domenica 20 ottobre 2013

Il bimillenario di Augusto


Divinità e potere a Roma
Augusto messo a nudo

Duecento capolavori alle Scuderie del Quirinale 
nel bimillenario della nascita dell’imperatore

Silvia Ronchey

"La Stampa", 18 ottobre 2013

Il pudico principe, il dominus tutto decoro, il severo tristis per Ovidio pater patriae, il pontifex massimo, in pubblico e nelle ipostasi marmoree della sua autorappresentazione che fu tale in senso stretto se sul letto di morte, come narra Svetonio, chiese agli astanti di applaudire la sua «commedia» amava mostrarsi meticolosamente abbigliato, quando non togato e capite velato come nelle statue di Palazzo Massimo o di Ancona.
Fa una certa impressione vederlo completamente nudo. Ma è così che audacemente e teatralmente si presenta, un Augusto messo a nudo nell’illusionistico striptease della storia dell’arte, al pubblico della grande mostra aperta fino al 9 febbraio alle Scuderie del Quirinale, dove l’Augusto di Prima Porta il braccio alzato a chiedere silenzio, i bei piedi eroicamente scalzi, le ginocchia scoperte dalla gonna militare, la lorica istoriata di immagini di propaganda e appena sfiorata dal paludamentum che ricade molle sul polso che regge le lancia è per la prima volta affiancato al suo diretto modello marmoreo: il Doriforo di Policleto.
La somiglianza con il candido nudo che è epitome del Canone classico greco perfino nei tratti del viso è straniante, l’intenzionalità della citazione certa. E ha ragioni altrettanto radicate nella costruzione d’immagine del principato augusteo, la cui esegesi al pubblico è al cuore del concept della mostra, esplicitato dal suo ideatore Eugenio La Rocca nel secondo dei saggi che firma nel catalogo Electa: La costruzione di una nuova classicità.
Che il linguaggio artistico del saeculum Augustum non sia classicistico, ma «neo-classico» in senso proprio è suggerito fin dalla disposizione dei materiali, molti dei quali mai esposti e ora riuniti per la prima volta, come i rilievi di Medinaceli-Budapest. L’itinerario segue l’evolversi del pensiero politico del «divo» fino alla morte (14 d.C.) e all’apoteosi intesa, con un occhio all’ideologia e l’altro all’antropologia del mondo antico, come creazione di un nuovo dio, cui è dedicata una delle più emozionanti sezioni, con l’epifania dell’immenso Augusto di Arles e con il saggio Morte e apoteosi di Annalisa Lo Monaco.
«Io non vivo del passato. Per me il passato non è che una pedana», dichiarava Mussolini nella Sala dell’Impero della mostra che nel 1937 celebrò il bimillenario della nascita del princeps con deliberata attualizzazione del riordino statale augusteo in quello dell’«ordine nuovo» fascista, come illustra Andrea Giardina, Augusto tra due bimillenari. Il primo imperatore, il maker stesso di quella durevole entità che i bizantini chiameranno «l’animale imperiale», nel ricreare il suo novus ordo si servì del passato ma non certo in funzione restauratrice; un recupero «proattivo» che i suoi intellettuali interpretarono in «un canone», secondo Alessandro Schiesaro, «dalla straordinaria capacità di resistenza»: Virgilio e Orazio, Properzio e Tibullo, Ovidio e Livio, ma anche i perduti Cornelio Gallo e Vario.
Così, anche il linguaggio figurativo attinse alla classicità per riattualizzarla e non per imitarla freddamente, nonostante il giudizio tombale di Bianchi Bandinelli, ispiratore dei luoghi comuni novecenteschi sul classicismo augusteo che la mostra di Eugenio La Rocca mira a dissipare per sempre.
La legittimazione di ogni princeps, dal Medioevo all’età contemporanea, passerà sempre dal rinvio a Roma e al suo principe: per i duci e cesari novecenteschi come per altri meno cupi ascesi al ruolo imperiale dopo un percorso di cesarismo: Federico II, Lorenzo il Magnifico, più di tutti Napoleone.
Se nell’età napoleonica la creazione del Neoclassico segue la scoperta della scrittura e degli arredi pompeiani, il cortocircuito si enfatizza se si considera che i più belli sono augustei. La mostra ne presenta di straordinari, dal lussuoso braciere bronzeo con satiri itifallici, scoperto nei praedia di Iulia Felix durante gli sterri borbonici di Pompei e noto già dal Settecento, agli sgabelli della domus del Graticcio di Ercolano, testimonianze di una vita quotidiana raffinatissima. Napoleone si ispirò a Augusto, e la costruzione anche qui di una nuova classicità conferma che nessuno «stile impero» è mai restauratore, né è mai ideologicamente solo reazionario, ma in un qualche, non necessariamente gradevole modo anche rivoluzionario.
Lo è per esempio nell’esaltata celebrazione augustea della «pace», nella visionaria celebrazione della vita rurale, nella delirante nostalgia per la fertilità dei campi e degli animali, pacificati come gli istinti umani, per un’età dell’oro che torna contrapposta alla tetra stagione delle guerre civili. Un momento ipnotico che si riflette nelle Georgiche di Virgilio come nei capolavori delle Scuderie: nel gruppo dei Niobidi, i cui frammenti sono per la prima volta riuniti, e secondo la loro disposizione nell’obliquo del frontone, o nei tre grandi rilievi Grimani di Palestrina, giustamente comparati, nell’economia compositiva oltre che nel soggetto, ai versi virgiliani: «Il rilievo della cinghialessa, uno dei momenti più emozionanti dell’arte antica, non è classicismo ma invenzione suprema» (La Rocca).


Lo stile di Augusto

Il mito dell’imperatore che inventò la comunicazione attraverso l’arte

Edoardo Sassi

"Corriere della Sera", 18 ottobre 2013

Indietro nel tempo, venti secoli fa, il tramonto della Repubblica Romana e la nascita dell’Impero: una nuova epoca storica. E, va da sé, anche un nuovo gusto. Protagonista assoluto di quella stagione il figlio adottivo e pronipote di Cesare, colui che dopo la morte diverrà il divus Augustus, l’Augusto divinizzato, l’uomo che da mortale, durante i quattro decenni del suo lungo principato, aveva esteso i confini di Roma fino alla massima espansione, oltre l’intero bacino del Mediterraneo. 
A raccontare da oggi Augusto, la sua epoca, le sue contraddizioni, i suoi successi, una mostra di impianto rigorosamente scientifico ma anche di impatto spettacolare, allestita a Roma presso le Scuderie del Quirinale e inaugurata ieri dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Nata da un progetto dell’archeologo Eugenio La Rocca — e da lui curata con Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco, Cécile Giroire, Daniel Roger — la rassegna resterà aperta al pubblico fino al 9 febbraio 2014, anno in cui ricorrerà il bimillenario della morte del princeps , deceduto a Nola il 19 agosto dell’anno 14 dopo Cristo. Una mostra che dunque inaugura di fatto, sia pure in anticipo di qualche mese, le tante celebrazioni per questa ricorrenza ufficiale e che interrompe così un lungo «silenzio» espositivo sull’imperatore che durava dal lontano 1937. 
All’epoca, a un anno dalla proclamazione di tutt’altro impero, fu infatti il regime fascista a voler celebrare con la massima visibilità un altro bimillenario, quello della nascita del divus . E proprio una certa fascistizzazione del mito Ottaviano Augusto, con il suo corredo di magniloquente retorica, deve aver pesato in questi settantasei anni di assenza di Augusto dall’agenda espositiva italiana. All’epoca, alla colossale «Mostra augustea della Romanità» fu riservato l’intero Palazzo delle Esposizioni, e sventramenti furono effettuati, sempre a Roma, per creare l’attuale piazza intitolata all’imperatore, isolandone contestualmente il Mausoleo. 
Oggi, in tutt’altro clima storico-politico e senza forzature ideologiche, c’è la voglia di ripercorrere le tappe folgoranti di una biografia, di una carriera politica e di un’intera stagione con una selezione di grande pregio che annovera oltre duecento opere, tra le quali non pochi capolavori. Un’antologia non facile da mettere insieme e alla quale hanno infatti lavorato in tanti, sia italiani, sia francesi (la mostra è organizzata in collaborazione con il Louvre e dopo Roma sarà al Grand Palais di Parigi dal 19 marzo al 13 luglio 2014); sia lo Stato (Soprintendenza archeologica di Roma), sia il Comune (Assessorato alla Cultura, Azienda speciale Palaexpo, Musei Capitolini, Sovraintendenza). 
Escluse volutamente la pittura e l’architettura per motivi logistici e perché entrambe ampiamente rappresentate a Roma tra collezioni museali e luoghi fisici (tanti, dall’Ara Pacis al Teatro Marcello, i monumenti «augustei» e le pitture parietali in situ), la mostra alle Scuderie si incentra, come spiegano i curatori, «sulla scultura, sui bronzi, sulle terrecotte, le monete, le gemme, i cammei, i gioielli e sulle arti cosiddette minori, con una scelta critica basata su opere che rivelano nel modo più idoneo il sistema di comunicazione adottato da Augusto e dalla sua corte, e che presentano una qualità artistica superiore alla media». 
Il percorso si apre con la colossale Statua marmorea di Augusto, oltre due metri di altezza, ritrovata nel teatro antico di Arles (il torso rinvenuto nel 1750, la testa nel 1834). Al suo fianco una scultura raffigurante la moglie Livia, del tipo orante. A seguire una pressoché ininterrotta sequela di meraviglie tra marmi, ori, argenti, vetri, tripodi, anelli, torsi, crateri o ritratti, provenienti da alcuni tra i maggiori musei del mondo (British, Metropolitan e Louvre alcuni dei prestatori stranieri). 
Tra i picchi dell’esposizione, il confronto ravvicinato tra il Doriforo di Pompei (Napoli, Museo Archeologico Nazionale) e la celeberrima Statua di Augusto cosiddetta da Prima Porta, prestata dai Musei Vaticani, scultura in marmo ritrovata sulla via Flaminia nella villa di Livia e che fece da prototipo alle onnipresenti effigi dell’imperatore. Altro prototipo famoso esposto, la Statua togata con capo velato, ritrovata nel 1910 nelle fondamenta di una casa in via Labicana. 
E al tipo Prima Porta appartiene inoltre la splendida testa bronzea da Meroe, Sudan, oggi a Londra, ritrovata volutamente sepolta sotto il pavimento di accesso a un tempio della capitale nubiana e per questo perfettamente conservata. Quel seppellimento aveva lo scopo di far calpestare, simbolicamente, l’odiato Augusto da chiunque entrasse nell’edificio destinato a celebrare le vittorie dei sovrani meroiti. 

