domenica 13 dicembre 2015

Tassoni, la rivincita dello sberleffo




Modena celebra il poeta della Secchia rapita 
che fustigò i palloni gonfiati dell’Italia cortigiana 
e nel cupo ’600 rivendicò la libertà del pensiero

Bruno Ventavoli, "La Stampa", 11 dicembre 2015

Se qualcuno fosse preso dall’uzzolo di leggere la Secchia rapita penerebbe a trovarla in libreria. Il paradosso che sia più facile imbattersi in un’edizione spagnola o inglese nel web la dice lunga sull’oblio in cui è caduto il genio della poesia eroicomica. Certo pesa la bocciatura di Croce che considerava il Tassoni un ripetitivo elencatore di personaggi, borghi, colpi di spada. Ma tanta dimenticanza è ingiustissima. Anzi, proprio quel poetare che suonava così monocorde rispetto alla fantasia lunare d’un Ariosto appare satiricamente attuale, quasi che le enumerazioni di gaglioffi, volgarità, viltà di polis padane, fossero tapiri in ottave d’una Striscia la notizia secentesca consegnati ai cortigiani di quell’Italia malmessa, rissosa, mediocre.
A risarcirlo di fama postuma provvede la sua Modena che per i 450 anni della nascita dedica convegni, il restauro della statua ai piedi della pendula Ghirlandina, e la mostra che si apre domani a Palazzo dei Musei (fino al 13 marzo) «Alessandro Tassoni spirito bisquadro» con dipinti ispirati al poema, i bellissimi disegni di Antonio Possenti, antichi volumi - tra cui il Vocabolario della Crusca e un Orlando furioso - postillati a mano dal poeta stesso. E poi, al centro, la mitica secchia che per l’occasione è stata sottoposta al carbonio 14 come una laica sindone: e (magnifico scoop!) l’esame ha stabilito che la reliquia di legno strappata a chissà quale pozzo risale davvero al ’300, ed è quindi autenticissima e non una millanteria mutinense.
Intellettuale poliedrico
La divertente esposizione (curata da Cristina Stefani, Grazia Biondi, Francesca Piccinini, Maria Cristina Cabani, Gabriele Bucchi), più che celebrare, illumina i vari aspetti di quell’intellettuale poliedrico, cortigiano, erudito, e soprattutto spirito beffardo. «Bisquadro», appunto, come egli stesso si definì quando entrò nell’Accademia degli Umoristi a Roma, di cui fu Principe tra il 1606 e il 1607, alludendo al suo essere «fuori di squadra», sempre irregolare e liberissimo. Anche a costo d’una vita non fortunata come avrebbe meritato. Con autoironia, e un velo d’amarezza, si fece ritrarre con un fico in mano, a dir per metafora che dalla cultura non ricavò un bel niente.
Nato nella Modena ghibellina, puzzolente per le cloache a cielo aperto, ma pronta a rivestirsi di splendore dopo che gli Estensi sfrattati da Ferrara la elessero capitale del Ducato, Tassoni fu segretario a Roma del cardinale Colonna, poi in Spagna, e a Torino con Carlo Emanuele I di Savoia, nel quale riponeva grandi speranze antispagnole. Ma fallì ogni tentativo di vincere la «contraria fortuna»: «come leggista, come segretario, filosofo, istorico, politico, poeta... e sempre mi sono ritrovato peggio che prima». Al crepuscolo della vita (morì nel 1635 a Modena), dopo aver scampato la peste ma non i veleni delle corti, si rinchiuse a coltivare fiori, il proprio animo, vendendo la preziosa biblioteca per far su qualche scudo.
Il suo capolavoro, la Secchia rapita, narra sì delle sanguinose guerre che gli emiliani si combatterono appoggiati gli uni dall’imperatore e gli altri dal Papa, concluse con la fulgida sconfitta, a Zappolino, inferta ai bolognesi dai modenesi, che presero per trofeo la «vil secchia di legno». Ma è soprattutto una vendetta su alcuni nemici con i quali aveva ingaggiato una violentissima contesa partita dal Petrarca e trascesa in violenti insulti pubblici. Uno, Maiolino Bisaccioni, pedina piccola, finì in galera. Il più odiato però era Alessandro Brusantini, accusato di aver usato arti negromantiche per estrarre un tesoro da una montagna, e noto perché sua moglie, irrequieta ferrarese, l’aveva tradito con un cavaliere di dubbia fama (e aveva pure cercato di ucciderlo).
