iris Murdoch, tutti vanno a finire all’ estremità burbera e stereotipata del ventaglio.
Se per me non è stato così è in parte dovuto alle circostanze: dagli anni Ottanta in poi è successo così poco in Inghilterra di apprezzabile e degno di appoggio, a mio giudizio. Per diventare radicale è bastato star fermo. Ma anche queste sembrano le parole di un vecchio. Eppure non mi dispiace ed è sempre bello vedere in televisione quei programmi sugli attivisti di un tempo ancora battaglieri, anziane signore che raccontano le loro lotte per i diritti delle donne o per il controllo delle nascite, veterane delle proteste antinucleari, briose, allegre e radicali come sono sempre state, ancora volitive dopo tutti questi anni. Questa per me è saggezza, la disillusione no. Un altro motivo per cui manca la volontà e si è riluttanti alla prospettiva di una commistione – riluttanza che, va detto, non protegge l’ambito statale in cui non passa settimana che non venga annunciata qualche nuova iniziativa – è che l’istruzione privata è apparentemente intoccabile. Questo credo dipenda dal fatto che ormai la divisione tra istruzione pubblica e privata viene data per scontata. Il che non vuol dire che sia giusto, ma solo che non c’è nulla da poter o dover fare a riguardo. Ma se si crede che il Paese sia ancora generoso, magnanimo, e soprattutto giusto, è difficile non pensare che tutti sappiamo che subordinare l’accesso all’ istruzione non alle capacità dell’alunno bensì allo status sociale dei suoi genitori è sbagliato ed è uno spreco. L’istruzione privata è ingiusta. Chi la fornisce lo sa. Chi la paga lo sa. Chi deve sacrificarsi per acquistarla lo sa. E chi la riceve lo sa, o dovrebbe saperlo. Se non se ne rende conto quando ha completato il percorso vuol dire che l’istruzione è andata sprecata. Suggerirei quindi – timidamente, perché non ho la competenza sufficiente a seguire i dibattiti etici connessi – che se è ingiusta forse allora non è neanche cristiana. Non so bene in che misura dobbiamo al cristianesimo le nostre idee di giustizia. Le anime dopo tutto sono uguali agli occhi del Signore e meritano quindi pari opportunità, come si dice oggi. Certo non è così nel campo dell’istruzione e mai lo è stato, ma non significa che si debba rinunciare a provare. Non è ora di fare un tentativo serio?
A differenza degli ideologi di oggi che definirei ottusi nella loro determinazione, non ho paura dello Stato. Sono stato istruito a spese dello Stato, sia a scuola che all’ università. Lo Stato ha salvato la vita a mio padre e una volta anche a me. Questo sarebbe lo Stato assistenziale, il cosiddetto nanny state, appellativo beffardo che non tiene conto della mia esperienza. Senza lo Stato non sarei qui oggi. Non ho tempo per l’ideologia mascherata da pragmatismo che intende privare lo Stato delle sue funzioni filantropiche, trasformandole in occasioni di profitto. E perché scrollarsi di dosso lo Stato per poi farsi mettere sotto dalle imprese che sono state autorizzate, o meglio incoraggiate a prenderne il posto? Mi preoccupa la gestione secondo criteri aziendali delle carceri e dei servizi sanitari. Recuperare i detenuti e alleviare le sofferenze sono profitti umani che nulla hanno a che fare con i bilanci. E oggigiorno nessuna istituzione è immune. Nella mia ultima commedia la Chiesa d’Inghilterra ha in programma di vendere la cattedrale di Winchester. «Perché no?» dice un personaggio. «La scuola è privata, perché non dovrebbe esserlo anche la cattedrale?». È una battuta, ma non più inverosimile.
Con l’ideologia mascherata da pragmatismo il profitto è ormai l’unico metro con cui misurare tutte le nostre istituzioni, una politica che non deriva dall’ esperienza, ma da congetture – false – sulla natura umana, che vedono nell’ avidità e nell’ interesse gli unici attributi affidabili. Nella ricerca del profitto lo Stato, con i suoi annessi e connessi, viene venduto sotto banco in barba a noi che siamo i suoi legittimi proprietari con una foga e uno zelo che ricordano l’iconoclastia di un tempo.
Il che mi porta a concludere.
Un passatempo che avevo da bambino e che, grazie al mio partner, ho rispolverato nella mezza età, era visitare le vecchie chiese, «sbronzarsi di rovine», come diceva sprezzante Larkin, anche se forse noi vantiamo una competenza maggiore di quanta egli ipocritamente se ne attribuisse. Io conosco per esempio la denominazione specifica delle balconate che sostenevano i grandi crocifissi anche se, come Larkin, non sempre sono in grado di datare un tetto. Il fascino di gran parte delle chiese medioevali consiste nei lasciti della storia, si impara a deliziarsi dei rimasugli della storia: qualche pannello istoriato posto all’ estremità dei banchi nel XV secolo, un monumento sepolcrale in alabastro oppure, in relazione alle vetrate, solo avanzi di bigottismo, l’ideologia si indeboliva contro le decorazioni fuori portata – il martello troppo pensante, la scala troppo corta – così che sopravvivono solo i frammenti, un gruppo di ornamenti gotici e torri forse, il balenare di una città d’oro sotto lo sguardo malevolo di un diavolo.
Nei momenti di maggior sconforto questi frammenti di storia mi paiono emblematici di quanto è accaduto in Inghilterra nel passato, ovviamente, ma sono anche memento di ciò che sotto altri aspetti continua ad accadere nel presente, ora che il tessuto dello Stato e dello Stato sociale in particolare viene smantellato come un tempo lo fu, in maniera più rudimentale, il tessuto delle chiese, venduto, affittato; una nuova Soppressione ove il profitto ha la precedenza su ogni altra considerazione e gli autori dello scempio di oggi sono chiusi nella loro ideologia e convinti di essere nel giusto, come i selvaggi devoti che quattro e cinquecento anni fa infransero dall’ esterno le vetrate e cancellarono i volti dei santi come passaporto per il paradiso.
Termino con le ultime righe della mia prima commedia, Quarant’anni . È ambientata in una scuola il cui preside è alla vigilia del pensionamento ed è quello che oggi si definisce una pièce per l’Inghilterra. Termina con i ragazzi e il corpo insegnante che intonano l’inno All Creatures That on Earth Do Dwell, preceduto da questo annuncio immobiliare riferito all’Inghilterra.
«Affittasi. Area di valore al crocevia del mondo. Offerta attualmente riservata a società. Porzioni periferiche della proprietà già dotate di inquilini residenti. Di un certo interesse storico e d’epoca. Necessita di alcune modifiche e migliorie».