«Cerebrale e politico. Ma l’inquieto Cesare suscita più passioni»

Fu uno stratega, 
non un condottiero

Roberta Scorranese

"Corriere della Sera", 18 ottobre 2013

Andrea Giardina, uno dei più fini conoscitori della Roma antica, introduce la figura di Augusto citando Karl Marx: «Secondo il filosofo, nell’era del capitalismo, il concetto di soddisfazione è volgare. Forse è per questo che, ancora oggi, Cesare è più popolare di Ottaviano: Cesare era un insoddisfatto, in fondo un perdente, uno che è morto assassinato. Augusto no: troppo preciso e astuto per essere anche coinvolgente. Ecco perché su di lui sono stati realizzati pochissimi film, pochi spettacoli teatrali, molte statue celebrative ma poche tele a effetto drammatico. Diciamo che la modernità si identifica con i personaggi sofferenti, in un impeto che mescola cattolicesimo e romanticismo». 
Già, a differenza del padre adottivo, Augusto è morto nel suo letto e non assassinato; è ricordato per la finezza politica più che per il coraggio militare; non ha mai vestito i panni del «dittatore democratico», bensì ha dato vita all’Impero romano. «Augusto è entrato nell’agone politico poco più che adolescente (19 anni, ndr ) — dice Giardina, che nel catalogo della mostra ha curato un saggio sul personaggio — ma ha immediatamente dimostrato un grande talento politico, riuscendo a barcamenarsi tra Antonio e Bruto. Aveva ricevuto un’educazione regolare, conosceva la retorica e almeno il latino e il greco. Ma era un cerebrale, un ragionatore». 
Machiavellico, più che istintivo. E così la sua fortuna, nell’età moderna, è stata altalenante. «La Rivoluzione Francese e quella Americana non lo hanno amato — continua lo storico — preferendogli Bruto o Catone l’Uticense, i martiri vittime del potere. Poi, nella seconda metà dell’Ottocento, Augusto ricomparve, anche come modello artistico». Ritratto o scolpito quasi sempre con la toga, nella veste canonica del cittadino romano, in un fermo equilibrio intriso di valori patriottici, non poteva non diventare un «faro» per Benito Mussolini, il quale, nel 1937, colse l’occasione di celebrare il bimillenario della nascita dello stratega, al fine di identificarsi con lui. Eppure, per Giardina «la dimensione guerriera di Augusto aveva molte incrinature. Nonostante il fatto che, sotto di lui, l’impero romano fu notevolmente accresciuto, e anche se nelle Res gestae il principe enfatizzava i propri successi militari, ciò non significava che egli potesse essere considerato un grande condottiero» . 
È sempre stato più un simbolo astratto che non un’immagine concreta dell’uomo «nel fango e nella polvere». Però che lungimiranza politica: vissuto a cavallo tra il mondo pre-cristiano e quello cristiano, unificò l’Impero, divise le province, unificò il fisco imperiale, riorganizzò l’amministrazione di Roma. I limiti? Per Giardina, Augusto non ha saputo «anticipare quell’osmosi sociale verticale che arriverà dopo l’addio alla schiavitù, né intercettare cambiamenti sociali», come quelli nati dall’allargamento della cittadinanza romana. Quel che oggi resta, è (anche) un patrimonio d’arte e memorie non ancora del tutto scandagliato . 


«la Naumachia che Augusto aveva fatto realizzare a forma di ellisse lì vicino, 

tra le odierne chiese di San Cosimato e San Francesco a Ripa»

Sulle sue tracce, dal miglio aureo al mausoleo

Lauretta Colonnelli

Passeggiando nella capitale tra i resti monumentali e qualche sorpresa sotterranea Tutte le strade portano a Roma, recita un proverbio nato dall’efficiente sistema viario dell’antica Urbe. In realtà tutte le strade partivano da Roma, da una colonna marmorea rivestita di bronzo, che fu posta nel Foro da Augusto, divenuto «curator viarum» nel 20 a. C. La colonna si chiamava «miliarium aureum», pietra miliare aurea, e da questa si misuravano in miglia tutte le distanze dell’Impero. La base della colonna, decorata con palmette, è visibile ancora oggi davanti al tempio di Saturno, ai piedi del Campidoglio. 
Si potrebbe partire da qui per una passeggiata alla ricerca dei monumenti che ricordano il primo imperatore romano. Non lontano dal miliario ci sono i resti del suo Foro, collocato ortogonalmente rispetto a quello di Cesare e riconoscibile dalle colonne del tempio di Marte Ultore che vi era inserito. Su via dei Fori imperiali si incontra la sua statua loricata, copia novecentesca in bronzo di quella marmorea ritrovata il 20 aprile 1863 nella villa della moglie Livia a Prima Porta e conservata ai Musei Vaticani. Gli storici hanno sempre detto che la lorica (la corazza dei legionari) fosse in pelle. L’archeologo sperimentale Silvano Mattesini sostiene che fosse cucita in undici strati sovrapposti di lino, come quella di Alessandro Magno, detta «linothorax». Lo dimostrerebbero i laccetti che si vedono sotto il braccio destro della statua, usati per stringere la lorica fino a renderla aderentissima, come si faceva con i corsetti femminili nel Settecento. La statua di Augusto come pontefice massimo, conservata al museo di Palazzo Massimo, risale invece agli anni immediatamente successivi al 12 a. C., quando l’imperatore assunse la più alta carica sacerdotale. 
Ma il cuore della Roma augustea si trovava in Campo Marzio, nell’area oggi compresa tra il Parlamento e il Tevere, in prossimità del «pomerium», il confine sacro della città. Qui il 30 gennaio del 9 a. C. fu inaugurata l’Ara Pacis, concepita per celebrare la pace augustea, dopo le imprese compiute a nord delle Alpi e in Spagna. L’imperatore fece costruire contemporaneamente l’«horologium solarium», la più antica meridiana di Roma. Tracciata su un pavimento in lastre di travertino, misurava 160 metri per 75. Lo gnomone era costituito dall’obelisco di Heliapolis (ora in piazza Montecitorio) che Augusto aveva trafugato dall’Egitto con lo scopo, come scrive Plinio, di «captare l’ombra del sole e quindi stabilire la durata dei giorni e delle notti». Il 23 settembre, compleanno di Augusto, l’ombra veniva proiettata sull’Ara. Un lembo dei resti della meridiana, è visibile nel cortiletto al numero 48 di via di Campo Marzio. Sepolta ben presto sotto i detriti alluvionali, l’Ara Pacis fu dimenticata per un millennio, finché i suoi resti cominciarono a tornare alla luce. Nel 1938 venne finalmente ricomposta, trecento metri a nord dalla collocazione originaria, accanto al Mausoleo che Augusto aveva fatto costruire nel 29 a. C. e che Strabone descrisse con ammirazione, come «un grande tumulo presso il fiume, su alta base di pietra bianca, coperto fino alla sommità di alberi sempre verdi; sul vertice è il simulacro bronzeo di Augusto e sotto il tumulo sono le sepolture di lui, dei parenti e dei familiari». Nel 1936, dopo le demolizioni attuate nella zona per costruire l’attuale piazza, il mirabile Mausoleo prese quell’aspetto di «dente cariato» che si vede ancora oggi (la definizione è di Antonio Cederna). Fu l’ultima trasformazione delle tante subite nei secoli: fortilizio nel medioevo, anfiteatro per spettacoli e corride alla fine del Settecento, sala per concerti con il nome di Auditorium Augusteo per l’orchestra di Santa Cecilia ai primi del Novecento. 
Un’altra curiosa traccia della Roma augustea si trova a Trastevere, nei sotterranei di un palazzone costruito nel dopoguerra al numero 9 di via della VII Coorte. Qui si conservano i resti della caserma del corpo dei vigili del fuoco istituito nel 6 d. C. dall’imperatore. Sono svaporati i circa cento graffiti ritrovati nel 1866 sulle pareti: raccontavano la vita difficile dei pompieri, in una città fatta in gran parte di legno. «Sono stanco, datemi il cambio», lasciò scritto uno di loro. Affrontavano il fuoco con pompe a sifone, pertiche, corde, scale, recipienti per l’acqua. Forse l’attingevano dalla Naumachia che otto anni prima Augusto aveva fatto realizzare a forma di ellisse lì vicino, tra le odierne chiese di San Cosimato e San Francesco a Ripa, e che era alimentata dal lago di Martignano, attraverso l’acquedotto dell’imperatore, uno degli undici dell’epoca. Trastevere è uno dei 22 rioni di Roma che derivano dalle 14 «regiones» in cui Augusto aveva diviso la città . 