Il Culagna alla berlina
Quel che Tassoni non ricevette dalla giustizia, perché il signore vantava amicizie potenti e girava con bravacci violenti pronti a ferir di spada, lo ottenne con la Secchia, ove lo derise immortalandolo nel conte di Culagna, gran fenomeno a parole, ma codardo, vanitoso, ribaldo, che ninfeggia con le donne nonostante sia sposato. La demolizione è totale. Non solo vien respinto dalla bellicosa Renoppia di cui s’è invaghito, ma anche cornificato dalla piacente moglie con un romanaccio più esperto d’un Siffredi, che «or la strigne or la morde or la rimira, ed ella cupida, dolente, languida» pare soddisfatta. A coronar lo scherno, vien preso da una colossale «cacarola» che impuzzolentisce la città, e si rinchiude in casa pieno di fifa quando dovrebbe finire il duello con il rivale.
Tassoni scrisse e riscrisse il suo poema in 12 canti per dribblare le censure e lo sdegno di chi trovava eccessiva la sua satira. Perché, oltre al Culagna, fustigò l’avarizia dei Papi che vendevano indulgenze, la stolidità di chi comprava con prosciutti titoli fasulli per vantare nobiltà, la crudeltà dei signorotti (che squartavano o eviravano i vinti), la poesia d’Omero, i capitani di ventura, gli eruditi, insomma tutto il mondo padano, le corti europee, e pure l’Olimpo degli dei. Per converso celebrò osterie, mostarde di Carpi, maioliche faentine, e la superiorità dei modenesi sui vicini, rammemorando che esiste una sentenza duecentesca per la quale una «testa quadra reggiana», qualora incontri un modenese, è «ubbligato» a levargli scarpe o coturni e a pulirli per rendergli onore.
L’immensa geniale erudizione risplende anche nei dieci libri dei Pensieri, opera ancora più dimenticata della Secchia, che in un periodo non certo felice per la ragione (Bruno fu arso vivo e Galilei costretto ad abiurare), annuncia la modernità, mettendo in discussione Aristotele e le conoscenze indiscusse: «se non resta l’intelletto convinto» occorre rifiutare qualsiasi verità per non lasciarsi mai portare dal «torrente delle opinioni comuni come pezzo di legno».
E così, con una bulimica, zibaldonesca fame di sapere, discetta sull’arte della guerra, la medicina, le virtù dei principi, sul perché il cielo e il mare paiono azzurri, sul perché da un padre grande può nascere un figlio idiota o viceversa (dipende dalla foga dell’amplesso)… insomma affronta curioso qualsiasi branca della cultura in centinaia di quesiti.
Il becco e il cornuto
Certo, scambia lucciole per lanterne. E in tema di cosmogonia dà torto a Copernico a sostenere che il Sole sta al centro dell’universo. Ma lo afferma non con la prona obbedienza alla Verità indiscutibile delle Scritture, bensì con brillanti deduzioni. Come a insegnarci che la ragione può dire castronerie, l’importante è che - appunto - ragioni, non s’inchini mai alle autorità. E non disdegni l’umanissimo brodo di vizi, bassezze, debolezze in cui sguazziamo.
Con la stessa solennità con cui discute dei corpi celesti, ad esempio, si prende la briga di discettare sulla differenza tra «becco» e «cornuto». Ebbene, dir cornuto non è villania, perché le corna in origine erano segno di nobiltà e grandezza. Becco, invece, è offensivo perché si riferisce a quell’animale «il quale ha quest’ignominiosa proprietà che, dove tutti gli altri maschi combattono per la femmina e guerreggiano col rivale, egli l’accarezza e lo lecca. E il dir becco ad un ammogliato significa ch’egli si compiace et ha gusto che altri si giaccia colla sua moglie».
Conviene saperle ’ste sottigliezze lessicali, e non per accademica pignoleria da Crusca (che peraltro Tassoni bacchettò). In un mondo ove i Culagna, pur se becchi, imbelli, voltagabbana, rimangono sempre a galla come «palloni di vento pregno», bisogna balestrare la quadrella giusta per sgonfiarli. Almeno a parole.

