sabato 30 giugno 2012

Neruda & Rimbaud



Oda a Jean Arthur Rimbaud
(Fragmento)


Ahora
en este Octobre
cumplirías
cien años,
desgarrador amigo.
¿ Me permites
hablarte?
Estoy solo,
en mi ventana
el Pacífico rompe
su eterno trueno oscuro.
Es de noche.
Sobra, el óvalo
la leña que arde arroja
de tu antiguo retrato
un rayo fugitivo.
Eres un niño
de mechones torcidos
ojos semi cerrados,
boca amarga.
Perdoname
que te hable
como soy, como creo
que serías ahora,
te hable de agua marina
y de leña que arde,
de simples cosas y sencilos seres.
y quemaron tu alma,
Te torturaroron
te encerraron
en 1os muros de Europa
y golpeabas
frenético
las puertas.
Y cuando
ya pudiste
partir
ibas herido,
herido y mudo,
muerto.
Muy bien; otros poetas
dejarcn
un cuervo, un cisne,
un sauce,
un pétalo en la lira;
tú dejaste un fantasma
desgarrado
que maldice
y escupe
y andas
aún
sin rumbo,
sin domicilio fijo,
sin número,
por las calles de Europa,
regresando a Marsella,
con arena africana
como un escalofrío,
en los zapatos,
urgente
sediento,
ensangrentado,
con los bolsillos rotos
desafiante,
perdido,
desdichado.


No es verdad
que te robaste el fuego,
que corrías
con la furia celeste
y con la pedrería
ultra violeta
del infierno;
no es asì,
no lo creo,
te negaban
la sencillez, la casa,
la madera,
te rechazaban,
te cerraban puertas
y volabas entonces,
arcángel iracundo,
a las moradas
de la lejanía
y moneda a moneda
sudando y desangrando
tu estatura
querías
acumular el oro
necesario
para la sencillez, para la llave,
para la quieta esposa
para el hijo,
para la sila tuya,
el pan y la cerveza.
En su tiempo
sobre las telarañas
ancho
como un paraguas
se cerraba el crepúsculo
y el gas parpadeaba
SOiloliento.
Por la Comunne pasaste,
nmo rojo,
y dió tu poesía
Jlamaradas
que aún suben castigando
las paredes
de los fusilamientos.
Con ojos
de puñal,
taladraste la sombra
carcomida,
la guerra, la errabunda
cruz de Europa.
Por eso hoy a cien años
de distancia
te invito
a la sencilla
verdad que no alcanzó
tu frente huracanada,
a América te invito.
A nuestros ríos,
al vapor de la luna
sobre las cordileras,
a la emancipación
de los obreros,
a la extendida patria
de los pueblos,
a cuanto el hombre
co1nquistó sin misterio.
con la fuerza
y la sangre,
con una mano y otra,
con milones
de manos.
A tí te enloquecieron
Rimbaud, te condenaron
y te precipitaron
al infíerno.
Desertaste la causa
del germen, descubridor
del fuegoi, sepultaste
la llama
y en la desierta soledad
cumpliste
tu condena.
lioy es más simple, somos
países, somos
pueblos,
los que garantizamos
el crecimiento de la poesia,
el reparto del pan,
el reparto del pan, el patrimonio 
del olvidado. Ahora 
no estarìas solitario.


PABLO NERUDA
 Isla Negra, 1954


Per approfondire:
Rimbaud e la poesia cilena (in lingua spagnola)






















Verlaine a Rimbaud




Paul Verlaine, Dédicaces [1889]
LXII – A Arthur Rimbaud


Mortel, ange ET démon, autant dire Rimbaud,
Tu mérites la prime place en ce mien livre,
Bien que tel sot grimaud t’ait traité de ribaud
Imberbe et de monstre en herbe et de potache ivre.

Les spirales d’encens et les accords de luth
Signalent ton entrée au temple de mémoire
Et ton nom radieux chantera dans la gloire,
Parce que tu m’aimas ainsi qu’il le fallut.



Les femmes te verront, grand jeune très fort,
Très beau d’une beauté paysanne et rusée,
Très désirable d’une indolence qu’osée!


L’histoire t’a sculpté triomphant de la mort
Et jusqu’aux purs excès jouissant de la vie,
Tes pieds blancs posés sur la tête de l’Envie.



Mortale, angelo E démone, vale a dire Rimbaud,
tu meriti il primo posto in questo mio libro,
benché uno sciocco imbrattacarte t’abbia trattato da debosciato
imberbe e mostro in erba e studente ubriaco.


Le spirali d’incenso e gli accordi di liuto
segnalano il tuo ingresso nel tempio della memoria
e il tuo nome radioso canterà nella gloria,
perché mi hai amato come bisognava.


Le donne ti vedranno gran giovanotto forte,
bellissimo d’una bellezza contadina ed astuta,
molto desiderabile, di un’indolenza audace!

La storia ti ha scolpito trionfante sulla morte
e fino ai puri eccessi amante della vita,
poggiati i bianchi piedi sulla testa dell’Invidia!


Paul Verlaine

Il latino di Rimbaud


"Perché imparare il latino? Nessuno parla questa lingua". A. R.

Tutti i componimenti portici di Rimbaud in lingua latina. Clicca qui

Giulio Ferroni, Rimbaud, il genio ribelle ispirato dal latino, “Corriere della Sera”, 11 luglio 2000

Pochi sanno che il grande eversore della poesia moderna, l' angelo-diavolo che ha portato la poesia a uscire fuori da se stessa, il poeta adolescente che ha fatto esplodere in un breve giro di anni nuove impensate possibilità del linguaggio, Arthur Rimbaud, aveva fatto alcune prove poetiche in latino, con cinque componimenti in esametri che furono pubblicati nel Moniteur de l' enseignement secondaire, bollettino ufficiale dell' Académie de Douai tra il 1869 e il 1870, quando quel giovane allievo «externe» del Collège di Charleville aveva solo 15 anni: compiti scolastici, il primo dei quali risale addirittura al 6 novembre 1868 (di anni ne aveva compiuti appena 14). Di questi versi propone ora una ricostruzione critica, accompagnata da un ampio saggio, dalla prima traduzione italiana e da un fittissimo commento, il latinista Giampietro Marconi (Poesie latine di A. Rimbaud, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Roma-Pisa, 2000): la loro lettura costituisce una vera sorpresa, e non solo perché mostra che la scuola francese di quei tempi faceva del latino un uso ben diverso da quello che ne fa oggi (e che se ne fa da noi). Tra temi originali e traduzioni/rifacimenti da sconosciuti poeti francesi del tempo, questa poesia in erba rivela grande perizia artistica, metrica e retorica, sottile capacità di imitare i grandi classici latini, e nello stesso tempo propone spunti e scatti molto vicini a quelli delle prime poesie in lingua francese dell' enfant prodige di Charleville, comtemporanee o di poco successive. Come mostra Marconi, il primo componimento vede già in atto una nozione di poesia come «sfrenata volontà di libertà» e del poeta come «veggente»: e questi dati «rivoluzionari» si appoggiano su motivi proposti dai classici latini. Il carme L' ange et l' enfant, rifacimento di una poesia di un certo J. Reboul, mostra un' amara e cupa visione della vita sociale (la negatività del mondo rende felice la morte di un bambino, portato via da un angelo). Pare proprio che il vecchio studio del latinorum sia stato uno strumento determinante e scatenante della genialità di quel poeta adolescente, dell' acerba assolutezza della sua poesia: e che forse, senza più latino, senza più confronti, con codici chiusi e con lingue morte, sarà sempre più difficile trovare autentiche eversioni linguistiche. Le trasgressioni che oggi ci vengono proposte, senza più latino alle spalle, sono perlopiù solo di plastica. 

