mercoledì 27 gennaio 2016

Lo sforzo autolesionista di demolire la nostra lingua


Adolfo Scotto di Luzio

"Corriere della Sera", 27 gennaio 2016


Join the Navy, «entra in marina». L’invito non viene da Annapolis, Maryland, dove ha sede la più importante accademia navale degli Stati Uniti d’America. Più domesticamente, da Roma. Lo slogan compare sui manifesti che in questi giorni annunciano nelle nostre città la nuova campagna di reclutamento della Marina militare italiana. Dopo il «Be cool and join the Navy» del 2015, qualcosa che in italiano suona come «Fai il fico ed entra in marina», lo Stato maggiore insiste con un giovanilismo di maniera che si pretende dinamico e internazionale ma che, riferito a un’istituzione militare della Repubblica italiana, suona alquanto privo di senso.
Non c’è dimensione pubblica del nostro Paese, ormai, che non sia affidata a pubblicitari e creativi di ogni risma per i quali l’uso dell’inglese è diventato una specie di tic nervoso. Clamoroso è lo slogan inventato per Roma, RoMe & You, «Roma, Io e Te», che ha finito per renderne irriconoscibile finanche il nome. Un paradosso non da poco per chi, dovendo vendere un marchio, lo confonde sotto un gioco grafico e linguistico buono, forse, per una paninoteca dalle parti di Campo de’ Fiori.
Non fa eccezione a questo andazzo sciatto e autolesionistico il ministero della Pubblica istruzione. Da tempo nella scuola italiana circola un nuovo latinorum che mescola alle vecchie formule della burocrazia un gergo monotonamente ripetitivo degno di un call center. Basta prendere il piano della scuola digitale del Miur e aprirlo a caso. È un succedersi di Acceleration Camp, percorsi di accelerazione per stimolare lo spirito di intrapresa nei giovani. Ci sono i Contamination Lab, luoghi di contaminazione interdisciplinare. Le studentesse patiscono i confidence gap, il pregiudizio di genere in ambito scientifico e tecnologico. Il ministero risponde con «Girls in Tech & Science». Su questo linguaggio c’è poco da dire, se non che è refrattario a qualsiasi elaborazione intellettuale.
Ma che dire, invece, dello obbligo d’insegnare in lingua straniera una materia non linguistica imposto nelle scuole superiori, in quinta? È il famigerato Clil, acronimo inglese, che sta per apprendimento integrato di lingua e contenuto. Nasce dalle escogitazioni multilinguistiche di un esperto di origini australiane che fa base in Finlandia. Si prefigge il conseguimento di un livello di estrema generalizzazione linguistica al di sopra delle differenze «dialettali» fra cittadini europei. Un progetto di vasta portata, per chi lo ha concepito; un’idea, invece, da pezzenti culturali a ben vedere. Non si danno più ore alle lingue straniere. Né si assumono insegnanti specialisti. Niente di tutto questo.
Si sottraggono, invece, al dominio dell’italiano contenuti culturali importanti e insieme si svilisce il valore di questi stessi contenuti, riducendoli a mero supporto della lingua straniera. Soprattutto, se il ministero presuppone negli insegnanti certificazioni linguistiche che di fatto non posseggono, dà per scontato che gli studenti siano in grado di prendere attivamente parte a lezioni in lingue che non padroneggiano. Gli effetti semplificatori sui contenuti saranno, inevitabilmente, disastrosi.
La lingua, tanto quella straniera che l’italiano, qui è concepita come un mero strumento e non come un terreno sul quale sorgono, nel tempo, pensieri e idee, sentimenti. In questo modo gli italiani vengono educati, fin dalle aule scolastiche, a formarsi un’ immagine opaca del mondo per mezzo di parole generiche e vuote.
Da qualche tempo si sente ripetere che l’Italia è tornata protagonista. Per il momento sembra più che altro sommersa dalla fuffa.