La rivincita filosofica delle sit-com sulle serie tv



Gabriele Romagnoli

"La Repubblica", 11 dicembre 2015

Come in Nietzsche o in Borges l’eterno ritorno di “Friends” continua ad appassionarci. Mentre “Mad Men” invecchia...
Se il filosofo Friedrich Nietzsche, lo scienziato Hugh Everett e perfino lo scrittore Jorge Luis Borges prima di perdere la vista potessero sedersi su un divano, azionare il telecomando e assistere a un’ennesima replica della sit-com “Friends”, sorriderebbero felici. Non alle battute dei sei ragazzi di New York, ma alla conferma delle loro teorie: l’eterno ritorno, gli universi paralleli, la vita come fiction. Tutto (ri)comincia in questa fine 2015. Il canale satellitare Fox decide di ritrasmettere in alta definizione la famosa serie americana che debuttò nel 1994 e si protrasse per dieci stagioni fino al 2004: 236 episodi di 20 minuti ciascuno, quasi 79 ore di vita per sei personaggi e i loro autori. In teoria. In realtà la loro esistenza si è estesa nello spazio e nel tempo, non è terminata, non ha seguito uno svolgimento lineare, si è arrotolata su se stessa, riprodotta, sovrapposta e confusa. Già alla fine degli anni Novanta, dato il successo planetario del programma, era possibile fare un esperimento: bastava avere un televisore in grado di captare qualche centinaio di canali nel mondo e si poteva assistere a Friends da mattina a sera. Alle otto in Perù, a mezzogiorno in Francia, verso sera in Polonia. Cambiavano le lingue dei doppiatori (unico per tutti quello est europeo), ma anche la condizione dei protagonisti. Nel sovrapporsi dello spazio e del tempo Chandler era magro, poi improvvisamente grasso, fidanzato con la terribile Janice o con Monica.
L’estenuante storia d’amore tra Rachel e Ross viveva una schizofrenia simile a quella della progressione delle puntate e l’inversione cronologica poco cambiava, come nel virtuosistico romanzo a ritroso di Martin Amis La freccia del tempo. In ventun anni è (ri)successo di tutto e tutto continua a (ri)succedere. Gongolerebbe Nietzsche, sostenitore di un’ontologia circolare per cui l’universo rinasce e rimuore secondo cicli temporali necessari (i palinsesti) ripetendo in eterno un determinato corso (la trama prestabilita). Ma altrettanto soddisfatto sarebbe Everett, lo scienziato che ha teorizzato il multiverso, più noto come sistema di universi paralleli, in cui ogni evento si può ripetere infinite volte, è già accaduto e riaccadrà. Infatti infinite volte Rachel e Ross si lasciano e si riprendono. E infinite sono le varianti che infinitamente accadranno: si detestano, si vogliono bene ma non al punto di tornare insieme, si ignorano. E se una cosa accade qui e ora, l’altra accadrà in Canada domani. Esulterebbe Borges: la vita è pura finzione, menzogna raccontata infinite volte, sino al punto da renderla vera. Perché se è vero questo, lo è anche il contrario: la fiction è vita. O meglio: lo è la sit-com.
Il dubbio si è insinuato lentamente. Siamo da anni così impegnati a celebrare la grandezza delle serie televisive, quelle a lunga gittata, un’ora per dodici episodi per sei stagioni o più, da non esserci accorti che il segno del tempo (e la sua distorsione) stava nelle sit-com. La traccia era in una frase così ricorrente da diventare luogo comune: le serie sono il nuovo romanzo. Appunto: letteratura, non vita. Le serie guardano indietro: Mad men è ambientata negli Anni Sessanta, 1992 si retrodata già dal titolo. Fuggono dalla realtà come Lost o la prefigurano apocalittica come Walking dead. Le sit-com si radicano nel qui e ora, entrano in casa, in una famiglia, in un gruppo di amici e non ne escono più. Se vuoi sapere come era l’America in un certo periodo della sua storia guardi All in the family: pregiudizi, conformismo e nazionalismo. Se vuoi sapere com’è oggi guardi Modern Family: il nonno ricco ha sposato una colombiana formosa, la coppia gay ha adottato una bambina vietnamita, i figli “regolari” sono quelli strani.
Chuck Lorre, il più prolifico e temibile autore di sit-com d’America, ha con ironia rivendicato il potere di creazione del genere dando all’ultimo successo globale il titolo di Big Bang Theory. Qui l’origine dell’universo deflagra, inevitabilmente, in due appartamenti sullo stesso pianerottolo, ritrovo di sei personaggi, ma uno è indiano, uno ebreo, uno ha la sessualità repressa e fuori, invisibile e immanente come i genitori dei Peanuts, c’è l’America di Obama. Tanto consapevole Lorre è del potere della sit-com di registrare e affermare le svolte sociali da aver deciso di concludere Due uomini e mezzo, costruita sugli eccessi del protagonista Charlie Sheen e sopravvissuta alla sua morte scenica, con un matrimonio tra i due protagonisti al sol fine di poter divenire padri, pur restando etero.
Così va, qui e ora. Destinato a essere qui e allora, ma in un eterno presente in cui quel che è accaduto non cessa mai di ripetersi e per questo può continuare a fornire un punto di riferimento. Come potrebbe altrimenti il presidente del consiglio Matteo Renzi citare Happy Days? Può farlo perché, tra la potenza esplosiva della prima trasmissione e l’eterno ritorno di Richie e Fonzie, quell’universo non è mai svanito dall’immaginario e tornerà, ancora. Riguardare una sit-com è un atto di nostalgia per come si era e di attenzione per capire un particolare dell’episodio che non si era colto. Difficile riguardare, in parte o per intero, I Soprano o Breaking bad: l’investimento di tempo non è ripetibile, soprattutto sapendo già come va a finire. La sit-com non finisce veramente, anche se per l’ultima puntata di Friends o Seinfeld si è fermata l’America. Semplicemente si conclude un ciclo destinato a ripetersi in quell’ontologia circolare di universi , famiglie, amici, nati dal big bang e vissuti per sempre, sia uguali a se stessi che in infinite variazioni. Fino all’istante in cui ci chiederemo se non sia piuttosto vero che sei ragazzi di New York, seduti davanti al divano nel loro appartamento, stiano guardando le nostre vite che scorrono. E ancora. E ancora.