venerdì 29 giugno 2012

L'arte della scrittura


Erri De LucaL'arte della scrittura, "La Repubblica", 3 giugno 2012

"Il libro dev'essere vento e aprire le tende», dice un verso di Nazim Hikmet. Parto da questa frase per una conversazione sull'attività della scrittura letteraria. Non posso chiamarla lavoro nel mio caso. Quello è stato eseguito dal corpo che ha venduto il suo servizio in cambio di salario. Ho del verbo lavorare una notizia ristretta e manuale. Non le ho lasciate in pace, le mie mani, non le ho tenute in tasca o nel fodero dei guanti. Quando le uso per tenere aperto un quaderno sopra le ginocchia e scriverci qualcosa, stanno riposando. Per me scrivere è tempo festivo, opposto al verbo lavorare. Il 1900 è stato il secolo degli operai e del riscatto del lavoro manuale. Scaduto quel tempo, dal riscatto si torna al ricatto del lavoro manuale: o si piega servile, senza dignità e diritti o viene espulso. Chi scrive oggi ha perfino smesso di impugnare una penna, invece sfiora con i polpastrelli una tastiera. Spolvera anziché imprimere. Lo schermetto illuminato risponde da soldatino, con righe impettite, ben allineate. Lo scrittore di tastiera agisce da sergente, quello su quaderno è ancora uno scolaro. Dylan Thomas conclude una sua pagina con il verso: «Le mani non versano lacrime» (Hands have no tears to flow). Non possono, è vero, ma quelle giuste sono capaci di asciugarle. Il 1900 si è dedicato alle scritture brevi. Le sue esperienze più numerose sono state le emigrazioni, le prigionie, le guerre di sterminio. Perciò il necessario della scrittura si è dovuto concentrare in poco spazio. Non c'era tempo né inchiostro e così il 1900 si è espresso meglio con le lettere e con le poesie. Da quando faccio l'attività di scrittore una gran parte del mio scrivere si è sparpagliato in lettere. Non ne conservo copia né rileggo prima di spedire, non devo correggere. Le lettere appartengono a chi le riceve. Qui di seguito rispondo alla richiesta di una persona giovane che mi chiede notizie circa la sua spinta a scrivere per il desiderio di vedere in stampa le sue pagine. Rispondo con il tu che si deve a chi sta alla stessa tavola, una sera di pochi clienti all'osteria. Non spedire le tue pagine a uno scrittore. Non si mandano scarpe fatte da sé ai calzolai, non si spedisce al pasticciere un dolce cotto in casa perché lo assaggi. Darsi per compito la scrittura non passa per la sponda di un altro scrittore. Serve una casa editrice: se la tua spedizione viene respinta, ignorata, perduta, non ricorrere alla lusinga di chi ti offre di pubblicarla ma a tue vive spese. Non farà ufficio stampa né la distribuzione promessa e nel giro di un anno ti chiederà di acquistare l'invenduto, altrimenti dovrà mandarlo al macero. Meglio se ti procuri una tipografia o se stampi da solo, oggi si può. Ne tiri un centinaio di copie e le distribuisci a chi ti vorrà leggere. Forse trovi il libraio che tiene per un po' il tuo libro in vetrina, se gli vai a genio. Darsi alla scrittura non è un percorso tratteggiato da puntini: riuniscili con la matita e apparirà l'immagine. Come in altre faccende nostre, si tratta di accettare lo zigzag, la divagazione, la permanenza nel deserto. Se ti metti a seguire le quarantadue tappe di Israele nel Sinai, scopri lo sbandare insistito di chi ha perso la via di casa. Gli Ebrei avevano fede in un'assistenza, confermata dal rifornimento della manna. Uno che invece ficca il suo bagaglio nel cartoccio della scrittura, deve incamminarsi senza nessun segnale di assistenza. Più che di solitudine, dev'essere capace di isolamento, una disciplina di silenzio pure dentro una folla. Chi scrive ha davanti a sé la modica vastità di un vuoto. Non lo deve riempire, lo deve abitare. Non avere capomastri. Puoi ammirare un'altra scrittura, ma poi devi scrollartela di dosso. Leggi le opere degli scrittori da lettore e non da collega dell'autore. Altrimenti può succederti quello che racconta Robert Walser dopo la sua lettura di Dickens: la disperazione di mettersi a scrivere dopo di lui. Si dispera perché ha letto Dickens da scrittore, sapendo di non poter mai scrivere quelle pagine come ha fatto lui. È logico, Dickens sta nel campo della sua storia e chi ci entra deve farlo da visitatore, è un ospite non un socio d'impresa. Leggi un camion di libri ma da lettore, senza pensiero di paragone tra quello che sfogli e le tue pagine. Il bravo allievo di un hasìd, titolo di sapienti ebrei dell'Europa orientale, veniva allontanato dal suo maestro che lo spediva a compiere il suo «oprichten goles», l'esilio volontario. Nel vagabondaggio lontano da biblioteche e scuole, nel rischio di cedere e smarrirsi, avviene il perfezionamento o la disfatta. Scrivere è un modesto sbaraglio da accettare senza condizioni. Per mare non ci stanno taverne. Impara una seconda lingua. Ne ho studiate alcune per inseguire i poeti dentro la loro tana. Mi spingeva l'ammirazione, un sentimento intransitivo. Si ammira senza il minimo pensiero di essere come, stabilire anche un minimo comparativo di minoranza tra la persona o l'opera ammirata e me stesso. L'ammirazione è opposta all'invidia, che è transitiva, ha desiderio di essere come, essere al posto di. L'invidia è un errore ottico, ignora la distanza, fa credere di trovarsi a portata di mano. Ho ammirato dei poeti, li ho seguiti nelle loro lingue e mi sono applicato a tradurre qualche loro verso. Ho forzato il mio vocabolario nella tensione di raggiungere la precisione. Anche se già tradotti e meglio, mi sono accanito in una mia fedeltà all' originale. Questa pratica dell'ammirazione ha migliorato la mia lingua. Non lo sapevo prima, lo riconosco adesso e perciò raccomando l'esperienza della traduzione. Il poeta tedesco Heinrich Heine racconta un suo episodio di giovane scolaro della lingua francese. Il professore gli chiede come si traduce «Glaube», fede. Lui non ricorda, ci pensa e infine al posto di «Foi», risponde «Credit», credito. La classe scoppia a ridere, il maestro lo rimprovera. Da quel momento, conclude Heine, si guastò irreparabilmente il suo rapporto con la religione. A me il suo errore spiega qualcosa in più. La fede, che ho visto in quelli che l'abitano, è una continua richiesta alla divinità di essere nella sua vita quotidiana. Il credente, in obbedienza al participio presente del verbo, è chi continua a credere, rinnovando il suo atto di fede. La fede è così una ribadita apertura di credito nei confronti della divinità. L'errore di Heine mi ha aiutato a saperlo. Nelle traduzioni l'urto e l'accostamento tra le parole di due lingue aumentano la loro energia. Marcos Ana ha passato ventidue anni della sua vita in prigione, al tempo della dittatura di Franco, dopo la guerra civile spagnola. Torturato, condannato a morte, pena poi commutata in carcere a vita, alla morte del dittatoreè uscito dalle celle. In prigione ha imparatoa scrivere versi. E' stato uno degli innumerevoli poeti del 1900 che hanno vissuto dietro le sbarre. Riabituarsi all'aria aperta è stato difficile, specialmente guardare l'orizzonte. Lo spazio spalancato davanti gli procurava vomito e vertigini. Da uomo libero ha incontrato il celebre poeta spagnolo, premio Nobel, Miguel Angel Asturias. Hanno parlato di poesia e Marcos Ana riferisce un passaggio della loro conversazione. Asturias gli disse che quando in un verso gli veniva un aggettivo troppo semplice, lui cercava nel vocabolario quello più prezioso. Marcos rispose che lui faceva il contrario. Quando gli sembrava che la sua parola non fosse la più semplice, cercava nel vocabolario il termine più corrente. 
Auguro a te di non sfogliare il dizionario per nessuna delle due ragioni. Aprilo invece per la sua bellezza, per il deposito di storie contenute in ogni vocabolo. Se ne leggi una pagina vedrai spuntare pensieri, storie, ricordi. Le parole di un dizionario sono conchiglie, sembrano vuote ma dentro ci puoi sentire il mare. Non frugare quel solenne elenco come il cercatore dentro una miniera, per estrarne una cosa sola, ma come uno che percorre un campo e legge il brulichìo delle specie viventi. Considera la tua pagina una sequenza di passi in montagna, dove è rischioso a morte il margine di errore. Le sillabe sono passi su piccoli appoggi, devi posarci il peso della frase, della voce. Usa la virgola, il punto, l'accapo. Il 1800 ha usato molto il punto esclamativo, il 1900 poco, io faccio senza, ma non è una regola, solo un'astinenza. Mi devono bastare le parole scritte a suscitare il punto esclamativo in chi le sta leggendo. Altrimenti è un effetto artificiale, come il cartello «applausi» in una trasmissione televisiva. Fai che la tua scrittura risenta il callo del dialetto di origine. L'Italiano più che dal latino proviene da un' Amazzonia di dialetti, un bacino alluvionale di parlate locali arroccate in centinaia di borghi, suddivise in millesimi di sfumature, dialetti rimasti inespugnabili per secoli. L'italiano sta a valle di innumerevoli affluenti, indipendenti e fieri del loro vocabolario, dell'accento irripetibile da chi non ci è nato.