Traduzione di Emilia Benghi.
Questo testo è apparso per la prima volta su London Review of Books

Mezzo e messaggio quei cortocircuiti al tempo delle mail


Una riflessione su quanto il modo di comunicare 
influenzi il contenuto della comunicazione
Da McLuhan a oggi

Umberto Eco

"La Repubblica",  13 settembre 2014

Il testo di Umberto Eco è un capitolo dell’intervento tenuto a Camogli, al Festival della Comunicazione e intitolato “Comunicazione: soft e hard”. 

COMUNICAZIONE è una parola di cui tutti credono di conoscere il significato e viene usata nelle circostanze più diverse… Per esempio, sin da tempi immemorabili, si è parlato di vie di comunicazione, come le strade romane, e di mezzi di comunicazione per quelli che si chiamano anche mezzi di trasporto, come i carri, le navi, i treni e gli aerei. Pensate alla sorpresa del turista che ad Atene vede grandi automezzi con sopra scritto metaphora. Dapprima si ammira la grandezza umanistica di quel popolo, poi ci si accorge che si tratta di automezzi che si occupano di traslochi: E infatti trasporto è stato chiamato nel mondo classico l’artificio metaforico che traspone il significato di un termine letterale a un termine figurato. Quindi si ha trasporto quando trasferisco una mia idea nella mente di qualcun altro e trasporto quando si trasferisce un pacco postale da Milano e Roma.
Si tratta soltanto di una semplice omonimia? Torniamo indietro alle prime teorie della comunicazione che potremmo riassumere come passaggio di messaggio da un emittente al destinatario lungo un canale, sulla base di un codice comune. In effetti il modello funzionava benissimo per la comunicazione di messaggi molto elementari come quelli in Morse — che possono essere decodificati e trascritti anche da un apparato meccanico. La teoria considerava anche il canale attraverso il quale passava il messaggio (come aria, fili elettrici o onde hertziane) ma il canale era una componente puramente meccanica che non incideva sulla natura dei messaggi, salvo casi accidentali di rumore… Oltre a varie altre complicazioni del modello iniziale, una rivoluzione è avvenuta all’inizio degli anni sessanta con la focalizzazione del problema del canale. Nel modello comunicativo elementare il canale era come un tubo attraverso il quale passava informazione. Era neutro. È stato McLuhan a concentrare le propria attenzione sul medium, che altro non era che un altro nome per il canale. Con la formula il medium è il messaggio McLuhan ha sostenuto che coi nuovi mezzi elettronici il medium poteva rendere il destinatario talmente dipendente dal canale da rendere irrilevante la natura del messaggio. La posizione di Mc Luhan è stata criticata, osservando che infinite volte l’informazione rimane costante e indipendente dal canale attraverso cui passa. Il 10 giugno 1940 il fatto che l’Italia avesse dichiarato guerra alle potenze alleate rimaneva indiscutibile sia che lo si fosse appreso per radio in diretta dal discorso del Duce sia che lo si fosse letto il giorno dopo su L’Osservatore romano. Ma rimane indiscutibile che la partecipazione emotiva del destinatario e quindi la valutazione dell’evento veniva influenzata dalla natura del medium.
McLuhan, generalizzando, usava dei paradossi, ma qualcosa aveva capito. Pensiamo per esempio alla polemica nata in Italia quando si doveva decidere se passare dalla televisione in bianco e nero a quella a colori. Le preoccupazioni erano allora di carattere economico, ma il risultato è stato di carattere psicologico. La televisione a colori ha dato inizio al riflusso degli anni ottanta, alla perdita d’interesse nei messaggi, e alla pura degustazione delle meraviglie del nuovo mezzo. E pensiamo al dibattito politico che infuria sui nostri teleschermi: tranne casi virtuosi, il pubblico non è interessato a quello che vi si dice, anche perché le voci sovrapponendosi l’una all’altra rendono irrilevante il contenuto delle affermazioni: il vero messaggio è il diverbio, il confronto quasi circense tra gladiatori, non si è conquistati dagli argomenti dei parlanti, ma dalle prodezze dei reziari.
Ho intitolato questo mio intervento agli aspetti soft e hard della comunicazione. Pensiamo che in principio sia hard il canale, la ferraglia, che può essere fatta da un corriere cavallo, da un vagone postale o da onde hertziane. In linea di principio la ferraglia non ha mai interferito con la natura del messaggio. Il messaggio dipendeva invece dal programma e soft era il rapporto tra tenore del messaggio e codice. E quello che caratterizzava la ferraglia era che essa prendeva tempo: di qui le lancinanti attese per una lettera di risposta e i lunghi intervalli comunicativi nel corso dei quali l’emittente si chiedeva se il destinatario avesse ricevuto e come avrebbe risposto, e il destinatario attendeva emozionato la lettera che tardava a venire.
Il rapporto ha iniziato a mutare col telegrafo senza fili, con la radio e con il telefono. Il telegrafo consentiva ricezione e risposta immediata, ma implicava delle istanze mediatrici (l’andata all’ufficio telegrafico, la trascrizione del telegrafista in partenza e la nuova trascrizione in arrivo, oltre ai tempi di consegna del messaggio — salvo ovviamente comunicazioni militari o marittime). La radio e la televisione consentivano una emissione immediata ma non consentivano risposta. Il telefono consentiva rapporti istantanei di azione-reazione tra emittente e destinatario, ma occupava solo parte della nostra giornata, e prendeva tempo se si doveva ricorrere alla mediazione di un centralino. La vera rivoluzione è avvenuta col computer, l’e-mail e i telefonini cellulari. In questi casi il rapporto è temporalmente immediato. Sia nel caso del nerd che passa le notti on line, che in quello dei telefonatori compulsivi che vediamo camminare per strada parlando a qualcuno, abbiamo un processo domanda-risposta che non prende tempo. In che modo questa modificazione della ferraglia viene a incidere sulla natura del messaggio?
Per il telefonino la situazione è intuitiva ed è stata ampiamente studiata. Tranne casi estremi il drogato del cellulare non parla o risponde per comunicare pensieri o fatti urgenti, ma per mantenere il contatto e quindi per mantenersi in contatto. Di solito parla a vuoto. Questo gli evita la solitudine ma lo relega a un rapporto meramente virtuale in cui la personalità di emittente e destinatario si vanificano sempre più... Altro accade con la e-mail. Mi limiterò a considerare un evento di cui sono stato testimone… Un tale (lo chiameremo Pasquale) ha passato alcuni anni in una azienda, stimato da superiori e colleghi per la sua cortesia e disponibilità. Magari covava delle insoddisfazioni, ma non lo lasciava capire. Pasquale viene inviato all’estero per una missione di fiducia, e si tiene in contatto con i colleghi via e-mail. Un amico gli comunica (via e-mail) che gli è stato fatto un torto: un suo progetto, che aveva lasciato prima di partire, è stato giudicato insufficiente e affidato a un altro che lo ha rifatto. Giusto o meno che fosse, è comprensibile che Pasquale si prenda una grande arrabbiatura.
Quando ci arrabbiamo per una presunta ingiustizia, nel momento dell’ira siamo disposti a dire che chi ci ha fatto il torto è un imbecille, che “quelli” non ci hanno mai capito, che ci hanno fatto passare davanti dei leccapiedi, e ci viene voglia di mandare tutti al diavolo. Poi di solito si lascia sbollire l’ira, si chiede un colloquio (a cui ci si prepara nel corso di alcune notti insonni) e, con tono fermo e dolente, si domandano spiegazioni. Se si è lontani si scrive una lettera, la si rilegge prima di spedirla, la si corregge più volte per ottenere il tono più efficace. Invece Pasquale ha ricevuto la notizia e immediatamente (come gli consentiva la e-mail) ha scritto al responsabile del presunto torto trattandolo da mascalzone, accusandolo di aver concesso favori aziendali in cambio di prestazioni sessuali, e quando quello ha risposto irritato (via e-mail), chiedendogli se era matto, Pasquale ha rincarato la dose, spiegandogli quali menomazioni fisiche gli avrebbe fatto subire se non fosse stato per la distanza geografica. E siccome un messaggio e-mail può essere inviato contemporaneamente a più persone, Pasquale ne ha inviato copia al capo dell’azienda e ad altri colleghi, aggiungendovi altre riflessioni sulla considerazione che egli aveva per quel luogo, da lui fermamente ritenuto non dissimile da una discarica di rifiuti organici. Era un modo originale di dare le dimissioni? Niente affatto, tutti sono convinti che Pasquale desiderasse continuare a lavorare, il subìto (presunto) non era drammatico, forse il suo informatore aveva esagerato. Pasquale si è probabilmente rovinato la carriera. Che cosa gli è successo? Ha ricevuto una notizia inquietante e l’email lo ha incoraggiato a reagire subito, nonché a dare eccessiva pubblicità alla sua reazione. Isolato dal mondo, lui e la sua rabbia, era solo di fronte allo schermo del computer, che aveva eccitato la parte più oscura del suo animo. Il messaggio ricevuto ha mandato in cortocircuito il suo inconscio, senza lasciargli il tempo di consultare il Superego, come di solito accade. La macchina lo metteva in contatto immediato con tutto il mondo, ma gli imponeva le sue regole di accelerazione, facendogli dimenticare che, nel corso dei secoli, il contratto sociale ha imposto tempi diversi di azione e reazione. Il che ci dice come anche la e-mail (invenzione grande almeno quanto i jet intercontinentali) ponga dei nuovi problemi di maillag al contrario, ai quali dobbiamo psicologicamente adattarci.
Ed ecco che possiamo tornare alla sinonimia apparente di cui ho detto all’inizio, quella tra rapporto comunicativo e trasporto: pareva che si trattasse di due fenomeni diversi, ma abbiamo visto come spesso il modo di trasporto del messaggio possa interferire con la natura del messaggio stesso e sulla forma della sua ricezione.

