lunedì 30 settembre 2013

Istruzione, liberi tutti

Paolo Ferri*

"Nòva - Il Sole 24 Ore"

29 settembre 2013

La scuola digitale è ancora un'utopia nella maggior parte degli istituti scolastici italiani. L'Ocse in un suo recente rapporto sulla scuola italiana (marzo 2013) mette in rilievo, con accenti molti critici, come a questo ritmo di investimenti la nostra scuola avrebbe bisogno di 15 anni per raggiungere in questo campo i risultati della scuola inglese che ha digitalizzato l'80% delle classi. Su questo fronte, però, i governi Monti e Letta hanno certamente corretto la rotta, dopo più di un decennio di colpevole disattenzione rispetto al «digital divide» della scuola italiana.
L'Italia ha oggi un'Agenda digitale, dove è contenuta una specifica «Agenda digitale della scuola». Quest'ultima individua la necessità, almeno «normativa», (i fondi stanziati non sono, invero, molti) del cablaggio a banda larga e dell'infrastrutturazione digitale delle scuole (tablet e lavagne elettroniche, ma anche classi virtuali, registri elettronici e gestionali per l'amministrazione scolastica). Una necessità improrogabile vista l'urgenza di proporre nuove metodologie didattiche e nuovi «contenuti digitali» per adeguare gli stili di insegnamento dei docenti a quelli di apprendimento dei «nativi digitali».
Tematiche che vengono approfondite in «Scuola 2.0. Verso una didattica aumentata dalle tecnologie», dove ho fornito una road map che orienti dirigenti, insegnanti e famiglie nel cammino verso la scuola digitale. In particolare, di recente si è molto dibattuto sul tema dei «libri digitali», che secondo le linee guida dell'Agenda digitale della scuola prenderanno, presto, il posto dei vecchi manuali scolastici. Anche il «pacchetto scuola» varato il 9 settembre dal ministro Maria Chiara Carrozza, ritorna su questa tematica, apparentemente "frenando", perché sposta l'introduzione obbligatoria dei «libri digitali» all'anno scolastico 2015/2016. In realtà, una lettura attenta del testo permette di comprendere come Carrozza si muova in maniera anche più radicale di Profumo. Il suo intento è quello di liberalizzare, in prospettiva digitale, il mercato dei testi scolastici.
Vediamo come: la «bozza Carrozza», se verrà convertita realmente in legge e in regolamenti attuativi, rende opzionale l'adozione dei libri di testo scolastici! Un fatto nuovo e per molti versi rivoluzionario, permette, cioè, a dirigenti e insegnati di decidere se adottare i testi degli editori educational o utilizzare altri contenuti didattici. La «bozza», infatti, modifica il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione (decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297) che recitava all'articolo 151: «I libri di testo sono adottati, secondo modalità stabilite dal regolamento dal collegio dei docenti». In modo sottile la «bozza Carrozza» corregge: «I libri di testo possono essere adottati». Una sola parola «possono» che però cambia lo scenario dell'editoria scolastica italiana. Si tratta, in prospettiva, di una forte liberalizzazione nell'adozione di testi, contenuti e materiali su cui basare l'attività didattica. Insegnanti e dirigenti potranno, ora, scegliere tra varie opzioni oppure mixarle. In pratica: adottare i libri analogici e/o i contenuti digitali degli editori proposti dagli editori scolastici tradizionali, forzati dalla liberalizzazione a innovare in questo campo; utilizzare contenuti digitali e testi disponibili in rete in modalità "free" o "creative commons", ad esempio i "classici" non più sotto diritti disponibili, ad esempio, all'interno di Google Libri o le video lezioni delle Ted conference. Ma anche utilizzare testi, materiali didattici e contenuti digitali progettati dai docenti stessi o da altri docenti. Come i «libri di testo» del progetto Book In progress, manuali scritti dagli 800 docenti della rete nazionale del progetto che permettono un risparmio di circa 300 euro rispetto ai tetti di spesa del ministero.
Da questo punto di vista la bozza Carrozza, sempre se approvata, rappresenta un passo decisivo nella direzione di una riforma, anche digitale, della scuola italiana che la renda più attenta e responsabile rispetto ai nuovi stili di apprendimento dei cittadini «nativi digitali»: i suoi allievi e studenti.

* Professore associato di Tecnologie didattiche e Teoria e tecniche dei Nuovi Media all'Università Milano Bicocca

le lingue salvate dai bit


Luca Dello Jacovo

Nòva - Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2013

Poteva sembrare un esempio illustrativo: Amit Singhal, senior vice president di Google, aveva raccontato a un giornalista di Slate che Star Trek era una fonte d'ispirazione nei progetti di ricerca dell'azienda californiana. Le intuizioni del telefilm di fantascienza hanno plasmato l'immaginario di generazioni. E hanno alimentato idee come il traduttore universale che abilita discussioni in qualsiasi lingua e in tempo reale. 
È una frontiera che non sembra così distante. Anzi. Già Peter Norvig, director of research di Google, aveva dimostrato che le metodologie analitiche rese accessibili attraverso le infrastrutture informatiche del colosso hi-tech erano in grado di elaborare traduzioni veloci e affidabili. L'impegno dei data scientist è stato decisivo nei progressi raggiunti.
Franz Josef Och guida il team di Google dedicato alla machine translation: ha dichiarato in una recente intervista con Der Spiegel di avere ottenuto un "salto quantistico". A fare la differenza ha contribuito anche il web con il suo immenso archivio di documenti che permettono agli algoritmi di apprendere e migliorare. Sono 60-70 le lingue che Google Traduttore può convertire nella sua pagina online oppure attraverso app. È un frammento dei territori esplorati dai data scientist del gigante di Mountain View accanto agli algoritmi di deep learning delle reti neurali sviluppati da Geoffrey Hinton e alle indagini sull'intelligenza artificiale di Ray Kurzweil.
Non resta un traguardo racchiuso tra le mura dei laboratori di ricerca. Sui dispositivi mobili sono già accessibili molte applicazioni software come Vocre e Jibbigo per traduzioni vocali di brevi frasi: è sufficiente parlare nella propria lingua e ascoltare successivamente la pronuncia in un altro idioma. Word Lens converte in tempo reale un testo visualizzato dalla fotocamera di uno smartphone o di un tablet. Sono app utilizzate per esempio durante viaggi all'estero e dai turisti. Duolingo invece ha coinvolto una vasta community dedicata all'apprendimento mediante le traduzioni dai siti web e i suggerimenti di altri iscritti più esperti.
Ethnologue ha censito 7.105 lingue vive: 906 risultano in via di estinzione e 1.481 sono in difficoltà. Tutte fanno parte dell'enorme "language cloud" dell'umanità che abbraccia migliaia di visioni del mondo condensate in parole. Da quando la rete internet è stata aperta ai cittadini ha viaggiato di pari passo con la globalizzazione. Nei primi anni Novanta era diffusa la convinzione che avrebbe generato un appiattimento delle culture. Anni dopo sappiamo che non è stato così.
I social media hanno dimostrato di essere un luogo di memoria attiva. Indigenous Tweets (http://indigenoustweets.com) raccoglie i messaggi su Twitter condivisi dalle minoranze: rivela che piccole comunità linguistiche non superiori a poche decine o centinaia di persone coltivano la pratica delle loro parole grazie al web. Nel tempo hanno elaborato scaffali digitali che sono visibili al pubblico online frammentati in una scia di micropost. È un'agorà di conversazione dove sperimentare l'equilibrio delle identità locali con lo spazio aperto di internet.
La diffusione di laptop, smartphone e tablet alimenta una biblioteca online accessibile a chiunque con video, immagini e audio. YouTube è una miniera di informazioni per trovare testimonianze altrimenti difficili da acquisire: sono registrate da ricercatori e documentaristi. Contribuiscono inoltre blogger e citizen journalist. Quella di Global Voices (http://globalvoicesonline.org) è una comunità globale per discussioni che include dialoghi in swahili e malese. Il crowdsourcing incoraggia l'ampliamento di testi e video in lingue meno diffuse grazie alla partecipazione di volontari come avviene nella community di Ted mediante l'Open Translation Project. E le nuvole digitali del cloud computing sono costellate di arche destinate a preservare i saperi e a renderli vivi. 
Anche i big data portano alla luce una straordinaria complessità. MyMemory è un'Api (application programming interface) progettata dall'italiana Translated.net che ha collaborato con molti giganti dell'hi-tech: semplifica le traduzioni di testi e ha standard elevati di qualità. Nella vetrina di Mashape è la prima all'interno della classifica di Api della sua categoria. Le opportunità che derivano dall'incontro di data scientist e umanisti sono appena intraviste. Il traduttore universale è più vicino che mai.

domenica 29 settembre 2013

No Social




Ecco apocalittici e integrati in versione 2.0. 

Franzen e Pynchon sono convinti: 
boicottare Twitter e Facebook in nome dell'individuo contro la Rete