Le parole della scienza





CARBONIO di S. Fuso
GRAVITA' di C. Rovelli
RELATIVITA' di C. Rovelli 
SERENDIPITY di M. Bucchi

Blu

Ho passeggiato una notte lungo il mare sulla spiaggia deserta, non era ridente, ma neppure triste, era bello.Il cielo di un azzurro profondo era punteggiato di nuvole di un azzurro più profondo del blu base, di un cobalto intenso, e di altre nuvole di un azzurro più chiaro, del lattiginoso biancore della via lattea. Sul fondo azzurro scintillavano delle stelle chiare, verdi, gialle, bianche, rosa, chiare, più luminose delle pietre preziose che vediamo anche a Parigi, perciò sarà il caso di dire: opali, smeraldi, lapislazzuli, rubini, zaffiri. Il mare era di un blu oltremare molto profondo, la spiaggia di un tono violaceo, e mi pareva anche rossastra, con dei cespugli sulla duna (la duna è alta 5 metri), dei cespugli color blu di Prussia. 
Vincent Van Gogh

Questa storia parla del blu. Non sempre è lineare, tende a divagare, nascondere e offuscare, sulla sua strada trova l’amore, la storia e l’ispirazione, ma è sempre di blu che parla.

Come fate a sapere, quando pensate al blu – quando dite blu –, che state parlando dello stesso colore che pensano tutti?

Il blu è inafferrabile.
Blu, o azzurro, è il cielo, il mare, l’occhio di un dio, la coda di un diavolo, una nascita, un volto cianotico, un uccellino, una battuta spinta, la canzone più triste, il giorno più splendente.
Il blu è astuto, sornione, sguscia nella stanza di sbieco, è subdolo e scaltro.
Questa storia parla del colore blu, e al pari del blu non vi è niente di vero.
Blu è la bellezza, non la verità. In inglese si dice true blue, ma è un giochetto, una rima: ora c’è, ora non più. È un colore profondamente ambiguo, il blu.
Anche il blu più intenso ha le sue sfumature.
Blu è gloria e potere, un’onda, una particella, una vibrazione, una risonanza, uno spirito, una  passione, un ricordo, una vanità, una metafora, un sogno.
Blu è una similitudine.
Blu, lei, è come una donna.
da Christopher MooreSacré Bleu, traduzione di Luca Fusari, Elliot Edizioni2012 


Leggi qui le prime 10 pagine del libro.

I romanzi del doppio


Perché lo scrittore inventa il doppio, di L. Bentivoglio, "La Repubblica", 27 maggio 2012

