lunedì 27 ottobre 2014

Il poeta e il donnaiolo, la stranissima coppia



ERNESTO FERRERO

 “La Stampa”, 27 ottobre 2014

Chi era davvero Antonio Ranieri, l’amico inseparabile degli ultimi anni di Leopardi, 
e qual era la natura del contraddittorio ménage? Un libro di René de Ceccatty

Che cosa capiva, che cosa poteva capire di Giacomo Leopardi l’uomo che gli è stato più vicino negli ultimi anni, Antonio Ranieri? La vicinanza illumina o acceca? L’amore può fare a meno del troppo capire? E di conseguenza, chi era davvero Ranieri? Nel suo film Il giovane favoloso Mario Martone ne offre un ritratto sostanzialmente benevolo; gli dà almeno un sette in pagella l’italianista francese René de Ceccatty nel suo Amicizia e passione: Giacomo Leopardi a Napoli, ora tradotto dalla Archinto per le cure di Piero Gelli, dove sin dal titolo si ipotizza che fosse proprio il fuoco d’un acceso sentimento a tener vivo il rapporto.  
Forse non era proprio passione, ma la somma di due fragilità. È una coppia stranissima quella che si forma nei salotti di Firenze nel 1830. Da una parte un genio trentenne assetato di riconoscimenti e affetti che riesce a fuggire dal carcere famigliare di Recanati per la generosità di estimatori toscani, ma non riesce a trovare un’occupazione con cui sostenersi. Dall’altra lo squattrinato ventiquattrenne napoletano, biondo, aitante, piacione, vanitoso, estroverso, gran femminiere, che si dà arie da viaggiatore internazionale ed esule politico. Quando Giacomo si dispera all’idea di tornare a Recanati per mancanza di soldi, gli offre aiuto e solidarietà, pur essendo precario quanto lui. Non lo lascerà più, stupefacente ibrido tra un amico ultradevoto, una groupie entusiasta, un apprendista manager e una badante multitasking. All’ombra di un angoscioso sfarfalleggiare di cambiali, si sviluppa un «romanzo» che avrebbe avuto bisogno del genio analitico di Proust, un «Du côté de chez Antoine» capace di scandagliarne le ambiguità. Un ménage molto chiacchierato, in cui però le eventuali latenze omosessuali non hanno la parte che si potrebbe superficialmente ipotizzare.  
Di certo i due risultano perfettamente complementari. «Totonno» accantona le disordinate avventure amorose e conduce l’amico a Napoli come alla città che può migliorarne la salute e garantirgli la fama che merita. A sua volta, «Muccio», bisognoso di devozione, è incantato dall’agilità animale con cui l’altro si muove nel mondo. S’accontenta di una vita amorosa anche per interposta persona, come nei transfert adolescenziali. Se a Firenze Fanny Targioni Tozzetti, «angelica beltade», manco s’accorge dei suoi spasimi, ma accoglie nel suo letto Totonno, quando questi non c’è si acconcia a fare persino il suo Leporello: «La Fanny è più che mai tua e ti saluta sempre… Ella ha preso a farmi di gran carezze, perché io la serva presso di te: al che sum paratus». 
Non ha mai goduto di buona stampa, Ranieri. Messe a frutto le passioni politiche di gioventù, fattosi storico, poi deputato e senatore, nel 1880 pubblica, a più di quarant’anni di distanza dai fatti, un memoir, inaffidabile come tante autobiografie, intitolato I sette anni del sodalizio con Giacomo Leopardi, che nessuno era in grado di contraddire. È stato per lo più considerato un’indiscrezione non proprio elegante, che rivelando le miserie dell’uomo mortificava la grandezza dello scrittore; e l’autocelebrazione di una generosità di cui peraltro gli faceva credito anche Fanny. Considerava Giacomo addirittura un «camorro», cioè un tipo noioso e malsano, un peso morto, un «grande inciampo nel cammin della vita» del bell’Antonio.  