Augusto
Il primo imperatore che trasformò Roma in una città di marmo
Alle Scuderie del Quirinale da oggi sculture e oggetti provenienti da tutto il mondo ricostruiscono la storia e la personalità di Ottaviano a duemila anni dalla morte

Claudio Strinati

"La Repubblica", 18 ottobre 2013

Duemila anni fa moriva l’imperatore che si celebrava come princeps di una nuova età dell’oro, e oggi Roma ricorda Augusto con una grande mostra alle Scuderie del Quirinale progettata da Eugenio La Rocca (e realizzata da un comitato scientifico composto da La Rocca stesso, Claudio Parisi Presicce, attuale Sovrintendente capitolino, Annalisa Lo Monaco, Cécile Giroire, Daniel Roger). Rispetto alla mostra tenutasi a Berlino del 1988 nel Gropius-Bau questa romana si basa sulla più aggiornata conoscenza degli studi e mette al centro il tema della produzione artistica senza la pretesa di sviscerare ogni aspetto del mondo augusteo, tramite uno sforzo organizzativo eccezionale che ha impegnato le maestranze delle Scuderie, sotto la direzione di Mario De Simoni coadiuvato da Matteo Lafranconi, in un allestimento che ha richiesto mesi di lavoro, degno veramente di ogni lode.
L’esposizione appare quale vera e propria epopea di cui offre subito una sintetica immagine la superba scultura dell’Augusto di Arles, opera gigantesca da confrontare con l’Augusto di Prima Porta, altro titano pure presente. Qui alle Scuderie il grande argomento è quello della visione della classicità e dei caratteri peculiari dell’arte nell’età augustea. Ottaviano Augusto, attraverso l’arte e la letteratura, tese a dimostrare come con il suo avvento fosse ritornata la mitica “età dell’oro”. Ovunque, all’epoca, appare il suo ritratto nei diversi momenti del lunghissimo comando. Oggi ne restano poco più di duecento raggruppabili, come ben si vede in mostra, in tre tipologie fondamentali: ora viene paragonato ad Apollo, ora è un nudo in armi, ora è togato e velato, custode della pace, rinnovatore della grande tradizione antica. La sua effigie è monumentale o visibile su gemme, cammei, monete. La sua presenza investe di sé ogni manifestazione artistica di cui la mostra offre vasta documentazione, anche se pittura e architettura appaiono solo da proiezioni di suggestive immagini che accompagnano il visitatore.
Come fu formulato in arte il principio del ritorno dell’età dell’oro, della consacrazione di una fase sociale di pace, prosperità, ordine e bellezza? Trasgressivo, ironico, spiritoso, prudente ma portato alla battuta aspra e volgare, Augusto padre della patria volle che la produzione artistica del suo tempo ambisse a presentarsi come sintesi universale incentrata, appunto, sull’idea del ritorno alle origini riscontrate negli atti di governo e nella politica generale, nell’amministrazione e nella gestione delle risorse, quale si vede nell’Ara Pacis, eretta in suo onore a partire dal 13 a. C. L’imperatore vuole creare uno spazio estetico necessario per definire un potere assoluto e ambiguo, pacificatore e insieme ipocritamente attento a utilizzare costantemente lo strumento del ricatto e del pettegolezzo per comprare qualunque cosa, dal potere militare, alla legittimità della discendenza da Giulio Cesare, alla subdola forza della diffamazione, mescolando vizi privati e pubbliche virtù tali da costringere il Senato a acclamarlo e proteggerlo. Dice lo storico Svetonio che Augusto in tarda età avrebbe affermato di aver preso Roma quando era una città di mattoni e di averla trasformata in una città di marmo. La verifica storica, attuabile anche nel percorso della nostra mostra, gli dà ragione. C’è, peraltro, una miriade di autentici capolavori che permettono di avere chiara la visione di un’arte che è tale perché così la vuole il potere costituito ma che parla con un linguaggio autonomo che di quel potere è largamente in grado di prescindere.
I principi della Riconciliazione e della Rinascita sono chiaramente espressi nell’Ara Pacis ma risultano altrettanto chiaramente espressi in tutta l’arte augustea. Dal Louvre (che ha collaborato in modo determinante a questa mostra che vi verrà poi esposta dopo la sede romana) è giunto anche l’unico frammento dell’Ara
Pacis portato via da Roma e di cui, nella ricostruzione attuale nell’edificio di Meier, si vede un calco. È un frammento stupendo, paragonato in mostra a un altro pezzo sublime che dice molto sulla scultura romana del tempo la Tellus proveniente da Cartagine e che è in chiaro rapporto con il riquadro detto la Saturnia Tellus dell’Ara Pacis.
Questi pezzi memorabili permettono di orientare tutta la visita, a condizione di comprendere il loro “classicismo” che non è imitazione a Roma del modello greco, ma è una rinnovata e vivente sintesi di arcaico e moderno, di idealizzazione e naturalismo secondo un principio di verità e intimità che Augusto, vero Giano bifronte distruttore e insieme salvatore dei valori repubblicani, porta nel dibattito culturale romano facendone un prototipo di riferimento per i secoli a venire. Quello che veramente colpisce è la raffinatezza e la delicatezza estrema di certa produzione artistica come nei formidabili argenti provenienti dal tesoro di Boscoreale o le incredibili ceramiche sigillate aretine prestate in parte dal Louvre, per non parlare di alcuni arredi della casa come una serie di vetri che documentano la eleganza e la preziosità di questa arte, imperiale ma sobria e discreta. Sorprende, nella visita alla mostra, l’afflato del sentimento che si vede in numerosissime opere che tutto sembrano meno che apoteosi servili del potere. Lo si percepisce bene, ad esempio, nei tre rilievi marmorei Grimani (due da Vienna e uno da Palestrina) forse parti di un ninfeo con le rappresentazioni di una pecora, una leonessa e una cinghialessa che nutrono i figli, immagini di tale sublime bellezza e di tale potenza espressiva da potersi paragonare alla poesia virgiliana o ovidiana. Tra queste opere ragguardevoli vanno almeno ricordate le bellissime lastre di terracotta Campana (dalla antica collezione di provenienza) anche queste in buona parte dal Louvre, o il fenomenale Tripode con un braciere, in bronzo, da Napoli.


Quando il potere fu racchiuso in un solo nome
Il significato del titolo attribuito al sovrano dal 27 a.C.

Maurizio Bettini

"La Repubblica", 18 ottobre 2013

Il titolo che Ottaviano assunse nel 27 a.C., Augustus, lo stesso con cui continuiamo a chiamarlo, non ha dato nome soltanto a un mese, Agosto, o a quel Ferragosto, Feriae Augusti, che ancor oggi celebriamo con tanta dedizione. Lo ha dato a un’intera epoca, l’età augustea appunto, uno dei momenti più alti, e insieme più problematici, della civiltà romana. “Età augustea” vuol dire infatti Virgilio e Orazio, Ara Pacis e Teatro di Marcello – un fiore meraviglioso nato però dal sangue, e destinato comunque a trasferire in occidente il seme dell’impero e del potere assoluto. Ma se età augustea significa tutto questo, che cosa vuol dire a sua volta Augusto? O meglio, che cosa significa augustus?
Svetonio racconta che Ottaviano da giovane portava il cognomen di Thurinus, e che Antonio, per denigrarlo, usava chiamarlo così nelle sue lettere. In seguito egli assunse il nome di Gaius Caesar e infine, per suggerimento del senatore Munazio Planco, quello di Augustus. L’imperatore stesso, nel catalogo monumentale delle sue imprese, le Res gestae, ricorda con orgoglio il momento in cui questo titolo gli fu attribuito, in cambio della generosità con cui aveva rifiutato i poteri straordinari e restituito la res publica al popolo. Lo storico Cassio Dione, però, racconta la storia in modo diverso.
Secondo lui Ottaviano, desiderando esser chiamato con un appellativo speciale, avrebbe dapprima scelto quello di Romulus, in questo modo identificandosi direttamente con il fondatore della Città. Poi però, temendo che tale decisione lasciasse adito al sospetto di aspirare al “regno” – un’ipotesi inaccettabile per i Romani – ripiegò su Augustus. Il che non significava peraltro abbassare le proprie ambizioni, al contrario.
Questo titolo infatti veniva generalmente attribuito alle divinità, come Giove, Apollo o Esculapio. Ovidio, in uno dei suoi non rari momenti di imbarazzante adulazione, non esiterà a mettere in evidenza il valore divino, sovrumano, che questo appellativo implicava. Se infatti Pompeo fu detto “grande” (Magnus) – scriveva nei Fasti – e Fabio addirittura “grandissimo” (Maximus), essi furono comunque celebrati con onori umani: «ma Augusto ha in comune il proprio nome con Giove». Al di là dell’adulazione ovidiana, però, bisogna dire che Ottaviano, come in molti altri casi, anche quando si trattò di scegliersi un titolo d’onore sapeva bene quello che faceva.
L’aggettivo augustus, infatti, affondava le proprie radici in una delle configurazioni linguistiche e culturali più antiche, e più rilevanti, della civiltà romana. Si tratta di una famiglia di parole che si rifà al verbo augeo “accrescere” nel senso, anche sacrale, di portare a compimento con successo una determinata azione; e vanta termini come augurium, ossia l’esplicita approvazione che gli dèi concedevano a un’impresa; augur, il nome che designa colui che aveva il compito di prendere gli auspicia, ossia di consultare la divinità riguardo all’azione da intraprendere (cosa che a Roma si faceva regolarmente prima di qualsiasi decisione importante); e ancora il termine auctor, colui che dà inizio e porta al successo un certo processo, e insieme ad esso auctoritas, ossia la condizione di “autorità” detenuta da qualcuno nel senso della sua capacità di portare felicemente a conclusione, ancora una volta, una certa azione: la più nobile, come si vede, e la più giustificabile forma di autorità che ci si possa augurare. Assumendo il titolo di Augustus, dunque, se Ottaviano ascendeva in qualche modo al mondo degli dèi, come sosteneva Ovidio, accedeva anche al più laico, ma non meno importante universo costituito dal “successo” delle proprie iniziative e dalla auctoritas che ne sta all’origine. Due qualità fondamentali per chi vuole governare un impero.