sabato 13 settembre 2014

L’arte sublime di riconoscersi


Telemaco incontra il padre Ulisse ed esce dall’ignoranza

Pietro Citati

"Corriere della Sera", 7 settembre 2014

Telemaco incontra il padre Ulisse ed esce dall’ignoranza Un motivo che unisce Genesi e Pirandello, Roth e Dante Il primo riconoscimento famigliare nell’Odissea avviene nella capanna di Eumeo, ad Itaca. La capanna di Eumeo è simile a una di quelle locande così frequenti nel romanzo europeo del Settecento e dell’Ottocento: luogo di incontro e di intreccio delle trame, spazio del racconto parlato. I cani scodinzolano senza abbaiare: si sente un rumore di piedi; Telemaco arriva davanti alla porta della stalla. Eumeo si alza stupefatto, e dalle mani gli cadono i vasi del vino. Piangendo va incontro a Telemaco, gli bacia il capo, gli occhi e le mani, lo abbraccia, come un padre accoglie un figlio che torna, il decimo anno, da una terra lontana. Gli dice: 
Sei tornato Telemaco, mia dolce luce. Io non credevo / di rivederti, dopoché con la nave partisti per Pilo . 
Sono le stesse parole che, fra poco, Penelope dirà al figlio. Che intensità di affetto, che dolcezza del cuore: il servo ama il figlio del padrone come se ne fosse la madre. L’uomo tornato da una terra lontana, Ulisse, è lì, mentre Eumeo piange e abbraccia Telemaco. Tace. Ignoriamo quali sentimenti percorrano il suo cuore, dietro gli occhi di corno. 
Mentre Eumeo lascia la stalla, Atena appare nella sua metamorfosi preferita, come una esperta tessitrice. Telemaco non la vede, «perché gli dei non appaiono visibili a tutti». La scorgono i cani, che hanno il dono di percepire il divino più degli uomini: si spaventano, uggiolano e fuggono. Anche Ulisse la vede: la dea gli fa cenno coi sopraccigli; Ulisse esce dalla stalla e le sta di fronte. La dea gli ordina di rivelarsi al figlio, lo tocca con la verga d’oro, ne eleva la statura e il vigore, stende la pelle delle guance, fa ritornare nera la barba, lo ringiovanisce, e gli pone sul corpo un mantello e una tunica. 
Quando Ulisse trasformato ritorna nella stalla, Telemaco lo guarda impaurito. Volge altrove lo sguardo, temendo che il padre sia un dio, e gli promette sacrifici e doni d’oro. «Risparmiaci». Quale terrore degli dei si rivela nel cuore di Telemaco: lo stesso terrore che le donne di Eleusi avevano provato davanti a Demetra, Achille davanti ad Atena, Elena davanti ad Afrodite. Ulisse risponde: 
Non sono affatto un dio: perché mi eguagli agli dei? / Ma sono tuo padre, per il quale tu soffri / gemendo tanti dolori, subendo gli insulti degli uomini . 
Lo bacia e piange. Telemaco non gli crede: «Non sei Ulisse, tu, mio padre, ma un demone m’incanta perché pianga ancora di più, gemendo… Somigli agli dei, che hanno il vasto cielo». Ulisse insiste. 
Mai più ti verrà un altro Odisseo qui, / ma sono io quello, che soffrendo sventure e molto vagando / sono tornato al ventesimo anno nella terra dei padri . 
Allora i due scoppiano in pianto: singhiozzano più fittamente e acutamente di uccelli, ai quali i contadini tolgono i figli ancora implumi. Il paragone è capovolto: Ulisse e Telemaco si ritrovano, mentre gli uccelli perdono i piccoli. Nel corso di venti anni, Ulisse e Telemaco avevano represso nel cuore tante lacrime, si erano allontanati così completamente l’uno dall’altro, che ora, nel momento di ritrovarsi, tutte le lacrime vengono alla luce, fitte e acute, e danno loro un doloroso senso di perdita, come se si smarrissero per sempre. In questo momento, Telemaco riconosce il padre: non ha bisogno di metterlo alla prova né di segni, in un libro dove tutti — Ulisse, Penelope, Laerte — mettono gli altri alla prova e domandano segni. Telemaco ha visto il padre quando era bambino: dopo venti anni non lo ricorda; eppure lo abbraccia piangendo, perché è giovane e ingenuo, e il viaggio a Pilo e a Sparta ha colmato la sua mente di immagini paterne. 
Tra padre e figlio si stabiliscono un’affinità e una complicità strettissime. Ulisse educa Telemaco: gli insegna in poche ore tre aspetti essenziali della sua arte di vivere: la sopportazione, le parole gentili, dolci, di miele, e il segreto, cuore della sapienza. Nessuno, nemmeno Laerte, Penelope ed Eumeo, dovrà sapere che il re nascosto è uscito dall’ombra. Sotto la guida di Ulisse, Telemaco cresce rapidamente. Soltanto lui, nell’Odissea, si trasforma così sotto i nostri occhi, mentre Ulisse non si trasforma, ma si sposta dall’una all’altra delle molte possibilità del suo mondo interiore. Appena arrivato nel palazzo, Telemaco ci sembra un altro uomo: esperto, sicuro di sé, cosciente, tranquillo; capace di osservare con precisione gli uomini e le cose, come chi ha sciolto le incertezze giovanili nell’esattezza dell’età matura. Diventa quello che aveva sempre sognato: ciò che non credeva di poter mai diventare; il figlio del padre. Così il riconoscimento è completo. 