sabato 23 gennaio 2016

Germinal, l’opera nera. E no


Pietro Citati, 

"Corriere della Sera", 21 gennaio 2016

Émile Zola è lo scrittore più popolare della Francia: alla fine del Ventesimo secolo, le collezioni di tascabili hanno venduto venticinque milioni di copie dei suoi romanzi. Nel nostro Paese, invece, Zola è poco letto e poco amato; ed è dunque molto proficua la recente edizione dei Meridiani, che pubblica nove romanzi in tre volumi. Da poco sono usciti Germinal, La terra, La bestia umana, curati in modo eccellente da Pierluigi Pellini e tradotti da Giovanni Bogliolo, Donata Feroldi e Dario Gibelli. Zola cominciò a scrivere Germinal, il più famoso e forse il più bello dei suoi romanzi, nell’aprile 1884, dopo aver studiato la questione mineraria, e dopo un viaggio a Valenciennes, il principale modello di Montsou, dove si concentrano le vicende del libro. Un anno più tardi lo pubblicò in quarantamila esemplari: una tiratura alta anche oggi.
In primo luogo, Germinal è un libro nero. La pianura nuda è dominata da una notte senza stelle, illuminata dai rari fuochi azzurri degli altiforni e da quelli rossi dei forni a coke: essa è spazzata da una tramontana gelida con grandi soffi che si succedono regolari come colpi di falce; oppure bagnata dalla pioggia che scende lenta, cancellando ogni cosa in fondo al suo monotono picchiettio. La notte seppellisce la terra come un sudario. Si moltiplica nel cuore della miniera, ispessita dalla polvere di carbone sospesa nell’aria, e appesantita dai gas che gravano sugli occhi dei minatori. Sentiamo un rumore sordo, che sembra provenire dalle viscere della terra, e che nasce dallo sfiatatoio della grande pompa: un respiro lungo, greve, incessante, simile all’ansimare strozzato del mondo. Tutto, la notte, la miniera, il respiro dello sfiatatoio, è tenebra; e questa tenebra non è un’assenza di colore, ma, come diceva Huysmans, il colore supremo, la molteplicità di tutti i colori, che occupa in modo stabile la mente di Zola.
La miniera è accucciata in fondo a un avvallamento: con edifici tozzi di mattoni e una ciminiera alta trenta metri, ritta come un cono minaccioso. Il suo aspetto è malvagio: sembra una bestia ingorda, un mostro accoccolato per divorare la gente. Zola si sforza di descriverla: insiste, ripete, insiste ancora, fallisce; finché, secondo la profonda inclinazione della sua natura, parla, con una specie di religioso tremore, di un «tabernacolo», in cui si nasconde, accucciato e satollo, il dio al quale tutti i minatori e tutti gli uomini offrono la propria carne.
Questo dio è inanimato: è una cosa nella sua essenza profonda: ma subito diventa animalesco; il pozzo inghiotte gli uomini a bocconi di venti o trenta per volta, e li manda giù per la gola, come se non li sentisse nemmeno passare. Ciò che è animalesco diventa umano: i cavalli, che stanno chiusi in fondo alla miniera e non risalgono mai alla luce, rivedono con la mente il mulino dove sono nati, continuamente battuto dal vento, e fanno inutili sforzi per ricordare l’infanzia. Intanto la pompa della miniera continua a soffiare con lo stesso respiro lungo e greve: il respiro di un orco umano che nulla può saziare.
Passando dal simbolo alla realtà, Zola descrive gli uomini che affollano la pianura di Montsou. Essi non sono, in realtà, uomini, ma insetti o spettri. In fondo alla miniera, si agitano forme fantomatiche, lasciando intravedere un’anca, un braccio nodoso, una faccia rabbiosa, imbrattata di polvere di carbone come per commettere meglio un delitto. Essi sudano: ansimano: le giunture dei corpi scricchiolano, ma senza un lamento, con l’indifferenza dell’abitudine, come se vivere così piegati fosse il destino comune di tutti gli uomini. Si spogliano: scavano la roccia: si intridono di fanghiglia nera fino al capo; come talpe in fondo a una tana, sotto il peso della terra, senza più fiato nei corpi arroventati.
Quando la Compagnia mineraria aggrava le loro condizioni di vita, i minatori entrano in sciopero. I borghesi trovano divertente lo sciopero: ma, in fondo alla loro allegria forzata, c’è una sorda paura, tradita da occhiate involontarie. Sul piazzale della miniera grava un pesante silenzio: quella di Montsou è una fabbrica morta: i grandi cantieri sono vuoti; nel cielo di dicembre, tre o quattro vagoni abbandonati hanno la muta tristezza delle cose dimenticate. In questo momento, alla tradizionale disciplina dei minatori si aggiunge un orgoglio da soldati: gente fiera del proprio mestiere, che dalla lotta quotidiana contro la morte ha appreso l’esaltazione del sacrificio.
Tra i minatori di Montsou, giungono estranei. Étienne Lantier, che viene dalla città, appare in altri volumi dei Rougon-Macquart, il grande ciclo di Zola. Egli non tollera i doni della Compagnia: detesta i borghesi: non vuole farsi ridurre come una bestia accecata e schiacciata; ma immagina una rigenerazione universale di popoli senza una goccia di sangue. Suvarin è un anarchico, che viene da Pietroburgo. «Piantatela — grida — con la vostra evoluzione! Appiccate il fuoco ai quattro angoli della terra, sterminate i popoli, radete al suolo tutto quanto. Quando non resterà più niente di questo mondo, allora forse ne nascerà uno migliore. Lo volete capire? Bisogna distruggere tutto. Sì, l’anarchia. Più niente. La terra lavata dal sangue, purificata dall’incendio...!».
Lo sciopero si estende e diventa violento. Quando i minatori arrivano al pozzo di Gaston-Marie, duemilacinquecento forsennati spaccano e spazzano via tutto, con la forza impetuosa di un torrente in piena. Ribaltano i fornelli, svuotano le caldaie, devastano gli edifici. Si gettano sopra la pompa, come se fosse una persona a cui vogliono togliere la vita: la massacrano a colpi di mattoni e sbarre di ferro. Allora l’acqua comincia a sgorgare. Quando esce completamente, un ultimo gorgoglio sembra il singulto di un agonizzante. Lo sciopero dura due mesi. La rabbia, la fame, le scorribande trasformano i placidi volti dei minatori di Montsou in fauci di bestie feroci. I raggi del sole al tramonto insanguinano la pianura. Il nero del libro diventa rosso, scarlatto, accrescendo la propria violenza tenebrosa. I minatori si chiudono in casa, in preda alla fame e alla ostinazione passiva. La loro forza cieca divora sé stessa.
Intanto Suvarin è sempre più assorbito in un’idea fissa, che sembra brillare come un chiodo d’acciaio in fondo ai suoi occhi chiari. Egli sabota la miniera. Poi si allontana senza guardarsi alle spalle nella notte tenebrosa: con la sua aria tranquilla, va verso lo sterminio, dovunque ci sia dinamite per far saltare uomini e città.
Sottoterra, scorre il Torrente, un mare inesplicato, con le sue tempeste e i suoi naufragi, che agita i propri flutti neri a trecento metri dalla luce del sole. La miniera si riempie d’acqua. La grande pompa ansimante non riesce a smaltirla. Il rivestimento del pozzo si stacca. In alto si sente una serie di sorde detonazioni: tavole di legno si fendono e si schiantano in mezzo al continuo e crescente frastuono del diluvio. Si sentono bruschi rimbombi: rumori irregolari di cadute profonde, seguiti da lunghi silenzi. La ferita della miniera si allarga: la frana, cominciata in basso, si avvicina alla superficie. Una prima scossa fa tremare il terreno, seguita da una seconda. Da quel momento il suolo non smette di tremare: un susseguirsi di scosse, cedimenti sotterranei, boati di vulcani, e infine un’ultima convulsione. L’alta ciminiera crolla in blocco, bevuta dalla terra come un cero colossale. Tutta la miniera sprofonda in un lago d’acqua melmosa: mentre i cavalli, chiusi nelle stalle sotterranee, impazziscono con nitriti furibondi.
Nel pozzo rimane Étienne, insieme a una ragazza, Catherine Maheu, che egli ama di un amore contrastato. La lampada si spezza. Sopra di loro, scende la notte assoluta. Entrambi accusano ronzii alle orecchie: sentono i rintocchi furiosi di una campana a martello, il galoppo interminabile di una mandria sotto un rovescio di grandine. Étienne avvinghia Catherine e la possiede: «Quella fu finalmente la loro notte di nozze, in fondo a quella tomba, su quel letto di melma, per l’ostinato bisogno di vivere un’ultima volta». Catherine muore. Étienne viene salvato e portato in alto, alla luce del sole. Come i grandi romanzi romantici, Germinal conosce il proprio senso ultimo nella fusione di Eros e Thanatos, amore e morte.
Il titolo del bellissimo libro indica il settimo mese, Germinal, nel calendario della rivoluzione francese: dal marzo all’aprile. Al tempo stesso, annuncia il ritorno e la vittoria della primavera: la nascita, la vita, la germinazione. Tutte le cose germinano: anche ciò che è morto, o non è mai esistito: persino Catherine annegata in fondo al pozzo; eppure esse sono nere, come l’eterna notte senza stelle che apre il romanzo. I libri di Zola sono sempre così: realistici e onirici, razionali e mistici, riuniscono disperatamente e trionfalmente gli estremi dell’universo.

Il Carnevale è morto viva il Carnevale


Era il momento della trasgressione temporanea, 
funzionale a riconfermare l’ordine per il resto dell’anno
Ma ora che viviamo immersi in un disordine continuo, e tutto si contamina con tutto, la “festa dei pazzi” è ogni giorno

Marco Belpoliti, "La Stampa", 22 gennaio 2016


Domenica prossima sarà la domenica di settuagesima con cui inizia ufficialmente il Carnevale. Dura 18 giorni. Il 2 febbraio è Candelora, da cui deriva l’antica tradizione precristiana della festa, il Carnem levare, per cui secondo alcuni la parola significherebbe «eliminare la carne», mentre per altri levare sta per «innalzare» la carne; segue il Giovedì grasso che quest’anno cade il 4 febbraio, e quindi tutto culminerà il Martedì grasso. Il giorno successivo, Mercoledì delle Ceneri, saremo ufficialmente in Quaresima, per cui la Chiesa cattolica consiglia digiuno, contrizione e pentimento.
Cos’è vivo e cosa è morto del Carnevale? Cosa resta presso di noi degli antichi riti agrari in onore di Saturno, da cui nasce la festa pagana? Che ne è dell’anarchia programmata e dell’inversione sociale temporanea portata dai suoi riti? Probabilmente nulla. Come tante altre feste, a partire dallo stesso Natale, il significato recondito, custodito intatto per secoli, è andato perduto, sostituito da una festività che ha i suoi riti consumistici, i suoi oggetti messi in vendita in un determinato periodo dell’anno (maschere, travestimenti, coriandoli, stelle filanti, dolci); quindi via verso un’altra celebrazione in un’incessante serie di ricorrenze che della vera festa non hanno più molto.
Il mondo sottosopra
Quasi nessuno ricorda le libertà che le persone si prendevano in occasione del Carnevale, le cerimonie parodiche, le feste dei pazzi, il sovvertimento dei ruoli vigenti in una società rigida, di ferro, come era quella tradizionale, durata quasi intatta fino a 60 anni fa. Durante il Carnevale tutto veniva messo sottosopra; il mondo era rovesciato di colpo, come ha raccontato Giuseppe Cocchiara nei suoi libri sul folclore. In India, lontano serbatoio di miti e di favole trasmigrate per secoli attraverso misteriosi canali stesi lungo i continenti, le comunità rurali eleggevano un re della festa che cavalcava all’indietro, non un destriero da parata, bensì un asino di campagna. Davvero il mondo era stravolto e per quel novero di giorni, fin che durava, fin che le luci della festa non si spegnevano, poteva accadere di tutto.
In un carnevale del 1580 a Romans, paese del Delfinato, come ha raccontato lo storico francese Emmanuel Le Roy Ladurie, il Carnevale si trasformò in sanguinosa tragedia opponendo artigiani e nobili, classi medie e classi dominanti. Le libertà carnevalesche rappresentavano in modo ribaltato la struttura sociale tradizionale dove il re era intoccabile insieme con i nobili, le donne sottomesse agli uomini, la parola turpe o blasfema interdetta, l’oscenità messa al bando. Nel Carnevale tutto andava gambe all’aria in una rivoluzione temporanea e radicale: le donne licenziose, i padroni bastonati, i poveri fatti ricchi e i ricchi ridotti in povertà; tutto ciò che era relegato ai ranghi «inferiori», il fisiologico, il corporale, il genitale, diventava preponderante, e la cultura alta ridicolizzata. Il buffone diventava re e il re ridotto al ruolo buffonesco.
Il Carnevale era il momento della trasgressione; l’ordine del mondo usciva dai suoi cardini, unico modo per poterlo mantenere tale per tutto l’anno. Per conservarsi intatto quel mondo aveva bisogno di essere scardinato almeno una settimana, per essere purificato doveva contaminarsi, per restare ancorato al proprio supremo ordine, sperimentare la confusione. Ordine e disordine si bilanciavano in modo perfetto.
Insulti pubblici
Ora che la trasgressione regna sovrana, che l’ordine sembra fondarsi su un caos programmato e continuo, cosa resta dell’antico spirito sovversivo? Quasi nulla. Se la società è liquida, o somiglia a una nuvola gassosa, come la rappresentano sociologi ed economisti, il Carnevale non ha più ragione di esistere. Non c’è più alcun ordine da confermare o ripristinare dal momento che viviamo immersi in un disordine continuo, fluttuante e inafferrabile. La parola turpe, l’insulto hanno invaso i luoghi della comunicazione pubblica (un allenatore di calcio, Sarri, insulta un altro, Mancini, con epiteti da turpiloquio); tv e social network hanno rotto gli argini eretti nel passato: l’insulto è pubblico e replicabile. Il linguaggio si è contaminato e le «brutte parole» fanno parte dell’eloquio dei leader. Tutto si contamina con tutto, e la cultura alta non si distingue da quella bassa; anzi quest’ultima è il vero mood della società contemporanea.
Orizzontalità totale
Il mondo non sembra possedere più alcuna verticalità, poiché i sistemi comunicativi e produttivi hanno prodotto l’orizzontalità totale. La festa dei pazzi, il mondo alla rovescia, è ogni giorno dell’anno. L’anarchia, la confusione, il rimescolamento sono stati permanenti. Lo stesso mascheramento, il travestimento, tipico del Carnevale e del suo spirito sovvertitore, è oggi un fatto comune e consueto. Non a caso David Bowie, icona trasgressiva, modello gender, maestro del travestimento e della identità plurima e cangiante, è stato celebrato in morte da tutti.
Ma se non c’è più differenza tra ordine e disordine, su cosa si fonderà la società? Se la trasgressione è continua, cosa vuol dire oggi trasgredire? In un libro emblematico, Ritratto dell’artista come saltimbanco, il critico Jean Starobinski aveva preconizzato all’inizio degli Anni 70 la mutazione in corso. Dopo aver analizzato in che modo il clown era diventato negli ultimi due secoli il soggetto preferito di pittori, musicisti e registi, Starobinski aveva concluso che la sua presenza sulle scene dell’arte si stava attenuando. Il clown, concludeva, è sceso per le strade, è in ciascuno di noi: «Non ci sono più limiti, non c’è più infrazione. Rimane la derisione». Previsione perfetta.