domenica 13 ottobre 2013

Con il gesto epico di una lattaia Vermeer riesce a fermare il tempo


Melania Mazzucco

"La Repubblica", 13 ottobre 2013

In Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, lo scrittore Bergotte, al Jeu de Paume per una mostra di Vermeer, muore d’infarto mentre ammira la Veduta di Delft. Il minuscolo lembo di muro giallo, «dipinto così bene da far pensare a una preziosa opera d’arte cinese», gli sembra migliore di ogni sua frase: quella materia ricca di strati di colore l’unica bellezza per cui vale la pena vivere. Ma per me il più bel muro del mondo è quello che chiude insieme la cucina e il quadro nellaLattaia.Una superficie rivestita di intonaco bianco crema – grezza e nuda come una pagina, o una tela.
La lattaia apparteneva al principale committente e mecenate di Vermeer, Peter Claeszoon van Ruijven. Finì all’asta ad Amsterdam, nel 1696. Nel catalogo era descritta come «una cameriera che travasa il latte, eseguita alla perfezione, fiorini 175». Una cifra elevata ma non eccezionale. L’autore era stimato dai contemporanei, un bravo maestro, come tanti altri. Però solo laVeduta di Delft fu valutata di più.
Vermeer ha dipinto poco. In 22 anni (morì giovane, a 43), 28 quadri certi, più 7 discussi. Nemmeno 2 all’anno, mentre i suoi colleghi arrivavano a 50. Non sappiamo se la parsimonia era dovuta a pigrizia di invenzione, nostalgia della perfezione, o alla malinconia. Ha dipinto quasi sempre giovani in un interno. Mai vecchi, neonati, animali, fiori. Ha raffigurato donne intente a scrivere o leggere lettere, ma non ne ha lasciata una. Di lui conosciamo quanto forma la trama di una vita – famiglia d’origine e propria, debiti, relazioni, malattia e morte – ma ci sfugge l’essenziale. In questa esistenza elusiva un’unica data conta: il 1653. Quell’anno, ventenne, Vermeer sposò Catharina Bolnes, giovane cattolica benestante che gli offrì le rendite della madre e l’agio della casa di lei sull’Oude Langendijk, e si iscrisse alla corporazione di san Luca, divenendo maestro pittore. Gli eventi della sua biografia – la nascita dei moltissimi figli, i rapporti coi colleghi, i successi, la crisi economica, perfino la guerra – non trovano spazio nella sua pittura, come accidenti senza eco. Separando la sua persona dall’opera, Vermeer si è annullato in essa.
La lattaia ha braccia sode e corpo robusto. Non somiglia alle bambole di porcellana degli altri suoi dipinti, e neanche alle loro affettate cameriere. Indossa abiti da poco, il corpetto di camoscio giallo limone cucito grossolanamente, il tessuto logoro delle maniche rimboccate, la stoffa ruvida del grembiule blu, la cuffia sgualcita. Vermeer non ha mai più dipinto una donna di bassa estrazione sociale come lei. Solo donne e ragazze della borghesia (gli uomini gli divennero presto superflui) in occupazioni frivole – bere, suonare, provarsi gioielli. Forse usò come modella Tanneke Everpoel, la domestica della moglie, per anni al servizio dei Vermeer e a loro legata da non banale devozione: nel 1663, durante una lite, si lanciò sul fratello della signora (pazzo violento che finì i suoi giorni in una casa di correzione per delinquenti) impedendogli di piantarle la punta di ferro del bastone nel grembo. La moglie di Vermeer era incinta.
Ma Vermeer spersonalizza la lattaia, come tutti i suoi modelli, privi di identità e inespressivi come maschere. Malraux paragonò i loro volti enigmatici a quelli dei kouroi della Grecia arcaica.La lattaia deriva da altri quadri, perché Vermeer – idolatrato per la minuzia del dettaglio naturalistico – inventava invece non dalla realtà ma dall’arte. Commercianti, birrai, fornai e mercanti di Delft apprezzavano la pittura di genere: scenette ambientate in bordelli, cucine e salotti, che col pretesto di moralizzare descrivevano i costumi contemporanei. Esisteva una Lattaia di Gerrit Dou, “fine pittore” di Leida. Ma Vermeer andò a cercarsi il modello in una Regina Artemisia dell’italiano Domenico Fiasella: un quadro di storia. Era ancora giovane e non limitato dall’ambizione di essere considerato un gentiluomo: fece qualcosa di inaudito (e irripetibile). Diede alla sua serva la dignità di una regina.
La lattaia è sola, nella cucina spoglia. Nella finestra a sinistra, da cui entra la luce del giorno, uno dei vetri è rotto. Gli arredi sono modesti: sul pavimento uno scaldino, sulla parete d’angolo un cesto di vimini e un secchio di rame. E la cornice scura di uno specchio. Che non riflette nulla: la pittura non è copia della realtà. In basso, il battiscopa è una fila di piastrelle quadrate di ceramica decorate con disegni azzurri: artigianato di qualità, sfornato dalle fabbriche di Delft. Vi si riconoscono dei Cupido. Forse alludono all’amore. Cosa pensa la serva mentre, le palpebre basse, assorta, lavora? Sul tavolo, una caraffa, una cesta, forme di pane e la ciotola di terracotta in cui lei facolare un filo di latte. Il pittore la inquadra dal basso. Forse perché dipingeva seduto, e quello era il suo punto di vista. Forse perché così la figura acquistava monumentalità. Vermeer, noto nel ’600 per l’abilità nella prospettiva, costruì attentamente quella di questa tela, in cui si vede ancora il foro dello spillo in corrispondenza del punto di fuga. Sulla mano destra della lattaia. Perché è il suo gesto che deve catturare lo sguardo. La luce batte sulla cuffia, sulla fronte della ragazza, e sul muro dietro di lei. L’effetto del chiaroscuro ritaglia la figura (evidenziata sulla spalla e sul lato sinistro dalla linea di contorno bianca), che sembra sospinta in avanti, verso lo spettatore. Ma il tavolo ingombro di masserizie lo tiene a distanza – di qua dalla soglia. Gocce di colore picchiettate con la punta tonda del pennello (è la tecnica del “puntinato”) riflettono la luce: il manico della cesta e la crosta del pane barbagliano. Il fiotto del latte e la ragazza acquistano una forza epica. Il tempo si ferma, un attimo insignificante si dilata all’infinito e racchiude il segreto della vita.
Ma il muro? Non serve solo da sfondo. Vi affiorano minime tracce. Un chiodo, e la sua ombra: il buco di un altro chiodo che, quando è stato estratto, ha scrostato l’intonaco. Sono tracce reali e insieme metaforiche. In quella cucina era appesa una carta geografica, e Vermeer l’aveva dipinta. Non eseguiva disegni preparatori e si concedeva molti ripensamenti: correggeva, eliminava, copriva. E così poi ha cancellato la carta geografica (suggeriva il mondo esterno, che lui voleva invece escludere dal quadro). Il mondo è tutto qui: esistono solo la donna e il latte che sgorga dalla brocca. Il chiodo però si vede, come i buchi. L’arte raffigura ciò che resta. La pittura può solo colorare le tracce, registrare con la massima cura e amore (la perfezione cinese di Proust) gli istanti della nostra vita – le assenze, le ferite, lo sbriciolamento di ogni superficie su cui la luce (il tempo) si posa. Vermeer non svelerà mai a cosa sta pensando la lattaia. Il silenzio che impone ai personaggi è il suo. Lascia che parli il muro. Cioè la pittura stessa.

Cleopatra. Effetto regina



Gli anni romani della femme fatale che portò l’Egitto nell’Urbe
E influenzò il potere e i costumi

Lauretta Colonnelli

"Corriere della Sera", 13 ottobre 2013

Il ritratto di Cleopatra, che accoglie il visitatore all’ingresso della mostra dedicata all’ultima regina d’Egitto, presenta un bel volto ovale dai tratti regolari, l’incarnato fresco, gli occhi allungati, le labbra piene, i capelli acconciati in file geometriche di boccoli. Scolpito da un artista greco in marmo pentelico, probabilmente tra il II e il I secolo a. C., e ritrovato nel 1887 nei pressi della chiesa dei Santi Pietro e Marcellino sulla via Labicana a Roma, ha una somiglianza con la regina tolemaica, ma potrebbe essere anche la raffigurazione della dea Iside. 
Per avere maggiore certezza della fisionomia di Cleopatra bisogna arrivare al cuore della mostra, dove è esposta un’altra testa in marmo bianco, considerata come la prima identificazione di una delle più famose femme fatale dell’antichità. Proveniente dai Musei Vaticani, la scultura costituisce uno dei due ritratti più sicuri della regina, entrambi riaffiorati da scavi laziali. L’altro ritratto si trova a Berlino e non è arrivato per questa esposizione, che presenta centottanta opere concesse soprattutto da musei italiani, dai Capitolini all’Egizio di Torino e all’Archeologico di Napoli ma che si avvale anche di prestiti anche dal Louvre di Parigi e dal British Museum di Londra. 
Alcuni studiosi ipotizzano che la testa dei Vaticani appartenesse alla statua fatta realizzare da Cesare nel 46 a. C., quando Cleopatra era ospite nella sua villa trasteverina. Secondo Dione Cassio, la statua fu collocata con grande scandalo dei romani nel tempio di Venere Genitrice, accanto a quella della dea. La regina ha il volto pieno, gli occhi grandi, la bocca piccola con il labbro superiore sottile e quello inferiore carnoso, che le regalano un’espressione risoluta e lievemente imbronciata. Manca purtroppo l’elemento fisiognomico più caratterizzante: quel naso la cui punta volgeva fatalmente verso il basso e che rendeva la sua bellezza «non del tutto incomparabile», come ci ricorda Plutarco. Ma che non riuscì ad intaccare il suo «fascino irresistibile». Un naso, quello, che si può osservare in tutta la sua antiestetica lunghezza, accentuata dal profilo, nelle monete coniate durante i vent’anni del suo regno, dal 51 al 30 a. C., quando la sconfitta di Antonio ad Anzio la indusse al suicidio e il vincitore Ottaviano Augusto diede il via alla sua «damnatio memoriae». 
La mostra racconta anche l’ascesa e il declino della regina, indaga i suoi anni romani e l’influenza esercitata sui costumi e sulla religione dell’Urbe, con gli dei egizi che irruppero nel Pantheon capitolino e le matrone che la vollero imitare indossando vesti raffinate e monili realizzati dagli artisti alessandrini arrivati al suo seguito. Tra i pezzi di oreficeria spicca il bracciale a corpo di serpente ritrovato tra i beni di una matrona di Pompei. Da altre domus della città vesuviana e da ville romane arrivano pitture, mosaici e sculture ispirate al magico regno egizio. In una sezione sono riuniti i protagonisti che a fianco di Cleopatra determinarono gli avvenimenti dell’epoca, ridisegnando la storia e la geografia del Mediterraneo: Pompeo e Cesare, Antonio e Ottaviano, il figlio Cesarione avuto dal dittatore romano e i gemelli Alessandro Helios e Cleopatra Selene avuti da Antonio. 
In un’altra sfilano i sovrani che fecero grande l’Egitto, da Alessandro Magno (del quale si può vedere la «Testa idealizzata», proveniente dal Louvre e detta anche di Alexandre Guimet dal nome del collezionista che l’acquistò al Cairo) ai volti dei suoi successori, i re tolemaici che regnarono su Alessandria per trecento anni. Ma la parte più suggestiva del percorso è forse quella che descrive l’ambiente fluviale del Nilo, con affreschi e finissimi mosaici popolati di ippopotami e coccodrilli, rane e anatre selvatiche che si muovono tra fiori di loto, cespugli di papiro e pesci di ogni genere. 
Sulle sponde del fiume giocano i bagnanti e in lontananza si delinea il profilo della città. In una statua del I secolo a.C. proveniente da Londra un acrobata fa evoluzioni sul dorso di un coccodrillo.