*** 

Il recentissimo, eccellente libro di Piero Boitani Riconoscere è un dio. Scene e temi del riconoscimento nella letteratura (Einaudi) sviluppa uno dei temi fondamentali della Poetica di Aristotele. Secondo Aristotele, «il riconoscimento (anagnorisis) è un mutamento da ignoranza a conoscenza, che conduce ad amicizia oppure all’ostilità. Mentre l’Iliade è semplice e luttuosa, l’Odissea è complessa, perché dappertutto ci sono riconoscimenti». Nessuna definizione migliore verrà proposta per duemila anni. 
Riconoscere è un dio segue questo filo analizzando le opere maggiori della letteratura universale: Le Coefore, l’Elettra di Sofocle e Euripide, Re Lear, Amleto , la Genesi, Il paradiso perduto, Giuseppe e i suoi fratelli, Elena di Euripide, I Vangeli, Il racconto d’inverno, I racconti di Canterbury, la Commedia, La terra desolata, Il conte di Montecristo, Il fu Mattia Pascal, Giobbe di Joseph Roth. Il talento straordinario di Piero Boitani nasce dall’unione di due doni: una incomparabile ricchezza di conoscenze e l’arte sottilissima di cogliere le relazioni che rendono vivo e molteplice un testo, e lo legano a tutte le altre opere passate e future.

Un Bene che acceca


Il bisogno di credere nell'assoluto ci spinge a sposare le idee di un capo carismatico invece di puntare sul nostro sole interiore

