lunedì 22 giugno 2015

Baudelaire. Il poeta maledetto deluso dal Progresso e attratto dalla strada



"La Repubblica", 21 giugno 2015

Daria Galateria

ALCUNI DEI VERSI EROTICI per cui andò a processo per immoralità, Baudelaire li aveva presi direttamente dalla Bibbia. “Il ventre e i suoi seni, grappoli della mia vigna” (“ che i tuoi seni siano per me come grappoli della vigna”, Cantico dei Cantici, VII, 9). È la poesia I gioielli (l’amante, la splendida mulatta Jeanne Duval dalle reni “polite come olio”, si è lasciata addosso solo i gioielli tintinnanti: “ La très chére était nue, et, connaissant mon coeur , / Elle n’avait gardé que ses bijoux sonores ”). Ma le poesie che il pubblico ministero Pinard lesse nella requisitoria di un torrido 20 agosto 1857 restano ancora smaglianti, atroci e lesive (“Fare al tuo fianco attonito una ferita larga e profonda / e, vertiginosa dolcezza! Attraverso quelle nuove labbra… infonderti il mio veleno, o sorella!” (la “ferita” di quali nuove profonde labbra? E quale “veleno” — il seme, la sifilide?).
Lesse, Pinard, della «maschia Saffo, la amante e il poeta» che onora dei suoi pallori d’amore l’isola di Lesbo (dove i baci vanno “ gloussant” — Mérimée aveva appena appreso, in carcere, il verbo tecnico onomatopeico degli amori saffici, gnugnotter). Del resto nell’arringa il temibile Pinard — intimidito dalla scoperta che il poeta della bohème parigina si era rivelato figliastro di un senatore amico di Napoleone III — mostrò piena lucidità critica: l’imputato Baudelaire aveva sì scelto il partito della classicità, dei ritmi regolari, «monotoni»: e però alla fin fine «arriva alla testa, inebria i nervi; turba, dà le vertigini, e può anche uccidere». Il verdetto riconobbe l’impeccabile eleganza formale della raccolta, ma per il loro effetto «funesto» comminò al poeta un’ammenda, e la soppressione di sei poesie.
Sono stanco di essere considerato un lupo mannaro, scrisse a un amico Baudelaire. Girando per la città, raccoglieva, per farne poesia — come facevano nella notte i fraterni straccivendoli con i rifiuti delle metropoli da cui ancora si possa ricavare dell’oro — i diseredati del moderno, le vecchine “smembrate” che sono state donne, i ciechi che volgono al cielo, come una preghiera vuota, i globi incolori, gli operai che vanno a bere nelle bettole fuori città, dove il vino è meno caro. Il deluso del Progresso (la rivoluzione è turpe “come un trasloco”) traccia su un foglietto un ritratto di Blanqui, bello come un Satana. E, sul retro, appunta i versi di Longfellow e di Gray che citerà nel Guignon, “la scalogna”: e se il sonetto fosse un ritratto malinconico del grande utopista? E se — come voleva la sua fredda eleganza artificiale di dandy — considerava le donne naturali e perciò abominevoli, come mai cita Théroigne, la femminista rivoluzionaria? Nella vita, i suoi sentimenti andavano verso le piccole prostitute del Quartiere latino, come Sara l’Ebrea (“metteresti l’intero universo nel tuo letto”), o a povere attrici che non potevano disdegnare gli amori venali — anche se bastava uno sguardo, e una
Passante in gramaglie dal maestoso dolore poteva suggerire al poeta uno dei più bei versi dei piaceri irrealizzati: “Oh tu che avrei amato! Oh tu che lo sapevi.”


Les fleurs de Charles

“Meno bianco nei testi”, “Più aria in quella pagina”,
 “Cambierei la dedica”, “Non sarebbe meglio togliere « poesie di...»?”

Escono in Francia, in una nuova edizione arricchita dai disegni di Rodin, le correzioni infinite che Baudelaire sottoponeva all’editore 
prima che i suoi “Fiori del Male” vedessero finalmente la luce. 
E che lui, per quei suoi versi scandalosi, finisse in tribunale