VITTORIO ZUCCONI

"La Repubblica", 29 Settembre 2013 

Era l'anno 1943 quando il presidente e creatore della moderna IBM, il leggendario Thomas Watson, spiegò a una riunione di azionisti che «nel mondo ci sarà un mercato per quattro o cinque computer al massimo». Se settant'anni più tardi la profezia del padre della IBM appare lievemente errata per difetto, ora che il numero di computer per uso personale ha superato i due miliardi, e senza contare gli smartphone e i tablet, Thomas Watson non potrà essere almeno accusato di "tecnofobia", o della sua gemella, la "neofobia", quel terrore superstizioso della tecnologia e della novità che oggi sembra colpire scrittori, docenti, esperti e intellettuali.
Watson non aveva visto il futuro di una tecnologia che avrebbe trasformato i pachidermi da tre tonnellate che negli anni Quaranta erano i computer, in gingilli tascabili o da polso. Gli intellettuali e gli scrittori disperati di fronte all'impero della Rete e all'invadenza robotica dei social network, come Franzen, come Pynchon, come Wolfe, come Morozov, sembrano appartenere a una cabala di "neo luddisti", di nemici dei telai meccanici che minacciano la loro esistenza, ma per la ragione opposta: per avere semmai visto troppo lontano nella Matrix del World Wide Web. Dove hanno letto l'ineffabile banalità, e la dispotica stupidità, della «intelligenza collettiva ».
L'idiosincrasia, o la fobia, verso il nuovo, il mai visto prima, l'ignoto, è certamente antica come lo sbigottimento del nostro antenato di fronte al primo cespuglio in fiamme o del monaco amanuense terrorizzato da quelle presse capaci di riprodurre in pochi giorni quei sacri testi che a lui richiedevano anni. Ma nell'avversione di intellettuali come l'autore di Libertà, Jonathan Franzen, come il Thomas Pynchon dell'ultimo Bleeding Edge, il filo di lama sanguinante, il Wolfe dei falò di tutte le vanità umane, tecno o sociali che siano, o del fustigatore instancabile del WWW, il russo Evgeny Morozov in lotta contro la Follia del soluzionismo tecnologico, c'è un filo comune che tesse personalità tanto diverse.
Il filo che li unisce e che sicuramente potrebbe legare anche il Salinger del Giovane Holden nella sua feroce autoreclusione, è la antica paranoia dello sciamano. È l'ansia del medicine man, del santone che vede sfuggirgli il controllo dell'immaginazione collettiva della tribù di fronte ad anonimi infermieri e medici armati di endofoni, vaccini, antibiotici e analgesici. 
Ciascuno di loro e altri ancora teorizzano il proprio disgusto per cinguettii, faccette, emoticon, pollicioni eretti o versi, blog, linkedin e tutta la farmacopea della «falsa socializzazione» come la chiama Franzen, sotto profili diversi. Wolfe per snobismo di antico amanuense della carta e adoratore ironico del giornalismo, offeso dalla superficialità istantanea e manipolabile della cosiddetta informazione in Rete, capace di produrre più danni e menzogne di quanti non riesca a rimediare. Pynchon, il monaco fintamente savonaroliano che vive nella Upper West Side di Manhattan e manda i figli in esclusive scuole private, legge anche nel web l'ennesima
manifestazione del complotto universale e metamorfico, del potere, immaginando una «Rete sotto la Rete» dove nascondere la resistenza, comunque destinata a soccombere. 
Invano Salman Rushdie, che invece twitta allegramente, se ne vanta e ne gode, li sbeffeggia proprio attraverso Twitter e i critici li accusano naturalmente di luddismo, di passatismo, di semplice incapacità di adeguarsi al tempo, non diversi dal titano di Hollywood, Darryl Zanuck, che licenziò il primo televisore visto all'Esposizione Universale di New York nel 1939 come «una scatola di legno compensato che nessun americano avrà il tempo e la voglia di fissare a lungo». L'angoscia di questi magnifici alchimisti della parola, che hanno consumato la vita, gli  occhi, il cuore per trasformare pensieri e sentimenti in lunghe pagine, messi a confronto con la «stupida spensieratezza» (ancora Franzen) di pensierini elementari sparati a decine di migliaia di follower e scambiati come perline senza valore, è vedere come essi stiano perdendo il controllo del discorso collettivo. E come meccanismi senza cervello stiano sottraendo loro il potere fondamentale per ogni intellettuale. Il potere della mediazione.
Naturalmente, come osserva un "tecnofilo" e giulivo adepto alla socializzazione virtuale, Michael Jarvis autore di un peana alla Rete, in questo rifiuto, in questa avversione ritrosa, si insinua quel sospetto che Nanni Moretti sintetizzò cosi efficacemente nel celebre «mi si nota di più se ci vado o se non ci vado». La mistica dei Salinger o dei Pynchon, degli eremiti della parola, si esalta proprio nel loro rifiuto del pubblico, nella esclusività della loro persona, se non dell'opera, che nel caso di Pynchon è ricca e abbondante.
Contestando la nuova, effimera divinità creata dagli Zuckerberg, dai Dorsey, creatore di Twitter, dai Systrom e Krieger di Instagram, si costruiscono un cachet di esclusività, un tempietto di diversità che impreziosisce il loro lavoro. Franzen, che aborre la volgarità, nel senso etimologico e poi linguistico dei social network, non disdegna affatto l'altro medium che intellettuali di qualche decennio or sono maledivano con altrettanto orrore: la televisione. 
Eppure, anche sapendo che la dinamica creata dalla Rete non potrà mai più essere fermata né invertita, non essendo mai possibile "disinventare" qualcosa o richiamare indietro il suono di una campana, non si possono licenziare le loro preoccupazioni soltanto come la stizza dell'intellettuale individualista che si deve misurare con la stoltezza fragorosa della "intelligenza collettiva". Nella cupa visione di Pynchon, di tutti loro il più sconvolto dall'impero della Rete e dalla "googolizzazione" del mondo come lo fu Mary Shelley davantii al possibile Frankenstein o Fritz Lang nell'incubo della Metropolis moderna, c'è la denuncia di quell'inganno che gli interessati sacerdoti della nuova religione, anche i più ruspanti come il nostro Casaleggio, tendono a rovesciare. C'è il sospetto che la apparente libertà espressiva del World Wide Web sia soltanto la manifestazione di una nuova forma di controllo, di divisione e di sfruttamento, nell'apparenza dell'universalizzazione. Già Marshall McLuhan avvertiva, a proposito della televisione e ancor più potrebbe dire della Rete: «La Tv avrà come effetto non la coesione, ma la tribalizzazione della società». Un mondo di tribù vaganti e salmodianti, senza sciamani. 

How Evolution Works

Il film. I guerrieri della scuola

Ci sono bambini che rischiano la pelle per poter studiare

Un documentario del francese Pascal Plisson, nelle sale italiane, 
racconta l’eroismo quotidiano di tanti ragazzini del Terzo Mondo 
che non vogliono rinunciare all’istruzione

Gabriella Gallozzi

                                                   “L'Unità”, 28 settembre 2013


JACKSON HA DIECI ANNI, VIVE IN UN PICCOLO VILLAGGIO IN KENIA ED OGNI GIORNO INSIEME A SUA SORELLA, FA 15 KILOMETRI A PIEDI NELLA SAVANA PER ANDARE A SCUOLA. Circa due ore di cammino, con una tanica d’acqua, una sacca con i libri in spalla e il pericolo costante della carica degli elefanti. Zahira di anni ne ha pochi di più, vive in un paesino arroccato sui monti dell’Atlante, in Marocco: la sua scuola è a quattro ore di cammino da casa ed ogni lunedì si mette in strada insieme a due compagne convinta che lo studio sia l’unica possibilità per cambiare la sua vita. Come loro anche Carlito, un ragazzino cresciuto in Patagonia che, tutti i giorni, con la sorellina percorre più di 25 kilometri a dorso di cavallo per arrivare nella sua scuola di là dai monti. E poi Samuel, undici anni del Bengala, India. Per lui tutto è ancora più difficile: una poliomielite lo costringe su una sedia a rotelle, malconcia e arrugginita. Eppure, anche lui, non perde un giorno di lezione, nonostante i quattro kilometri di percorso lungo il quale lo «spingono», letteralmente, i suoi fratelli minori.
Sono loro i protagonisti di Vado a scuola, l’incredibile documentario del francese Pascal Plisson che, molto applaudito allo scorso festival di Locarno, è nelle nostre sale per la Academy Two. Attraverso le quattro storie ambientate ai quattro angoli del mondo, il film si propone come un commovente apologo sul diritto all’istruzione. Sul potere dello studio e della conoscenza come arma per cambiare il mondo, vincere la povertà e le disuguaglianze sociali.
Col marchio Unesco e «Aide et action», un’organizzazione internazionale che lavora per l’istruzione, Vado a scuola racconta di una realtà così inimmaginabile per l’Occidente da sembrare addirittura una fiction. O almeno un’astratta metafora. Invece le storie di Jackson, Zahira, Carlito e Samuel sono drammaticamente reali. E il regista Pascal Plisson, da anni attivo in Africa, le ha selezionate ad una ad una proprio col sostegno di «Aide et Action». L’idea del film, infatti, è nata anche per lui dall’incredulità: dei ragazzini masai con delle cartelle in spalla che ha visto anni fa camminare solitari tra i pericoli della savana. Così si è messo in cerca di storie. E ne sono venute fuori tante.
«Abbiamo trovato una meravigliosa storia in Cina per esempio racconta lui stesso nelle note di regia -. Un bambino che percorreva un cammino lungo e pericoloso, perché il ponte che collegava la sua casa alla scuola non c’era più. Ma le autorità cinesi non gradivano che parlassimo delle difficoltà dell’accesso all’istruzione nel loro paese e ci hanno fatto sapere che stavano lavorando alla realizzazione del ponte. Siamo molto soddisfatti del risultato, naturalmente!!».
Sono piccoli guerrieri del diritto all’istruzione, i quattro protagonisti del film. Li seguiamo nel loro cammino a tratti, spaventati per i pericoli che corrono, a tratti increduli della loro ostinata consapevolezza. Zahira, per esempio, che vuole diventare medico, è la prima della sua famiglia ad andare a scuola. E forse, quello che colpisce di più, sono proprio i suoi genitori che la spingono al «cammino», in una terra dove l’istruzione delle ragazze è oggetto di divieti da parte degli integralismi religiosi. Anche la mamma di Samuel, il ragazzino disabile indiano, è una resistente a suo modo. Sono ben pochi, infatti, i genitori di ragazzi nelle «sue condizioni» che dell’istruzione dei loro figli ne fanno una questione di principio, rivendicandone il diritto. E Jackson, poi, il bimbo della savana. A colpire è l’ostinazione e la dignità. Dopo kilometri e kilometri di cammino ricorda alla sorella di mettersi a posto la divisa, per sfuggire alle prese in giro dei compagni. Ci tiene così tanto Jackson che per tener pulita la sua «uniforme» da studente, la lava nonostante la mancanza di acqua, cercandola sul fondo della terra che scava con le mani. «Siccome sono povero ha raccontato allo stesso regista dovrei essere sporco?». Lui, con la sorella, si sveglia ogni mattina alle 5 e 30 perché non vuole rinunciare neanche all’alza bandiera della sua piccola scuola. Arrivare fin lì è una sorta di battaglia. E lo sa bene pure il maestro che ad ogni appello, quando non manca nessuno tira un sospiro di sollievo, ringraziando il cielo per aver salvato i suoi coraggiosi studenti. Ai nostri, invece, consigliamo sicuramente la visione del film.