Remo Bodei

"Il Sole 24 Ore - Domenica", 7 settembre 2014

L'idea di «splendore» è parte della costellazione della «gloria». Ne ricordo preliminarmente quattro aspetti, senza però soffermarmi su di essi, come farò invece sul quinto, meno evidente, ma assai più pregnante e carico di conseguenze.
In primo luogo, lo splendore è collegato alla radice del nome e del concetto di carisma, termine di origine indoiraniana: Xuarenah, da "sole" (hvar-), che indica l'irradiazione di potere e prestigio che emana da una persona in forma di fluido igneo e vitale. Il Sole, diffuso simbolo del potere, illumina e guida gli uomini nelle tenebre dell'esistenza sociale: lo si può ammirare, ma induce presto a chinare il capo a causa del suo accecante fulgore. La moderna sociologia, a partire da Max Weber e come è noto, ha fatto del carisma una categoria politica chiave per spiegare come le persone seguano spontaneamente un individuo, cui obbediscono, che appare dotato di qualità eccezionali e di fascino.
In secondo luogo, sia l'aureola (diminutivo da aureus), disco d'oro che nell'iconologia cristiana circonda la testa della divinità e dei santi, sia il nimbo (alone o nuvola luminosa che li avvolge) hanno a che fare con lo splendore che ne manifesta la sacrale autorità. Aureola e nimbo costituiscono, insieme, quella che tecnicamente si chiama, appunto, «gloria».
In terzo luogo, molte divinità sono legate al culto della luce, dallo Zoroastro persiano, all'Amon-Ra o Aton egizi, allo Zeus greco (genitivo Dios, luce diurna, come nel latino dies), per non parlare dell'identificazione di Cristo come Sol invictus.
In quarto e ultimo luogo, una lunga tradizione, che risale almeno a Plotino, associa il bello allo splendore, alla luminosità: dall'aglaia greca allo splendor o claritas del latino antico e medioevale. Ancora nel tedesco moderno «bello» si dice schön (parola che condivide il medesimo etimo di schein, brillare, splendere, apparire circonfuso di luce).
Piuttosto che approfondire gli argomenti appena accennati, preferisco riflettere su un problema che, malgrado l'apparente astrattezza, coinvolge intimamente ognuno di noi sul piano personale e politico. Mi riferisco alla natura del buono o del bene (to agathon), presentata da Platone nella Repubblica come premessa al celebre mito della caverna. Si tratta di una delle teorie più enigmatiche e controverse, anche perché siamo fuorviati dall'ambiguità e dall'indeterminatezza di un ormai termine usurato. Agathon indica però la vita buona, compiuta, piena, desiderabile e felice. Riuscire a comprendere questa idea, ciò che vi è di più luminoso (phanotaton), e a metterla in pratica rappresenta la mèta suprema della vita umana, la «massima conoscenza». Il suo conseguimento è però concesso a pochi, giacché il bene si colloca «al limite estremo dell'intelligibile ed è difficile a vedersi».
Alla richiesta di spiegare cosa sia il buono, Socrate rifiuta di addentrarsi in una definizione: non si sente pronto e ha paura di esporsi al ridicolo. 
Come accettabile compromesso, suggerisce di illustrarlo attraverso una metafora. Paragona così il buono al sole, suo analogon nel mondo visibile, per cui, sebbene esistano le cose fisiche, coglibili dai sensi, ed esistano i concetti (noemata), coglibili dall'intelletto (nous), se manca la luce naturale o la luce dell'anima non si può vedere o pensare nulla. Dunque, la luce è un tertium tra la vista e il visibile e tra il pensiero e i pensabili. Inoltre, al pari del sole naturale che, emanando luce e calore, permette la vita vegetale e animale, il bene, sole spirituale, è causa del generarsi e rigenerarsi delle idee.
Il mito della caverna, il più celebre nella storia della filosofia, ci aiuta a comprendere meglio quanto appena detto. Vi si immagina, si sa, una caverna in cui degli uomini vedono sulla parete opposta all'ingresso delle ombre che scambiano per cose reali. Tali ombre rappresentano le nostre conoscenze superficiali: le opinioni non sufficientemente esaminate, quelle, appunto, di cui normalmente ci contentiamo. Quando però qualcuno è indotto a uscire dalla caverna e a uscire all'aria aperta, viene dapprima accecato dalla luce del sole e non vede assolutamente nulla. Gradualmente, però, si abitua alla luce e, dopo aver rivolto lo sguardo verso basso lo solleva sempre di più in alto. Solo alla fine, giunto alla fonte della luce, si accorge di non poter fissare a lungo il sole, pena la cecità. 
Anche la conoscenza del bene è raggiungibile per gradi, dopo lunghi e faticosi esercizi, poiché il suo sole acceca e scotta quanti pretendano di vederlo e di sottoporvisi senza preparazione: «Chi non è davvero filosofo, e ha solo una patina superficiale di opinioni filosofiche, fa come chi ha preso troppo sole e si è scottato». 
Perché – per parafrasare un'espressione giovannea – gli uomini preferiscono le tenebre? Perché ambiscono a surrogati del bene (piacere, ricchezza, potere, gloria, onore) invece di abbandonarsi a una felicità più alta? È vero che anche inseguendo questi simulacri avvertiamo talvolta la nostalgia di un bene più pieno. Sentiamo che qualcosa ci manca, che ogni soddisfazione è insatura e momentanea, che persino le nostre fantasie, i nostri desideri i nostri sogni sono calamitati dalla premonizione di un bene infinito, che si manifesta come sordo bisogno di trovare un centro di gravità intellettuale ed emotivo, che ci sottragga all'esistenza dolorosa o insipida.
Il Cristianesimo, nell'assorbire la filosofia platonica e neoplatonica, ha perciò identificato Dio con il Sole e con il Bene, sbarrandone però la conoscenza alla mente umana. La gloria di Dio è splendore intollerabile ai nostri occhi: oltre l'intelletto, il nous si pone ora la fede, oltre l'ottenimento del bene la speranza di conseguirlo, oltre la conoscenza umana l'insondabile mistero. E se, anche al di fuori della dimensione religiosa, l'idea di un bene assoluto risultasse al di fuori della portata di tutti gli uomini? Se le forme di vita buona sono molteplici e dipendono da scelte personali? 
Si può qui toccare lo strato più profondo delle nostre concezioni, dove la verità si scontra con l'opinione, la rousseauiana «volontà generale» con la «volontà di tutti», la ragione con la demagogia. Qui si può constatare come l'assolutezza del possesso del bene da parte di qualcuno o di qualche comunità, qualora diventi strumento della religione o della politica, si trasformi in dogma inconfutabile e in violenza. I monoteismi e le teocrazie hanno a lungo promosso (e in alcuni casi continuino a farlo), l'intolleranza e la guerra.
Come mai tali concezioni hanno trovato e trovano tanto credito? Non sarà forse perché il bisogno di credere all'assoluto attrae gli animi e li fa ruotare attorno al sole carismatico di un capo che spaccia le sue opinioni per verità inconfutabili? E non sta qui uno degli elementi di debolezza nascosti delle democrazie, che si manifesta nei periodi di drammatiche crisi, quando molti, stanchi della pluralità irriducibili delle opinioni, chiedono certezze che non giungono dal loro sole interiore, ma dalla luce riflessa di un capo carismatico?
D'altra parte il dilemma tra l'assoluto e il relativo sembra privo di praticabili vie d'uscita che non siano di compromesso: se il bene fosse davvero quello che pare a ciascuno, avremmo l'anarchia più sfrenata, ma se, al contrario, fosse dichiarato monopolio di qualcuno e si fosse indotti o costretti a obbedire a chi ne proclama il possesso, si avrebbe la sopraffazione o la servitù volontaria. Bisogna perciò trovare una mediazione tra l'oscurità delle opinioni degli abitanti della caverna e la solare luminosità di chi cerca il vero. I modelli dogmatici o totalitari predicano o impongono dall'alto ideologie contrabbandate come verità, ma non possono giustificare la libertà e le opinioni dei cittadini. 
A loro volta, i modelli liberali o democratici sono condannati a moderare le pretese e di razionalità e di vita buona e ad accettare l'equivalenza delle opinioni e delle scelte dei cittadini. Sostengono il perseguimento di ciò che sembra bene a individui o gruppi, ma non sanno giustificare a sufficienza le ragioni del bene comune.

mercoledì 10 settembre 2014

Nel vivere e invecchiare abbiamo l’eroismo di Achille


Soltanto la normalità della vita quotidiana ci rende eroici ed esemplari
Non è l’io eccentrico ma ogni uomo che nasce, lavora, si fa una casa e muore risultando utile alla comunità, a far risplendere la gloria del mito

Javier Gomá

"Corriere della Sera", 9 settembre 2014

Testo della Lezione magistrale che terrà a Modena, Festivalfilosofia 2014, 
domenica 14 settembre alle ore 11.30 