Farinelli: «Arrivando qui Mosè inventò nuove leggi»
«Così dal Nilo nacque lo stato-nazione»

Roberta Scorranese

«Quell’immagine di Cleopatra che si presenta a Cesare “srotolandosi” insieme a un tappeto nel quale si era nascosta. Ecco, comincia qui l’avventura moderna dell’Egitto: la regina si slega dal suo mondo e si consegna alla romanità, aprendosi a leggi e consuetudini completamente diverse». 
Con la solita, affascinante capacità visionaria, Franco Farinelli, presidente dell’Associazione geografi italiani (nonché ordinario di geografia all’università di Bologna), lega a doppio filo la vita della leggendaria regina al destino del suo Paese. «Un Paese che, sin dagli inizi, è stato un laboratorio culturale e politico strategico tra Oriente e Occidente — continua — e che, come giustamente ha scritto Erodoto, è un dono del Nilo». 
Il Nilo, appunto: l’arteria di quel mondo sospeso tra altissima cultura e cataclismi estremi, quella cerniera d’acqua che con i suoi oltre seimila chilometri se la gioca con il Rio delle Amazzoni e che buca l’Africa fino a morire proprio in Egitto, Paese per il quale è stato (ed è) fonte di vita. «Con le inondazioni — spiega Farinelli —: come tutti sanno, tra luglio e ottobre il Nilo ricopriva le zone circostanti di fango. Il limo che fertilizza la terra, donando sostentamento. Ma non tutti sanno che è da questa veemenza fluviale che nacque la geometria. Dopo ogni inondazione, il Faraone inviava dei tecnici che misuravano di nuovo i confini dei terreni, per stabilire un equo programma fiscale. Quindi, dal fiume scaturì una parte importantissima della scienza, anche moderna». Si pensi solo al concetto di «misura», fondamentale nelle ricerche filosofiche e sociologiche. 
In quel misterioso trattato noto come Corpus hermeticum (oggi si pensa risalga all’anno Mille) c’è un passo in cui Asclepio definisce il Nilo «una copia del cielo». E Farinelli nota: «Indubbiamente a questo fiume sono stati attribuiti molti significati cosmologici». Plutarco, nel suo De Iside , scrive che Osiride è il Nilo che si unisce con Iside, ossia la terra, per renderla feconda. Una divinità, appunto, ed è così che gli egiziani vedono il «loro» fiume. 
«C’è un altro aspetto socio-politico da ricordare: Mosè. Mosè e il suo distacco dalla cosmogonia delle civiltà millenarie come gli Assiri o i Babilonesi. Lui intraprende un viaggio con il suo popolo, propone un dio non più “locale”, bensì che si sposta insieme alla sua gente. Opera una frattura con il passato e si potrebbe così dire, parlando per metafore, che lo Stato-Nazione come lo conosciamo nasce qui». Dalla legge locale a una legge nazionale, dunque, con la coscienza di appartenere a uno Stato. E l’apertura a nuovi mondi, come nella scena di Cleopatra che esce da un tappeto srotolato davanti a Roma. 
Ma quando è cominciata la decadenza del Nilo quale divinità gloriosa per diventare quello che è oggi, un grande fiume con molti aspetti turistici? «Per metafora, con la costruzione della diga di Assuan — dice Farinelli —: la diga è nata come protezione per la popolazione circostante, in quanto le inondazioni del Nilo erano imprevedibili e potenzialmente mortali. Però, al tempo stesso, è stato come imbrigliare una potenza che per millenni non si è lasciata prendere e ha dettato legge. E c’è il lato simbolico: nei pressi di Assuan il fiume si gonfiava in modo archetipico, simulando un ritorno alla vita». 
Il Nilo, dunque, oggi è un vestigio di quello che fu. Le feluche che lo attraversano dolcemente parlano di un mondo fatto di vacanze e tensioni politiche, letteratura gialla, film d’avventura in voga negli anni Sessanta. Di una mitologia ben diversa. «Per l’economia — conclude il geografo — il Nilo è tuttora essenziale. Credo però che il ricordo di quell’antico dio che fu e la leggenda della regina Cleopatra, vivano ancora».

I paesaggi di Zanzotto. In un libro gli scritti del poeta sull’ambiente


Per la prima volta raccolti i testi in prosa 
dedicati all’abitare e al rapporto tra natura e uomo
Il volume, edito da Bompiani, sarà nelle librerie mercoledì

Giulio Ferroni

L’Unità, 13 ottobre 2013

LA POESIA DI ZANZOTTO È STATA SEMPRE INTENSAMENTE RADICATA NELL’ORIZZONTE VENETO, IN UN AMBIENTE CHE SI APRE E SI ESPANDE A PARTIRE DALLA NATIVA PIEVE DI SOLIGO, toccando territori diversi, in su attraverso l’elevarsi dei colli fino alle vette alpine e giù, tra pianure solcate da corsi d’acqua che conducono al mare su cui è insediata Venezia. È una poesia determinata in ogni sua piega, anche nei suoi esiti più difficili, nel suo toccare i più oscuri nodi psichici e le più ardue combinazioni linguistiche, dallo sguardo verso quello sfondo ambientale, dall’evidenza del paesaggio, dal suo imporsi ai sensi e dal suo trasformarsi per gli effetti climatici e per l’azione dell’uomo. Questa poesia, entro tutta l’esperienza umana dell’autore, riconosce nel paesaggio la misteriosa evidenza della natura, l’individuarsi stesso del soggetto, la consistenza del nostro essere nel mondo, del nostro muoversi in esso. Rivelatore in questo senso è il titolo del primo libro di Zanzotto, uscito nel 1951, Dietro il paesaggio: titolo che mostra come la parola poetica sia continuamente turbata dal presentarsi dell’immagine della natura, che si impone con i suoi molteplici volti, che suscita sensazioni, emozioni, gioie, terrori, ma il cui senso resta inafferrabile, si pone sempre più in là, lateralmente: sia nel fondo della psiche che dietro l’evidenza fisica dell’ambiente, dietro ciò che ne percepiamo. E non era certo la manifestazione di un esteriore gusto paesaggistico, di un incanto di tipo «romantico» ed estetizzante per le bellezze naturali: interrogando il paesaggio e seguendo le eccezionali trasformazioni che ha subito nella seconda metà del Novecento, in tutto il corso della sua esistenza, Zanzotto ha interrogato lo stesso costituirsi dell’esperienza umana, del suo misurare il mondo, del vario articolarsi del nostro rapporto con la natura: cosa che riguarda l’intero orizzonte sociale, i caratteri della vita collettiva, l’identità e il tessuto civile e politico del paese Italia, in definitiva il destino stesso dell’umanità.
Per questo assume particolare interesse il libro che ora appare nei Tascabili Bompiani, Luoghi e paesaggi, a cura e con introduzione di Matteo Giancotti (pp.240), che raccoglie vari interventi su questi temi fatti da Zanzotto nel corso degli anni: con una ricerca che il curatore ha intrapreso già con l’accordo dell’autore, risalendo fino ad uno scritto del 1955 e giungendo fino al più recente 2006. Questi testi sono stati distribuiti in cinque sezioni (Una certa idea di paesaggio, Mio ambiente natale, Un’evidenza fantascientifica, Quasi una parte integrante del paesaggio, Tra viaggio e fantasia), più un’appendice con la trascrizione di un documentario video del 1974. Si tratta di scritti spesso dispersi, apparsi in pubblicazioni occasionali: e solo due di essi (Colli Euganei e Venezia, forse) si trovano già nel «Meridiano» apparso nel 1999. Partendo da occasioni e da temi diversi, vi si prospetta da una parte una vera e propria teoria del luogo e del paesaggio (anche in rapporto alla pittura: e viene trattata in particolare la rappresentazione del paesaggio in due pittori tanto diversi come il cinquecentesco e veneto Cima da Conegliano e l’ottocentesco Camille Corot) e da un’altra parte vi si interrogano luoghi e situazioni familiari e vicini al poeta (il suo paesaggio personale, l’orizzonte veneto, presenze radicate in quell’ambiente come il vecchio Nino carico di un paradossale sapere popolare, evocato più volte nella poesia di Zanzotto, e il poeta dialettale Luciano Cecchinel).
Un’attenta lettura di questi scritti (in rapporto a tanti altri testi narrativi, critici e teorici del poeta) può mostrare in tutta evidenza come la problematica che possiamo chiamare «ecologica», che sempre più lo ha visto impegnato nel corso della sua vita, non riguardi soltanto una pur doverosa difesa dell’ambiente naturale, contro gli scempi infiniti a cui viene continuamente sottoposto dai processi economici e industriali, oltre che dagli interessi più ciechi ed egoistici: Zanzotto ci fa capire come nel consistere dei luoghi, nel loro farsi abitare, nell’immagine di sé che ci offrono, venga in realtà ad insediarsi la radice più profonda dell’essere degli individui, del loro disporsi nello spazio fisico, nel contesto vitale e sociale, nella stessa vita di relazione. Nei luoghi e nel paesaggio (che tra l’altro è sempre frutto di una costruzione umana, del secolare e difficile dialogo umano con la natura) viene a definirsi la stessa struttura psichica individuale e collettiva, si riconosce la continuità civile, la possibilità dell’essere in comune, lo specchiarsi reciproco dei soggetti umani. Al paesaggio appartiene anche una architettura concepita non come espansione assoluta dell’artificio (come accade in certe forme estreme di architettura contemporanea), ma come equilibrato rapporto tra la costruzione umana e lo spazio in cui deve collocarsi. Il poeta crede nella necessità di un accordo tra bello e giusto, che può assumere caratteri anche molto diversi: «Il paesaggio può prendere nel corso dei tempi molti volti come una gente che prende molte vite: ma sempre la sua fioritura o la sua desolazione rispecchiano quelle della società umana».
Molti di questi scritti inseguono con viva partecipazione, con quel procedere caldo e avvolgente, inquieto e assorto, che è tipico della prosa di Zanzotto, i luoghi e le presenze in cui si è manifestato e continua a manifestarsi, nonostante tutto, questo accordo tra bello e giusto, questa «fioritura» dell’ambiente: con tante notazioni determinanti, come quelle sul costituirsi originario degli «insediamenti» umani, o quelle sul valore dei nomi stessi dei luoghi, che tra l’altro riconducono al rapporto tra la lingua e i luoghi, agli effetti che l’ambiente fa sulla lingua. Geografia e storia, linguaggio e psiche, società e cultura, identità ed economia, architettura e agricoltura, tutto si intreccia in questa appassionata riflessione, che viene nel contempo a scontrarsi con le infinite deturpazioni che negli anni vissuti da Zanzotto, fino al nostro presente, si sono caricate su antichi equilibri ambientali, creando una sorta di stato purulento e comatoso che grava sempre più sullo stesso equilibrio civile, sul tessuto vivo della nostra società, sulla salute dell’Italia intera. Allora la lezione di questo grande poeta dovrebbe farci capire che la prospettiva ecologica non riguarda certo la patetica nostalgia di una incontaminata purezza naturale, né soltanto la pur doverosa tutela del patrimonio di bellezza che abbiamo ereditato dalla fatica di chi ci ha preceduto, ma la stessa tenuta sociale e civile del nostro paese, la salute dei nostri concittadini. Ma intanto continuiamo perfino a far passare le spropositate navi da crociera davanti a San Marco.