Sur le chemin de l’école, di Pascal Plisson
Interpreti: Jackson Saikong, Zahira Badi, Samuel J. Esther, Carlito Janez
Francia, 2012
Durata: 75' 

Da Leopardi a Nietzsche alla tv la vecchia guerra ai nuovi media


L’esibizionismo sui mezzi di comunicazione classici 
è calmierato dalla consapevolezza di essere virtualmente sotto gli occhi di tutti 
Ora invece la situazione è ambigua: 
formalmente è una comunicazione tra amici, in sostanza fa il giro del mondo come un articolo del Nyt

Maurizio Ferraris

“Corriere della Sera”, 29 settembre 2013

I luoghi di dibattito minacciano lo status e la centralità dell’intellettuale pubblico È un misto tra la vanità e la legittima lotta per il riconoscimento di cui parlava Hegel
Ogni volta che compare un nuovo medium, gli intellettuali si dividono tra apocalittici e integrati (con una prevalenza dei primi), tranne poi, nel giro di una generazione o meno, diventarne degli addicted. È successo con i giornali, con le “gazzette” dileggiate da Leopardi e con il loro “vomitus matutinus” deprecato da Nietzsche. È successo con la televisione. E ovviamente succede con Twitter e altri social network. Il che, detto di passaggio, dimostra che abbiamo a che fare con mass media e non con semplici strumenti di comunicazione. Perché ovviamente l’intellettuale può essere portato, all’inizio, a prendersela con le armi da fuoco che distruggono la cavalleria, o con i telefonini che lo tormentano in treno, ma non vede né negli archibugi né nei telefonini una minaccia nei confronti della propria identità. Con i social network, come con i giornali e con la televisione, abbiamo a che fare con la creazione di luoghi di dibattito, che minacciano lo status e la centralità dell’intellettuale pubblico.
La minaccia è illegittima? No. A un certo punto, scrive Franzen nel lungo brano di The Kraus Project anticipato dal Guardian, «come ogni artista, Kraus voleva essere un individuo». Che è esattamente ciò che, con ogni evidenza, vogliono quelli che infaticabilmente alimentano i social network, ma ovviamente anche la stampa e la televisione. Chi scrive vuole essere un individuo ed esprimere le proprie opinioni. È quello che io sto facendo in questo preciso momento, è quello che fa Franzen con un successo ben maggiore, ed è quello che, il più delle volte gratuitamente, dunque anzitutto per ragioni identitarie, fanno certi autori di social network. E io, Franzen e loro abbiamo certo in comune la vanità, ma non solo, perché ci impegniamo in una attività legittima ed essenziale per l’essere umano: la lotta per il riconoscimento di cui parla Hegel nella Fenomenologia dello spirito.
La lotta può anche essere un duello. Di qui il tono aggressivo che manifesta una tipologia (minoritaria) che definirei “blogger nervoso”, che certo non è Rushdie o Coelho, ma è un intellettuale che non si sente abbastanza riconosciuto, e che potrebbe indirizzarsi allo scrittore affermato con un “ipocrita scrittore, mio simile, mio fratello”. Perché lo scrittore affermato è semplicemente quello che il blogger nervoso vorrebbe essere. E proprio come nella lotta hegeliana, il blogger nervoso mette a rischio qualcosa: non la vita, fortunatamente, ma spessissimo la faccia. Come insegnano le vicende ricorrenti di twittatori e postatori che, in un momento di distrazione, debolezza o esasperazione, o magari per un calcolo meditatissimo ma sbagliato, si lasciano andare ad affermazioni di cui potranno scusarsi in eterno, visto che scripta manent. L’esibizionismo sui media classici è infatti calmierato dalla consapevolezza di essere – almeno virtualmente – sotto gli occhi di tutti. Qui invece la situazione è ambigua: formalmente, è una comunicazione tra amici, o in un circolo ristretto. Sostanzialmente, ha le stesse possibilità di fare il giro del mondo di un articolo sulla prima pagina del New York Times.
Dunque ci sono molti motivi per non prendersela con i blogger nervosi, rischiando di sembrare uno di loro. Primo, nessuno ci obbliga ad andare su Facebook o a seguire qualcuno su Twitter, ci sono indubbiamente delle cose migliori da fare nella vita, fermo restando che, come sempre, ce ne sono anche delle peggiori. Secondo, è affrettato criticare qualcosa che oggi appare sregolato come una sorta di far west, ma che con il tempo auspicabilmente sarà in grado di perfezionare un’etichetta. Terzo, e soprattutto, i primi a rimetterci in un uso incauto del social network sono, come abbiamo visto, i blogger nervosi. Se le cose stanno in questi termini, il sentimento da riservare al blogger nervoso non è l’ira, il disprezzo o l’anatema, ma semmai la compassione. Più che il tono apocalittico di Kraus si adatta al blogger nervoso il giudizio di uno scrittore che ha dilapidato i suoi talenti, il Jep Gambardella di La grande bellezza: «È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura, gli sparuti e incostanti sprazzi di bellezza, e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile».

Susanna e le altre: così la Gentileschi “vendicava” il genere femminile oltraggiato

Artemisia Gentileschi, Susanna-e-i-vecchioni, 1610. 


Melania Mazzucco

“La Repubblica”, 29 settembre 2013

Invocano il diritto all’oblio i colpevoli di brutali fatti di cronaca, che hanno espiato o si sono redenti: e anche le vittime, inchiodate per l’eternità al dolore patito. È una grazia non esaudibile: il firmamento della rete oggi riverbera ogni istante di ogni vita, anche la più insignificante. Ma Artemisia è morta intorno al 1652. Provo a liberarla dal peso della sua ingombrante biografia: a raccontare questo quadro come se ignorassi il nome dell’autore.
Il soggetto si riconosce al primo sguardo. Una giovane nuda, due uomini vestiti: è Susanna. La bella signora di Babilonia, simbolo di castità e fedeltà, ha avuto un successo travolgente nell’Europa della Controriforma (da Tintoretto e Veronese fino a Rubens, Reni, Domenichino, Guercino, Preti, Rembrandt e van Dyck). La storia viene dall’Antico Testamento: la bellissima Susanna, moglie del ricco Ioachim, si accinge a bagnarsi nel giardino della sua casa; ma viene seguita e spiata da due anziani giudici, ossessionati dal desiderio di lei. I due le intimano di concedersi, minacciando altrimenti di denunciarla come adultera. Susanna rifiuta, i due rilasciano falsa testimonianza e lei viene condannata a morte. La parola di una donna — in un processo — vale il resto di niente.
I pittori schivano il seguito. Cioè l’arrivo del profeta Daniele che interroga separatamente i vecchioni, li fa cadere in contraddizione e poi suppliziare invece di lei. Non ricordo di aver mai visto dipinta la scena del processo, lo smascheramento, la punizione dei calunniatori. Sempre la bella al bagno. Sensuale ma innocente, talvolta; voluttuosa sempre. Susanna garantiva un’immagine di nudità erotica ma vereconda, legittimata dalla fonte biblica (pur apocrifa). Inventari e archivi attestano che i committenti erano sempre uomini — spesso religiosi.
Dunque c’è una giovane donna formosa, dalla pelle trasparente. Nuda, salvo il drappo bianco sulla coscia sinistra, che occulta l’inguine. È raffigurata dal vero, con naturalismo e senza idealizzazioni: l’areola rosea, la poppa piriforme, ventre e arti cicciosi. Non si vedono gioielli, indumenti, boccette, balsami. Susanna è priva di ogni ornamento: indifesa. Il pittore — che appartiene all’ambiente romano dei caravaggisti d’inizio ‘600 — ha assimilato la lezione del maestro: la narrazione è scarnificata, la scenografia abolita. Non c’è il giardino della bella casa di Babilonia, descritto nel testo. Né il leccio e il lentisco fatali ai giudici, o fronde e verzura lussuriosa. Solo il cielo azzurro che, in alto, trasuda minerale freddezza. E i personaggi, colti in azione. Così il pittore dipinge Susanna seduta sul gradino della vasca (invisibile) in cui sta per immergersi, incarcerata dalla parete di marmo. In posizione dominante, gli spioni incombono su di lei, formando una piramide. Il linguaggio dei gesti surroga la visione della nudità. Il più anziano, col dito alle labbra, le intima il silenzio. L’altro, che non è vecchio come vorrebbe il racconto ma un giovane riccio e barbuto, tocca confidenzialmente la schiena del primo, e gli sussurra complice all’orecchio. Il prugna-bruno del suo mantello si salda col rosso di quello del vecchio: una macchia di colore contro la pallida epidermide di lei: Susanna non ha scampo. L’espressione del suo viso rivela angoscia e impotenza. Sa cosa l’aspetta, se si nega. Ma si nega, gesticolando, inorridita. Il pittore ha capovolto il senso di questa morbosa storia, pretesto per celebrare la bellezza femminile e il voyeurismo maschile. Incentrandola non sullo sguardo che viola l’intimità ma sul ricatto, l’ha trasformata in una scena di sinistra violenza psichica: la composizione verticale dell’immagine accresce l’effetto di minaccia.
Non sappiamo per chi fu dipinto questo quadro. Sappiamo però quando, e da chi. ARTIMITIA GENTILESCHI F 1610, si legge sul marmo, nell’ombra della gamba. La scritta, a lungo ritenuta apocrifa, è invece autentica. La pittrice firmò e datò l’opera. Ciò mi obbliga a rinnegare il ragionamento iniziale. L’autore del quadro era una donna: e lo rivendicava, specificando il suo nome. E voleva anche che si sapesse che l’aveva dipinto a 17 anni (era nata nel 1593). Che all’età in cui i coetanei facevano i garzoni o i lavoranti nelle botteghe dei maestri, lei sapeva già disegnare, colorire, inventare e realizzare (F= fecit) un quadro di storia di medio formato, con tre figure. Storia e corpi umani: il genere di pittura più alto e difficile. Se fosse stata un ragazzo, a 17 anni poteva “dare l’esame”, dipingendo figure per la commissione, essere accolta come maestro nella corporazione dei pittori e aprire bottega. Come zitella romana, invece, non poteva quasi uscire di casa e viveva segregata. Doveva studiare sui disegni e le incisioni del repertorio della bottega del padre, il pittore pisano Orazio Gentileschi. Ma non si poteva impedirle di coltivare il suo talento e di progredire. Anzi Orazio — sodale di Caravaggio, vedovo selvatico dalla lingua scurrile — incoraggiava le ambizioni della figlia. Nel 1612 scrisse alla Granduchessa di Toscana che Artemisia «in tre anni si era talmente appraticata, che posso ardir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere, che forse principali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere… Gli manderò saggi dell’opera di questa mia figlia dalla quale vedrà la virtù sua».Susanna e i vecchionisi lascia allora leggere come quel “saggio” della capacità (virtù) di ARTIMITIA.
Una pittrice pensa per immagini, visivamente, e ogni scelta (rinuncia al paesaggio, inquadratura stretta, verticalità, giovinezza del calunniatore e sua caratterizzazione come fosse il ritratto di una persona reale), è carica di senso. Anche la firma parla, se si pensa che a quel tempo Artemisia non sapeva“scrivere e poco leggere”. Il padre forse la aiutò a migliorare il quadro, suggerendole correzioni nella posa delle figure, e a farlo circolare, proponendolo ai propri committenti quando Artemisia fu coinvolta (per volontà di Orazio stesso, che sperava di ricavarne la dote e la restituzione dell’onore, in quest’ordine) nel processo contro il suo defloratore Agostino Tassi. Nel tribunale di Roma, non intervenne il profeta Daniele a confermare le sue parole. Artemisia fu calunniata, e l’ignominia della disonesta fama l’inseguì fino alla morte, e oltre. Ma avrebbe rifiutato il diritto all’oblio: si specializzò proprio in nudi femminili di vittime di stupro morale e fisico (Susanna, Lucrezia), in sante ed eroine forti e peccatrici (Maddalena, Cleopatra, Giuditta). Con grinta, viaggi e affanni, si costruì affetti, reputazione, gloria, dimostrando «un animo di Cesare nell’anima di una donna». Nel 1649, anziana, scrisse fieramente all’illustrissimo don Ruffo: «vi farò vedere quello che sa fare una donna». L’aveva già fatto.