venerdì 8 gennaio 2016

Noia e tedio, nostri gemelli diversi

Non dobbiamo temere il tempo e la ripetizione. 
Ci sono antidoti: bellezza, arte, musica. E la vita vissuta

Claudio Magris

"Corriere della Sera", 8 gennaio 2016

Il piacere, scriveva Saint-Foix, ci fa dimenticare che esistiamo, mentre il tedio (la noia, l’ ennui , lo spleen ) ce lo fa sentire. Forse il tedio nasce dal narcisismo, dalla viziata o infelice concentrazione su noi stessi, che ci fa pretendere di essere al centro della vita anziché appagarci di essere uno dei suoi innumerevoli atomi, effimeri ma non perciò necessariamente angosciati o abbattuti, e dunque ci condanna alla smaniosa e torpida infelicità.
Sul tedio, questa passione o apatia sciaguratamente universale, ha scritto un affascinante saggio Dulce María Zúñiga, El tedio, el suicidio y la Luna. L’autrice, che si è laureata in Francia e ha conseguito il dottorato in Studi romanzi all’Università Paul Valéry di Montpellier, dirige attualmente la facoltà di Cultura dell’Università di Guadalajara, presso la quale coordina pure la cattedra latino-americana «Julio Cortázar» voluta inizialmente da Carlos Fuentes e Gabriel García Márquez e la cattedra di Humanidades «Primo Levi» ed è inoltre la direttrice del Premio Fil di Letteratura in Lingue Romanze ed è anche traduttrice dal francese dall’italiano e dal portoghese. I suoi studi, che uniscono la precisione storica e filologica alla freschezza dell’esposizione e all’acutezza dell’interpretazione, spaziano da Calvino a Borges, da Todorov a Cortázar o a Fuentes. Con Calvino, da lei così studiato, condivide la grande virtù della leggerezza in cui la profondità si risolve. In un Bestiario della letteratura come quello scritto a suo tempo da Franz Blei, lei sarebbe un uccello dal volo lieve e dalla vista acuta che abbraccia il vicino e il lontano.
La sua prospettiva è quella della letteratura comparata, come rivelano il saggio La culpa es de la Luna e questo libro, che dedica anch’esso un capitolo iniziale al «sentire la luna» e un altro al tedio, all’accidia e alla malinconia, colti attraverso l’opera dei più vari e grandi scrittori — Pascal, Flaubert, Sartre, Moravia, Perec, oltre a una parte finale dedicata ai suicidi nella letteratura.
Fare la storia del tedio significa fare la storia non solo dei suoi grandissimi poeti quali Leopardi o Baudelaire, ma anche della letteratura universale e dell’anima umana, di quei grovigli in cui le grandi domande dell’esistenza s’intrecciano alle ambiguità e alle oscurità della psicologia. Follia lunatica, stanchezza malinconica della vita, suicidi; temi non allegri, ma affrontati dall’autrice senza pathos tragico. C’è addirittura un «elogio del Tedium vitae» , forse memore dell’accostamento leopardiano fra noia e sublime. Perché elogio, le chiedo?

DULCE MARÍA ZÚÑIGA — Precisamente è a Leopardi che pensavo quando ho scritto l’elogio del tedio, perché lui l’ha pensato a lungo e l’ha sofferto profondamente. Per Leopardi il concetto è molto complesso. Dato che l’uomo è infelice per natura, consuma la sua vita cercando piacere e felicità irraggiungibili. Questo sentimento d’insoddisfazione, questa mancanza di piacere porta alla noia che è «figlia della nullità e madre del nulla», scrive il poeta recanatese nello Zibaldone . È il senso di una delusione perpetua verso un piacere inappagato, che provoca l’infelicità e il senso della nullità di tutte le cose. Ma, dall’altra parte, la considera «il più nobile dei sentimenti umani, ciò che ci permette di prendere coscienza dell’essenza della vita, nella misura in cui la noia è «la semplice vita sentita, provata, conosciuta».
Il tedio sembra essere una condizione umana che implica senso di vuoto e di scontentezza della vita. Ma è anche un topos letterario che ha dato grandissime opere nella letteratura mondiale di tutti i tempi, non è vero? Anche lei si è occupato di questi temi.

CLAUDIO MAGRIS — Sì, sono stato affascinato da autori, quali ad esempio Jacobsen o Goncharov, che si sentono fuori dalla vita, vedendola scorrere davanti a loro come un fiume, sulle cui rive siedono senza partecipare al suo fluire, e che si chiedono quando si vive veramente, ma contemporaneamente avvertono la vita come un’aggressione che li minaccia o cercano di sfuggirle, come Svevo, scrivendola e leggendola per evitare di viverla.
Ma tedio e noia sono due cose diverse. Il primo esiste certamente, si confonde con la malinconia e col male di vivere, nasce pure dalla mancanza di un valore e di un fondamento che diano un senso all’esistenza e soprattutto da depressioni anche clinicamente patologiche. Come lei scrive, il tedio è legato all’odio, a quell’odio di sé cui è riservato un girone nell’Inferno di Dante. Invece la noia forse di per sé non esiste: se si fa la coda davanti a uno sportello si può essere irritati perché ciò impedisce di fare altre cose più urgenti, ma non ci si «annoia» necessariamente. Talvolta si potrebbe anzi approfittare di quella pausa nella febbrile corsa dei doveri — una pausa che consente di pensare, ricordare, rivedere nella mente volti e paesaggi amati. Goethe non capiva come si potesse non amare la ripetizione, le stesse cose che ritornano, uguali e sempre diverse come il ripetersi delle stagioni e delle ore con la loro luce e la loro ombra. L’incapacità di amare la ripetizione è forse un segno di aridità. Certo, quando la noia è depressione, male oscuro, morte nell’animo, infelicità, è un’altra cosa.

DULCE MARÍA ZÚÑIGA — Certo, la noia è collegata al tempo. L’uomo annoiato ha una percezione molto alterata del tempo: i minuti, le ore, i giorni sembrano tutti identici e la ripetizione degli istanti incrementa il sentimento del vuoto. Altro che indifferente, l’annoiato è preso dall’inquietudine, soffre e cerca di sfuggire, ma il male è in lui. Ad esempio Oblomov, il personaggio di Goncharov che ha citato prima: non esce dalla sua camera perché sente che è inutile, la noia andrà con lui ovunque sia. Un altro esempio è Jean Des Esseintes, di A rebours de J.K. Huysmans: tenta di sfuggire al Taedium vitae tramite l’arte e la bellezza, ma non ci riesce. Questi due romanzi traducono poeticamente la decadenza del Ottocento europeo.