Anais Ginori

PARIGI SI SPAZIENTISCE ogni giorno di più l’editore Auguste Poulet-Malassis: «Mio caro Baudelaire, da due mesi stiamo rileggendo I fiori del Male e ne abbiamo stampato solo cinque pagine». Non può mandare in tipografia il fatidico volume fino a quando non riuscirà a sottrarne il manoscritto dalla mani del poeta. Che oltre a essere dandy, bohème e maledetto, è anche un maniaco della precisione, un perfezionista, correttore di se stesso a oltranza. Le bozze di stampa del 1857 sono un campo di battaglia. Note a margine, passaggi sbarrati, altri aggiunti, dubbi, intuizioni, commenti per l’editore e il tipografo. Baudelaire controlla tutto, non solo i suoi versi, ma anche la grafica, l’impaginazione, la grandezza dei caratteri. Il manoscritto originale de Les fleurs du Mal non è mai stato ritrovato. L’unica traccia che resta del continuo travaglio intellettuale di Baudelaire sono le bozze utilizzate dall’autore e dall’editore, pubblicate ora per la prima volta in Francia in un’edizione facsimile in tiratura limitata dalle Éditions des Saints Pères. Ogni pagina è stata restaurata, come in un quadro. Un oggetto preziosissimo, al quale sono stati aggiunti disegni inediti di Auguste Rodin. L’editore des Saints Pères si è specializzato nella pubblicazione di manoscritti originali. In poco più di un anno ha già stampato in tirature limitate La schiuma dei giorni di Boris Vian, Viaggio al termine della notte di Céline. Una piccola casa editrice creata da una ragazza, Jessica Nelson, appassionata di libri. Non di ebook, come tanti della sua generazione, ma di libri di carta, da toccare e ammirare nella migliore versione possibile.
Le bozze di stampa de I fiori del Male furono acquistate dalla Biblioteca nazionale di Francia nel 1998. Lo straordinario documento letterario venne messo all’asta da Drouot a Parigi e la Bnf esercitò il diritto di prelazione pagando la cifra colossale di 3,2 milioni di franchi (quasi cinquecentomila euro). Ne valeva la pena. Sfogliando la nuova edizione, pagina dopo pagina sembra di rivivere il tormento del poeta ad ogni riga. Prima di stampare il libro, il 25 giugno 1857, con l’editore Poulet-Malassis et de Broise, Baudelaire esercita un’attenzione ossessiva sulla rilettura, anche se il capolavoro dell’inventore dello Spleen e irriducibile flâneur è già pronto da tempo: la maggior parte delle poesie sono state scritte tra il 1841 e il 1850. È riuscito però con una certa fatica a far pubblicare le sue poesie su giornali e riviste, organizzando invece letture nei café parigini. L’incontro con Poulet-Malassis è dunque decisivo. Firmano insieme il contratto per Les Fleurs du Mal il 30 dicembre 1856 e il manoscritto viene consegnato subito, il 6 febbraio 1857. L’editore immagina di poter andare in stampa qualche settimana dopo. Ma si sbaglia. La rilettura dura più di quattro mesi. Come Balzac o Proust, Baudelaire corregge fino all’ultimo i suoi testi. Il poeta è attento non sono alla metrica, a ogni aggettivo, ma anche all’ortografia, alla punteggiatura, critica la grafica, chiedendo «più aria» o «meno bianco» nei testi.
Nonostante i continui richiami dell’editore, l’autore non è disposto ad accorciare i tempi. Si abbandona a ogni tipo di esitazione. Come sulla poesia Benedizione nella quale Baudelaire si domanda se è il caso di scrivere « blasphême », « Blasphême » o forse «blasphème ». Fa anche autocritica. Accanto a Spleen IV, annota il numero di pagine della raccolta: «245, pietoso, molto pietoso. E non c’è rimedio perché non mi preoccupo di scrivere nuovi versi e sonetti». Il lavoro di bozze è così puntiglioso e sofferto che Poulet- Malassis sembra quasi rassegnato. E confida agli amici: «I Fiori del Male usciranno quando vorrà Dio, e Baudelaire». Prima di dare finalmente il “Bon à tirer ”, il visto si stampi, il poeta aggiunge in extremis ancora qualche modifica. La dedica iniziale a Théophile Gautier viene cancellata: Baudelaire chiede a Gautier di fare da «padrino » ai suoi «fiori malaticci». Il poeta sceglie un più sobrio «Al mio amico e maestro». «Mi sembrerebbe meglio abbassare la dedica in modo da farla apparire a metà pagina » chiede però Baudelaire all’editore, anche se poi aggiunge: «Mi affido al suo gusto». Poi però imperversa ancora: «Sarebbe meglio mettere Fleurs in corsivo, o in stampatello corsivo» visto che si tratta, dice, di un « titre- calembour », ovvero un titolo che è anche gioco di parole.
Les Fleurs du Mal viene finalmente stampato ad Alençon, in Bassa Normandia, pubblicato il 25 giugno 1857. La raccolta dà scandalo. Il 5 luglio il critico del Figaro , Gustave Bourdin, parla di un’opera in cui «l’odioso s’accompagna all’ignobile» e «il repellente sporca l’infetto ». Due giorni dopo la procura di Parigi apre un fascicolo per “attentato alla morale pubblica, alla morale religiosa e al buon costume”. Gli stessi capi d’imputazione di Flaubert per Madame Bovary.
Per la seconda edizione, Baudelaire cambierà ancora l’architettura della raccolta, di cui solo lui ha il segreto: toglie le sei poesie bandite dai giudici ma ne aggiunge altre trentacinque. Poi sarà costretto all’esilio, in Belgio, e morirà pochi anni dopo con la consapevolezza di aver scritto un capolavoro. «Mi viene rifiutato tutto: lo spirito d’invenzione e persino della lingua francese» scriveva alla madre nel luglio 1857, durante il processo. «Mi faccio scherno di tutti questi imbecilli, e so che questo volume, con le sue qualità e i suoi difetti, farà il suo cammino nella memoria del pubblico letterato, accanto alle migliori poesie di Hugo, Gautier e persino di Byron».