Traduzione dallo spagnolo a cura di Michelina Borsari 

L’Antichità ha visto nel sublime una forma del bello e quindi si è potuto parlare propriamente di una «bellezza sublime». Solo più tardi, durante l’Illuminismo (Burke e Kant), è stato istituito un antagonismo radicale tra il bello e il sublime [...] da cui è risultato un concetto di sublime non solo senza forma (informe, deforme, brutto) ma anche senza luce, privo cioè di claritas e pertanto tendente all’oscuro, al sinistro, al morboso e persino al demoniaco. 
L’etimologia latina di «sublime» (sublimis) designa ciò che è molto alto e «sublimare» ha significato dapprima l’atto di sollevare o elevare: sublime, insomma, si riferisce a ciò che è grande per altezza morale ed estetica. La modernità ha ignorato il concetto originario di grandezza come elevatezza e lo ha sostituito con un altro che lo assimila all’intensità del sentimento o al gigantismo dei grandi numeri (spettacolari opere di architettura, impensabile numero di stelle e galassie nell’universo). Questo cambiamento da una grandiosità qualitativa ad un’altra puramente quantitativa ha tralasciato quell’esemplarità che, per il suo carattere straordinario, è soprattutto degna di essere generalizzata socialmente mediante l’imitazione e di permanere nel tempo.

*** 

Tuttavia, una modernità senza grandezza esemplare è una modernità senza gloria. Possiamo sentire, pensare e rappresentare il sublime nella cultura attuale? Molti direbbero no. La sola menzione del sublime suscita un cenno di scetticismo se non un’espressione di sarcasmo. Il cinismo imperante avrebbe sradicato dal mondo contemporaneo la possibilità stessa del grandioso; l’egualitarismo democratico avrebbe imposto un livellamento generale che lo esclude. [...] È proprio vero? 
Longino già si chiedeva perché nella sua epoca scarseggiassero i poeti sublimi e trovava due ragioni. La prima: l’assenza di libertà democratiche durante l’Impero romano: «La democrazia è un’eccellente nutrice di geni e solo al suo interno fioriscono i grandi uomini di lettere». La seconda: la brama smodata di ricchezza e di piaceri dei suoi contemporanei, i quali, dominati dall’indifferenza, non guardavano verso l’alto e non intraprendevano mai nulla degno di emulazione e di onore. 
Cosa dovremmo dire del nostro tempo? In questo inizio di XXI secolo la democrazia si è fermamente stabilizzata in Occidente, ma ovunque regna l’indifferenza verso il sublime. Perché? Solo per brama di ricchezza e di piaceri? 
Senza un anelito di elevazione verso l’eccellenza, le culture si impoveriscono irrimediabilmente. Ogni epoca propone un ideale — greco, romano, medievale, rinascimentale, illuministico, romantico — che, come espressione suprema dell’essere umano, attrae per la sua perfezione, illumina l’esperienza individuale e mobilita l’entusiasmo latente facendo avanzare il gruppo verso una meta. Una società senza ideali — e il sublime è una forma di ideale — è condannata fatalmente a non progredire, a ripetersi e infine a decadere. [...] 
Il mio libro Esemplarità pubblica (del 2009; tradotto in italiano nel 2011 da Armando Editore) propone una teoria dell’esemplarità egualitaria, alternativa all’esemplarità aristocratica che, in modo implicito, è stata egemone per millenni. Di questo libro interessa qui evidenziare solo uno dei suoi corollari antropologici. Nella concezione dell’individuo moderno l’ideale dell’esemplarità è stato sradicato perché la modernità si immagina un io autonomo, libero dall’imitazione e dalla guida di altri. Secondo questa concezione inoltre ciascun io è consapevole della propria irripetibile unicità e manca perciò assolutamente di quegli elementi comuni tra le persone che stanno a fondamento dell’imitazione di un modello esemplare. 
In effetti, a partire da Herder ci siamo abituati a trovare il carattere dell’individualità umana solo in ciò che è differente, speciale, peculiare di ciascuno di noi: essere un individuo consiste nell’essere distinto, unico nel proprio genere; fare esperienza significa sperimentare la propria irripetibile singolarità. La rappresentazione moderna della soggettività prende in prestito le proprietà che Kant attribuiva esclusivamente al genio artistico: collocarsi al di sopra delle regole comuni, essere creatore e legislatore di se stesso. 
La medesima avversione per ciò che è comune si trova anche nel Saggio sulla libertà di Stuart Mill, che presenta l’originalità del singolo come il «sale della terra». Loda la ricchezza, la varietà e pluralità delle forme dell’io e disprezza quanti operano secondo i costumi collettivi, per i quali sarebbe richiesta unicamente «la facoltà di imitazione delle scimmie». Per lui, i costumi — questo elemento imprescindibile di socializzazione e civilizzazione — sono il patrimonio della massa, della «mediocrità collettiva», rispetto alla quale raccomanda all’individuo di praticare l’«eccentricità». 
L’ideale dell’esemplarità richiede una rappresentazione della soggettività che, anziché mettere l’accento sulla eccentricità che ci distingue, assuma invece positivamente ciò che è comune e che tutti condividiamo in quanto uomini. [...] 

*** 

Tutti partecipiamo di un’esperienza comune, generale, oggettiva che si riassume nell’universale «vivere e invecchiare» degli uomini; un’esperienza fondamentale che, pur essendo la mia esperienza, è però anche un’esperienza generale. Siamo tutti ugualmente mortali e questo essere mortali ci è essenziale. Tutti noi che sulla terra viviamo e invecchiamo facciamo ugualmente parte dei «comuni mortali» e di fronte a questa esperienza decisiva qualunque differenza si mostra irrilevante o secondaria. 
La condizione egualitaria e universale di essere dei «comuni mortali» crea i presupposti antropologici dell’esemplarità. Solo se vi è un sostrato comune che lega gli uomini tra loro diventa possibile l’imitazione di un modello, e questo accade perché l’esemplarità contiene per sua natura una chiamata alla ripetizione e può essere ripetuto solo l’esempio di qualcuno con cui si ha o si può avere qualcosa in comune. 
È quanto accade anche ad Achille, l’eroe del mito [...]. La sua esperienza fondamentale (quella di apprendere ad essere mortale) è anche la nostra. Achille non solo è il protagonista di un bel mito antico, [...] ma racchiude il paradigma permanente dell’umano. La sua gloria è anche la nostra. 
Tutti noi, uomini e donne, [...] abbandoniamo come Achille il gineceo della nostra adolescenza e ci imbarchiamo sulle navi greche con gli altri eroi in direzione di Troia, dove moriremo nella lotta per guadagnarci un nome, quello della nostra individualità personale plasmata nell’elemento della mortalità condivisa. Questa traversata di mare simboleggia l’impresa, comune a tutti gli uomini in tutti i tempi e luoghi del mondo — impresa permanente e mai del tutto compiuta — di apprendere la nostra condizione mortale. 