La storia non si fa col calendario

Si pensi a Carlo Magno o a Giulio Cesare: le loro scelte incisero sui successivi secoli
Nel valutare lo spessore degli eventi la durata lunga o breve è un criterio molto debole

Giuseppe Galasso

"Corriere della Sera", 12 dicembre 2015

Torniamo a parlare della «durata», la categoria che tanta parte ha avuto, e continua ad avere, negli studi storici dalla metà del Novecento in poi. Non per parlare, però, ancora una volta, del peso che l’adozione di questa categoria ha avuto rispetto alla storia politica e alla massiccia «invasione» (come alcuni la definiscono) del suo campo da parte delle discipline sommariamente (e approssimativamente) indicate come «scienze umane». Un peso certamente non fausto, e ancor più fuorviante, se si considera il dato incontestabile che quella che si intende per «storia politica» non ha mai presentato una tipologia unica. Ognuno dei suoi grandi autori differisce dall’altro, in una varietà impressionante e altamente istruttiva di moduli euristici e narrativi, che formano l’incommensurabile ricchezza, non solo culturale, della storiografia occidentale (per stare solo a essa) dai tempi di Erodoto a oggi. Quando si parla quindi della storia politica come pura storia degli eventi, dei fatti militari, politici, diplomatici, istituzionali e simili, bisognerebbe, quindi, avere ben chiaro che questa storia è stata l’opera di autori che nei loro rispettivi moduli storiografici e letterari, e per i valori e le idee che li hanno ispirati, rappresentano ciascuno un mondo diverso. Tanti storici politici, insomma, tanti tipi o casi di storia politica.
Ma — ripetiamo — non è di questo che vogliamo parlare qui, bensì della famosa «durata». La sua distinzione in breve e lunga è di immediata percezione. L’alternativa posta dai due aggettivi sembra non lasciare spazio alcuno a una composizione della loro così netta antinomia. A guardare le cose più da vicino si scopre, però, che non è del tutto così, e per almeno due serie di ragioni.
La prima serie dovrebbe essere di più semplice approccio. Si tratta della facile constatazione che lunga e breve durata non sono due universi chiusi in se stessi, incomunicanti e incomunicabili nella loro azione e proiezione storica. In altre occasioni ho parlato di Alessandro Magno, di Giulio Cesare, di Carlo Magno, ma sono innumerevoli gli esempi possibili di condottieri, guerre, conquiste, dominazioni che dimostrano quanti e quali possano essere i rapporti, non sospettabili di primo acchito, tra lunga e breve durata. In questi casi l’azione di breve durata — una guerra, una conquista, l’avvio o le variazioni di dominazioni e imperi o regni di nuova istituzione, l’imposizione di determinate leggi e ordinamenti, e così via dicendo — pone le premesse e stabilisce le condizioni per svolgimenti e realtà della lunga durata.
Bisogna, inoltre, precisare che, quando parliamo qui di lunga durata, non ci riferiamo, come dovrebbe essere ovvio, alle lunghe durate di imperi e di Stati o di determinati equilibri politici. Ci riferiamo ai processi strutturali, antropologici etc. che in quei dati politici hanno solo una premessa o condizione. Tali processi — nella teorizzazione più autentica della lunga durata — si svolgono, infatti, sostanzialmente per propria natura e con propria logica; e sono essi a imporsi, in ultima analisi, nel fluire sotterraneo di mentalità e atteggiamenti, ai quadri politici in cui si ritrovano.