Gli eccessi verbali di cui traboccano alcune lettere fiorentine di Giacomo («sola e unica speranza», unica «causa vivendi», «fratello e unico amico») risalgono a quando l’amico si allontanava dalla città, e sono piuttosto il grido d’un bambino abbandonato. A Napoli, dal 1833 al fatale giugno 1837, quando il ménage si stabilizza, Giacomo diventa un partner bizzoso e incontrollabile, un malato difficile. Scambia il giorno per la notte, fa colazione alle tre e cena a mezzanotte, si ostina a uscire da solo, chiacchiera con soggetti imbarazzanti, si strafoga di dolci, gelati, sfogliatelle, si crea un complice nel cuoco di casa Ranieri, con cui elabora una cinquantina di ricette. Una imprevedibile deriva esistenziale. 
Napoli poteva anche essere, come scrive al padre nel 1835, una città di «lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e baroni fottuti, degnissimi di spagnuoli e di forche», la capitale della mariuoleria. I suoi circoli culturali deridevano «l’umor misantropico» del «ranavuottolo», gli ambienti clericali avevano bloccato la pubblicazione delle Operette morali come incitamento alla sovversione dei pubblici costumi. Lui se ne vendicava facendo un «triste governo» (così Ranieri) di certi libri avuti in dono e usati per le pratiche igieniche della mattina. 
Ma Napoli era anche espressione di una coinvolgente alterità: una città-calderone, viscerale, inscindibile dalla sua dimensione teatrale, pantagruelica nella sua ossessione del cibo, insieme trasgressiva e bigotta. L’ipercerebrale Leopardi la esplora con la voluttà di chi vorrebbe far sua quella carnalità così esibita, se ne lascia inghiottire con delizia. Fattosi flâneur, ascolta i suonatori ambulanti di Chiaia, si riempie gli occhi dei banchi del pesce a Mergellina, distribuisce numeri al banco del lotto, incurante degli scherni. Se non è la «felicità del sughero abbandonato alla corrente» di cui parla Montale, è qualcosa che ci assomiglia. «Neghittoso e immobile giacendo», scopre che «il beneficio del corpo» non è inferiore a quello dell’anima.  
Nel cuore di un inverno di gelo e solitudine a Torre del Greco, sulle pendici dello «sterminator Vesevo», riesce a produrre alcuni tra i suoi testi più alti, si china con pietà sugli esseri umani vittime dell’«empia Natura», deride le «risibili congiure» dei liberali (tra cui rientrava l’amico Totonno) e scaglia i suoi fulmini contro gli idoli illusori di una falsa modernità. Le gazzette diventeranno gli unici fari di cultura, «ferrate vie, molteplici commerci», macchine a vapore «al cielo emulatrici», il nuovo Eldorado americano riempiranno il mondo di merci che non aggiungeranno «nemmeno un atomo alla massa della felicità umana». Vincerà sempre la forza, «ardir protervo e frode / con mediocrità, regneran sempre». 
Quel che getta una luce retrospettiva quantomeno sospetta su Ranieri è l’essersi vantato d’aver sottratto il corpo dell’amico morto all’umiliazione delle fosse comuni, obbligatorie per tutti in tempi di colera dilagante, dopo aver coinvolto un ministro, corrotto un parroco con un cesto di pesce e i doganieri di Piedigrotta con un po’ di ducati. L’apertura della cassa nel 1900 sembra smentirlo: c’è sì un lembo del famoso soprabito verde scuro, ma mancano la testa e il torace, ci sono solo due femori non riconducibili a quelli del defunto. Forse l’ultima napoletanissima messa in scena l’aveva montata proprio il caro, devoto, irrinunciabile Totonno.