*** 

La sublime grandezza di Achille si ripete poi in tono più quotidiano ma altrettanto eroico nella vita di ciascuno di noi. Quell’io che avanza nel cammino e passa dal gineceo a Troia è il nuovo Achille, l’attualizzazione contemporanea dell’eroe esemplare, la reiterazione del migliore fra gli uomini. 
Lo stadio etico oltrepassa l’universo della fase precedente, ma ne conserva un momento estetico che, coniugato con l’eticità, illumina l’individualità umana. Questa, l’individualità, capolavoro dello stadio etico, costituisce l’esperienza comune, generale e normale dell’uomo in quanto uomo. Montaigne replica anticipatamente a Mill e alla sua dottrina dell’io eccentrico quando, nell’ultima pagina dei suoi lunghi Saggi annota una delle sue convinzioni più profonde: «Le vite più belle sono, a mio parere, quelle che si adattano al modello comune e umano con ordine ma senza miracoli, senza stravaganza». 
In realtà, ogni uomo che nasce, lavora, si fa una casa e muore, partecipa dell’intensità e della drammaticità del dilemma di Achille. Contempliamo questo io quotidiano — capofamiglia responsabile e professionista competente — che invecchia compiendo il suo dovere senza stravaganza e torna a casa ogni giorno dopo una giornata monotona e prevedibile, sì, ma utile per la comunità: in questo io della medietà, di un’esemplarità senza rilievo, risplende la gloria dell’antico eroe. 
Perché in questo io si deve giustamente ammirare l’atto eroico di assumere la propria mortalità, anche se questo eroismo per lo più è velato dal sereno compimento del proprio dovere e dall’assenza di manierismo propria dello stadio etico. 
Anche se il romanticismo, facendo del genio artistico il modello dell’individualità moderna, ci ha resi incapaci di cogliere la nobile semplicità e la serena grandezza dell’etica normale, la più alta missione dell’uomo consiste nel meritare questa normalità. Lungi dal non essere all’altezza dell’uomo, non ne esiste al mondo una più grande e degna di lui, e costituisce un compito così vasto da richiedere un’intera vita.

150000


domenica 7 settembre 2014

Ecce Nietzsche, dal mito alla storia

Anche gli occhi di Jim Morrison si illuminavano 
quando parlava di apollineo e dionisiaco
 
«Spettri di Nietzsche», una storia della fortuna e dei malintesi 
cui andò incontro il filosofo tedesco, scritta da Maurizio Ferraris. 

Dagli esordi come critico della cultura 
alla metafisica dell'Eterno Ritorno e della volontà di potenza