giovedì 18 giugno 2015

Non solo touch il riscatto della ragione superficiale


Dagli schermi dei tablet ai monitor negli aeroporti: 
così la nostra vita ha perso il senso della profondità

M. Niola

“La Repubblica”, 18 giugno 2015

La superficie non va mai trattata con superficialità. Lo dice Nietzsche nella Gaia scienza, quando riconosce ai Greci la superiore capacità di «arrestarsi animosamente alla superficie» delle cose.
Senza mai cadere nella trappola della profondità, della verità invisibile, del significato nascosto. La grandezza della civiltà di Omero stava insomma nel saper trovare il senso della vita arrestandosi all'increspatura, alla scorza delle cose. Forme, suoni, parole. Ovvero lo scintillante Olimpo dell'apparenza. Quell'Olimpo oggi riaffiora come un millenario fiume carsico in piena civiltà dell'immagine.
E, sospinto dalle correnti della tecnologia, si installa saldamente nel nostro immaginario. Aggiornando un'applicazione che la nostra cultura, a dispetto di duemila anni di Cristianesimo, non ha mai veramente eliminato dal suo menu cognitivo, etico ed estetico.
E che la crucialità della superficie torni ad essere un pensiero dominante, nel bene e nel male, lo prova perfino il fatto che l'Onu ha proclamato il 2015 anno internazionale del suolo. In altri termini, il vero problema del pianeta è la scorza, per dirla con Nietzsche. Che si tratti di terre vulnerabili, coltivabili, edificabili, riciclabili, accaparrabili è sempre questione di superfici. Estensioni sensibili. Non mere distese inerti, dunque, ma interfaccia comunicanti tra uomo e natura.
Il fatto è che oggi, forse per effetto della digitalizzazione della realtà, torniamo a pensare la vita come superficie e non come profondità. Come una dimensione orizzontale. Senza trascendenza. Una immanenza sconfinata, densa, porosa, connettiva. Insomma, ridiventiamo Greci, ma virtualmente.
E che la superficie sia una password per entrare nel presente lo dice a chiare lettere Giuliana Bruno, professore di Visual and Environmental Studies ad Harvard. Che dedica al tema un bellissimo libro, intitolato, Surface: matter of aesthetics, materiality, and media (Superficie: questioni di estetica, materialità e media, University of Chicago Press, pagg. 277 pagine, dollari 45) che sta avendo un grandissimo successo in tutto il mondo. Secondo Bruno, la nostra vita è tutta un gioco di superfici. Dalla pelle alla pellicola, passando per gli abiti che rivelano chi siamo a noi stessi e agli altri. Fino agli schermi, ormai onnipresenti nella nostra vita, pubblica e privata. Dal cinema alla televisione, dal tablet allo smartphone. E a tutti i monitor di cui sono pieni aeroporti, stazioni, supermercati, ospedali. Senza dire di quei dispositivi che portiamo addosso e che registrano tutto di noi, dai passi al battito cardiaco.
Questi schermi, grandi o piccoli, sono la vera superficie materiale della vita contemporanea. E adesso, con l'evoluzione del touch screen, la reificazione delle immagini smette di essere una metafora per ritrovare una dimensione fisica. Una concretezza magicamente tangibile. É l'avvento della svolta tattile, già annunciata da Marshall McLuhan negli anni Cinquanta, che fa dei sensi i drive dell'intelligenza e del tatto il supersenso.
Non è un caso che il tocco, come dicono molti scienziati cognitivi, sia il senso del presente, quello che ha l'immediatezza del pensiero nei polpastrelli, recettori che accendono simultaneamente sensazioni, rappresentazioni, visioni, passioni, emozioni. Con uno straordinario cortocircuito tra superficialità e profondità, tra finitudine del supporto e infinitudine delle funzioni, fra cosa e rappresentazione. Molto vicino a quello che i Greci chiamavano percezione aptica. Cioè il riconoscimento multisensoriale degli oggetti che passa attraverso la mano. E che, tiene a precisare Giuliana Bruno, «è molto più del tatto. È con-tatto». É comunicazione. Sinestesia che fa lavorare