Luca Canali. Il grande latinista racconta memorie politica, incontri e ossessioni private

Nato a Roma nel 1925, 
ha partecipato alla Resistenza con il Partito d’Azione

Poeta, docente universitario saggista e scrittore, è uno dei più grandi latinisti italiani

“La storia insegna che il mondo è un incubo senza risveglio”

“I miei stessi idoli erano canaglie. Cesare? un criminale di guerra”

“Dagli studi alla famiglia, ho barato in tutto e la mia figlia segreta non sa che sono suo padre”
intervista di Antonio Gnoli

“La Repubblica”, 29 settembre 2013

Ad ascoltare Luca Canali, illustre latinista e scrittore, mentre narra la sua vita, sembra di piombare nel Grande Romanzo dell’Infelicità: «Non amo la solitudine, non l’ho scelta. Essa mi pesa enormemente. Eppure è qui, accanto a me, esigente nel rivendicare ogni volta il suo diritto. Faccio fatica a capire il senso di qualcosa che negli anni è diventata una prigione». Canali ha quasi 90 anni. Vado a trovarlo nel piccolo e modesto appartamento romano, pensando all’uomo la cui vita è stata illuminata dai lampi dell’antichità e da una remota militanza politica. Strane mescolanze in un’esistenza segnata da malattie dell’anima e da insidiosi pensieri: «Non ho mai voluto essere il migliore, e se qualche volta ciò è accaduto, la mia mente mi obbligava a pensare di essere nessuno». Epica di autolesionista, penso. Ma se scavo nel suo volto, ancora bello e grifagno, colgo una beffarda infelicità, e vi leggo il benvenuto ai piccoli inferni quotidiani.
Vive sempre così appartato?
«Ahimè, non sono quel che si dice un tipo mondano. Però non deve pensare che sia sempre stato così. Soprattutto da bambino avevo parecchi amichetti. Mia madre mi portava al Pincio, oppure sciamavo sotto casa. La mia è stata un’educazione stradaiola».
Chi erano i suoi?
«Mio padre faceva il carbonaio, mia madre era una maestrina. Lei si innamorò di quest’uomo strano, un donnaiolo impenitente. Soffrì di gelosia, come io avrei sofferto per tutto il resto. Abitavamo a Roma in via Gesù e Maria, una traversa di via del Babuino. Proprio davanti casa c’era un postribolo. Un altro era in via Laurina, uno in via della Fontanella, e uno in via Panisperna».
Anche quella fu un’educazione?
«Li ho frequentati, a volte ci andavo senza una necessità precisa. Per fiutare l’ambiente, perdendomi in certe sensazioni. Erano luoghi di interclassismo patetico e di superflue perversioni. Frequentato da vecchi renitenti alla leva del tempo che passa. Di non rassegnati. Ma anche luoghi creativi. Un grande latinista, Antonio La Penna, mi diceva: Luca, a me le migliori idee sono venute al casino».
Anche lei è un grande latinista.
«La ringrazio per il grande. La mia carriera di studioso fu frammentaria,incerta, pericolosa».
Andiamo con ordine. Dove ha studiato?
«Mia madre, ambiziosetta, mi mandò prima dalle suore inglesi e poi al Visconti: otto anni tra ginnasio e liceo. Frequentato da gente chic. Ero il solo a evidenziare un certo complesso di inferiorità. Vestivo male, portavo i maglioni dismessi da mio padre. Devo dire che i compagni di classe non avevano atteggiamenti di superiorità, erano i professori a discriminarmi un po’».
E lei subiva?
«Cercavo il riscatto negli studi. Mi mostrai bravo in latino e greco. Un professore di storia dell’arte, che sarebbe morto combattendo contro i tedeschi sotto le mura di San Paolo, ci aprì la testa leggendoci I fiori del male di Baudelaire eLe elegie duinesidi Rilke. Cominciai così ad amare la letteratura. A 16 anni scrissi le mie prime poesie che Ungaretti, con mia sorpresa, pubblicò sullaFiera letteraria.A giugno, quando finiva la scuola, con i compagni andavamo a fare il bagno al Tevere. Non dal “Ciriola”, dove spesso c’era Pasolini, ma da Ercole Tugli. Ci capitava di incontrare spesso Sandro Penna, del quale divenni amico».
Che ricordo ne ha?
«Un conversatore lamentoso ma non privo di fascino. Era come se la vita ogni volta gli morisse sulle labbra. Ricordo il suo incedere lento. Veniva giù da Ponte Vittorio, non lontano dal vicolo dove abitava, a braccetto della madre. Un gay d’altri tempi. Con i miei amici di scuola cominciammo a occuparci di politica. Scoprii l’esistenza del Partito Comunista. Si avvicinava la fine della guerra. Riparai in montagna per sfuggire alla ferma milita-re e infine mi iscrissi al partito.
Quanto è rimasto nel Pci?
«Sono stato nel partito dal 1945 al 1958. Ho diretto cinque sezioni romane, l’ultima in borgata. Il segretario della federazione, Otello Nannuzzi che aveva preso il posto di Aldo Natoli, mi disse: Luca, hai diretto solo sezioni borghesi, ti manca la classe operaia. E andai al Prenestino, dove rimasi un paio d’anni. Non ho mai pensato di fare una vera carriera politica, per mancanza di vocazione al compromesso. Poi nel 1958 – c’erano già stati i fatti di Ungheria – fui radiato dal partito. Buttarono fuori anche Tommaso Chiaretti, Mario Socrate, Dario Puccini e tra i pittori: Vespignani e Attardi. Venimmo accusati di revisionismo senza principi. Io nel frattempo mi ero iscritto all’università. E alla fine mi laureai con una tesi su Lucrezio».
Con chi?
«Con il terribile Ettore Paratore. Mi diede 110. Commentò, in seguito, che non poteva dare la lode a un comunista. Divenni suo assistente».
Era un uomo difficile. Un conservatore a oltranza, come poteva conviverci?
«Mi stimava. Era famoso perché bocciava a ripetizione. Ma era un genio, coltissimo. Aveva solo un debole: scriveva romanzi orrendi. Tanto che i figli, credo, sono stati costretti a farli sparire dalla circolazione. Nel frattempo mi riavvicinai al partito. Mario Alicata, che si occupava tra le altre cose anche de
dopo avermi cacciato, mi riprese come redattore. Ma quando morì, il suo posto di responsabile della cultura fu assunto da Rossana Rossanda».
Andai da lei e le dissi: scusa, ma lì io avevo il solo stipendiuccio, e per campare non ho altre entrate. E lei: hai l’università. E io: ma non prendo una lira. E lei: non ti preoccupare, vedrai che farai strada. E io, la guardai rassegnato».
«Mica fu semplice. Comunque divenni professore di ruolo e fui chiamato a insegnare a Pisa. Ho insegnato per 15 anni. Mi piaceva. Furono anni splendidi e durissimi. Ma alla fine non resistetti. E lasciai l’università».
«Ero doppiamente malato. Fui investito da una profonda depressione, che quando è seria ti viene voglia di ammazzarti; e l’altra malattia, fastidiosissima e fortemente condizionante, fu una psiconevrosi fobico ossessiva».
Come si manifestavano le sue ossessioni e fobie?
«Nel fatto, ad esempio, che le cose dovevano essere disposte in un certo modo. Ero capace di tornare improvvisamente a casa se solo fossi stato sfiorato dal dubbio che un certo oggetto era in un posto diverso da dove io lo immaginavo. O se avevo la sensazione di essermi dimenticato qualcosa che volevo ricordare, potevo restarne ossessionato per giorni. Perfino i nomi delle persone costituivano un problema. Se dimenticavo un nome, mi accadeva di passare nottate su un elenco telefonico per vedere se casualmente riaffiorasse. Tutto poteva trasformarsi in una ossessione».
Depressione e fobie però le ha superate.
«In forma blanda ancora ci sono».
Come le ha curate?
«Per anni, in un paesaggio di flebo e di lenzuola, mi sono imbottito di farmaci. E sono stato diverse volte in cliniche psichiatriche tentando di curarmi. Dalla depressione si può uscire; con le psiconevrosi è più difficile».
Si ricorre alla psicoanalisi.
«Ho fatto centinaia di sedute analitiche. Inutili. Da un punto di vista psicofisico il periodo migliore furono gli anni dell’impegno nel partito. Ero guarito. Forse perché ci credevo davvero.Forse perché io, che non ho mai avuto una fede, lì, avevo una fede. Poi, quando seppi dei crimini staliniani mi cascò il mondo addosso».
Perché dice che quelle malattie ancora non l’hanno abbandonata del tutto?
«Perché ancora oggi mi sdraio sul letto, chiudo gli occhi, e desidero non risvegliarmi più. E il risveglio è orrendo. Ancora oggi ho l’ossessione che non mi fa uscire da Roma. Sono decenni che non faccio una villeggiatura».
Si è dato una spiegazione?
«Non c’è spiegazione».
Non c’entra forse quel mondo antico che ha studiato?
«Non lo so. Francamente adoro la storia romana».
Cosa le ha insegnato?
«Che la storia è realismo e brutalità. Come diceva Stephen Dedalus: la storia è un incubo dal quale cerco inutilmente di svegliarmi. È un continuo scorrere di sangue, un moltiplicarsi di guerre e di morti. I miei stessi idoli erano delle canaglie. Cesare? Un criminale di guerra. Augusto? Grande politico, pessimo combattente le cui imprese descritte sono per metà false».
Lei ha anche scritto un Satyricon e collaborato con Fellini.
«Fu un’esperienza straordinaria vederlo dirigere il film. Il mio rapporto con lui fu propiziato da Antonello Trombadori. Fellini gli chiese se conosceva un latinista – senza il basco in testa, precisò ironico – che lo potesse aiutare non tanto a dirgli cosa fare, quanto cosa non fare. Aveva delle battute meravigliose. E diventammo amici. Per come si poteva intendere l’amicizia con lui. Qualcosa di volatile».
Lei ha scritto tantissimo.
«Sì, per anni ha fatto parte della mia terapia».
Citava Joyce, le piace?
«Lo preferisco a tutti gli altri scrittori del Novecento. Ulisse è il romanzo del buon umore. Mi attrae proprio per la sua natura così lontana dalla mia. E poi gronda sensualità: bassa, terrestre, vitale e avvolgente come una cappa di umidità».
Torniamo al sesso.
«Cosa vuole sapere?».
Dica lei.
«Con le donne sono stato spesso arrembante. E ho avuto molta fortuna. Ero un intellettuale colto e bello. Piacevo. Sono stato sessualmente molto attivo, ma senza nessun coinvolgimento. Ed era chiaramente il sintomo di una nevrosi».
Ci spieghi.
«Diciamo pure un problema sessuale. Quando mi innamoravo di una donna e subentravano gli affetti, non riuscivo più a fare l’amore fisico. Mi sembrava di commettere un incesto, perché quella donna diventava per me una sorella. Può immaginare cosa sia stato il mio matrimonio».
È sposato?
«Mia moglie è morta da parecchi anni. Fu un errore sposarmi. Non ero adatto. Ha molto sofferto. Mi sono occupato di quell’opera colossale che fu l’impero romano e la sua caduta e non vedevo che la decadenza era in casa».
Ha figli?
«Una figlia, ormai grande e...».
E...
«Una figlia segreta, con la quale parlai una sola volta, nascondendole il fatto che ero il padre».
Lo dice con un senso di rimpianto.
«Per molto tempo questa storia mi ha fatto soffrire. La madre – una donna importante, con due matrimoni alle spalle – mi impedì di vederla. Poi i medici mi consigliarono che era meglio così e mi rassegnai».
In fondo, non è stato un uomo fortunato.
«Qualche fortuna grande, e molte sfortune. Le malattie sono state un grosso impedimento. Ogni tanto ripenso ai continui litigi tra i miei genitori. Mia madre disprezzava mio padre e lui se ne fregava. Credo di non avere mai avuto una vera famiglia».
L’ha condizionata?
«Non ne sono proprio sicuro. Forse ho perfino vissuto più liberamentela mia vita».
Come si vede nell’imminenza dei 90 anni?
«Sono contento di me ma non della mia vita. La mia mente continua a funzionare anche quando non vorrebbe. Anche quando vorrei che tutto tacesse. A volte mi penso morto e immagino il mio corpo che si decompone. E l’angoscia riemerge. No, non sono stato decisamente fortunato. Nel gioco non ho avuto belle carte».
Lei ha scritto, ora ripubblicato, quello che in molti ritengono il suo libro più bello:Autobiografia di un baro. Perché “baro”?
«Fa parte della psicologia insana. Spesso ho la sensazione di barare. Perché i miei strumenti intellettuali, le mie parole coprono un’infelicità, un dolore, un fallimento. Ho barato in politica perché dopotutto non me ne fregava più di tanto; ho barato in famiglia, come può fare un marito inadatto; ho barato all’università non riuscendo a dare ciò che avrei potuto, o nascondendo i miei limiti. Solo come infermo mi pare di avere agito senza trucchi».