CLAUDIO MAGRIS — Il Taedium vitae ha pure implicazioni storiche e sociali, caratterizza epoche e classi stanche e blasé . È diffuso soprattutto fra i privilegiati preservati dalla lotta per la sopravvivenza. Chi ha fame, chi porta il peso di un lavoro massacrante o della mancanza di un lavoro, l’immigrato che sbarca in Sicilia o muore in mare difficilmente soffre di noia come i personaggi di Chateaubriand e non ha bisogno di reprimere «l’affettazione del tedio», come esortava Fénelon.

DULCE MARÍA ZÚÑIGA — Dall’antichità la nozione e dunque la sensazione di tedio si collegava con la classe nobile, mai con i lavoratori. Era un privilegio dei sovrani e di coloro che si dedicavano all’ozio creativo: filosofi, poeti e artisti. Quando tutti i bisogni materiali erano soddisfatti, allora si poteva pensare ai bisogni spirituali e allora si sentiva il peso del nulla, dell’insignificanza dell’uomo davanti alla Natura o alla divinità.

CLAUDIO MAGRIS — Forse la risposta al tedio e alla noia è la «persuasione» di Michelstaedter, la capacità di vivere a fondo ogni attimo senza la smania che esso passi presto, senza l’autodistruttivo desiderio di vivere già nel domani — un domani che è sempre domani e dunque non c’è mai, — ossia di essere più vicini alla morte. Lei cita un passo di Gautier in cui si parla del tempo che noi vogliamo uccidere e che invece ci uccide; forse si vince il tedio vivendo invece a fondo il tempo, ogni suo istante...

DULCE MARÍA ZÚÑIGA — Vero, si deve vivere il presente integralmente, ma non si può evitare di sentirsi manchevoli: la felicità e la compiutezza sono sempre aldilà. Schopenhauer ha scritto che la condizione umana è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia: la sofferenza ci fa sentire vivi, invece la noia è il vuoto, l’assenza di desideri. Una forma di sfuggire a questa condizione è l’arte, la musica, la bellezza... Senza la noia, Leopardi non avrebbe mai scritto I canti, Baudelaire Les fleurs du mal, Flaubert Madame Bovary, Moravia La noia e tanti altri capolavori. Il benessere, la comodità, il comfort e la soddisfazione di se stessi non hanno mai prodotto grande letteratura.

lunedì 4 gennaio 2016

Arte in pericolo. Schianti di civiltà, una lunga storia


Paolo Matthiae indaga fatti e motivazioni che hanno portato ciclicamente l’umanità ad assalire e distruggere il patrimonio altrui

Marco Carminati

"Il Sole 24 ore - Domenica", 3 gennaio 2016

Nell’osservare il pericolo in cui si trovano oggi i siti archeologici dell’Africa del Nord e del Medio Oriente, molti di noi sono dispiaciuti e sconcertati. Ma c’è chi sta soffrendo enormemente, come ad esempio Paolo Matthiae, uno dei più grandi archeologi italiani, l’uomo che ha scoperto la città e la civiltà di Ebla in Siria, e che in quella nazione ha compiuto dal 1964 al 2010 ben 47 missioni di scavo, ogni anno, a settembre, senza alcuna interruzione. E ora, bloccato in Italia, è costretto a osservare impotente le belve dell’Isis che si accaniscono contro il patrimonio archeologico di quelle amate regioni e soprattutto che uccidono con efferata crudeltà i suoi più cari amici, come il collega Khalid al-Asaad, il conservatore degli scavi di Palmira, che Matthiae definisce con un’unica, potente parola: un giusto.
Il dolore e la costernazione di Paolo Matthiae sono sfociati in un libro che - pur non nascondendo il tumulto interiore che lo ha ispirato - riesce a offrirci un quadro razionale e oggettivo dei motivi che hanno spinto l’umanità, sin dalla notte dei tempi, ad accanirsi contro il patrimonio artistico e monumentale per trasformarlo - nella migliore delle ipotesi – in sublimi rovine, e - nella peggiore - per annientarlo del tutto.
Nell’incipit del libro, Matthiae confessa che «mai avrebbe pensato di affrontare» questo tema se non fosse divenuto di «angosciante attualità» e «di agghiacciante rilievo» dopo i fatti legati al dilagare del fondamentalismo islamico. Anche Matthiae, infatti, era tra quelli che pensavano che dopo l’ecatombe vissuta dall’Europa durante la Seconda Guerra mondiale l’umanità avesse imparato la lezione. Invece si sbagliava, perché l’argomento degli attacchi al patrimonio artistico dell’umanità è tornato drammaticamente all’ordine del giorno.
Allora è diventato urgente per il nostro autore studiare e capire perché si è di nuovo arrivati a tanto, mettendosi ad indagare il tema nel più vasto arco cronologico possibile (dalle civiltà della Mesopotamia ai nostri giorni) e abbracciando la maggior estensione geografica possibile, dalle civiltà mesoamericane alla Cina, passando per l’Europa, il Medio Oriente e l’India.
Da navigato archeologo, Matthiae sa che il primo “nemico” che assedia città e complessi monumentali è il tempo, un agente micidiale capace di annientare metropoli come Babilonia e Ur. Poi, sa che subentrano cause diverse, quali l’abbandono dei siti (e Matthiae elenca e discute tutte le possibili motivazioni), le distruzioni provocate da cause naturali (terremoti, inondazioni, eruzioni vulcaniche, eccetera) e le distruzioni provocate direttamente dall’uomo (guerre, assedi, saccheggi, eccetera).
Dagli schianti provocati da tempo, abbandono, calamità e guerre, alcune realtà urbane sono sopravvissute in forma di rovine inserite in paesaggi sorti spontaneamente attorno a esse. Oggi siamo consapevoli che le rovine inserite nel paesaggio abbiano un fascino e un valore culturale incomparabile, e come tali vadano gelosamente protette e conservate. Ma se si osserva la storia, molti dei nostri antenati sarebbe andati perfettamente a braccetto dell’Isis nel condividere l’odio, il disprezzo e l’indifferenza per le venerande rovine del passato, soprattutto se espressione di civiltà diverse dalla propria.
Per secoli si guardò e meditò (spesso con le lacrime agli occhi), le condizioni di rovina in cui erano cadute Atene o Roma, e si tentò di perpetuarne la grandezza estirpando da esse statue, bassorilievi, marmi e cimeli da riutilizzare come manufatti o come modelli di ispirazione. Ma, ad esempio, davanti alle immani architetture rinvenute dopo la scoperta dell’America gli stessi europei che piangevano sulle ruinae di Roma espressero il più sovrano disprezzo per quelle mirabili antichità (l’archeologia mesoamericana si attivò, di fatto, solo nel Novecento).
Il “disprezzo per gli altri” è stato certamente uno dei motori più potenti per attivare le distruzioni. Ma non lo sono stati da meno l’invidia per il patrimonio altrui, la sete di possesso e la damnatio memoriae di civiltà sgradite. Matthiae svolge questi tre temi in tre possenti capitoli centrali, accompagnando il lettore in un’eccezionale cavalcata nello spazio e nel tempo. Roma depreda la Grecia per impossessarsi del suo patrimonio e della sua cultura, e così faranno le truppe di Napoleone con i paesi europei “liberati” dalle antiche tirannie. Ma c’è chi saccheggia città, siti e tombe per impossessarsi semplicemente della refurtiva. E si fanno gli esempi: dai tombaroli dell’antico Egitto alla conquista di Gerusalemme da parte di Tito, dal sacco di Roma di Alarico a quello di Costantinopoli perpetrato dai Crociati, dall’assalto al patrimonio artistico mesoamericano da parte degli spagnoli agli attualissimi furti d’arte su commissione compiuti durante la guerra del Golfo contro Saddam Hussein. E in mezzo a questi drammatici racconti trovano posto gli inenarrabili guai provocati dalle guerre di religione in Europa ma anche dall’impeto iconoclasta della Rivoluzione francese.
Tuttavia, anche Matthiae deve ammettere che non tutto il male è venuto per nuocere. Da tante “rimozioni” di opere d’arte dai loro contesti originari sarebbero sorti scrigni di civiltà come i grandi musei occidentali, avrebbe preso vita la miglior tradizione degli studi archeologici, e sarebbe sorta la coscienza del valore assoluto delle rovine e dell'eredità del passato.
Davanti all’insorgere di una nuova barbarie, il nostro compito – conclude Matthiae – è di quello di ammonire, ricordare e indicare una via. Per ammonire, l’autore revoca ciò che accadde a Coventry, Amburgo, Dresda, Montecassino e Hiroshima settanta anni fa. Per ricordare, riporta le parole dell’abate Henri Gregoire rivolte ai rivoluzionari francesi: «I barbari distruggono il patrimonio artistico… gli uomini liberi lo conservano». E per indicare la via, evoca una bellissima immagine di “viandanti”: quella dei carovanieri musulmani che, percorrendo la Via della Seta, passavano davanti alle statue colossali dei Buddha e si fermavano ad osservarle pieni di venerazione e ammirazione. Questo per sottolineare che il patrimonio artistico di “ogni” civiltà appartiene davvero a “ogni” uomo. Picasso diceva: «Non giudicare sbagliato ciò che non conosci. Cogli l'occasione per comprendere». E Matthiae ci invita a fare altrettanto.