Una serie di storie formidabili riunite sotto il titolo I romanzi del doppio, appena proposta dalla Bur di Rizzoli, illumina il nucleo dello sdoppiamento nella fiction "classica". Non è un discorso coniugabile solo al passato: lo stesso intramontabile motivo insiste nell'emergere con prepotenza oggi, trovando sbocchi nel cinema, in letteratura e persino nei serial televisivi (vedi la Toni Collette di United States of Tara, in grado di calarsi in identità parallele). Firma la scelta che compone la raccolta della Bur Guido Davico Bonino, a cui il tema deve stare a cuore, visto che ha già curato un precedente viaggio nel medesimo argomento (Io e l'altro. Racconti fantastici sul doppio, Einaudi 2006). L'attuale volume è sorprendente, pur non essendo valutabili come "scoperte" (e questo è ovvio) alcune invenzioni accolte dall'antologia, come La metamorfosi di Kafka, Il ritratto di Dorian Gray di Wilde e Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Stevenson, parabola fiorita non a caso in epoca vittoriana, quando l'istintualità animale, radicata in ciascuno di noi, esigeva di prendere corpo in un perfetto campione di malefici come Hyde per poter essere opportunamente esorcizzata. Queste trame sono così archetipiche e ben piantate nel nostro immaginario, che le conosce anche chi non le ha mai lette. Ma ciò che conta, nell'architettura del librone, è l'idea di accorparle sotto il segno della duplicità, lanciando un trait d'union con vicende meno note. Un esempio è Lui? di Guy de Maupassant, dove il narrante è ossessionato dall'allucinazione avuta un giorno, quando gli capitò di scorgere un riflesso del suo io, contiguo e ostile, accomodato nella sua poltrona davanti al fuoco acceso. E forse non è familiare a folle di lettori l'invischiante racconto di Joseph Conrad Il compagno segreto, che è ambientato, molto conradianamente, su una nave in mezzo al mare: avviene che una notte il protagonista peschi, dalle acque tenebrose dell'oceano, un omicida in fuga, per poi nasconderlo nella sua cabina e trasformarlo nell'incarnazione della parte più buia della propria anima. La dinamica del doppio ha un potere inestinguibile: per questo, lungo i secoli, ha chiesto sempre d'essere riconosciuta. Dal Ka degli antichi egizi alle Metamorfosi di Ovidio, il rovello risale a età remote, e finisce per incanalarsi nel Doppelgänger ("colui che cammina al tuo fianco") coniato ed esaltato dal romanticismo tedesco. Adelbert von Chamisso (1781-1838), con la sua Storia meravigliosa di Peter Schlemihl l'uomo che ha perduto la sua ombra (è la novella che apre il volume della Bur), nutre e solidifica tale ottica, fornendo una piattaforma per elaborazioni successive sempre più complesse. Dominato da passioni che confliggono tra loro coabitando con pari intensità nel medesimo individuo, l' essere umano vive nell'incubo assillante di quell'"altro da sé" che percepisce come intimamente affine, seppure antitetico. Che sia una questione incorporea, come lo è l'ombra, venduta e dispersa, creata da von Chamisso; o che sia il glissare nella dimensione "altra" della schizofrenia che annienta il soggetto di Il sosia di Dostoevskij; o che produca lo spettro di un omonimo, coincidente con un'identità rubata, così come accade in William Wilson di Edgar Allan Poe (divenuto un episodio memorabile, firmato da Louis Malle, del film Tre passi nel delirio, 1968), l'assimilazione tra il sé e l'oscura alterità che gli è connessa alimenta un intero patrimonio di spunti etici e fantastici. Sono così ricorrenti - nel mito, nelle arti sceniche, nel racconto declinato in ogni campo - da offrirci uno sguardo panoramico sull'esistenza tutta. Per comprenderlo basta limitarsi a osservare la pura narrazione, senza indagare nei territori - mastodontici rispetto a tale problematica - della filosofia e della psicoanalisi (vedi solo lo studio di Otto Rank Der Doppelgänger, 1914, che suggerisce un legame tra il doppio e la morte). È basato sul senso dell'alter ego un film di culto come Fight Club, tratto dal romanzo di Chuck Palahniuk, e lo sdoppiarsi di un uomo si traduce nel sortilegio di uno scambio di personalità tra due maghi nel film The Prestige. In sostanza trattava dello stesso tema anche il film Sliding Doors, la cui eroina Helen percorreva il binario di due livelli di realtà. Naturalmente l'horror contemporaneo non poteva rinunciare a un motore di paure stimolante come il doppio: lo ha dimostrato Stephen King nel romanzo La metà oscura, divenuto anche un film di George A. Romero. E sempre a King, sovrano del proprio genere letterario, si deve la paternità di Finestra segreta, giardino segreto, dove il protagonista Mort si sdoppia in Shooter, che è una personificazione dei suoi sentimenti maledetti verso la moglie (da qui è nato il film Secret Window, con Johnny Depp). «Ciascuno cerca l'altro», ha scritto Borges, aggiungendo: «Fosse almeno questo l'ultimo giorno dell'attesa». E Fernando Pessoa, ne Il libro dell'inquietudine, ci ha spiegato che «al termine di questa giornata resta ciò che è rimasto di ieri e che rimarrà di domani: l'ansia insaziabile dell'essere sempre la stessa persona e un'altra». Forse proprio all'urgenza di svanire nell'altro da sé, espressa da uno scrittore da lui tanto amato come Pessoa, si è ispirato Antonio Tabucchi in Notturno indiano, dove il raccontatore traversa l'India in cerca dell'amico Xavier: e noi, leggendo, sospettiamo sempre di più che Xavier non sia che una sua proiezione. Nella narrativa gli esempi sono così frequenti che ciascuno potrebbe ricomporre un suo personale catalogo di doppi, ipoteticamente senza fine come il moltiplicarsi della vita.

Baricco presenta il Gattopardo


Una certa idea di mondo. I migliori cinquanta libri che ho letto negli ultimi dieci anni


(Se li rileggi, sono classici. Se addirittura li ricompri, allora quella è una malattia)
Alessandro Baricco, Il Gattopardo, "La Repubblica",  29 aprile 2012
. . .
Tra le misurate soddisfazioni che riserva l’avere una certa età non bisogna dimenticare il privilegio di rileggere certi libri dopo aver avuto il tempo di dimenticarne quel tanto che basta a non sentirsi idioti. Io, per esempio, col Gattopardo sono al terzo giro, e francamente l’ultima volta non mi ricordavo esattamente come finiva (probabile che c’entri, un’altra volta, ma in altro modo, l’età). Non ci sarei arrivato se la Feltrinelli non avesse deciso di festeggiare i suoi 50 anni, nel 2005, ripubblicando alcuni suoi libri leggendari in un’edizione speciale, vintage (copertina originale, formato tascabile): uno, arancione e piccolino, era appunto il migliore, e unico, romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Comprato e divorato in un paio di giorni. L’autore, si dice, lo scrisse invece in un paio di anni, quasi sessantenne, senza prima aver mai esercitato la professione di scrittore. Quando il libro uscì, nel 1958, lui non era già più lì a godersi lo spettacolo, perché sottratto alle cose care da una morte prematura e rapidissima. Avrebbe forse avuto un destino un po’ meno beffardo se Vittorini, che all’Einaudi aveva ricevuto il libro, non avesse giudicato inopportuno il pubblicarlo, diventando così, oltre a molte altre nobili cose, l’uomo capace di bocciare in una vita sola Il gattopardo e La paga del sabato (di Fenoglio), facendo di due capolavori due mesti libri postumi. E non aveva neanche un ufficio marketing che gli soffiava sul collo!
Da allora sono passati tanti anni, ma l’evidenza di un libro toccato dalla grazia non ha abbandonato il Gattopardo. Difficile che ti riesca, in un colpo solo, di scrivere benissimo una storia meravigliosa con cui spieghi alla perfezione un pezzo di storia del tuo Paese. A beccarne due su tre è già una prodezza. Va aggiunto che, come se questo non bastasse, il Gattopardo ebbe anche un suo significato per così dire sociale, quando, finalmente uscito, polverizzò i numeri dell’italietta di allora, e inaugurò quello spalancamento del pubblico dei lettori di cui noi, molti anni dopo, avremmo goduto i frutti prelibati e le inevitabili storture. Per dirla semplicemente, fece saltare il tavolo, vendendo in modo prodigioso, e da allora è stato tutto più complicato, e affascinante.
Una delle cose che si sono complicate ha a che vedere con l’italiano, intesa come lingua letteraria, e lì ilGattopardo troneggia ancor oggi come una formidabile lezione. Anche al più sprovveduto dei lettori barbari basterebbe aprirlo per capire che qualcosa è successo. Dov’è finita quella lingua raffinata, esatta, ricchissima, sensuale, molto fisica, ed elegantissima? Quando leggi Gadda pensi com’era bravo lui, quando leggi Calvino pensi come sei scarso tu, ma quando leggi il Gattopardo quello che pensi è: com’è bello l’italiano. Niente potrà mai togliere a quel libro questa magica capacità di incarnare non il talento di uno scrittore ma quello di una lingua, e di certa civiltà letteraria. Credo che la cosa abbia a che vedere con la sua assenza di virtuosismo, la sua naturalezza, la sua normalità. Non c’è forzatura spettacolare, c’è il solo srotolare le potenzialità di un lessico sfavillante, nel rispetto di certe ataviche armonie ritmiche, con il gusto di ogni suono prezioso, e con l’ambizione a non perder per strada nessuna esattezza possibile. Non mi va di fare esempi, non sarebbero convincenti, bisogna provare per capire, ma certo alla decima riga, al placarsi di un rosario in casa, già ti si spalanca davanti la minuscola epifania di una frase come questa: «Adesso, taciutasi la voce, tutto rientrava nell’ordine, nel disordine, consueto». (Quando diavolo abbiamo smesso di scrivere taciutasi? E perché?). Trenta pagine più in là, se ne torna il Principe a casa, reduce da un gita di salute presso la sua abituale prostituta amante di fiducia, e nella notte macina la strada in un dubbio stato d’animo e ammorbato dalle chiacchiere di padre Perrone, il prete da cui, per una simmetria etica tutta da spiegare, si era fatto accompagnare. Be’: «Il Principe lo ascoltava appena, immerso com’era in una serenità sazia, maculata di ripugnanza». (Quando diavolo abbiamo smesso di credere che maculata sia leggermente diverso, e in taluni casi più preciso, e in ogni caso più musicale di macchiata?). Ma, come dicevo, bisogna leggere, per capire.
A scanso di equivoci, ci tengo a chiarire che scrivere come Tomasi di Lampedusa sarebbe, oggi, ridicolo. Vorrei anche sottolineare come la grottesca imitazione di quella naturale eleganza abbia prodotto per lungo tempo, nel nostro Paese, una sorta di galateo letterario che la migliore narrativa italiana degli ultimi venti anni si è incaricata, con successo, di fare a pezzi. Detto questo, so che il Gattopardo aiuta a ricordare tre cose, a mio avviso irrinunciabili: primo, l’italiano è una lingua fantastica, quindi sarebbe bene, quando si scrive, tramandarla tutta intera, e magari non indugiare troppo nella scorciatoia dei dialetti; secondo, scrivere libri è una cosa, parlare un’altra, e se dovessi spiegare meglio mi verrebbe da dire che nella scrittura letteraria una lingua nazionale diventa adulta, nel parlare torna bambina (esperienze, peraltro, entrambe fondamentali); terzo, che se togliete allo scrivere libri l’ambizione di abitare pienamente e in modo sontuoso una lingua – da padroni, da esperti, da esploratori – ne deturpate il profilo a tal punto che chiunque sufficientemente sveglio e paziente sarà in grado di scrivere un libro: il che, come spero di non dover spiegare, non è affatto la conquista di civiltà che si crede.