La Babele democratica


Intervista allo storico dei libri Robert Darnton 
che spiega i collegamenti tra la cultura del Settecento,
 i testi digitali e le possibilità aperte dall’“open access”

Massimiano Bucchi

“La Repubblica“, 12 ottobre 2013

Le fiabe terrificanti della tradizione contadina; un massacro di gatti perpetrato da un gruppo di tipografi parigini; i rapporti di un ispettore di polizia su scrittori pericolosi per il regime; la classificazione e suddivisione dei saperi nell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert. Queste le singolari chiavi di accesso che Robert Darnton sceglie per ricostruire i “modi di pensare” nella Francia del Settecento.
Il grande massacro dei gatti, ripubblicato in questi giorni da Adelphi e tradotto in una ventina di lingue, è uno dei suoi libri di maggior successo. Storico delle idee con un breve ma significativo background giornalistico – un’esperienza giovanile alla cronaca nera del New York Times che talora affiora nelle sue vivide narrazioni – Darnton insegna ad Harvard dove dirige anche la biblioteca universitaria, la più grande biblioteca accademica e sistema bibliotecario privato del mondo.
Come responsabile della biblioteca di Harvard lei si è espresso spesso a favore del cosiddetto open access. Vede un rapporto tra queste posizioni e il suo lavoro di studioso dell’Illuminismo e delle varie forme di circolazione del sapere?
«C’è sicuramente una connessione, anche se non è arrivata intenzionalmente. Come studioso dell’Illuminismo sono sempre stato attratto dall’idea di “Repubblica delle lettere”: una Repubblica senza confini, aperta a tutti, egalitaria. È un’idea che forse precede addirittura l’Illuminismo, centrale per il modo in cui l’Illuminismo vedeva se stesso. Oggi con i media digitali abbiamo la possibilità di realizzare quella che all’epoca era forse un’utopia. Così, quando mi sono trovato a capo della biblioteca di Harvard, con i suoi 17 milioni di volumi, ho cercato di fare il possibile per mettere a disposizione questo patrimonio non solo a docenti e studenti,ma a tutto il mondo, cercando di evitare che fosse monopolizzato da colossi come Google. Ci vorrà ancora molto tempo, e ci sono ancora molti problemi da risolvere, ma con il progetto Digital Public Library of America (www.dp.la) oggi siamo già in grado di offrire libero accesso a oltre 4 milioni di contenuti digitali».
Che cosa sono i modi di pensare, gli “stili culturali” che il libro cerca di ricostruire?
«L’ambizione è quella di far emergere i modi in cui l’esperienza è organizzata attraverso schemi concettuali, incluso il linguaggio. C’è una tonalità negli scambi sociali che è peculiare a una certa società o ad un gruppo sociale in un certo periodo e luogo, un certo “idioma” per così dire. Naturalmente la pretesa del libro non è quella di ricostruire definitivamente la “visione del mondo” dei contadini francesi dell’epoca attraverso le fiabe che si raccontavano, ma introdurre a un certo modo di fare storia, mettere insieme diverse informazioni in un disegno che si avvicini il più possibile all’originale».
Esiste dunque una specificità dei modi di pensare, degli stili culturali? Uno stile francese diverso da quello tedesco o italiano?
«Naturalmente non si possono sottovalutare le differenze regionali, a partire dal fatto che molti francesi dell’epoca che io studio non parlavano nemmeno il francese! Tuttavia già autori come Delarue parlavano di una “francesità” che emerge ad esempio confrontando le fiabe popolari con quelle tedesche dello stesso periodo. In un libro più recente mi occupo di come le forze dell’ordine francesi, a metà Settecento, davano la caccia agli autori di poesie e canzoni popolari ritenute sediziose, seminando di spie le sale da caffè. Queste composizioni si sentivano dappertutto e facevano probabilmente la funzione di notiziari per l’epoca; esse rivelano un tono, un inconfondibile idioma comune, anche nella parte musicale. Questi poeti e musicisti di strada, oggi completamente dimenticati, formavano una vera e propria subcultura che non era disconnessa dalla “cultura alta”; alcuni di loro erano amici di Diderot e lui stesso fa riferimento a questa tradizione, ad esempio in Jacques le fataliste.La cultura orale non era isolata da quella degli intellettuali, le correnti culturali si muovono continuamente verso l’alto e verso il basso…».
La specificità di stili culturali e modi di pensare resiste anche oggi, in un’epoca di intensa comunicazione globale?
«Direi di sì, seppure con prudenza… oggi è facile parlare di “villaggio globale” ma un’immagine scattata da uno smartphone in Egitto è un oggetto culturale mediato da una specifica sensibilità. Tutto il mondo può condividere un repertorio di immagini, suoni ed eventi; le correnti culturali viaggiano in tutto il mondo così come nel Settecento viaggiavano tra i caffè letterari e le campagne. Questo non significa che tutto si sia appiattito e certamente non cancella le specificità culturali…».
Pensa che il suo metodo possa essere applicato anche all’epoca contemporanea? Ad esempio, si può ricostruire l’ambiente e lo stile culturale della Germania orientale a partire dai documenti della Stasi?
«Per l’appunto ho appena terminato un libro sulla censura che prende in esame, tra l’altro, proprio il caso della Germania Est nel periodo comunista. L’idea è di comprendere che cos’era in effetti la censura dal punto di vista operativo, analizzando gli interventi materiali e i cambiamenti apportati alle opere da autori, editori e autorità, ad esempio ricostruendo come gli stessi poeti cercavano di negoziare con la censura. Noi tendiamo ad averne uno stereotipo astratto, ma nella pratica la censura è fatta di negoziazione, di complicità, di andirivieni tra produttori e controllori».
Da un certo punto di vista, quindi, si potrebbe parlare dei censori come coautori delle opere in questione?
«Esattamente, è proprio questo il punto. Un esponente della censura tedesca scrive: “Su questo manoscritto ci ho lavorato più io dell’autore!”. Un’opera come un libro è sempre il risultato della collaborazione di autori, tipografi, editori, e in certi casi perfino di censori».

Il grande massacro dei gatti di Robert Darnton, Adelphi,  pagg. 422. Darnton, storico, è anche direttore della biblioteca della Harvard University

venerdì 11 ottobre 2013

Dedicato ad Alice Munro, Nobel per la Letteratura 2013


Alice Munro, Nemico, amico, amante... (Incipit)