Il futuro ha un nuovo futuro. Il ritorno (rivisto) delle distopie


John Stuart Mill fu il primo a utilizzare il termine (in un dibattito politico)
Samuel Butler fu uno dei primi a esplorarlo come genere narrativo
Poi sono venuti Eugenij Zamjatkin, Kurt Vonnegut e George Orwell

Fabio Deotto

"Corriere della Sera - La Lettura", 3 gennaio 2015

Quando nel settembre del 2006 uscì nelle sale cinematografiche I figli degli uomini di Alfonso Cuarón, diversi critici con il pallino della divinazione si profusero in lunghi articoli che decretavano l’impossibilità di resuscitare un filone irrimediabilmente sterile come quello distopico e post-apocalittico. I tempi di James Ballard erano lontani, quelli di George Orwell ancora di più, i detrattori del genere avevano gioco facile a liquidare le distopie di qualità come episodi isolati. E chissà, magari la storia avrebbe dato loro ragione, se solo pochi mesi dopo la commissione del Pulitzer non avesse fatto saltare il tavolo, assegnando il premio per la narrativa a La strada di Cormac McCarthy, un romanzo post-apocalittico firmato da un autore che in quarant’anni di carriera si era tenuto alla larga da qualsivoglia incursione futuristica.
Oggi, nessuno si azzarderebbe a dare per spacciato questo tipo di immaginario, e non tanto perché le librerie vengono regolarmente svuotate da stormi di adolescenti in astinenza da Hunger Games , quanto perché questa frontiera narrativa ha ormai sedotto anche autori che fino a qualche tempo fa la fantascienza non l’avrebbero toccata nemmeno con i guanti da giardiniere.
Se scrittori come Philip K. Dick vedevano in questo genere più una condanna che un trampolino di lancio, oggi la letteratura d’anticipazione (o «prospettica», per dirla con il critico spagnolo Julián Díez) sembra il treno che nessuno può permettersi di perdere. Dave Eggers avrebbe tranquillamente potuto evitare di cimentarsi in una distopia sul lato oscuro dei colossi tecnologici (Il cerchio gli ha procurato critiche piuttosto pesanti); Michael Chabon, ancora fresco di Pulitzer per Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, non aveva alcun bisogno di esporsi allo scetticismo dei critici più conservatori con Il sindacato dei poliziotti yiddish; e di certo non ne aveva bisogno Howard Jacobson che, dopo aver vinto un Man Booker Prize con L’enigma di Finkler, ha virato su J , una distopia a sfondo razziale.
Come spiegare questa fregola autoriale per la fantascienza distopica? Com’è che, dopo decenni nelle retrovie, il futuro prossimo sembra ormai in grado di sedurre anche il pubblico mainstream e le giurie dei premi letterari più quotati? Prima di rispondere è bene ripassare un po’ di storia, perché la parola «distopia» oggi viene adoperata con eccessiva disinvoltura, spesso a sproposito, da chi spera di battere cassa sfruttando la scia di saghe come Divergent e Maze Runner.
In realtà il termine nasce come contrario di «utopia» e viene utilizzato per la prima volta nel 1868 dal filosofo e deputato britannico John Stuart Mill, per criticare il governo in un dibattito in Parlamento sulla questione irlandese. L’utopia è l’orizzonte perfetto, un modello politico, sociale e religioso in cui ogni ingranaggio si incastra alla perfezione; per contro, la distopia è il luogo in cui i problemi già presenti nella realtà odierna hanno raggiunto un ipotetico estremo. Se il concetto di utopia è funzionale a riflessioni di tipo politico o filosofico, quello di distopia racchiude enormi potenzialità narrative.
Uno dei primi a rendersene conto è Samuel Butler, che nel 1872, nel romanzo Erewhon , descrive una società in cui la malattia è un crimine punito dalla legge, mentre il furto è un sintomo patologico da trattare a livello medico. Perché la distopia cominci a imporsi come genere letterario a sé stante, tuttavia, bisogna aspettare la prima metà del XX secolo, quando lo scrittore russo Evgenij Zamjatin scrive Noi, un romanzo ambientato in una società futura in cui la vita dei cittadini segue rigide regole matematiche e il libero arbitrio è sostanzialmente abolito (una chiara trasfigurazione del totalitarismo comunista). L’intuizione di Zamjatin è così potente che il manoscritto, terminato nel 1921, sarà il primo ad essere bandito dalla censura sovietica. Verrà pubblicato nel 1924, negli Stati Uniti, e la sua influenza sarà tale da ispirare alcune delle opere più significative del secolo scorso, come Piano meccanico di Kurt Vonnegut, Il mondo nuovo di Aldous Huxley e, naturalmente, 1984 di George Orwell.
Se tanti autori mostravano un debole per questo tipo di impostazione narrativa i motivi erano tendenzialmente due: da un lato una cornice distopica consentiva di disancorare la narrazione da riferimenti troppo identificabili, gettando un punto di vista inedito su questioni e tematiche che, se affrontate in maniera realistica, avrebbero polarizzato l’opinione del lettore; dall’altro creava le condizioni per portare a galla, esacerbandole, le problematiche che pregiudicavano il corretto funzionamento della società.
Rispetto a questa tradizione, le distopie letterarie più recenti compiono un ulteriore passo in avanti, sfruttando un contesto più o meno catastrofico per accelerare gli esiti di una crisi reale e duratura, ripulendo così la lavagna da un’equazione socio-economica che in molti hanno rinunciato a risolvere. Basti pensare al nuovo romanzo di Margaret Atwood, The Heart Goes Last, in cui la temperatura della crisi immobiliare raggiunge un livello tale da indurre diverse famiglie a trascorrere volontariamente del tempo in carcere.
Un’altra novità significativa è che in queste opere l’ambientazione futuristica non è quasi mai preponderante, spesso e volentieri viene utilizzata come contraltare per raccontare il presente, o il passato. È il caso di Emily St. John Mandel, che nel suo Stazione Undici (finalista al National Book Award e pubblicato in Italia da Bompiani) racconta una società devastata da una pandemia influenzale che ha spazzato via il solito 99% della popolazione. A differenza del tipico romanzo post-apocalittico, però, una buona metà di Stazione Undici è ambientata negli anni precedenti al collasso. Se in un capitolo il lettore segue le vicende di alcuni personaggi legati al mondo dello show business , in quello successivo li ritrova vent’anni dopo lo scoppio della pandemia, in un mondo dove l’elettricità è scomparsa, ma Shakespeare sopravvive negli spettacoli di una compagnia teatrale itinerante. Questo fare continuamente avanti e indietro consente a Mandel di raccontare un mondo ossessionato dalla fama e dall’immortalità artistica con un approccio del tutto inedito: la componente apocalittica non è più il centro della narrazione, ne è il baricentro; passato e futuro sono amalgamati in un unico intreccio, quasi non fosse possibile inquadrare bene il presente senza utilizzare due diverse posizioni di osservazione.
L’utilizzo duttile che Emily St. John Mandel fa della componente temporale ricorda l’approccio adottato da Jennifer Egan in Il tempo è un bastardo , e dice molto della direzione imboccata dalle nuove distopie letterarie. In queste opere infatti la cornice fantascientifica non è più blindata e totalizzante, è piuttosto una struttura aperta, accessoria, uno strumento narrativo che può essere utilizzato quando serve, senza che il contesto penalizzi le ambizioni e il respiro dell’intera opera.
Nel novembre del 2014, la National Book Foundation ha assegnato la sua ambita Medal for Distinguished Contribution to American Letters a Ursula K. Le Guin. Al momento della premiazione, l’autrice americana ha voluto condividere l’onorificenza con «tutti i colleghi autori di fantasy e fantascienza che negli ultimi cinquant’anni sono rimasti a guardare mentre i premi più belli andavano ai cosiddetti realisti». Per poi aggiungere: «Ci aspettano tempi difficili, e avremo bisogno delle voci di scrittori che riescano a scorgere alternative al nostro attuale modo di vivere, realisti di una realtà più grande».
Quello che ad alcuni può sembrare un convenzionale tributo a una categoria di colleghi, per molti altri è il definitivo coronamento di un processo di emancipazione durato decenni.