sabato 28 settembre 2013

Il compito più difficile è condividere l’amore per il sapere




Il compito più difficile è condividere l’amore per il sapere



La replica all’articolo di Massimo Recalcati sugli insegnanti


Pier Aldo Rovatti



“La Repubblica”, 28 settembre 2013




Appena dopo aver letto l’articolo di Massimo Recalcati sui problemi dell’insegnare oggi (Repubblica, venerdì 20 settembre) sono andato a Pordenonelegge a parlare di scuola, anzi di “scuola impossibile”. L’occasione era fornita dalla presentazione di un fascicolo speciale della rivista Aut aut, curato da Beatrice Bonato e recante esattamente questo titolo: La scuola impossibile. Un titolo dal sapore freudiano che però è possibile intendere in due modi, uno decisamente più nobile, appunto quello di Freud, e cioè che l’insegnamento non è un compito che si possa ridurre dentro regole prestabilite dato che è un compito incondizionato, incondizionabile e in tal senso “impossibile”; l’altro meno nobile e più terra terra, e cioè che oggi, in questa nostra scuola, in questa determinata società, insegnare è un’impresa fallimentare per una spaventevole quantità di motivi, materiali e culturali, che tutti insieme costituiscono i ben noti “guai” della scuola italiana. Una scuola che avrebbe bisogno di essere strutturalmente rianimata.
Eppure l’insegnamento resta l’obiettivo e perfino il desiderio principale di una parte consistente della giovane forza lavoro intellettuale: la destinazione che moltissimi vorrebbero raggiungere, se solo riuscissero a valicare le strettoie e le griglie concorsuali, una destinazione che darebbe loro un posto di lavoro in condizioni appunto difficili e per un salario alquanto avvilente. Che cosa sorregge questo loro desiderio di insegnare? Sono una massa di masochisti? Al contrario, sembra che essi apprezzino proprio il lato nobile dell’insegnamento e la sfida che gli appartiene. Forse rimarranno incrodati in parete, ma il rischio dell’impresa supera — nel suo potere di attrazione — il calcolo presumibile dei danni personali. A guardar bene, ci si accorge che ciò che attira è precisamente quella “impossibilità” del compito di insegnare che si lega con evidenza tanto al sapere quanto alla relazione con gli altri. Immagino che fin qui Recalcati sia pienamente d’accordo. Qualche differenza potrebbe nascere nel momento in cui andiamo a vedere cosa significano, oggi, per l’insegnante, il “sapere” e la “relazione”, perché essi non possano mai essere separati, come non si possa insegnare l’“amore per il sapere” senza mettere ogni volta in gioco il complicato rapporto tra insegnante e allievi (un rapporto che non è sufficiente impacchettare nella parola “seduzione”).
Quanto al sapere, certo la scuola deve essere un apprendistato, un’educazione che insegni ad apprezzarlo in quanto tale, tuttavia il sapere non è mai qualcosa di chiuso in se stesso: è sempre un tessuto storico e sociale connesso al potere, un gioco di verità che è anche, ogni volta, un regime di verità, e insomma il sapere non sta in alto e fuori, bensì in basso e dentro, nella concretezza delle pratiche reali. E, quanto alla relazione, è difficile negare che la scuola sia innanzi tutto una palestra di comunità e di socializzazione e che — nel caso contrario, cioè quando prevalgono altre istanze o si privilegiano altri obiettivi, per esempio l’apprendimento della disciplina — essa rischia di mancare clamorosamente al proprio mandato.
Per essere ancora più chiaro, vorrei sottolineare che l’amore per il sapere, per il fatto stesso di essere un “amore”, deve passare necessariamente per la relazione, cioè attraverso l’accomunamento e la socializzazione. Se ciò accade, si produce anche una trasformazione delle soggettività, una doppia trasformazione poiché riguarda al tempo stesso gli allievi e l’insegnante. Se l’insegnante non è toccato da tale processo la scuola gira a vuoto e costruisce una relazionalità bloccata e perfino negativa. So che Recalcati condivide la sostanza di queste riflessioni, volevo solo dare a esse una maggiore esplicitazione.

“Il padre perfetto non è un padre esemplare”


Dall’Odissea alla Strada di McCarthy, i modelli di un ruolo difficile

Oggi lo psicoanalista è a Torino Spiritualità per parlare di Giobbe

L’esploratore dell’anima 
«Quante volte siamo stati come Giobbe, 
esposti al silenzio di Dio e orfani del capofamiglia?»
«I migliori genitori letterari sono vulnerabili come Ulisse: è questo che li umanizza»
intervista di Francesco Moscatelli