insieme tutti i sensi e apre nuove porte della conoscenza. Questo era vero per la scultura antica, che era tutta un trionfo della superficialità sensibile, dell'apparenza densa, della forma eloquente. Ed è altrettanto vero per l'architettura e le arti contemporanee, che lavorano sempre di più su lamine di cose, veli di luce, muri che diventano schermi e schermi che diventano muri, tessuti, textures. Andando al di là del limite tra animato e inanimato. Tra forma architettonica e forma vivente. Come nel caso della ristrutturazione del Lincoln Center di New York, realizzata da Elizabeth Diller, Ricardo Scofidio e Charles Renfro. Che hanno rivestito l'intero edificio della corteccia di un solo albero. Una pellicola inconsutile, una materia subtilis, una membrana schermo che si accende di luce soffusa e sembra quasi che arrossisca. E del resto, aggiunge Bruno, «sulla superficie della nostra pelle abbiamo sempre fatto affiorare sensazioni ed emozioni, affetti e sentimenti.
Non a caso i nuovi strumenti tecnologici fanno sempre più leva sull'interazione aptica. E perfino quando sfioriamo il simulacro di un tasto, gratificano la nostra aspettativa corporea, restituendoci la sensazione di una breve vibrazione.
Così vedere e toccare, sentire e pensare diventano una sola cosa. E le superfici si fanno sensibili come link, punti di connessione tra luoghi, storie, umanità. Mentre gli schermi trasformano il tempo in spazio, in cosa. Ne fanno una "materia che si consuma", come dicevano gli Inca. Stiamo assistendo insomma all'ultima metamorfosi della superficie. Che non è più il luogo sul quale proiettare le ombre del nostro pensiero. Come il fondo della caverna platonica. O come il cinema. Che, non per nulla, nasce negli stessi anni in cui Freud scrive L'interpretazione dei sogni inventando di fatto il proiettore dell'inconscio. Oggi invece le superfici retroilluminate dei nostri schermi invertono il fascio di luce della proiezione. E noi quelle immagini le introiettiamo. Sono loro a venire verso di noi.
Proprio come gli eidola del mondo antico, parvenze create dalla fantasia degli uomini che prendevano corpo per una sorta di magia. Al tempo della tecnologia gli eidola sono fatti della stessa sostanza di cui sono fatti gli schermi. Superfici intelligenti che trasformano il pensiero in materia. La res cogitans in res extensa.

Dall'introduzione a Surface: matter of aesthetics, materiality, and media, di Giuliana Bruno
There exist what we call images of things,
Which as it were peeled off from the surfaces
Of objects, fly this way and that through the air. . . .
I say therefore that likenesses or thin shapes
Are sent out from the surfaces of things
Which we must call as it were their films or bark.
T. Lucretius Caro, De rerum natura
For Lucretius, the image is a thing. It is configured like a cloth, released as matter that flies out into the air. In this way, as the Epicurean philosopher and poet suggests to us, something important is shown: the material of an image manifests itself on the surface. Lucretius describes the surface of things as something that may flare out, giving forth dazzling shapes. It is as if it could be virtually peeled off, like a layer of substance, forming a “bark,” or leaving a sediment, a veneer, a “film.” This poetic description and its philosophical fabrication go to the heart of my concern in this book as I approach materiality in the virtual age, seeking to show how it manifests itself on the surface tension of media in our times. What is the place of materiality in our contemporary world? In this age of virtuality, with its rapidly changing materials and media, what role can materiality have? How is it fashioned in the arts or manifested in technology? Could it be refashioned? These are some foundational questions asked in this book, which investigates the surface as it embodies the relation of materiality to aesthetics, technology, and temporality.