La curiosità salverà il mondo


Quando ti metterai in viaggio verso Itaca, dice Kavafis, 
devi augurarti una lunga strada
Il desiderio di conoscere l’ignoto e il diverso muove la storia e favorisce il dialogo
La civiltà è una macchina che si  alimentata di esplorazioni e scoperte
Non accetta, non può accettare, chiusure e preclusioni

Edoardo Boncinelli

"Corriere della Sera - La Lettura",  3 gennaio 2015

Si sente spesso dire «Questo ci salverà», «Solo quello ci può salvare» (anche se non ho mai capito bene da che); ma se c’è una cosa che certamente ci può salvare — non importa da cosa — questa è la curiosità, cioè il desiderio di conoscere realtà nuove e diverse. Tutti gli animali superiori sono curiosi, ma limitatamente alla loro età giovanile; poi la curiosità a poco a poco svanisce. Poiché noi uomini rimaniamo «cuccioli» per una quantità di tempo inusitata, ci comportiamo come gli esseri più curiosi del globo.
Le neuroscienze ci dicono che la curiosità ha la stessa natura di un bisogno o di uno stato di astinenza e il suo soddisfacimento ci procura la gioia di un autentico attingimento, portando dopamina alla corteccia cerebrale, come se avessimo mangiato, bevuto o fatto sesso. Le espressioni pratiche più tangibili di tale curiosità sono rappresentate dalle esplorazioni geografiche e dalla scienza. Dopo aver faticosamente raggiunto la sua Itaca — «Quando ti metterai in viaggio per Itaca/ devi augurarti che la strada sia lunga,/ fertile in avventure e in esperienze», dice il poeta greco Costantino Kavafis — Ulisse si rimette in mare con i suoi vecchi compagni alla volta delle colonne d’Ercole e a sentire Dante dice a quelli: «Non vogliate negar l’esperienza,/ di retro al sol, del mondo sanza gente».
Per quanto riguarda la scienza di oggi, si sogliono distinguere due tipi principali di ricerca, quella applicata e quella di base, che in inglese viene definita curiosity driven, cioè guidata dalla curiosità, per sottolinearne il carattere di esplorazione non guidata da niente altro che dal desiderio di soddisfare appunto la nostra curiosità. Senza curiosità lo scienziato non si può proprio fare, o verrebbe fatto in maniera fiacca e senza entusiasmo. L’entusiasmo è in effetti spesso il compagno effervescente della curiosità. La curiosità è un istinto esplorativo che ci spinge a cercare cose nuove nei più diversi campi e ambiti, fino al punto di esplorare le profondità del cosmo o i recessi più reconditi della materia, nonché i segreti della nostra mente o le segrete del nostro cuore.
Dalle particelle subatomiche alle galassie più anziane, o alle stelle ancora in formazione, niente è sfuggito alla nostra curiosità. E facciamo di tutto anche per sapere se nell’universo ci sono altre forme di vita, intelligente o vegetativa. Senza pensare che abbiamo certamente vita intelligente su questo pianeta, e che può valere la pena conoscerla. Come succedeva in passato, quando le navi solcavano in lungo e in largo le acque del Mediterraneo e con i loro continui scambi di cose e d’idee, coraggiosi viaggiatori gettavano le fondamenta della nostra stessa civiltà. Quando partirai alla volta di Itaca, dice sempre Kavafis, «devi augurarti che la strada sia lunga./ Che i mattini d’estate siano tanti/ quando nei porti — finalmente e con che gioia —/ toccherai terra tu per la prima volta:/ negli empori fenici indugia e acquista/ madreperle coralli ebano e ambre/ tutta merce fina, anche profumi/ penetranti d’ogni sorta;/ più profumi inebrianti che puoi,/ va in molte città egizie/ impara una quantità di cose dai dotti».
Tale spirito ha accompagnato per anni il cammino dell’uomo e il suo continuo andare e venire per le vie delle spezie o della seta per terra e anche, avventurosamente, per mare. La parola Cina, o China, e le favolose Indie suscitavano negli europei curiosità e incanto, e fino all’inizio del Novecento il desiderio di conoscere costumi e usanze esotiche di altri popoli, da parte di viaggiatori che già si sentivano un po’ annoiati del loro mondo e del loro modo di vedere le cose. Per non parlare dei viaggi d’istruzione e d’iniziazione, come quello famoso che portò Goethe in Italia o quelli di Henry Miller e Ernest Hemingway in Francia e in Spagna.
Il mondo nel frattempo si è fatto piccolo e sovraffollato. Non c’è più, si direbbe, il piacere di incontrare, dopo un lungo solitario cammino, un altro essere umano. Si cerca anzi spesso di fuggire i nostri simili, andando a cercare rotte meno battute e paesaggi quasi incontaminati. Di veramente incontaminato non è rimasto ormai quasi niente, perché gli sciami delle «formichine» umane sono arrivati dappertutto.
Ecco che a poco a poco la curiosità e l’entusiasmo si sono come rovesciati nel loro contrario, la diffidenza e il timore. Il desiderio di conoscere altri popoli e altre culture ha lasciato il campo alle aspirazioni alla chiusura e all’isolamento, e a tentazioni di misoneismo che rasentano la misantropia.
Il poeta siriano Adonis ha il coraggio di affermare che «l’islam è fondato su tre punti essenziali. Primo, il profeta Maometto è il sigillo di tutti i profeti. Secondo, le verità tramandate sono di conseguenza le verità ultime. Terzo, l’individuo, o credente, non può aggiungere né modificare nulla. Deve limitarsi a obbedire ai precetti». Ma anche senza squilli di tromba o toni guasconi, per quante altre confessioni si può escludere che si sia visceralmente convinti di qualcosa di simile? Il problema è che la civiltà è una macchina che si alimenta di esplorazioni e novità. Non accetta, non può accettare, chiusure e preclusioni, altrimenti si smarrisce e si perde. E se ci dovessimo smarrire in viaggio, meglio sarebbe stato non essere mai partiti. Perché nell’universo siamo soli, o quasi. Alla ricerca di un fondamento unico e di un senso.
Forse il viaggio può ripartire dall’arte e nell’arte. Mai come oggi possiamo vedere e apprezzare le opere d’arte di tutto il mondo, e leggere poesie e racconti di scrittori di tutte le nazioni, cosa che una volta non era facile, per un difetto di comunicazione e perché i cittadini di molti Stati del mondo non accedevano al grande circo della letteratura, cioè dell’immanente trascendimento dell’umano. E a parte l’apprezzamento letterario, anche così si può soddisfare la nostra curiosità di vicende umane diverse che ci portino a farci «del mondo esperti e de li vizi umani e del valore». Nella grande diversità delle sue espressioni, l’arte declina comunque un paradigma comune, profondamente e autenticamente umano, per esempio nelle architetture delle parti più diverse del mondo, e nel cinema, la decima musa che ha oscurato e allo stesso tempo riassunto tutte le altre, e che è divenuta una pratica moneta di scambio culturale ed esistenziale tra le genti dei quattro angoli del mondo. Cioè tra esseri umani così vicini e a volte così lontani.
Qualcuno parla di un futuro d’innesti, di piccole protesi o di dispositivi tecnologici, sul corpo umano e sulla psiche a quello associata. Forse l’innesto più promettente è quello di uomini con altri uomini, alla ricerca di un qualcosa di sempre più propriamente umano. Questa, e non altra, deve essere la nostra ricerca delle «radici», per non parlare dell’incontro con l’altra metà del cielo, quel femminile che ci deve ancora mostrare la sua autenticità. Antiquam exquìrite matrem, aveva detto l’oracolo di Delo a Enea, prima che quello si mettesse per mare con tutti i suoi alla ricerca di un nuovo ubi consistam. Cercate l’antica madre. Io, alla mia età, da qualche tempo le mie esplorazioni le conduco sui social network, cogliendo al volo immagini di quadri, di sculture, di palazzi e di chiese, scintillanti versi di poesie e brani di musica. E «m’illumino d’immenso».