Massimo Recalcati

                                       “La Stampa - Tuttolibri, 28 settembre 2013


Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano, docente di Psicopatologia del comportamento alimentare a Pavia e fondatore di Jonas – una Onlus che promuove la democratizzazione della psicanalisi – è uno di quegli accademici capaci di farsi capire da tutti. Look alla Jonathan Franzen, 53 anni, grande appassionato di letteratura americana, si occupa di nuovi sintomi (bulimia, anoressia, dipendenze, attacchi di panico) e, da quando i suoi saggi sul desiderio e sulla paternità hanno scalato le classifiche, è una presenza fissa a festival ed eventi culturali. 
Professore, lei sabato (oggi, ndr) sarà a Torino spiritualità per parlare di Giobbe. Giobbe, l’uomo paziente della Bibbia, è stato una figura centrale nel­la letteratura novecentesca, da Jung a Joseph Roth, Bec­kett e Kafka. Partendo dalla sua riflessione sull’«evapora zione del padre», cosa testi­monia Giobbe all’uomo con­ temporaneo?
«Giobbe è l’icona della preghiera, dell’invocazione a Dio; è l’icona della non sufficienza dell’umano. Il problema è che se l’umano si costituisce sempre come un’invocazione rivolta all’Altro, come una preghiera, a partire dai primi vagiti con i quali viene al mondo, Dio resta inaccessibile e silenzioso. Di questo patisce Giobbe: della non risposta di Dio. È questo silenzio che lo sprofonda nell’abisso. Quante volte siamo stati Giobbe? Esposti al silenzio di Dio, orfani del padre. In effetti l’etimologia ebraica del termine Giobbe significa “Dov’è il padre?”». 
Il suo discorso sulla paternità può essere sintetizzato nella frase: «Quel che resta del pa­dre è l’essere portatore del fuoco nella buia notte di un mondo senza Dio». Nei suoi li­bri cita come esempio il padre de La Strada di Cormac Mc Carthy, un uomo che nello scenario apocalittico in cui si svolge il romanzo trasmette comunque al figlio l’amore per la vita, un amore ancestra­ le, quasi biologico. Come si impara ad essere padri così? 
«Il padre de La strada non è un padre esemplare. I migliori padri non sono padri ideali. La clinica psicoanalitica insegna che quando un padre si presenta ai suoi figli come l’incarnazione dell’ideale può generare sui suoi figli un effetto di oppressione che non favorisce affatto lo sviluppo della vita. Anzi. Quello che resta del padre, evaporata la sua potenza autoritaria garantita dalla forza della tradizione, è un padre che vive la propria vita con desiderio e che educa i propri figli non con la forza del provvedimento disciplinare o con il sermone morale ma con la potenza dell’atto, del dare corpo al proprio desiderio... Il padre de La strada decide di continuare a vivere giorno dopo giorno in un universo disabitato da Dio... Resiste. Non viene meno alla sua responsabilità illimitata, ma non pretende di essere colui che ha l’ultima parola su tutto, sul senso del bene e del male, della vita e della morte».
Cosa ha letto questa estate? 
« I fatti di Philip Roth che è un testo fondamentale per intendere il valore della scrittura e della poetica di Roth in generale. Ma è anche un grande libro sulla disperazione amorosa dove sesso e morte si miscelano in modo esplosivo. Roth ci pone di fronte non tanto all’estasi dell’amore ma a una vertigine e a un godimento mortale che sprofondano verso la distruzione reciproca. Poi ho letto per la prima volta Memorie di Adriano della Yourcenar: testo che restituisce una visione stoica della vita nei suoi affanni... La conquista e la difesa del potere, l’amore, l’ambizione, lo spettro della morte, l’eredità... Un altro libro che mi ha appassionato è stato L’adorazione , un saggio di Jean Luc Nancy sul cristianesimo... In estate cerco di evitare la lettura di testi psicoanalitici... È per respirare meglio...». 
Quali libri consiglierebbe a un padre di oggi? 
«L’Odissea, e poi quelli che cito nei miei ultimi lavori: oltre a La strada di McCarthy , Patrimonio di Philip Roth. Ma anche i film Million Dollar Baby e Gran Torino di Clint Eastwood. In tutti i padri protagonisti di queste opere, sebbene in modi diversi, incontriamo una vulnerabilità che li umanizza profondamente. Ulisse compreso: Ulisse nomade, mendicante, extracomunitario, Ulisse che per amore di sua moglie e di suo figlio rinuncia al sogno dell’immortalità». 
Quale libro re­galerebbe a un figlio? 
«Non esiste un figlio in senso universale. A volte i regali dei genitori contengono l’aspirazione inconscia di rendere il proprio figlio adeguato al nostro ideale di figlio. Un vero dono implica la messa in valore della particolarità dell’altro che lo riceve. Tenere conto di questa particolarità comporta fare doni diversi a seconda delle diverse attitudini dei miei figli. In realtà sono i figli che devono trovare i propri libri». 
Nel suo Il complesso di Telema­co suggerisce che dopo i figli Edipo ­ che conoscono il con­flitto con il padre e il trauma della Legge ­ e i figli Narciso ­ prigionieri di un mondo che sembra incapace di ospitare la differenza tra le generazioni ­ oggi è il momento dei figli Tele­maco, che come il figlio di Ulis­se attendono il ritorno del Pa­dre, ovvero «una testimonian­za di come si possa vivere con slancio e vitalità su questa ter­ra». Secondo lei i figli di oggi hanno consapevolezza di que­sta attesa, di questo bisogno? 
«Non chiaramente. Ma è evidente che quello che manca oggi sono gli adulti. Sono loro che latitano, che anziché supportare i propri figli si comportano e vivono come dei figli smarriti. Quando però incontriamo la violenza, le pratiche distruttive, come l’uso della droga, o la riduzione del corpo a puro strumento di godimento, siamo di fronte ad una domanda muta... Questi figli sono dei Telemaco disperati. Domandano che ci sia un padre, ma lo fanno senza parole. Piuttosto con atti al limite del suicidio...».
 In Patria senza padri, che ha scritto con Christian Raimo, si è occupato dei «padri» della poli­tica italiana. Che modello incarnano oggi Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, Matteo Renzi ed Enrico Letta? 
«Berlusconi e Grillo appartengono all’antipolitica. Sono a loro modo padri eversivi. Certamente sono diversi i fantasmi inconsci che li abitano: in Berlusconi è il fantasma della libertà che comporta il vivere l’esistenza della Legge come un impedimento… Dalla parte di Grillo troviamo un fantasma adolescenziale di purezza: i grillini sono i puri e tutti gli altri gli impuri. È il tipico manicheismo dell’adolescente. Con la conseguenza di una sterilità di fondo della loro azione politica incapace di mediare e con tutte le contraddizioni di fondo entro cui finisce ogni integralismo. Letta mi pare viva sotto il segno del sacrificio sino al rischio di incarnare un vero e proprio masochismo morale. In Renzi invece, se saprà far girare il vento nella direzione giusta, vedo un potenziale Telemaco. Il suo sforzo è diametralmente opposto a quello di Grillo e di Berlusconi: non si tratta di demolire la politica e le sue istituzioni ma di rianimarla, di ridarle lo slancio del desiderio. Il carisma di Renzi è legato allo slancio vitale,alla giovinezza, al desiderio, all’apertura di un nuovo orizzonte... Deve però liberarsi dell’ideologia della rottamazione se vuole davvero essere un figlio giusto. Non può volere la pelle dei padri. Lacan diceva che per liberarsi dei padri bisogna essere in grado di servirsene».

Nel centenario della nascita di Albert Camus il lettore indica «La peste» come libro fondamentale della sua vita

Il capolavoro di Albert Camus 
per il laico e l’uomo di fede

Mario Calabresi
 Locio Coco Bée

                                            
 “La Stampa, 28 settembre 2013

Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Albert Camus. Per questo motivo vorrei porre l’attenzione su un libro, La peste, che è stata una mia lettura ripetuta fin dai tempi giovanili. In particolare mi ha sempre fatto riflettere la figura di padre Paneloux, il sacerdote gesuita che si muove sulla scena di una città di Orano ormai sconvolta dal contagio e isolata dal resto del mondo.
Anche per questo religioso la peste è una scoperta. Nel senso che si può sapere tutto su di essa dal punto di vista clinico e medico ma non appena se ne cerca una motivazione che vada oltre il fenomeno stesso, una ragione metafisica oppure teologica, le cose non sono così facili. Per questo anche per il padre gesuita la peste rappresenta una scoperta. A motivo di ciò la prima predica di padre Paneloux ai fedeli di Orano riuniti in chiesa è solo l’inizio di un percorso di approfondimento che avrà esiti significativi nella esperienza spirituale non solo sua ma di tutta la comunità. La peste infatti che in quella circostanza egli evoca come flagello di Dio, la peste come punizione divina, sono temi di un registro troppo noto che possono impressionare e preoccupare l’uditorio ma non arrivano a incidere realmente sulle coscienze che si interrogano sulle cause di tanto male.
Ecco perché la seconda predica di padre Paneloux, che segue di circa sette mesi la prima (da maggio a novembre) è quella che davvero scava nel profondo e lascia un segno. La malattia non stava salvando nessuno, buoni e cattivi, santi e dannati, anziani e bambini. Anzi il tema del «dolore innocente» è proprio quello che precede e anticipa la sua omelia. L’aporia sollevata dal dottor Rieux (il medico degli appestati di Orano) al Dio-Amore dei cristiani, vale ancora oggi: «Mi rifiuterò sino alla morte – egli ha modo di dire al sacerdote – di amare questa creazione dove i bambini sono torturati». È il paradosso di sempre, del male che sovverte la fede, del dolore innocente, non necessariamente bambino, che reclama un perché. L’obiezione della sofferenza come via per negare Dio. L’umanesimo laico del dottor Rieux contro il dilemma di chi crede.
Il tormento scava i pensieri del padre gesuita più delle febbri della peste. Come risolvere questa contraddizione che la malattia presentava alla coscienza sua e di tutti? Perciò la religione del tempo di peste, egli dice in quel secondo e più sofferto discorso, non può essere la religione del tempo normale, dei giorni feriali. Non si potevano fare obiezioni:
, «Bisognava o tutto credere o tutto negare». Non ci si poteva opporre: «Era necessario arrivare a volere ciò che Dio voleva». Occorreva fare questo salto, apparentemente paradossale e assurdo, e far coincidere la nostra volontà con quella di Dio. È un passaggio difficile, ammette lo stesso padre Paneloux, che «suppone un totale abbandono di sé e il disprezzo per la propria persona. Ma Dio solo può cancellare la sofferenza e la morte dei bambini, lui solo può renderla necessaria, in quanto è impossibile capirla». Ecco la difficile fede alla quale bisogna avvicinarsi: «Dobbiamo amare quello che non riusciamo a capire», così padre Paneloux sintetizza in maniera folgorante la sua teologia della peste e più in generale dell’incomprensibile.
È questo Dio che la religione del tempo di peste ci fa conoscere, un Dio che vuole che la sua volontà sia la nostra e che quasi ci impone di arrivare ad amare quello che non possiamo comprendere: «Ora ho capito quello che chiamano grazia», può dire alla fine padre Paneloux, indicandoci una condizione, quella appunto della grazia, nella quale le contraddizioni della vita, l’assurdo della vita, non scandalizza più ma trova ancora un senso e un orientamento, una risposta, si potrebbe dire, anche se non è quella che si vorrebbe. Con queste riflessioni mi faceva piacere ricordare Camus e il suo libro più noto. La sua ricerca infatti non cessa di alimentare solo il pensiero del laico ma anche quello dell’uomo di fede, nella misura in cui entrambi questi uomini condividono le stesse interrogazioni sul senso e sulle ragioni dell’esistenza.