Anni fa, prima che tanti treni su linee secondarie venissero soppressi, una donna dalla fronte alta e lentigginosa e una matassa crespa di capelli rossi, si presentò in stazione per informarsi riguardo alla spedizione di certi mobili.
L'impiegato faceva sempre un po' lo spiritoso con le donne, specie con quelle bruttine, che sembravano apprezzare.
- Mobili? - disse, come se nessuno avesse mai avuto prima un'idea simile. - Dunque, vediamo. Di che genere di mobili stiamo parlando?
- Un tavolo da pranzo con sei sedie. Una camera da letto completa, un divano, un tavolo basso, alcuni tavolini, una lampada a stelo. E anche una cristalliera e una credenza.
- Accidenti. Una casa intera.
- Non direi proprio, - ribatté lei. - Mancano le cose di cucina e ci sono mobili per una sola camera da letto.
Aveva tutti i denti ammucchiati davanti, come se fossero pronti a litigare.
- Le servirà il furgone, - fece lui.
- No, voglio spedirli per ferrovia. Vanno a ovest, nel Saskatchewan.
Gli si rivolgeva a voce alta, come se fosse sordo o scemo, e c'era qualcosa di strano nel modo in cui pronunciava le parole. Un accento. Olandese, pensò lui - c'era parecchio movimento di olandesi in quella zona -, anche se, delle donne olandesi, a questa mancava la stazza o la bella carnagione rosea o i capelli biondi. Poteva essere sotto i quaranta, ma che importanza aveva? Miss bellezza non doveva esserlo stata mai. 
L'uomo si fece molto professionale.
- Prima di tutto le ci vorrà il furgone per trasferire la roba qui da dovunque si trovi. E poi, sarà meglio controllare che in questo posto nel Saskatchewan ci passi il treno. Se no, dovrò farla venire a prendere, che so, a Regina.
- E’ Gdynia, - disse. - Il treno ci passa.
Lui prese una guida cincischiata che stava appesa a un chiodo, e le chiese come si scriveva. Lei si servì della matita a sua volta legata a una corda e scrisse su un pezzo di carta estratto dalla borsetta: GDYNIA.
- E che razza di nome sarebbe?
Disse che non lo sapeva.
Le prese la matita per scorrere rigo a rigo.
- Un sacco di posti da quelle parti sono pieni di cechi, di ungheresi e di ucraini, - commentò. Mentre lo diceva gli venne in mente che la donna poteva essere una di loro. Be', e allora? Stava solo esprimendo un dato di fatto.
- Eccola qui. Tutto a posto. C'è la ferrovia.
- Sì, - disse lei. - Voglio spedire la roba venerdì. E’ possibile?
- Possiamo spedirla, ma non posso prometterle che arriverà in un certo giorno, - fece lui. - Tutto dipende dalle priorità. Ci sarà qualcuno a occuparsene quando arriva?
- Sì.
- E’ un treno misto, merci e passeggeri, quello di venerdì, delle quattordici e diciotto. Il furgone passa a ritirare la roba venerdì mattina. Lei abita qui in paese?
Annuì, mentre scriveva il suo indirizzo: 106, Exhibition Road.
Era da poco che in comune avevano distribuito i numeri civici, perciò lui non riusciva a immaginare il punto esatto, pur sapendo dove si trovava Exhibition Road. Se lei avesse fatto il nome di McCauley, in quel momento, l'uomo avrebbe forse mostrato maggior interesse, e le cose avrebbero magari preso una piega diversa. C'erano abitazioni nuove in quella zona, costruite dopo il conflitto, anche se la gente le chiamava le «case del tempo di guerra». Immaginò che si trattasse di una di quelle. 
- Pagamento alla spedizione, - le disse.
- Voglio anche un biglietto per me sullo stesso treno. Venerdì pomeriggio.
- Stessa destinazione?
- Sì.
- Può viaggiare sullo stesso treno fino a Toronto, ma poi dovrà aspettare il transcontinentale che parte alle dieci e mezza di sera. Vuole un vagone letto o regolare? Nel vagone letto avrà la cuccetta, in quello regolare dovrà stare seduta.
Disse che seduta andava bene.
- A Sudbury dovrà aspettare il Montreal, ma senza scendere: smistano solo le carrozze, e le attaccano alla motrice del Montreal. Lo stesso a Port Arthur, e poi a Kenora. Lei resta sul treno fino a Regina; lì invece cambia, e prende il locale.
Annuì, come per dirgli di non farla lunga e di darle il biglietto.
Rallentando, lui disse: - Ma non le assicuro che i mobili arriveranno insieme a lei, anzi, credo che ci metteranno un paio di giorni in più. E’ questione di precedenze. Qualcuno viene a prenderla?
- Sì.
- Bene. Perché è probabile che non sia granché, come stazione. Da quelle parti, i paesi non sono come qui. Sono posti abbastanza rudimentali.
Pagò il suo biglietto, sfilando il denaro da un rotolo di banconote in un sacchetto di tela che teneva in borsa.
Come una vecchietta. Contò anche il resto. Ma non come avrebbe fatto una vecchia. Passò in rassegna rapidamente gli spiccioli sulla mano, ma era chiaro che non le stava sfuggendo un centesimo. Poi girò sui tacchi e se ne andò senza salutare.
- A venerdì, - le disse lui.
In quella tiepida giornata di settembre, la donna indossava un soprabito lungo e semplice, su scarpe sfondate coi lacci, e calzini alla caviglia.
L'impiegato si stava versando del caffè dal thermos quando lei tornò indietro e batté sul vetro dello sportello.
- I mobili che spedisco, - disse. - E tutta roba buona, come nuova. Non vorrei che si graffiassero, o si ammaccassero, che si danneggiassero, insomma. E non vorrei neppure che arrivassero puzzolenti di carro bestiame.
- Be', senta, - disse lui. - Qui in ferrovia siamo piuttosto esperti in fatto di spedizioni. Tendiamo a non usare gli stessi vagoni per mobili e maiali, ad esempio.
[continua....]

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Alice Munro raccontata da Jonatan Franzen

In uno dei saggi raccolti in Più lontano ancora, pubblicato nelle Frontiere, J. Franzen racconta la sua passione letteraria per i racconti di Alice Munro. E prova a spiegarsi - e a spiegarci - «perché la bravura di questa scrittrice superi in modo cosí sconcertante la sua fama».
Alice Munro può essere considerata a buon diritto la piú grande scrittrice vivente del Nord America, ma fuori dal Canada, dove i suoi libri sono in cima alle classifiche, non ha mai conquistato un pubblico numeroso. A rischio di passare per il paladino dell’ennesimo autore sottovalutato – e forse avete imparato a riconoscere ed evitare queste perorazioni, un po’ come avete imparato a non aprire le lettere di certe associazioni di beneficenza? Richieste come: «Per favore fate una generosa donazione a Dawn Powell»? «Con un contributo di soli quindici minuti a settimana potrete assicurare a Joseph Roth il posto che gli spetta nel canone moderno»? – voglio cercare [di indovinare] perché la bravura di questa scrittrice superi in modo cosí sconcertante la sua fama.
1. La scrittura di Munro si basa esclusivamente sul piacere di narrare.
Il problema è che molti acquirenti di narrativa impegnata mostrano un’entusiastica preferenza per robaccia pseudoletteraria, lirica, trepidamente seria.
2. Chi legge Munro non assimila nozioni supplementari come lezioni civiche o dati storici.
I suoi racconti parlano di persone. Persone persone persone. Se leggete narrativa che tratta di argomenti istruttivi come l’arte del Rinascimento o qualche importante capitolo della storia nazionale, avrete la certezza di sentirvi produttivi. Ma se la storia è ambientata nel mondo moderno, se le preoccupazioni dei personaggi vi sono familiari, e se il libro vi appassiona talmente che non riuscite a chiuderlo all’ora di andare a letto, allora c’è il rischio che vi stiate semplicemente divertendo.
3. I suoi libri non hanno titoli altisonanti tipo Pastorale canadeseCanadian PsychoRosso canadeseIn Canada o Il complotto contro il Canada.
Munro, inoltre, si rifiuta di rappresentare momenti drammatici fondamentali con comodi riassunti digressivi. E ancora, la mancanza di retorica, l’eccellente orecchio per i dialoghi e l’immedesimazione quasi patologica nei personaggi hanno il dannoso effetto di oscurare l’ego dell’autrice per molte pagine di fila. Infine, nelle foto sul retro di copertina Munro sorride affabile, come se il lettore fosse un amico, anziché posare con quel cipiglio afflitto che denota un serio intento letterario.
4. L’Accademia Reale Svedese ha preso una ferma posizione.
A Stoccolma, evidentemente, ritengono che troppi canadesi e troppi autori di racconti abbiano già ricevuto il Nobel per la letteratura. Adesso basta!
5. Munro scrive narrativa, e la narrativa è piú difficile da recensire della saggistica.
Bill Clinton ha scritto un’autobiografia: che cosa interessanteMolto interessante. L’autore è già di per sé interessante – chi meglio di Bill Clinton poteva scrivere un libro su Bill Clinton? […]. Ma chi è Alice Munro? È una distaccata fornitrice di piacevolissime esperienze private […].
6. Peggio ancora, Munro è una scrittrice di racconti.
E con i racconti la sfida ai recensori diventa ancora piú estrema. Esiste forse un racconto, in tutta la letteratura mondiale, il cui fascino resista intatto alla tipica sinossi (un incontro casuale su un marciapiede di Yalta unisce i destini di un marito annoiato e di una signora con cagnolino... La lotteria annuale del paese rivela un proposito alquanto sorprendente... Un dublinese di mezza età lascia una festa e riflette sulla vita e sull’amore...)?
Oprah Winfrey non si occuperebbe mai di una raccolta di racconti. Discuterne è cosí complicato, in effetti, che quasi si può perdonare l’ex direttore della «Book Review», Charles McGrath, per avere recentemente paragonato i giovani autori di racconti a «gente che impara a giocare a golf senza mai avventurarsi su un campo vero e proprio, ma solo esercitandosi sul campo pratica». Il vero gioco, secondo questa analogia, sarebbe ovviamente il romanzo.
Il pregiudizio di McGrath è condiviso da quasi tutti gli editori commerciali, per i quali una raccolta di racconti significa, il piú delle volte, l’antipatica perdita già messa in conto all’interno di un contratto per due libri, nel quale viene esplicitamente proibito che il secondo libro sia un’altra raccolta di racconti. E tuttavia, malgrado questa condizione di Cenerentola della narrativa, o forse proprio per questo, un’alta percentuale della produzione letteraria piú interessante degli ultimi venticinque anni – quello che mi viene subito in mente quando mi chiedono di citare qualcosa di eccezionale – è rappresentata da racconti. […]. Se chiudo gli occhi e penso alla letteratura degli ultimi decenni, vedo un paesaggio crepuscolare in cui molte delle luci piú invitanti, quelle che mi spingono a ritornare, provengono da alcuni specifici racconti.
Mi piacciono i racconti perché non lasciano spazio per nascondersi. L’autore non può tirarsi fuori dai guai con le chiacchiere: nel giro di pochi minuti raggiungerò l’ultima pagina, e se non ha niente da dire me ne accorgerò. Mi piacciono i racconti perché di solito sono ambientati nel presente, o comunque in un’epoca ancora viva nella memoria; a quanto pare, il genere resiste a quell’impulso storico che fa sembrare effimeri o cadaverici tanti romanzi contemporanei. Mi piacciono i racconti perché occorre un genuino talento per inventare personaggi e situazioni originali mentre si ripete sempre la stessa storia. Tutti gli scrittori di narrativa patiscono la mancanza di cose nuove da dire, ma gli scrittori di racconti soffrono piú disperatamente degli altri. Ancora una volta, non c’è modo di nascondersi. Le vecchie volpi come Munro e William Trevor non ci provano nemmeno.
La storia che Munro continua a raccontare è questa: una ragazza sveglia e sessualmente intraprendente cresce nelle campagne dell’Ontario in una famiglia modesta, con una madre malata o morta e un padre insegnante risposato con una donna problematica, e la ragazza alla prima occasione fugge dalla campagna, grazie a una borsa di studio o a un decisivo atto di egoismo. Si sposa giovane, si trasferisce nella British Columbia, alleva dei figli ed è in buona parte responsabile del fallimento del suo matrimonio. Può avere successo come attrice, scrittrice o personaggio televisivo; ha qualche avventura romantica. Quando, inevitabilmente, ritorna in Ontario, scopre trasformazioni sconvolgenti nel paesaggio della sua giovinezza. Malgrado sia stata lei ad abbandonare quel luogo, il suo narcisismo subisce un forte colpo per la fredda accoglienza che le viene tributata: per il fatto che il mondo della sua giovinezza, un mondo di consuetudini e usanze antiquate, si erga ora a giudice delle sue scelte moderne. Cercando semplicemente di sopravvivere come persona integra e indipendente, ha subito perdite e stravolgimenti dolorosi; ha causato sofferenza.
E piú o meno è tutto qui. Questo è il rivoletto che ha alimentato l’opera di Munro per piú di cinquant’anni. Gli stessi elementi ritornano di continuo, come Clare Quilty.
Ciò che rende cosí evidente e straordinaria la crescita artistica di Munro è proprio la familiarità del suo materiale. Guardate cosa riesce a fare con la sua piccola storia: piú ci ritorna sopra, e piú cose scopre. Munro non è una giocatrice di golf sul campo pratica. È una ginnasta con un semplice body nero, sola sul pavimento nudo, che surclassa tutti i romanzieri con il loro armamentario di costumi sgargianti, fruste, elefanti e tigri.
«La complessità delle cose – delle cose dentro le cose – mi sembra infinita», ha dichiarato in un’intervista. «Voglio dire che non c’è niente di facile, niente di semplice». In quel momento stava esponendo l’assioma fondamentale della letteratura, il nucleo del suo fascino. E per una ragione o per l’altra – la frammentarietà del mio tempo di lettura, le distrazioni e l’atomizzazione della vita contemporanea, o forse davvero per la mancanza di romanzi irresistibili – mi accorgo che quando ho bisogno di una boccata di vera scrittura, di una bella dose di paradosso e complessità, mi rivolgo quasi sempre alla narrativa breve […].
7. I racconti di Munro sono ancora piú difficili da recensire di quelli degli altri.
Piú di ogni altro scrittore dai tempi di Čechov, in ciascuno dei suoi racconti Munro si sforza, con successo, di rappresentare la totalità gestaltica di un’esistenza. Ha sempre avuto un grande talento per sviluppare e palesare i momenti rivelatori. Ma è nelle tre raccolte pubblicate dopo il 1996 [Il sogno di mia madre,Nemico, amico, amante... e In fuga] che ha compiuto il vero, straordinario salto ed è diventata una maestra della suspense. Ora non va piú in cerca di momenti di comprensione, bensí di momenti d’azione, un’azione fatale, irrevocabile e drammatica. E questo significa che il lettore non può nemmeno tentare di indovinare il significato della storia finché non ne ha seguito ogni svolta; è solo nelle ultime pagine che si accendono tutte le luci [...].
Ma mentre i suoi racconti sono diventati sempre piú simili a tragedie classiche in prosa, non solo Munro non ha piú lasciato spazio al superfluo, ma sembra sia arrivata a considerare l’intrusione del suo ego come qualcosa di stridente, di discorde: un tradimento estetico e morale.
Le sue storie mi trasportano in uno stato di tranquilla riflessione, in cui penso alla mia vita, alle decisioni che ho preso, alle cose che ho fatto e che non ho fatto, al tipo di persona che sono, alla prospettiva della morte. Munro rientra in quel piccolo gruppo di scrittori, alcuni viventi, la maggior parte defunti, a cui penso quando affermo che la narrativa è la mia religione. Perché, quando sono immerso in un suo racconto, riesco ad accordare a un personaggio completamente inventato il solenne rispetto e il tacito sostegno che accordo a me stesso nei miei momenti migliori […].
Una narrativa migliore può forse salvare il mondo? C’è sempre una piccola speranza (a volte succedono cose inaspettate), ma la risposta è quasi sicuramente no. C’è una discreta probabilità, però, che possa salvarvi l’anima. Se l’odio che vi hanno scatenato nel cuore vi rende infelici, provate a mettervi nei panni della persona che vi odia; provate a considerare la possibilità che il Maligno, in realtà, siate voi stessi; e se proprio non ci riuscite, allora provate a trascorrere qualche serata con una canadese piena di dubbi […].
Munro sta parlando a voi e a me, qui e adesso.
Jonathan Franzen
***
Il testo, tradotto da Silvia Pareschi, è tratto da Chi ti dice che non sia tu il Maligno? - Su Alice Munro, pubblicato in Più lontano ancora. Dal sito einaudi.it