Bibliografia
Per approfondire i temi affrontati in queste pagine si possono consultare i seguenti volumi: il saggio di Alberto Manguel, Una storia naturale della curiosità (traduzione di Stefano Valenti, Feltrinelli, pagine 416); Dopo la lirica (Einaudi, 2005), in cui Enrico Testa ha raccolto i testi di più di quaranta tra poeti e poetesse italiani del secondo Novecento; Adonis, Violenza e islam. Conversazioni con Houria Abdelouahed (Guanda, 2015); Giulio Carlo Argan, Achille Bonito Oliva, L’arte moderna 1770-1970/ L’arte oltre il Duemila (Sansoni, 2002); Martin Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare (Guanda, 2011); Costantino Kavafis, Settantacinque poesie (Einaudi, 1992); Joseph LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni (Baldini & Castoldi, 2014)

I romantici. I pittori che scoprirono il senso dell’infinito


Cesare De Seta

"La Repubblica", 3 gennaio 2016

I fondamenti del Romanticismo sono radicati nell’estetica tedesca: a Jena i fratelli August Wilhelm e Friedrich Schlegel diedero impulso a un vasto movimento. Nel 1798 fondano la rivista Athenaeum, a Dresda s’incontrarono con il poeta Novalis e con il filosofo Friedrich W. Schelling. Gli effetti della compagine romantica furono dirompenti anche nelle arti e gli echi giunsero a Vienna. Un’onda lunga che travolse i modelli classicisti dell’era napoleonica. La mostra Welten der Romantik, a cura di Cornelia Reiter e Klaus A. Schröder, all’Albertina (fino al 21 febbraio) ce ne offre una vasta panoramica: mondi declinati al plurale con oltre 160 opere tra cui figurano i maggiori protagonisti di questa stagione. Molti pezzi sono attinti dalla stessa Albertina che ci accoglie col non gratificante ingresso di Hans Hollein: la mostra è scandita in sezioni, distinte dal verde e blu delle pareti: con alcuni picchi e dando equilibrato rilievo al ritratto, alla pittura di storia e al paesaggio. Quindi si va dal mar Baltico di Caspar David Friedrich alle campagne romane. Intenso il rapporto di fratellanza in Germania e Italia nella tela di Friedrich Overbeck (1828) che simbolicamente raffigura due fanciulle una bruna l’altra bionda; paesi frantumati politicamente e distinti tra un nord protestante e un sud cattolico. La radice cristiana è comune — Overbeck nell’Autoritratto (1809) ci guarda con la Bibbia in mano — ma ciascuno la interpreta a modo suo. Friedrich condusse una vita monacale alla ricerca di paesaggi montani e marini di una natura incontaminata, con poche figure di spalle e crocefissi su cime di montagne: il paesaggio è una simbolizzazione della fede. Gli stessi titoli sono enigmatici: Le tappe della vita (1834) mostra una spiaggia scura con un gruppo in primo piano e al largo, in una rada, cinque velieri immersi in una striscia azzurrina di mare dietro cui si scorge un orizzonte dorato. Rocce e boschi deserti, da cui talvolta emergono sottili sagome di cattedrali gotiche tra alti abeti. Carl Blechen dipinge La costruzione del ponte del diavolo (1830) ed è rilevante la lezione di Friedrich. Questi con Otto Runge ha posto di gran rilievo: ma all’ascetismo pietista del primo, corrisponde la religiosità mite del secondo. Runge ebbe una fitta corrispondenza con Goethe e condivise le ricerche sul colore, ma il suo testo teorico
La sfera del colore è in competizione col poeta. I disegni e le incisioni di piante e fiori sono di una sottile finezza per la qualità del tratto, il sereno mondo di Runge prelude all’intimità di una vita estranea ai conflitti dell’animo: Le epoche del giorno (1803) illustrano fiori da cui sbocciano putti (il mattino), scene di maternità (il giorno, la sera), o visioni celestiali con angeli (la notte) e sono contraltare al sentimento della natura di Friedrich. Dal mondo botanico sono attratti Ferdinand Olivier, Franz Theobald Horny e molti altri.
Di assoluto rilievo le cesure in mostra dei contemporanei Francisco Goya e Johann Heinrich Fussli: essi hanno la funzione di offrirci la faccia opposta della temperie romantica. Il pittore aragonese con incisioni tratte dai Disastri della guerra fino al Sogno della ragione genera mostri: immagini strazianti e feroci. Di Goya sgomenta Il colosso, dove la figura giganteggia e scompiglia una carovana terrorizzata. Della tela (116 x 105 cm) del Prado è stata posta in dubbio l’autografia: ma chi che sia il pittore resta un’opera di possente impatto. Di Fussli basta Il Silenzio (1799-1801): una tela dove una figura accovacciata ha il capo reclinato in avanti, incassato tra le ginocchia e le braccia abbandonate. Il corpo e la lunga capigliatura è bianca e spicca sul buio del fondo: il pittore tedesco così perlustra il mistero.
Si diceva della doppia anima del Romanticismo germanico: all’Accademia di Vienna nel 1806 si forma la “Confraternita di San Luca” che si oppone al classicismo accademico e resuscita il mondo medievale e il cristianesimo delle origini: ne sono capofila Franz Pforr e Overbeck che si trasferiscono a Roma nel 1809. Portano capelli lunghi e di qui il nome di Nazareni. I loro ideali di vita sono una religiosa frugalità, studiano il mondo antico e l’arte medievale d’Italia. Vivono nel convento abbandonato di Sant’Isidoro al Pincio. Ad essi si aggiungono Peter Cornelius, Friedrich Shadow, Julius Veit Hans Schnorr von Carolsfeld ed altri. La pittura di storia ha un suo suggello con
L’entrata di Rodolfo d’Asburgo a Basilea (1808-10) e Franz Pforr mostra quale dimestichezza abbia con i grandi cicli affrescati toscani e con quale perizia sappia reinterpretarli. I miti medievali vengono evocati da Carl Philipp Fhor. Friedrich Schinkel, futuro grande costruttore di Berlino, è affascinato dal mondo medievale e dipinge luoghi immaginari con Cattedrale gotica sul mare (1815), mentre i Nazareni perlustrano i dintorni di Roma: a Olevano scoprono la vita campestre e la bellezza muliebre a mo’ di Raffaello, o dipingono temi tratti dal Vecchio e Nuovo Testamento.
La morte di Cecilia (1820) di Johann E. Scheffer von Leonhardshoff, è omaggio al Sanzio. Dunque questi mondi romantici sono molto frastagliati e vanno dal severo pietismo di Friedrich tra montagne, marine e boschi alla rivisitazione del mito asburgico di Fohr, all’arcadia romana.

Ritratto di una nazione


Per una mostra in corso a Londra lo storico inglese Simon Schama 
ha curato la galleria di personaggi che fecero grande la Gran Bretagna 
Da Elisabetta I a Winston Churchill qui ne commenta alcuni