giovedì 28 giugno 2012

Beautiful minds!


I grandi scienziati raccontano la storia della scienza: da Pitagora alla teoria delle stringhe. Clicca qui!

martedì 26 giugno 2012

Teatro Galilei: 10 anni di presentazioni


ROOSVELT: Mi può dire se io sono vivo o sono morto?
AUTORE: Lei è qui in teatro.
ROOSVELT: E con questo?
AUTORE: È nel luogo che corregge quello che è sbagliato, completa quello che è incompleto: il teatro è come i sogni. I sogni attuano quello che da svegli non possiamo attuare.

ALBERTO SAVINIO, Alcesti

2002/2003

Il codice di Perelà, di Aldo Palazzeschi
Il “romanzo futurista” Il codice di Perelà, pubblicato nel 1911 dalle marinettiane Edizioni di “Poesia”, ha come protagonista un uomo di fumo, uscito da una cappa di camino; lo strano “uomo” viene battezzato dai sudditi dell’immaginario (ma non troppo) regno di Torlindao “Pe-re-là”, le sillabe iniziali dei nomi delle tre vecchie – Pena, Rete, Lama – che lo hanno aiutato a venire al mondo e che lo hanno poi abbandonato, lasciandolo solo con un paio di stivali. Il “leggero” Perelà è inizialmente accolto da tutti – ministri e cortigiani, alti prelati e dame di corte, poeti, pittori, filosofi, cerimonieri e regnanti – con curiosità ed entusiasmo, che ben presto, però, si trasformano in sospetto e odio collettivo: non c’è posto per un uomo di fumo, leggero e aereo (come la fantasia? come l’innocenza? come l’amore? come la libertà?), nel regno della pesantezza,  che rappresenta forse tutto ciò che impedisce all’uomo di “staccarsi da terra”: leggi, convenzioni, egoismi, ipocrisie, incapacità di sognare… 
Quale sarà, allora, la “fine” di Perelà, protagonista della “favola aerea” di Palazzeschi? Vincerà la sua leggerezza o la pesantezza della condanna che gli uomini gli infliggono?

2003/2004
La visita della vecchia signora (Der besuch der alten Dame), tragicommedia in tre atti rappresentata per la prima volta nel 1956, è considerata il capolavoro di Friedrich Dϋrrenmatt. 
La vicenda si svolge a Gϋllen, immaginaria cittadina svizzera impoverita e decaduta, nella quale fa ritorno, molti anni dopo esserne stata cacciata con infamia, Clara Zachanassian, avventurosamente divenuta  miliardaria. Tutta la comunità di Gϋllen, sperando in generose donazioni, accoglie la  ricchissima concittadina con interessato entusiasmo, lo stesso che anima anche Alfredo Ill, l’antico amante di Clara che in gioventù, dopo averla sedotta, l’aveva abbandonata al suo destino per sposare un’altra donna. La vecchia miliardaria, il cui corpo è ormai un insieme di protesi artificiali, è accompagnata da uno strano corteo di servitori dai nomi ridicoli - Boby, Koby, Loby, Roby… - passivamente obbedienti alla tirannica signora. Tra le acclamazioni di tutti, Clara promette di donare alla città un miliardo, ma ad una condizione. “Come un’eroina della tragedia greca, assoluta, crudele”, vuole giustizia e insieme vendetta: “un miliardo per Gϋllen, - annuncia - se qualcuno uccide Alfredo Ill”. Insomma, “prosperità per un cadavere”. Quale sarà allora la scelta della comunità di Gϋllen? Accetterà di giustiziare il proprio concittadino, stimato padre di famiglia e futuro sindaco, in cambio della promessa ricchezza oppure rifiuterà “in nome dell’umanità”? Certo è che, improvvisamente, tutti in città cominciano a concedersi lussi fino a poco tempo prima impensabili. E Alfredo Ill comincia a temere sempre più per la sua vita, mentre lo “strano caso” attira i flash dei fotografi e la curiosità dei giornalisti.
Il dramma di Dϋrrenmatt, che inizia con la divertita leggerezza di una commedia e si conclude con un coro “simile a quello della tragedia greca”,  consente di riflettere e di interrogarsi sui grandi temi della ipocrisia, in un mondo in cui la vera bancarotta è quella morale.

2004/2005



Max Frisch, Don Giovanni o l’amore per la geometria (Don Juan oder die Liebe zur Geometrie), commedia in cinque atti, rappresentata per la prima volta nel 1953.

"Non hai mai provato questo semplice stupore di fronte a un vero sapere? Per esempio: che cosa è un cerchio? un puro luogo geometrico. Io ho bisogno di questa purezza, di questa sobrietà, ho bisogno di precisione, ho orrore della palude dei nostri stati d'animo. (…) Così e non altrimenti! dice la geometria. Così e non in un modo qualunque! Qui non puoi far trucchi, qui non valgono gli stati d'animo, esiste una sola figura che coincide col suo nome. (…) non ho mai vissuto niente di più alto di questo gioco, di questo gioco a cui obbediscono il sole e la luna" (Don Giovanni, atto III).