Più complessa e, soprattutto, più importante è la seconda serie di ragioni. La durata, lunga o breve che sia, è sempre un elemento temporale. Il tempo storico non è, però, il tempo del calendario. Non si misura, cioè, solo con il numero dei secoli o degli anni o dei giorni. Il tempo storico ha misure ancora più essenziali nella densità, nella qualità, nella velocità, nella complessità, negli effetti, nel tono, nella rilevanza degli eventi che in esso hanno luogo e nella sensibilità e mentalità con la quale il tempo è percepito e vissuto.
Perciò anche nel linguaggio corrente si dice spesso che certi giorni contano più di molti anni. Perciò uno storico del valore di Jacques Le Goff distinse acutamente fra il «tempo della Chiesa» e il «tempo del mercante». Perciò Adolfo Omodeo amava parlare di «primavere storiche». Perciò parliamo immaginosamente di «secoli bui» e di «secoli d’oro». Perciò la mentalità economica moderna ha introdotto la massima che «il tempo è denaro». Perciò una volta si sproloquiava sulla differenza fra la concezione orientale del tempo (incline più alla meditazione che all’azione) e quella occidentale (attivistica, rapida, frenetica: si ricordi il persiano di Montesquieu a Parigi).
Sono modi — questi, e gli altri, numerosissimi, citabili al riguardo — più o meno stringenti e pertinenti di considerare ed esemplificare questa materia. Valgono, comunque, indubbiamente, a darne un’idea schietta e sintetica. Soprattutto, poi, permettono di affermare e provano che l’antinomia di breve e lunga durata è più parziale e meno sostanziale di quanto si pensi. In quell’antinomia irrompe sempre, sottomettendola a sé, la forza discriminante del tempo storico in tutta la complessità degli aspetti che sono suoi.
Ciò significa, in ultima analisi, che il tempo non è determinato dal calendario, ma dalla storia. E non soltanto questo. Anche per il tempo storico vale, infatti, ciò che del tempo ci hanno detto da due secoli a questa parte filosofi come Kant, scienziati come Einstein e coloro che hanno sviluppato o modificato le loro vedute (non molto, comunque, né sostanzialmente, a mio sommesso avviso). In altri termini, e un po’ alla grossa, il tempo storico è puramente e semplicemente tempo, ma diventa un tempo particolare non tanto perché è teatro di «quella guerra illustre contro il tempo», che, secondo lo pseudo-anonimo manzoniano, impone alla caducità del tempo nella sua successione calendariale la memoria imperitura della storia. Lo diventa perché è una dimensione essenziale e primaria, costitutiva e imprescindibile — non calendariale e non filosofico-scientifica — del mondo umano nel suo divenire storico.
Da questo punto di vista l’antinomia di breve e lunga durata è un criterio di merito e di metodo assai debole rispetto alla essenzialità del tempo storico, che le compenetra entrambe, ed entrambe piega alle sue logiche e alle sue dinamiche. Né, con ciò, quell’antinomia perde tutto il suo senso e la sua utilizzabilità. Viene soltanto ricondotta nei limiti che sono suoi, mentre una terza durata non c’è, e terza durata non è in alcun senso il tempo storico in cui sia la breve che la lunga sono inscritte.