Anna Lombardi

"La Repubblica", 3 gennaio 2016

SEMBRA L’INCIPIT di un romanzo ma la storia è tutta vera. E che storia: la biografia di una nazione, il ritratto — o in questo caso l’autoritratto — di un intero popolo. “Ogni mattina, per tutti gli anni 30 del 1700, Jonathan Richardson si levò presto e alla luce del giorno nascente, o a quella di una candela o di una lampada, inseguì sul suo stesso volto le tracce del progresso, o del ripiego, della sua condizione morale…”. Avete mai letto una rappresentazione più plastica del significato di un ritratto? Ecco: Simon Schama, cioè lo studioso britannico che giocando sul suo nome ha sempre rivendicato lo “shameless eclecticism”, l’eclettismo senza scrupoli della ricerca storica, di questi ritratti ne ha sfogliati e commentati a decine per inseguire — lui stesso — il progresso e il ripiego, appunto, di un intero popolo: il suo. È così che è nata una curiosa storia d’Inghilterra attraverso i ritratti, quelli conservati nella collezione della National Portrait Gallery. Un’operazione monumentale, che sotto il titolo The Face of Britain — Il volto d’Inghilterra — è declinata con l’eclettismo, anche mediatico, di Schama. Perché non si tratta solo della grande mostra alla Gallery, ma anche di una serie tv in cinque puntate sulla Bbc, oltre che di un enorme libro-catalogo edito da Penguin. Nell’era dei selfie, Schama propone un faccia a faccia con il passato perché — scrive — «i ritratti sono sempre stati realizzati con un occhio alla posterità».
Per visitare la mostra, divisa com’è in cinque sezioni — Potere, Fama, Amore, allo Specchio e Gente comune, ci vuole tempo. Qui Schama ci mostra lo schiavo senegalese Ayuba Suleiman Diallo, il primo africano ad avere un ritratto da “pari”. E ci racconta di quando il fotografo Yousuf Karsh, nel 1941, strappò il sigaro di mano a Winston Churchill: provocandogli quel ghigno ringhioso che lo trasformò nell’icona della lotta al nazismo. Perché il potere, si sa, ha sempre provato ad avere controllo sulla sua immagine: ma solo le immagini meno consuete hanno fatto la storia. Come il ritratto di Margaret Thatcher “rubato” da Helmut Newton: la lady di ferro voleva sorridere a tutti i costi, il maestro la fotografò fino a sfinirla — per ottenere quell’immagine a bocca stretta, così veritiera, che lei detestò sempre.
E come ritrarre invece l’amore? Dopo l’improvvisa morte della moglie Venetia, nel 1633 Sir Kenelm Digby chiamò l’amico pittore Anthony Van Dyck per immortalarla come fosse addormentata: un’abitudine tramandatasi fino a inizio Novecento, quando gli album venivano riempiti di putti cadavere, abbigliati a festa e fintamente dormienti, affinché restassero nel cuore della famiglia. Perché spesso, rincara Schama, il ritratto altro non è che la storia di un’ossessione. Come nei dagherrotipi di Lewis Carroll scattati alla piccola Alice Liddell — la bimba che ispirò il suo Alice nel Paese delle Meraviglie, e che l’autore non avrebbe voluto veder crescere mai. E poi c’è la gente: la gente comune e spesso senza nome. Come le coraggiose coppie miste fotografate negli anni Sessanta da Charlie Phillips a Notting Hill, ma anche i popolani dipinti da William Hogarth a metà Settecento.
«C’è un aspetto della ritrattistica, la storia del suo farsi, la fissità di un certo sguardo raccolto» scrive Schama «che non potrà mai essere ridotta a semplici dati». E che ritrovare oggi, nell’epoca dei selfie e di Snapchat, l’app dove le immagini scompaiono subito dopo essere state viste, forse diventa più importante che mai.

Se la fantascienza dà lezioni di politica



Verne, Wells, Bradbury... Da sempre dalla letteratura più visionaria si misura la maturità delle nazioni. Ecco perché oggi Obama legge il cinese Liu Cixin

Federico Rampini

"La Repubblica", 4 gennaio 2016

La fantascienza cinese aiuterà Barack Obama a districarsi nelle sfide geopolitiche del 2016? Il presidente americano forse non immaginava che la fine delle sue vacanze avvenisse in circostanze così brutali, con l’improvvisa escalation di tensione tra Iran e Arabia saudita. Sapeva però che l’ultimo anno della sua presidenza non sarà una tranquilla passeggiata: alla vigilia di Natale un sondaggio della Cnn gli ha ricordato che la maggioranza degli americani considera negativo il bilancio della sua politica estera. Forse per cercare ispirazione, Obama si era portato in vacanza una lettura sorprendente: un best-seller di fantascienza cinese. È The Three-Body Problem di Liu Cixin. È anche un romanzo di fantapolitica. Quando i giornalisti al seguito del presidente nelle Hawaii lo hanno scoperto, la notizia ha fatto il giro del mondo. Provocherà un balzo di vendite e di notorietà per un autore fin qui noto soprattutto in Cina? Di certo segnala qualcosa d’interessante nei rapporti Usa-Cina, la vera sfida di lungo periodo per la leadership planetaria, che per forza sarà anche basata sull’egemonia culturale.
52 anni, formazione scientifica, Liu Cixin ha lavorato come ingegnere informatico in una centrale elettrica dello Shanxi. Scoperto dal pubblico cinese nel 1999, ha dovuto attendere altri 15 anni prima che uscisse una traduzione inglese. Ma questa è stata subito coronata dal successo di critica, vincendo nel 2014 il prestigioso Hugo Awards della World Science Fiction Society. È la prima volta che questo premio di fantascienza è andato al romanzo di un autore asiatico. Un segnale da non sottovalutare. In Italia alcuni si ostinano a considerare la fantascienza un genere letterario minore nonostante che grandi scrittori abbiano voluto cimentarvisi, da Italo Calvino a Primo Levi. In realtà lo sviluppo della fantascienza si può considerare come un misuratore di “maturità” delle nazioni. I capolavori di questo genere sono spesso fioriti negli stessi luoghi dove avveniva il progresso tecnico, lo sviluppo economico, e questo si accompagnava alla costruzione di imperi: militari, coloniali, industriali, culturali.
Jules Verne e H.G. Wells sono ricordati più spesso per le loro capacità “profetiche”, ma sono anche due autori tipici di un’epoca in cui Francia e Inghilterra dominavano vasti continenti; le loro classi dirigenti impregnate di positivismo e di darwinismo avevano un’enorme fiducia nel progresso tecnico-scientifico. Verne esprime la Francia di fine Ottocento tanto quanto la Tour Eiffel e l’Expo universale di Parigi. Fu letto e ammirato dai potenti del suo tempo, da papa Leone XIII all’imperatore tedesco Guglielmo II. Rimane tuttora l’autore francese più tradotto nel resto del mondo. Wells, pacifista e socialista, rappresenta la coscienza critica dell’Impero britannico e invoca un superamento dei nazionalismi, verso un governo mondiale. L’ascesa degli Stati Uniti nel “secolo americano” porta con sé nuove generazioni di scrittori di fantascienza, come Arthur C. Clarke e Ray Bradbury. Si va dall’apoteosi delle avventure della Nasa (2001 Odissea nello Spazio) fino alle visioni più apocalittiche, “distopiche” e post-moderne di Philip Dick. Nella guerra fredda non può mancare l’altra superpotenza, quell’Urss che batte l’America proprio nei primi capitoli dell’avventura spaziale, con l’astronauta Gagarin. La fantascienza russa fin dagli albori ha la sua variante satirica o distopica, con uno scrittore come Mikhail Bulgakov che la usa per criticare lo stalinismo. Genera capolavori del cinema come Solaris e Stalker di Andrei Tarkovski, capaci di conquistare anche il pubblico occidentale. A cavallo tra le due superpotenze di allora c’è l’emigrato Isaac Asimov, ebreo russo la cui famiglia fugge negli Stati Uniti quando lui ha solo tre anni.
La Cina dunque arriva a sua volta all’appuntamento obbligatorio con la fantascienza. Ma è utopia o distopia, quella saga di Liu Cixin che ha catturato l’attenzione di Obama? Nella sua Trilogia dei Tre Corpi (di cui arriverà a luglio l’adattamento cinematografico), gli abitanti di un mondo tri-solare hanno imparato a sopravvivere nell’alternarsi di Età Stabili e di Età del Caos: cicli storici che avevano determinato il collasso e l’estinzione di molte civiltà prima di loro. È interessante l’antefatto originario. Tutto ha inizio con la Rivoluzione culturale, quella guerra civile (non dichiarata) che sconvolse la Cina nell’ultimo periodo della leadership di Mao Zedong: una tragedia che in un certo senso rappresenta il “parto traumatico” della Cina contemporanea. Pur senza avere mai fatto fino in fondo i conti con le responsabilità della leadership comunista nella Rivoluzione culturale, è dalla condanna di quell’esperimento che nasce la nuova Cina capitalista e globalizzata di Deng Xiaoping. Nei romanzi di Liu Cixin una donna scienziata, traumatizzata dalle violenze delle Guardie Rosse maoiste, lancia verso lo spazio un messaggio di Sos., ricevuto dai Trisolari. I quali partono alla conquista della terra per portarci la loro civiltà superiore. Se fosse questo il messaggio che affascina Obama, sarebbe una conferma del suo lucido pessimismo: una governance globale che risolva i conflitti del nostro tempo esula dalle capacità di noi umani? In realtà la fantascienza raramente ci offre delle soluzioni, più spesso è un indicatore efficace di quelli che noi avvertiamo come i nostri maggiori problemi. È probabile che Obama dentro la saga di Liu Cixin cerchi dei lumi sull’interpretazione cinese del mondo contemporaneo. Il romanziere con la sua fantasia creativa può aprire una porta laterale dentro il mondo impenetrabile di Xi Jinping, il leader che sta cercando di traghettare la Cina verso un nuovo ruolo e un nuovo modello di sviluppo. Da quando Obama inaugurò la sua presidenza nel 2008 annunciando un “pivot” verso l’Asia, almeno questa convinzione non lo ha mai abbandonato: anche se il Medio Oriente cattura la nostra attenzione immediata, il XXI secolo si giocherà lungo l’asse Usa-Cina, sia che prevalgano le ragioni della cooperazione o quelle della rivalità.