Prima parte (I, II, III atto) 
La commedia è ambientata a Siviglia, in un’epoca che, teatralmente, sovrappone e confonde età della Reconquista, siglo de oro e Settecento. Il giovane don Giovanni Tenorio, innamorato della geometria ma costretto, suo malgrado, a  sedurre ogni donna che incontra, è il promesso sposo di Donna Anna, figlia del Commendatore di Siviglia, Don Gonzalo. Tutti attendono l’arrivo del giovane per il matrimonio, che secondo un’antica usanza si celebra nella “notte del riconoscimento”, notte di festa e di danza in cui tutti, ad eccezione dei due sposi, mai incontratisi prima, indossano una maschera. Complice il travestimento, Miranda, una prostituta innamorata di don Giovanni, nonostante i saggi consigli di Celestina, tenutaria della più rinomata casa di piacere di Siviglia, tenta di sostituirsi con l’inganno a donna Anna. Arrivato Don Giovanni, può iniziare la solenne cerimonia nuziale, ma quella che seguirà sarà una notte di oscuri presagi, travestimenti, scambi di persona, duelli, fughe, inseguimenti, amore, morte… 
Seconda parte (IV, V atto) 
Don Giovanni è ora un uomo di trentatré anni, un po’ invecchiato e pieno di debiti, stanco di essere senza tregua costretto a sedurre donne che non ama e ad ucciderne i mariti, vittima della sua fama e perseguitato dalla Chiesa spagnola che lo accusa di ogni sacrilegio. E’ così che, nonostante la proposta di matrimonio di Miranda, nel frattempo divenuta Duchessa della Ronda e rimasta vedova, Don Giovanni decide di inscenare la leggenda della sua morte: tutti dovranno credere che la statua del Commendatore, una delle sue illustri vittime,  lo abbia trascinato all’inferno per punirlo della sua empietà. Don Giovanni, finalmente libero, non più obbligato ad amare le donne, progetta di ritirarsi in convento, per potersi finalmente dedicare alla sua “virile geometria”. Con l’aiuto del suo servo Leporello e della complice Celestina, organizza una cena, cui sono invitati il Vescovo di Cordova e molte vedove, vittime del fascino di Don Giovanni e desiderose di vendetta. E così …
L’ultimo atto si svolge al Castello della Ronda. Il Don Giovanni della letteratura è divenuto ormai un personaggio da commedia, emblema dell’empietà punita. Il Don Giovanni “reale”, invece, si trova imprigionato in quello che, forse, è l’unico, “vero inferno”...

2005/2006



Blov, storie d'amore fatte a pezzi. Adattamento teatrale di Carlo Dariol

Far dialogare tra loro personaggi di opere ed epoche diverse, insieme sulla scena per declinare la parola "amore" in modi, accenti diversi - tragici, lievi, appassionati, violenti, comici, litigiosi...: questo è Blov, storie d'amore contaminate e incastonate tra loro, “frullate” e insieme legate da filigrane di parole, situazioni, musiche.
Divideranno lo stesso palcoscenico gli sfortunati amanti delle famiglie dei Montecchi e dei Capuleti, Otello e la dolce Desdemona, il principe Amleto e la triste Ofelia. Vinta dall’eterna ferita d’amore si struggerà la tormentata Eloisa, mentre, esacerbati dai quotidiani contrasti, il signor Fulgenzio e la signora Eugenia (gli Innamorati di goldoniana memoria) si sfideranno a suon di ripulse, per poi schermirsi in provvisorie riconciliazioni, nell’eterno gioco dell’amore. E poi altri personaggi e diversi scenari per raccontare storie d’amore e di gelosie, d’amore e di tradimento. 
Amore: croce e delizia. Come i pezzi di uno specchio rotto, cui non ha senso tentare di ridare la forma originaria, ciascuno di questi frammenti  riflette la propria immagine dell’amore, quella particolare inclinazione che il sentimento ha assunto nel suo farsi storia.
Questo bizzarro e irriverente Blob teatrale si svolge sotto lo sguardo divertito e complice di Venere e Cupido, divinità tutelari pronte a colpire con le loro frecce personaggi e spettatori. E Amore in persona sfoglierà per noi il libro delle storie.

2006/2007




La guerra di Troia non si farà, di Jean Giraudoux  


Il dramma in due atti La guerre de Troie n'aura pas lieu è una delle opere teatrali francesi più conosciute del Novecento. Fu scritta nel 1935, l'anno in cui Hitler promulgò a Norimberga le leggi razziali e l'Europa era sospesa tra le ragioni della pace e della guerra. Il dramma è una sorta di preludio all'Iliade, ambientato in un'età remota, "in cui i personaggi del mito - ora colti nelle loro umanissime fragilità, ora emblemi di più alto significato - non sono ancora entrati nel regno della leggenda".
"La guerra di Troia non si farà", dice Andromaca a Cassandra mentre si alza il sipario. Ettore, reduce dall'ennesima guerra e desideroso di pace, ha convinto Paride a restituire Elena al marito Menelao per evitare lo scontro con i Greci. Ma il re Priamo e il poeta Demokos sostengono che quell'"incarnazione di bellezza" deve restare a Troia, costi quel che costi. Arriva l'ambasciata greca, guidata da Ulisse e Oiace, ed Ettore tenta di negoziare il ritorno di Elena. Anche l'astuto Ulisse sembra cedere al richiamo della pace, ma un'osservazione offensiva di Oiace serve da scusa a Demokos per incitare il popolo troiano ad attaccare i Greci. Sta per profilarsi un nuovo casus belli e per la poesia vi sarà nuova materia di canto: l'opera di J. Giraudoux termina dove comincia l'Iliade. Un enigmatico ed inquietante dono viene lasciato dai greci, destinato a diventare l'emblema dell'inganno e della fatalità che ogni guerra ha in sé.


Dall’atto I:
ETTORE: Padre, i miei compagni ed io rientriamo sfiniti. Abbiamo pacificato il nostro continente per sempre. D’ora in poi vogliamo vivere felici, vogliamo che le nostre donne possano vivere senz’angoscia e avere i loro figli.
DEMOKOS: La guerra non ha mai impedito a nessuno di fare l’amore.
ETTORE: Dimmi perché troviamo la città così cambiata per la presenza di Elena. Dimmi cosa ci ha portato in più, da valere una guerra coi Greci.
PRIAMO: Mio caro figlio, guarda solamente questa folla, e comprenderai che cosa è Elena. Lei è una specie di assoluzione. Elena prova a tutti questi vecchi qui e quelli coi capi canuti all’ingresso della città, a quello che ha rubato, a quello che trafficava in donne, a quello che ha sprecato la sua vita, che avevano in fondo a loro stessi una rivendicazione segreta, che era la bellezza. Se la bellezza fosse stata vicino a loro, come lo è oggi Elena, non avrebbero derubato i loro amici, né venduto le loro figlie, e tanto meno bevuto le loro eredità. Elena è la loro redenzione, la loro rivincita, il loro avvenire.
ETTORE: L’avvenire dei vecchi mi lascia indifferente.