Twitter prima di Twitter


Le frasi da 140 caratteri sul social network fanno riscoprire un genere antico: l’aforisma
Da Orazio a Erasmo elogio della brevità

Valerio Magrelli

La Repubblica, 10 ottobre 2013

«Non ho abbastanza tempo per essere breve». A distanza di secoli, la folgorante osservazione del filosofo sembra aver conservato tutta la sua provocatoria verità. Sia pure sotto nuove forme, infatti, quella secolare arte della concisione, della “concinnitas” latina, già insegnata nelle scuole di retorica antica, sembra oggi prepotentemente riaffermarsi. Così, i celeberrimi precetti di Orazio («perché la frase scorra, bisogna essere brevi») si ritrovano in tante nostre modalità espressive, tradotti in parametri tecnologici ma sostanzialmente immutati: lo si vede nel famoso schema di 140 caratteri richiesto dal linguaggio di Twitter.
Come ha spiegato Maurizio Ferraris sulla scia di Derrida, l’evoluzione tecnologica non ha portato al trionfo dell’oralità e alla scomparsa della scrittura, bensì, al contrario, a una proliferazione di quest’ultima. Prova ne sia che, dopo essersi rimpiccioliti, i telefonini si sono ingranditi fino all’iPad, per avere uno schermo e una tastiera; dunque, per poter scrivere, non per poter parlare. Sono cioè diventati biblioteche, discoteche, cineteche e pinacoteche. Né è un caso che il traffico di sms abbia ormai superato quello vocale. Nel suo profondo, quindi, la società della comunicazione pare piuttosto una società della registrazione, col corollario per cui la brevità rappresenta il primo requisito dell’efficacia.
E qui torniamo alla nostra “concinnitas”. A dimostrare la coincidenza fra storia delle lettere e logica della comunicazione post-moderna, sta l’attenzione dell’editoria italiana e straniera per le cosiddette “forme brevi”. Per quanto riguarda la produzione saggistica, dopo i canonici studi di Alain Montandon, Corrado Rosso, Giulia Cantarutti e Gino Ruozzi (autore del recente Divina “brevitas”, un saggio sulle massime di Giuseppe Pontiggia apparso nella rivista Secondo Tempo), sono stati da poco pubblicati Poeti e aforisti in Finlandia (a cura di Fabrizio Caramagna e Gilberto Gavioli, Edizioni del Foglio Clandestino, pagg. 240, euro 14) e Antologia dell’aforisma romeno contemporaneo (a cura di Fabrizio Caramagna, Genesi, pagg. 196, euro 20).
Ben più rilevanti però, agli occhi del grande pubblico, risultano gli Aforismi di Shiva, composti da Vasugupta nel IX secolo (a cura di Raffaele Torella, Adelphi, pagg. 323, euro 17), o i Modi di dire. Adagiorum collectanea, di Erasmo da Rotterdam (a cura di Carlo Carena, Einaudi, pagg. 800, euro 85). Se il primo volume costituisce un classico della letteratura tantrica, il secondo, apparso in pieno Rinascimento, raccoglie una messe di proverbi, aforismi e motti. Il testo non nasconde l’importanza del suo risvolto pratico, suggerendo di ricorrere ai materiali riportati «per una metafora suadente, fine e appropriata, per un sarcasmo pungente e salace, per una battuta arguta e piacevole [...] o per un’allusione spiritosa che solletichi il lettore desto o ridesti l’assonnato».
D’altronde, Erasmo aveva poco più di trent’anni quando iniziò a radunare gli Adagia del patrimonio greco e latino, selezionandone un migliaio per la prima edizione del 1500 e arrivando a più di quattromila per l’ultima, nel 1553.
Soffermandoci ancora sul mercato librario, altrettanto interessante risulta il panorama delle proposte in formato elettronico, che per esempio, solo nel 2013, ha registrato in Francia l’uscita di una decina di ebook dedicati esclusivamente alle opere di La Rochefoucauld. Proprio su questo sommo moralista francese del Seicento, si è per altro immancabilmente soffermato Gianfranco Ravasi, in un articolo sul Sole 24 Ore dedicato alla capacità di percussione posseduta dalla scrittura aforistica. Chi non ricorda alcune memorabili frasi, forgiate con insuperata e lapidaria capacità di sintesi? Una per tutte: «Né il sole né la morte si possono guardare fissamente».
Partendo da queste considerazioni, suona assai indicativo che un critico quale Roland Barthes scorgesse nelle massime del Duca autentici ordigni bellici, creati allo scopo di far saltare le difese del conformismo e della morale tradizionale. E non fu certo un caso, se a raccogliere l’eredità di moralisti come Chamfort o Vauvenargues fosse in ultimo Nietzsche, che userà il loro lascito come una vera e propria leva per scardinare le convenzioni della società borghese. Saranno appunto loro a indicargli la strada della sua rivoluzionaria Genealogia della morale o di Umano, troppo umano: «La Rochefoucauld e quegli altri maestri francesi dell’esame psicologico, somigliano a tiratori dalla mira infallibile, che colgono ogni volta nel nero centro, che è il nero della natura umana ».
Negli scrittori di massime, insomma, forma e messaggio fanno tutt’uno. Se l’intenzione dell’autore consiste nello svelare il meccanismo segreto del nostro animo (nascosto da millenni di menzogne e ipocrisie), la brevità dell’espressione serve a rendere indimenticabile la scoperta effettuata. Non per niente, in francese, la battuta, l’aforisma, possono essere indicati con il termine “pointe”, ovvero punta, aculeo, pungiglione.
Che differenza rispetto al linguaggio amorfo, prolisso, fumoso al quale ci hanno abituato i nostri uomini politici! A loro non mancherebbe certo il tempo per essere chiari e concisi; ma questo è proprio quanto cercano di evitare a tutti i costi.
Forse risiede anche qui il prepotente successo delle forme brevi: ritrovare uno stile, una pronuncia in cui torni a risuonare quella verità ormai tragicamente bandita dall’universo della comunicazione quotidiana. Lasciamo allora l’ultima parola a La Rochefoucauld: «Quello che il mondo chiama virtù, di solito è solo un fantasma formato dalle nostre passioni, al quale si dà un nome onesto per fare impunemente ciòche si vuole».