Il paesaggio appartiene al popolo


L'articolo 9 della Costituzione, un patrimonio minacciato


Corrado Stajano

“Corriere della Sera”, 28 settembre 2013

Quando, nel 1947, l'Assemblea costituente stava discutendo sull'articolo 9 della somma Carta che riguarda la tutela del paesaggio, i giornali umoristici dell'epoca, non propriamente progressisti, andarono a nozze nell'ironizzare pesantemente, in malafede o incoscienti, su quel che significava quell'argomento focale per la vita di un Paese come il nostro. «Il Travaso» e poi «Candido» e «L'uomo qualunque» non lesinarono gli scherni, scrissero di ovvietà e di stupidità, come se la norma fosse una bizzarria degli uomini politici di allora. Basterebbero due film d'autore, Le mani sulla città di Francesco Rosi e Il ladro di bambini di Gianni Amelio, se non esistessero le ragioni della Storia, della Cultura e della Politica pulita a mostrare quel che è successo dopo e far capire com'era essenziale nell'Italia distrutta dalla guerra l'articolo 9 della Costituzione. Anche oggi non ha perso nulla della sua attualità.
Quattro autori — Alice Leone, storica; Paolo Maddalena, giurista; Tomaso Montanari, storico dell'arte; Salvatore Settis, archeologo, già direttore della Normale di Pisa, presidente del consiglio scientifico del Louvre — hanno firmato insieme un libro polemico e documentato, Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, pubblicato da Einaudi (pagine 185, 16,50) che mette intelligentemente il dito sulle piaghe tormentose che seguitano a dilaniare un Paese disastrato, moralmente e materialmente, com'è l'Italia di oggi. Un libro che riesce a fondere la memoria di quel che accadde nel passato, con il presente e il futuro da ricostruire dopo il ventennio berlusconiano segnato dallo slogan «ognuno è padrone in casa propria».
Non era un'elegante astrazione intellettuale discutere quasi settant'anni fa del paesaggio e dell'arte come un fatto pubblico. Non fu, come scrive Alice Leone, né semplice né lineare, arrivare alla dizione dell'articolo 9. Rivolgimenti, mediazioni, scontri accesi, polemiche fuori e dentro gli schieramenti videro infatti contrapporsi interessi e scuole di pensiero. Non fu facile arrivare alla dizione definitiva: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».
Racconta Salvatore Settis, con amara nostalgia, che ci fu in Italia un tempo in cui la direzione generale delle Antichità e belle arti del ministero della pubblica istruzione poteva essere affidata a un uomo come Ranuccio Bianchi Bandinelli, «massimo archeologo italiano del Novecento e vigile coscienza della cultura europea»: la tutela delle bellezze naturali non può essere disgiunta da quella delle antichità e belle arti e deve essere sottoposta alla medesima regolamentazione legislativa, era il suo pensiero.
Sembra inimmaginabile un'idea così netta nella società dei consumi di oggi dove anche i beni culturali devono essere strumenti di «valorizzazione economica», dove — come documenta Paolo Maddalena — quei beni, violando la legge, sono diventati soltanto merce; dove trionfa la religione del privato; dove si costruisce senza vergogna, contro la volontà popolare, con l'avallo della Soprintendenza, un immenso parcheggio sotto e tutt'intorno alla più importante basilica milanese, Sant'Ambrogio; dove i prestiti selvaggi di delicatissime opere d'arte sono la regola, esportate all'estero come gingilli, utili più che altro a funzionari per i loro traffici di potere. (Pazienti viaggiatori hanno tentato più volte, per esempio, di vedere a Mazara del Vallo il meraviglioso Satiro danzante, sempre in trasferta come tanti altri capolavori, e hanno potuto esaudire il loro desiderio soltanto a un'esposizione alla Royal Academy di Londra dove il bronzo era ospite d'onore).
L'articolo 9 della Costituzione non nacque dal nulla. Il dopoguerra fu un momento fervido di riscatto e di comune visione del mondo di uomini e donne di diverse fedi e culture, dai liberali di gran nome come Benedetto Croce e Luigi Einaudi, al socialista Pietro Nenni, ai comunisti Togliatti e Concetto Marchesi al democristiano Aldo Moro all'azionista Piero Calamandrei che ebbero un ruolo essenziale nella stesura della Carta. La legge Croce del 1922 e la legge Bottai del 1939 furono il punto di partenza dei costituenti.
Tomaso Montanari spiega con chiarezza la sostanza dell'articolo 9: se la sovranità appartiene al popolo, com'è scritto nell'articolo 1, «anche il patrimonio storico e artistico appartiene al popolo. E la Repubblica tutela il patrimonio innanzitutto per rappresentare e celebrare il nuovo sovrano cui il patrimonio ora appartiene: il popolo».
Fu Concetto Marchesi, il grande latinista, a sostenere con energia la necessità di quell'articolo, voluto e difeso da costituenti di spicco. E fu Tristano Codignola a proporre con forza la parola «tutela», più completa della parola «protezione».
Che cos'è il patrimonio storico e artistico secondo gli autori del libro? «Non è la somma amministrativa dei musei, delle singole opere, dei monumenti, ma è una guaina continua che aderisce al paesaggio — cioè al territorio "della Nazione" — come la pelle alla carne di un corpo vivo».
Il libro (manca un indispensabile indice dei nomi) imposta un'infinità di problemi: la funzione delle Soprintendenze: Montanari propone una sorta di magistratura del patrimonio indipendente dalla politica; il perenne conflitto tra lo Stato e le Regioni competenti in materia urbanistica (un errore fatale dei costituenti); il consumo del suolo: l'8,1 per cento della superficie nazionale è coperta da costruzioni, la media europea è del 4,3 per cento. Dopo ogni terremoto, alluvione, disastro si piange (non per molto).
Chi deve provvedere, chi deve controllare i controllori? Lo Stato siamo noi, amava dire Calamandrei. E Bianchi Bandinelli: «Noi siamo, davanti al mondo, i custodi del più grande patrimonio artistico, che appartiene, come fatto spirituale, alla civiltà del mondo».
Ce ne siamo dimenticati. Spaesati tra Imu e Iva.

giovedì 26 settembre 2013

Pollock e gli altri: quegli «astratti» che cambiarono il corso dell'arte



Gli irascibili della tela

Francesca Montorfano

                                            “Corriere della Sera”, 24 settembre 2013

Sono vestiti in modo formale, «da banchieri», i diciotto artisti ritratti nel celeberrimo scatto di Nina Leen, pubblicato nel 1951 dalla rivista «Life». Ma sarà proprio quest'immagine, solo all'apparenza bonaria, ancor più della lettera inviata al direttore del Metropolitan Museum of Art, a esprimere la protesta del gruppo contro un'ingiustizia intollerabile, l'esclusione degli espressionisti astratti da una delle più importanti mostre sulla pittura americana contemporanea.
Definiti «irascibili» dall'«Herald Tribune», guardati con diffidenza da pubblico e critica che non ne comprendevano la portata innovativa, i diciotto — tra i quali Pollock, De Kooning, Rothko, Motherwell, Newman, Baziotes, Brooks, Hofmann, Still o Hedda Sterne, l'unica donna — avrebbero tuttavia dato vita a un fenomeno dalla forza prorompente, destinato a caratterizzare l'America del secondo dopoguerra e a influenzare l'arte moderna di tutto il mondo. Un linguaggio nuovo, libero, americano, che avrebbe segnato lo stacco definitivo dagli influssi delle avanguardie e dei movimenti novecenteschi europei, dall'eredità del Cubismo come dal dominio del Surrealismo. Che avrebbe sancito la consacrazione di New York a capitale artistica mondiale e aperto la strada a un impiego assolutamente rivoluzionario del segno, del gesto, del colore.
Le sperimentazioni e gli altissimi esiti pittorici di quella che venne definita la «Scuola di New York», o anche «Action Painting», sono oggi al centro della rassegna di Palazzo Reale — curata da Carter Foster con la collaborazione di Luca Beatrice — che vede riuniti quasi cinquanta lavori del gruppo, con capolavori assoluti quali il famoso «Number 27» di Pollock, cui è riservata un'intera sala, a delineare quel periodo della grande arte americana che dalla fine degli anni Trenta arriva alla metà dei Sessanta. «Si tratta di un evento di particolare rilevanza — dice Luca Beatrice — proprio perché tutte le opere provengono dal Whitney Museum, istituzione che più di ogni altra ha appoggiato il movimento, consentendone una lettura esauriente e sfaccettata, dando voce a quegli artisti che fecero fronte comune, uniti dalla stessa sensibilità verso un'arte in grado di rielaborare la realtà in forme astratte ed espressive, verso una pittura che potesse trasferire sulla tela le pulsioni e le energie psichiche più profonde attraverso l'enfatizzazione del gesto».
Il co-curatore aggiunge: «Protagonista di primo piano dell'evento sarà Jackson Pollock, l'artista che ha trasformato la pittura in body art, difficile e geniale, romantico e maledetto. Un personaggio dalle straordinarie capacità mediatiche, ma anche dalla forza autodistruttiva, che ha saputo incarnare il mito dell'eroe ribelle americano, come Marlon Brando, come il giovane Holden di Salinger, morendo al volante della sua auto, come soltanto un anno prima di lui aveva fatto James Dean». Numerosi i lavori di Pollock in mostra, dai disegni senza titolo degli anni 1933-39 che esplorano la trasformazione, quasi una regressione, da un sé ancora «civilizzato» a creatura selvaggia, primordiale, alle opere della maturità quando la pittura su cavalletto è ormai lontana e l'artista lavora a terra, sentendosi dentro la tela, diventata spazio infinito di libertà e di azione, versando direttamente il colore dal barattolo, lasciandolo sgocciolare con un pennello o un bastone (dripping), facendo corrispondere ogni movimento del corpo a un segno. Ma se Pollock è la figura chiave, gli altri sono comprimari.
Così Mark Rothko, che dell'astrazione ha dato originali soluzioni estetiche con le sue distese di colore a strati, in mostra con capolavori quali «Untitled» (Blue, Yellow, Green on Red) o Willem de Kooning, capace di passare dall'attenzione alla figura, seppur quasi indistinta come in «Woman Accabonac», a composizioni più astratte e gestuali, guardando in modo nuovo anche al paesaggio. Così Arshile Gorky, l'artista per le sue forme biomorfiche più legato al Surrealismo europeo; o Franz Kline, interessato alla città e ai suoi grattacieli che traduce in rigorose astrazioni bianche e nere; Bradley Walker Tomlin, con «Number 2» (1950) dove la linea pittorica è influenzata dalla calligrafia orientale; o Robert Motherwell con opere di grande rilievo, come «The Red Skirt», dove la figura appare quasi imprigionata in una costruzione geometrica.
Ma gli anni d'oro dell'Espressionismo americano sono ormai alla fine. A imporsi sullo scenario newyorkese sono adesso le composizioni piatte e smaltate di un giovane di Pittsburg, Andy Warhol, figlio di emigrati europei. Il Pop è nato.