Jean Giraudoux 
Originario della provincia francese, Jean Giraudoux (1888-1944), dopo gli studi giovanili di germanistica, intraprese con successo la carriera diplomatica, senza mai abbandonare l'attività letteraria. Dopo il successo di numerose novelle e romanzi, dal 1928 si dedicò soprattutto alla scrittura teatrale, spesso ispirata a miti classici rivisitati in chiave moderna: Anfitrione 38 (1929), La guerra di Troia non si farà (1935), Elettra (1937). Nel 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, fu responsabile presso il Ministero degli Esteri francese dell'informazione e della propaganda. Deluso e amareggiato dalla politica, negli anni dell'occupazione tedesca ebbe ruoli sempre più marginali nell'amministrazione della Repubblica di Vichy e la sua opera fu segnata dal tema della catastrofe e della follia (La pazza di Chaillot). Morì nel 1944. 

2007/2008






Qual è il titolo di questa commedia?

Immaginiamo….
Immaginiamo di visitare un’Isola in cui non siano possibili alternative: ogni abitante o è un Cavaliere – e dice sempre la verità – o è un furfante, e allora mente sempre. Immaginiamo che una Ragazza Sveglia e un Ragazzo Bullo si avventurino nell’Isola cercando di applicare elementari principi di logica per districarsi tra verità e bugie, tra Furfanti onesti e Cavalieri forse disonesti. Agli Incoerenti, ovvero a coloro che alternano verità e menzogne, è riservato il Manicomio. “Sembra tutto così assurdo…”.
In questa cornice “logica e metalogica” è racchiuso il dramma comico di Eugène Ionesco La lezione, satira feroce e grottesca dell’insegnamento, in cui una lezione privata di aritmetica – il regno dell’esattezza nell’opinione comune – si trasforma in una progressiva eclissi del principio di non contraddizione: “l’aritmetica conduce alla filologia e la filologia conduce al delitto”. I numeri e le parole, divenute sonorità vacue e insignificanti, scatenano nel Professore oscure pulsioni sadico-distruttive e la lezione si tinge di nero.
Riprendono, dopo la paradossale e macabra Lezione, le avventure dei due giovani nell’Isola: diversi incontri con i bizzarri abitanti dimostreranno loro che “con la logica ci si può difendere dalle menzogne”. Numerose Spiegazioni personificate ci guidano a risolvere il dilemma vero / falso, anche se non mancano colpi di scena: e se un Cavaliere mentisse?
La sera tutti si ritrovano al locale di Sherlock, dove si consuma una “tragedia da bar”; ancora una volta la logica sarà protagonista, almeno fino a quando …


Testi tratti da:
Raymond Smullyan, Qual è il titolo di questo libro? L'enigma di Dracula e altri indovinelli logici, Bologna, Zanichelli, 1981
Eugène Ionesco, La lezione [1951], in Teatro completo, I, Torino, Einaudi, 1993
Stefano Benni, Sherlock Barman. Tragedia da bar, In Teatro, Milano, Feltrinelli, 1999

2008/2009



L’ispettore generale (Revizor) 

Fu Aleksandr Puškin a suggerire a Gogol, in difficoltà economiche, di trarre ispirazione per una nuova commedia da un fatto di cronaca (Perché la vita, - come scriveva Pirandello - per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l’inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l’arte crede suo dovere obbedire…). 
Un giovane squattrinato di Pietroburgo, di nome Chlestakov, capita per caso in una sperduta cittadina della provincia russa. I corrotti notabili del luogo lo scambiano per un ispettore in incognito, inviato dal governo della capitale per smascherare corruzioni e inefficienze dell’amministrazione locale. Tutti, spaventatissimi all’idea che il presunto ispettore possa denunciarli, fanno a gara per corrompere il giovane "funzionario", che, resosi conto dell’equivoco, approfitta della situazione. Ottiene danari, favori, addirittura una promessa di matrimonio. Ma forse il gioco si è spinto troppo oltre… 
Questa commedia degli equivoci che castigat ridendo mores (forse non solo ottocenteschi…) debuttò il 19 aprile del 1836 a Pietroburgo, alla presenza dello zar Nicola I. Il realismo della vicenda lasciò interdetto o offeso il pubblico più conservatore, mentre entusiasmò coloro che nel testo colsero una volontà di denuncia: la commedia fu implacabile specchio di piccoli e grandi misfatti di burocrati e politici, mai rappresentati con tale schiettezza. Il riso, diceva Gogol, "è il mio unico personaggio onesto". 
L’adattamento proposto si è preso qualche libertà rispetto all’originale: alcuni personaggi sono stati (re)inventati, altri aggiunti e non manca il ricorso al gioco metateatrale. Si è comunque rimasti fedeli nella sostanza al testo gogoliano, che non smentisce la sua amara e tragicomica attualità: un po’ caricatura, un po’ farsa, un po’ dramma - serio - che mette in scena una vicenda di pubblica corruzione.

Nikolaj Vasilievich Gogol, "forse il genio più buio e misterioso della letteratura russa", nacque duecento anni fa, il 1° aprile (20 marzo secondo il calendario giuliano in uso fino alla rivoluzione d’ottobre) 1809, a Velikie Sorocincy, un villaggio ucraino, da una famiglia di piccoli possidenti terrieri. Nel 1828 si trasferì a Pietroburgo, dove lavorò come funzionario nel Dipartimento dei Beni patrimoniali e poi come docente di storia. La pubblicazione delle Veglie in una fattoria presso Dikan’ka (1831-32) gli assicurò i primi successi; seguirono, nel 1835, le raccolte di racconti Mirgorod e Arabeschi. Dopo il 1836, che vide andare in scena L’ispettore generale, trascorse quasi dodici anni all’estero, viaggiando instancabilmente; in Italia soggiornò soprattutto a Roma, dove scrisse gran parte del suo capolavoro, il "poema in prosa" Le anime morte, il cui primo volume uscì nel 1842. E’ dello stesso anno la composizione del celebre racconto Il cappotto. Nel settembre del 1848, dopo un pellegrinaggio in Terra Santa, tornò in Russia. Visse per lo più a Mosca, lavorando al secondo volume delle Anime morte, che bruciò poco prima di morire, "malato nell’anima e nel corpo", nel 1852.