Stefano Catucci

"Il manifesto", 7 settembre 2014

Scriveva Nietzsche a Lou Salomé in una lettera del 1882: «mia cara Lou, il suo pensiero di una riduzione dei sistemi filosofici agli atti personali dei loro autori è veramente il pensiero di un’anima sorella: io stesso ho spiegato a Basilea la storia della filosofia antica in questo senso e dicevo volentieri ai miei ascoltatori: “Questo sistema è morto e sepolto, ma la persona dietro ad esso è incancellabile, la persona non si può affatto seppellire”». Nel pubblicare un saggio sul pensiero di Nietzsche, più di dieci anni dopo, Lou Salomé avrebbe rinunciato a tener fermo questo principio, finendo anzi per separare la filosofia e l’autore al punto da prendere estremamente sul serio anche le idee di cui aveva riso, quando se le era sentite esporre a voce, prima fra tutte quella dell’Eterno Ritorno.
Il nuovo libro di Maurizio Ferraris, Spettri di Nietzsche (Guanda, pp. 250) si inoltra invece proprio nello spazio sottile in cui i filosofemi diventano espressione di una personalità e questa, a sua volta, sintomo di un’epoca, così che per sbrogliare la matassa e comprendere l’influenza esercitata da Nietzsche lungo più di un secolo occorre seguire passo dopo passo non solo i movimenti del pensiero, ma anche quelli dell’autore.
Certo, per compiere un’operazione critica di questo tipo non si può rimanere nella cornice accademica di un’osservazione neutrale, «scientifica». Bisogna invece mettersi in gioco in prima persona e farsi carico del valore filosofico di un doppio inseguimento che pone in questione, inevitabilmente, anche una parte di sé. Ferraris affronta questo nodo fornendoci anche la cronaca di un rapporto di lunga data che lo ha portato, nel corso degli anni, non solo all’interno dei testi di Nietzsche e delle grandi costellazioni dei commenti, ma anche nei luoghi nei quali il filosofo tedesco ha vissuto o è passato, a cominciare dalle sue numerose tappe italiane. Per questo il testo si dispiega su più livelli e tiene insieme documenti di carattere molto diverso, tutti accreditati di una identica dignità narrativa e testimoniale: interpretazioni filosofiche, canzoni, poesie, guide turistiche, dichiarazioni politiche, iscrizioni incise sulle targhe che segnalano le case in cui Nietzsche ha dimorato, in un continuo contrappunto fra un pensiero, il suo sfondo esistenziale, la storia delle sue origini e quella dei suoi effetti.
L’argomentazione è tipicamente digressiva, come lo era quella dei romanzi filosofici di Diderot, che in Jacques il fatalista aveva come unico collegamento fra un episodio e un altro la domanda ricorrente che il padrone rivolgeva al suo facondo servitore: «raccontami dei tuoi amori». Qui è Ferraris a raccontarci di un amore filosofico, che ha pedinato lungo tutti i luoghi da cui prendono il titolo
i capitoli del libro: Torino, Sils Maria, Lenzerheide, Nizza, Rapallo, Orta, Silvaplana, Sorrento, Basilea, passando per Berlino, per Röcken e per altre località che occupano ciascuna un proprio rilievo, come Recoaro, stazione termale in cui Nietzsche soggiornò brevemente nel 1881 e che fu teatro, cent’anni dopo, di un grande convegno internazionale organizzato dall’Istituto Gramsci.
Poiché il libro non vuole tessere la trama di una biografia di Nietzsche, ma disegnarne una mappa, l’articolazione dei capitoli non segue un andamento cronologico. Si passa di stazione in stazione attraverso associazioni di idee, risalendo una traccia apparentemente irrilevante, oppure fermandosi a approfondire un tema portante chiamando in causa gran parte della letteratura critica, come se la tecnica della scrittura volesse riprodurre il ritmo di un ipertesto.
Accanto alle pagine che ricostruiscono geografia e idiosincrasie della filosofia di Nietzsche troviamo così analisi magistrali di snodi decisivi: la dipendenza di alcune intuizioni giovanili dalla divulgazione scientifica del suo tempo, a cominciare dalla Storia del materialismo di Friedrich Albert Lange; la derivazione scientifico-mistica della teoria dell’Eterno Ritorno, nutrita anche dagli studi sulla natura delle comete di Frank Zöllner; l’apologo del Crepuscolo degli idoli sul «mondo vero» ormai ridotto a «favola», ovvero – come osserva Ferraris – «la chiave di volta del postmoderno», quella per cui «la realtà è socialmente costruita, nulla esiste al di fuori del testo, il sapere è solo un effetto di potere, il mondo si guarda da infinite prospettive che corrispondono ai nostri bisogni vitali in conflitto tra loro» e «non ci sono cose in sé, ma solo in relazione a osservatori».
Se si pensa al percorso compiuto da Maurizio Ferraris verso l’approdo al «nuovo realismo», si comprende come questo libro sia soprattutto un gesto di commiato nei confronti di Nietzsche, con l’auspicio che il distacco non sia solo personale, ma corrisponda a una svolta più ampia della filosofia del nostro tempo. Il titolo ricalca volutamente gli Spettri di Marx che Derrida vide aggirarsi fra le macerie del mondo post-comunista, dopo il fatidico 1989. I fantasmi agitati dal pensiero e dalla personalità di Nietzsche sono però di tutt’altro tipo e sono quasi compensatori rispetto alla frustrazione delle rivoluzioni mancate o tradite. Sono gli spettri «di una insofferenza narcisistica, di un ribellismo antiborghese» e «di un attivismo da biblioteca» che ancora percorre il nostro paesaggio culturale e che un altro teorico del realismo, György Lukács, aveva evidenziato con parole oggi recuperate da Ferraris dopo il lungo periodo di discredito in cui sono state gettate dalla riabilitazione filologica, accademica e politica di Nietzsche cominciata negli anni cinquanta.
La «missione sociale» della filosofia nietzschiana, secondo Lukács, consiste nel rendere superflua ogni rottura nell’ordine sociale delle cose facendo appello a una rivoluzione più profonda, «cosmico-biologica», all’annuncio indeterminato di Zarathustra, che può rendere gradito e seducente anche il senso del proprio essere ribelli. Ferraris, dal canto suo, vede nella filosofia del superuomo e della volontà di potenza una paradossale apologia del conformismo travestito con le maschere dell’aristocrazia e della trasgressione.
Nietzsche tentò di presentare la sua vita così malinconica, solitaria, malata, continuamente in bilico sul limite del crollo psicofisico, come l’espressione universale e necessaria di un destino tragico identico a quello di un’epoca intera.
Ferraris vede al contrario, nell’esigenza di distaccarsi da Nietzsche, un passaggio esemplare per la filosofia di oggi, come rivendica nella Postilla che contiene, di fatto, la chiave di costruzione e di lettura dell’intero libro. Per questo ridiscende dal livello del mito, che ossessionò Nietzsche quale specchio della sua stessa esistenza, all’ambito della historia, dove tutto ciò che appariva tragico e straordinario si rivela umanamente fragile e contingente. «Tutto quello che rimane di Nietzsche», scrive allora Ferraris, «non è che lo stile, un idioma, una individualità, l’unicità di una firma, cioè una imperfezione e un errore, e anche un tentativo di seduzione, che aleggia nella prosa, nei simboli, negli effetti». Eppure, insieme a tutto quanto c’è di idiomatico nella vicenda di un filosofo che ottenne l’agognato successo intellettuale solo quando non era più in grado di intendere e di volere, rimane anche un’eredità da cui non ci si distacca mai del tutto, perché somiglia a un rito di passaggio. È il momento dionisiaco, «universo immaginario» in cui Nietzsche proietta le sue mortificazioni ammantandole «di un’aura arcaica e originaria», ma anche «tonalità emotiva fondamentale» del suo pensiero che scompare alla vista e ricompare come un «fiume carsico» che spesso emerge in modo eccentrico e inaspettato.
Nella sua contrapposizione al momento apollineo, che per Nietzsche si identifica con la filosofia dell’Illuminismo, il motivo dionisiaco ha per Ferraris qualcosa di inguaribilmente superstizioso e di retrivo, è ciò che prepara la distruzione del mondo vero in favore dell’idea per cui «non ci sono fatti ma solo interpretazioni». Al tempo stesso il suo radicarsi in esperienze immersive e spontaneamente magmatiche – per esempio nella musica, oppure nell’assunzione di sostanze o farmaci che investono quanto aveva chiamato, all’inizio di Umano, troppo umano, «la chimica delle idee e dei sentimenti» – mostra che il dionisiaco è un elemento potenziale di crescita, un impulso al superamento della fase nichilistica dell’esistenza in favore di una stagione più costruttiva e condivisa, che si può conquistare anche grazie all’intervento correttivo del principio socratico per eccellenza, l’ironia, della quale Ferraris fa largo uso in chiave filosofica.
Racconta per esempio, di essersi recato nel 1972, a sedici anni, al cimitero parigino di Père Lachaise per visitare la tomba di Jim Morrison, il leader dei Doors morto l’anno prima, che si era dichiarato lettore di Nietzsche e aveva affermato come per capire davvero la sua musica bisognasse leggere La nascita della tragedia. «Vidi la tomba coperta di spinelli» ricorda Ferraris, «e un distico eptasillabico scritto con lo spray che prometteva una resurrezione lisergica: “Jim est mort, ne nous importe / car un trip nous le remporte” (Jim è morto, ma non c’importa / perché un trip ce lo riporta”)». Un verso memorabile e irriverente che condensa nella sua tragica leggerezza il «passaggio Nietzsche» che Ferraris indica come un rito da attraversare, nel corso di una vita filosofica; ma per andare oltre, superando il rischio di perdersi, di incantarsi o impantanarsi di fronte alla forza incantatrice dei suoi spettri.