In città è «Autunno americano» Con Warhol, la scienza e il teatro
La mostra dedicata a Pollock e al gruppo degli «Irascibili» apre la rassegna milanese «Autunno americano» che prosegue con un altro appuntamento a Palazzo Reale: «Warhol. Dalla collezione di Peter Brant», esposizione dedicata al simbolo della Pop Art, dal 24 ottobre al 2 marzo (coprodotta da Comune di Milano, 24ORE Cultura — Gruppo 24ORE e Arthemisia Group, sito: warholmilano.it). Seguita, dal 14 novembre al 2 febbraio, alla Sala Verri (via Zebedia), dalla mostra fotografica «L'America di Lewis Hine». Ma la rassegna prevede anche concerti, spettacoli teatrali, danza, cinema, retrospettive, incontri letterari in diversi luoghi della città. «Autunno americano» è un progetto del Comune di Milano, con il sostegno di Costa crociere, con la partnership di 24ORE Cultura — Gruppo 24ORE e Arthemisia Group. Info su www.autunnoamericano.it. 



Lee era forte, Jackson fragile Il loro amore disperato fece ingelosire la ricca Peggy
La Guggenheim non sopportava l'ascendente di lei

Francesca Bonazzoli

Sebbene non compaia nella celebre foto degli «Irascibili» pubblicata su «Life» nel 1951, dove l'unica donna del gruppo è Hedda Sterne, la vera protagonista della storia dell'Espressionismo americano fu Lee Krasner, pseudonimo maschile che celava l'identità di Lenore Krasner, penultima di sette fratelli, nata nel 1908 in una famiglia di ebrei ortodossi. Per la sua mancata presenza nella foto, Lee non perdonò mai, ma proprio mai, il collega Barnett Newman che si era fatto passare Pollock al telefono per chiedergli di posare, senza dire nulla a lei.
La Krasner e Pollock si erano sposati nel 1945, ma il loro primo incontro risaliva al 1936, in occasione di una festa organizzata dal sindacato degli artisti: lei era una bravissima ballerina, disinvolta e sicura di sé; Pollock, timido e goffo, le pestò i piedi e la storia finì lì.
In comune avevano invece l'impegno in attività politiche di sinistra, sebbene la Krasner diffidasse del comunismo di Stalin e rimproverasse a Pollock di aver probabilmente nascosto nel suo studio Alfaro Siqueiros quando la polizia di New York cercava il pittore messicano, stalinista integralista, coinvolto nell'orribile omicidio di Trotsky a Mexico City.
Più attiva di Pollock, la Krasner rivestiva un ruolo di primo piano nel WPA, il Works Progress Administration, un programma governativo che aiutava gli artisti durante la Grande depressione; si impegnava anche nel gruppo degli American Abstract Artists e entrambi i grandi critici dell'Espressionismo astratto, Clement Greenberg e Harold Rosenberg, furono da lei guidati nel mondo dell'arte, senza dimostrarle in seguito alcuna riconoscenza. Greenberg, in particolare, non scrisse mai una parola sulla sua arte, dimostrando così quanto fossero radicati i pregiudizi contro le donne forti, autonome e coraggiose. Lee appariva aggressiva perché diceva sempre quello che pensava, poteva bere e fumare molto, imprecare, posare nuda, ma senza mai arrivare al punto tragico di non ritorno.
Pollock, invece, eternamente a disagio, sentendosi «come un mollusco senza conchiglia», cercava rifugio nell'alcol e nel misticismo. I suoi attacchi di rabbia erano violenti, esasperati, e quando passavano, si trasformavano in mutismo. Prigioniero dell'alcolismo, nel 1937 Pollock aveva preso la decisione di ricoverarsi nel reparto psichiatrico dell'ospedale di New York e con l'aiuto di un analista junghiano cominciò a esorcizzare i suoi demoni attraverso la pittura, integrandoli con simboli, maschere e totem degli indiani d'America che lo avevano affascinato sin da bambino e per la cui cultura sciamanica nutriva una venerazione.
La Krasner, invece, era attratta dalla cultura europea, leggeva Baudelaire e Rimbaud, e adorava il razionalismo di Mondrian. L'amore scoppiò quando John Graham, un mercante bielorusso come lei, organizzò una mostra cui dovevano partecipare entrambi i futuri sposi. Lei si recò nello studio di Pollock e tutto il fascino della raffinatezza decadente dei Fiori del male scomparve davanti all'intensità e alla forza vitale dei lavori di lui.
Da quel momento Lee fu sempre la prima critica di Pollock, che andava sempre a chiederle se un lavoro fosse o no finito. Lo stesso succedeva al contrario, ma senza che l'uno intimidisse l'altra e viceversa.
Il loro stretto rapporto, piuttosto, suscitava la gelosia degli altri, prima fra tutte quella di Peggy Guggenheim che adorava Pollock e gli aveva organizzato la prima mostra personale, nel 1943, garantendo all'artista uno stipendio mensile per quattro anni. Ebrea ricca e raffinata, Peggy odiava Lee, brusca e autoritaria quanto lei, ma senza i soldi e viaggi in Europa che autorizzavano l'ereditiera a sentirsi superiore. La verità è che Lee aveva dato regolarità alla vita di Pollock e l'aveva salvato dall'alcolismo grazie alle cure del suo medico omeopatico. Quando nel 1951 Pollock ricominciò a bere dopo le riprese del fotografo Hans Namuth che lo aveva filmato mentre dipingeva, Lee lo incoraggiò a tornare all'analisi junghiana, ma Pollock non le diede ascolto e preferì la terapia più radicale raccomandatagli da Greenberg. Il risultato fu disastroso, con Pollock che continuava a bere e in più rappresentava la moglie come una vecchia strega. Ci si mise anche l'infatuazione per una studentessa d'arte che aveva la metà dei suoi anni.
A quel punto la Krasner per la prima volta si fece da parte e partì per un viaggio in Europa. Quando tornò, fu per mettere una firma sul certificato di morte del marito finito a folle velocità contro un albero dopo una notte passata a bere. La pittura di Lee divenne cupa e piena di mostri, ma da quando trasferì il suo studio nel grande granaio dove per dieci anni aveva lavorato il marito, prese anche un ritmo e un respiro più ampi. In quello spazio ci passò 34 anni, ma quando anche lei morì, il granaio fu ripulito dalle sue cose e vi fu ricostruito lo studio di Pollock.

Ritratto (fatale) dell'artista sul grande schermo
Per Pollock il film fu l'inizio della fine
Picasso invece trasfigurò la cinepresa

Alberto Pezzotta

Nell'autunno 1950 il fotografo Hans Namuth convince Jackson Pollock a farsi riprendere in un documentario. Namuth si è conquistato la fiducia dell'artista, e gli scatti che mostrano le sue tecniche poco ortodosse lo renderanno famoso in tutto il mondo. Passare alle immagini in movimento sembra inevitabile. Dopo un esperimento bianco e nero, Namuth decide di usare il colore. Ma il film che ne risulterà, «Jackson Pollock 51», avrà conseguenze devastanti.
All'inizio del film, Pollock, che mostra molti più anni dei suoi trentotto anagrafici, si infila un paio di vecchie scarpe macchiate prima di iniziare a spruzzare vernice su un'enorme tela stesa in mezzo ai campi. Vengono in mente le scarpe dipinte da van Gogh, e per un attimo si materializza l'immagine dell'artista tormentato, mentre la voce narrante di Pollock suona stanca e distaccata. È solo un'ombra passeggera? L'artista in azione in mezzo alla natura che vediamo subito dopo non sembra un maledetto: evoca anzi risonanze sciamaniche. Ma c'è il trucco.
Pollock di solito non dipingeva all'aria aperta, ma nel suo fienile: solo che lì non c'era abbastanza luce. Finite le riprese, Pollock distrugge la propria opera: ha avvertito qualcosa di falso. Ma Namuth insiste: il weekend successivo spinge l'amico a dipingere su una grande lastra di vetro, accovacciandosi al di sotto con la sua macchina da presa. Le immagini sono di grande suggestione, con Pollock che lascia gocciolare il colore verso l'obiettivo. Ma poi l'artista si arrabbia, cancella tutto, e inizia una nuova composizione-collage. Alla fine Pollock rientra a casa e, sotto gli occhi allibiti della moglie Lee Krasner, si versa un bicchiere di bourbon, insulta Namuth e dà fuori di matto. Non toccava alcol da due anni. E da allora riprende la china autodistruttiva che nel 1956 lo porta a schiantarsi sulla sua Oldsmobile.
Che cosa è successo? Pollock si è sentito espropriato della sua anima, come un nativo americano restio a lasciarsi fotografare? O intuisce di avere esaurito l'ispirazione? Di fatto, dopo quell'opera su vetro (l'unica da lui mai realizzata, ora alla National Gallery of Canada col titolo «No. 29») abbandona il dripping. E il film di Namuth? Cattura la verità di un artista che crea, o è solo una messa in scena? Ed è il destino di ogni film che cerca di cogliere un artista al lavoro?
Già nel 1949 il belga Paul Haesaerts aveva ripreso Picasso che dipingeva su lastre di vetro. Nel 1956 Henri-Georges Clouzot perfeziona la tecnica nel celebre «Il mistero Picasso», mostrando i disegni che si materializzano su tele trasparenti. All'inizio dice che se è impossibile sapere che cosa passava per la testa di Rimbaud e di Mozart, il cinema consente di vedere il pittore che «come un cieco va a tentoni nell'oscurità della tela bianca». Alla fine, però, Picasso cancella la sua opera e dichiara: «È molto brutto, strappo tutto». Ma non c'è senso di tragedia. Anche perché Picasso, che aveva un ego molto più solido di quello di Pollock, davanti alla macchina da presa non prova alcun disagio: in braghe e a torso nudo, sembra farsi beffe del regista e degli spettatori. Inoltre era abituato a lavorare sotto lo sguardo altrui: nel 1937 aveva lasciato che Dora Maar documentasse la nascita di «Guernica»; nel 1954 aveva ammesso in studio Luciano Emmer.
Se abbondano i film biografici sugli artisti (Ed Harris ne ha girato uno su Pollock, molto discusso), sono molto più rari quelli in cui un regista si confronta con un artista al lavoro. Nel 1975 Jack Hazan dedicò a David Hockney «A Bigger Splash». Il più bello è «El sol del membrillo» (1992): dove lo spagnolo Victor Erice, un autore dalla fama cinefila inversamente proporzionale al numero delle sue opere, segue Antonio López García mentre dipinge un albero di mele cotogne nel suo giardino. Ma il pittore, maestro del realismo, è troppo perfezionista: la natura non lo aspetta, e malgrado gli stratagemmi, i frutti cadono prima che abbia potuto immortalarli. La tela, incompiuta, finisce in un ripostiglio. Il cinema, qui, ha mostrato il fallimento, senza inganni: e in ciò ha avuto successo.