2009/2010


Il marito della presidentessa, libero adattamento da La Presidentessa, di Charles Maurice Hennequin (1863-1926) in collaborazione con P. Veber (1869-1942)
È il 1912: l'Europa vive, anche se ancora per poco, la sua Belle époque, luminosa, gaudente, spensierata... In Francia va in scena una commedia brillante e inaspettatamente maliziosa, La presidentessa, scritta da Charles Maurice Hennequin (1863-1926) in collaborazione con P. Veber (1869-1942). Contemporaneo di George Feydeau - suo rivale nel raccogliere i successi di pubblico - Hennequin fu autore di commedie lievi e disimpegnate, ma anche capaci di rispecchiare vizi e debolezze del pubblico che le applaudiva. La presidentessa, opera tra le più fortunate e riuscite dell'autore, si basa su consolidati meccanismi comici, quali lo scambio di identità o l'incontro indesiderato. Tutto è azione e battuta in questo ritratto spregiudicato e senza moralismi della società francese, alle prese con il potere politico-giudiziario e con la seduzione dei sensi. 
La scena si apre a Grey, cittadina della provincia francese, la cui vita tranquilla e rispettabile è improvvisamente animata dall'arrivo di una compagnia di teatranti, che rappresentano l'operetta I gigoló della marchesa. Stella del palcoscenico è Richard, attore e cantante "leggero". Allontanato dall'albergo cittadino per "schiamazzi notturni in luogo pubblico", Richard si impone come ospite nella casa della severa e inflessibile presidentessa del tribunale di Grey, Irma Tricó. All'inatteso arrivo di Jaqueline Gaudet, Ministra della Giustizia, Richard è scambiato per André, legittimo consorte di Irma, ex cuoco compulsivamente maniaco della lucidatura di ottoni e metalli. L'equivoco e lo scambio di identità si complicano quando la scena, dal secondo atto, si sposta a Parigi: seduzioni, favori, promozioni professionali, nomine politiche ruotano intorno al "diabolico" Richard, alla doppia identità del "Gigoló della Marchesa".

Nota bene 
La commedia fu scritta nel 1912. Il testo teatrale di Hennequine e Veber è stato pressoché integralmente ripreso, con una sola, non irrilevante, eccezione: i personaggi maschili della versione originale sono diventati femminili nell'adattamento proposto. È così che il ruolo principale della Presidentessa (il suo nome nell'originale era Gobette) è stato trasformato in quello di Richard, il marito della Presidentessa.

2010/2011



Occupati di Amelia, di  Georges Feydeau

Secondo la testimonianza dello scrittore francese Jean Cocteau, Georges Feydeau (Parigi, 1862 - Rueil, 1921), elegante, malinconico, indolente e svagato frequentatore di locali notturni, anima della Belle époque parigina, “non parlava mai del suo teatro, componeva di nascosto, come un vizio”. Strepitosi invece i successi ottenuti dalle sue esilaranti e spregiudicate commedie, scritte soprattutto tra il 1892 ed il 1908: sono gli anni di capolavori del teatro comico francese come L’albergo del libero scambioLa palla al piedeLa pulce nell’orecchio Occupati di Amelia!, del 1908.
Di lì a qualche anno le luci della Belle époque si spengono. Il mondo rappresentato da Feydeau in più di sessanta opere teatrali ciniche e brillanti è improvvisamente divenuto “il mondo di ieri”. Solo a partire dal secondo dopoguerra le commedie di Feydeau entrano nel prestigioso repertorio della Comédie Française, apprezzate da ogni pubblico per la loro capacità di muoversi con crudele e disincantata leggerezza tra i deliziosi inganni della vita amorosa.
In breve, ecco l’antefatto di Occupati di Amelia! [Occupe-toi d’Amelie!], commedia di equivoci in cui amore, denaro, scambi di persona, finti (o veri?) matrimoni, malintesi e gaffes linguistiche costituiscono gli ingredienti di quello che è stato definito un “meccanismo comico ad orologeria”.
Parigi, 1908: Amelia d’Avranches, celebre cocotte, è l’amante di Stefano, in partenza per la ferma militare. Ad interrompere i saluti tra i due giunge la contessa Irene, amante di Marcello, il migliore amico di Stefano, preoccupata per essere venuta a conoscenza delle imminenti nozze tra Amelia, sua ex cameriera, e il “suo” Marcello. È l’arrivo di quest’ultimo a chiarire l’equivoco: stanco di vivere in ristrettezze economiche e costretto a sposarsi per ottenere la ricca eredità paterna, Marcello ha scritto al “padrino” e tutore del suo patrimonio, l’olandese “di Anversa” Van Putzeboum, facendogli credere che si unirà in matrimonio con Amelia. Naturalmente il matrimonio nelle intenzioni è solo una farsa, ma Van Putzeboum giunge improvvisamente a Parigi per assistere di persona alle nozze con colei che crede una fanciulla di ottima famiglia. L’intrigo si complica anche per la comparsa di uno spasimante di Amelia, il Principe di Palestrìa, che a tutti i costi vuole trascorrere una notte con la celebre cocotte parigina. Prima della sua partenza Stefano, preoccupato di tante attenzioni nei confronti della sua amante, la affida in “custodia” all’amico Marcello: “Occupati di Amelia!”, gli chiede…
2011/2012



Il povero Piero, di Achille Campanile


da Tragedie in due battute: 
La scena rappresenta l'oltretomba, subito dopo la morte di Achille Campanile. Eschilo e Sofocle gli vanno incontro scompisciandosi di lacrime: 
ESCHILO E SOFOCLE: Oh fero lutto e quale mai sventura! Anche tu giungi nella valle oscura! 
ACHILLE CAMPANILE: Colleghi, non facciamo una tragedia. 
(Sipario)

«L'umorista è uno che fa il solletico al cervello», scrisse Achille Campanile, autore della surreale, sarcastica, "ilarotragica" commedia Il Povero Piero, nata dalla drammatizzazione dell'omonimo romanzo pubblicato nel 1959. 
"Benché si sappia con certezza che tutti dobbiamo morire, pure tutti restano sorpresi del fenomeno". Così esordisce la prima Voce del Prologo, che avvia una serrata ed irriverente riflessione sui rituali che nel teatro della vita accompagnano la morte: le lacrime, il cordoglio, le frasi di circostanza, i telegrammi, le pompe funebri, i fiori... "Attorno al morto c'è un gran fervore di vita". L'unico impassibile è lui, il morto, già a suo agio nella "parte" che gli è appena stata assegnata. 
Si alza poi il sipario sul primo atto: la famiglia riunita legge il testamento del "povero Piero", appena defunto. Niente soldi, ma una richiesta ben precisa: la notizia del suo decesso dovrà essere data solo ad esequie avvenute. Non sarà facile, per i parenti, rispettare la volontà del congiunto: imprevisti, malintesi e sotterfugi si susseguono a ritmo serrato, mentre il cadavere del "caro Piero" - ancora in casa - viene trasferito da una stanza all'altra (sì, c'è anche il cadavere nell'armadio...), nel tentativo di sfuggire alle continue ed impreviste visite di parenti ed amici, ancora ignari dell'accaduto. I dialoghi incalzanti e paradossali, che velenosamente sottolineano la convenzionalità di parole e gesti quotidiani alle prese con la ritualità del lutto, ci accompagnano fino al teatrale colpo di scena del terzo atto. In hilaritate tristis e in tristitia hilaris: questa è la libertà consentita all'umorista, "fare l'opposto di quello che fanno gli altri", come dimostra la luce grottesca, feroce, divertita e insieme commovente che Campanile getta sulla morte e sulle nostre stesse debolezze: «Per il pensiero non c'è partenza migliore del riso» (W. Benjamin).

NOTA SULL' AUTORE 
Achille Campanile (Roma, 1899 - Lariano, 1977) fu giornalista, narratore e scrittore di teatro. Il suo umorismo corrosivo e graffiante che "amplifica e poi distrugge il quotidiano" (U. Eco) è da diversi anni oggetto di ampia rivalutazione critica. Le sue opere - tra le quali ricordiamo Tragedie in due battute, Vite di uomini illustri, Manuale di conversazione, Gli asparagi e l'immortalità dell'anima - sono pubblicate nei Classici Bompiani. Per saperne di più: www.campanile.it