domenica 26 ottobre 2014

Van Gogh a Milano


Con Vincent nella sua terra

La rassegna «Van Gogh. L'uomo e la terra», aperta a Palazzo Reale, esplora il tema (molto vicino a quello di Expo) dell'agricoltura e dei suoi umili protagonisti

Ada Masoero

"Il Sole 24 Ore - Domenica", 26 ottobre 2014

«Zappatori, seminatori, aratori, uomini e donne, che ora devo disegnare continuamente. Devo osservare e disegnare tutto ciò che fa parte della vita di un contadino, come molti altri hanno fatto e stanno facendo. Non sono più così inetto come un tempo davanti alla natura». Quando van Gogh scrive queste parole al fratello Theo è il 1881. Con un rosario di fallimenti alle spalle – studente scioperato prima, ragazzo di bottega e aspirante mercante d'arte poi, infine predicatore mancato – ha ormai preso una decisione: sarà un artista. 
Non che Vincent, che ha 27 anni (molti, per i tempi), sia uno sprovveduto: è da sempre un lettore vorace e di ottime letture e, come denuncia anche quello scritto, conosce bene l'arte contemporanea, oltre a quella antica, praticata assiduamente nei musei di Amsterdam e Anversa e dell'Aja e Londra, dove ha lavorato nelle filiali di Goupil. E proprio per aver lavorato in quell'importante galleria (solo perché lo zio Cent è socio), conosce il mercato e sa quanto i «quadri con gli zoccoli», come li chiama lui, possano essere apprezzati dai borghesi nei loro appartamenti cittadini. 
Ma a spingerlo in quella direzione sono soprattutto la venerazione per Jean-François Millet, il cantore della vita rurale, che resterà il più duraturo dei suoi idoli, e l'amore costante per la natura – in cui era cresciuto –, da lui sempre intrecciato all'evangelica attenzione per gli umili: specie per i contadini che, a contatto come sono con la natura, incarnano ai suoi occhi la più autentica etica del lavoro. Commentando i Mangiatori di patate, del 1885, scriverà infatti di aver voluto trasmettere in quel dipinto, tanto ambizioso quanto allora poco apprezzato, l'idea che quei contadini abbrutiti dalla fatica avessero «guadagnato onestamente il loro cibo». Perciò aveva dipinto e ridipinto i loro volti in cerca di un colore «simile a quello di una patata polverosa, non pelata. Ho ripensato a ciò che è stato detto così giustamente di Millet, i suoi contadini che sembrano dipinti con la terra che seminano». 
La mostra «Van Gogh. L'uomo e la terra» esplora questo tema, così vicino a quello di Expo. E lungi dal volersi presentare come una grande antologica di van Gogh, si propone invece come un affondo sulla spiritualità dell'artista, davvero "impastata" della terra dei campi, ma con la sua cinquantina di opere finisce per diventare anche una ricognizione, concisa ma efficace, del suo lavoro di disegnatore e di pittore nei dieci anni in cui fu artista. 
Perché se la terra olandese e i suoi miseri lavoratori sono il soggetto esclusivo del cupo periodo "nordico", tra Olanda e Belgio, l'amore per la campagna non viene meno neppure a Parigi, di cui non ritrae l'animazione dei boulevard o il pubblico elegante dell'Opéra ma gli orti e le stradine sterrate e i mulini, così simili a quelli olandesi, della collina di Montmartre, dove vive con Theo dal 1886 al 1888. 
Ovvio che l'amore totalizzante per la natura e per la terra – mai selvatica, sempre trasformata dalla fatica dell'uomo – torni con anche maggiore intensità in Provenza, nel corso di quel viaggio dal quale tanto si attendeva ma che si rivelerà l'ennesimo "naufragio", e che perduri poi ad Auvers-sur-Oise, borgo agricolo del Nord della Francia che gli rammenta la terra d'origine e dove morirà suicida nel luglio del 1890. 
Dopo l'autoritratto inquietante e "inquisitorio" del Kröller-Müller Museum di Otterlo (da cui viene la gran parte delle opere, integrate da alcuni prestiti internazionali), la mostra si apre con una sequenza di disegni ancora acerbi del 1881, l'anno della lettera citata: sono contadini dai grossi zoccoli, i pantaloni sformati, i berretti sudici, da lui nobilitati attraverso i gesti antichi del seminare, dello zappare, dello spigolare. Poi si affacciano i disegni già incredibilmente "espressivi" (questo cercava nel suo lavoro) del 1883 e 1885, con i corpi tracciati con gli stessi segni secchi e legnosi con cui delinea gli alberi spogli, qui accostati ai dipinti a olio che, sulla parete di fronte – curva e ricoperta di iuta come l'intero percorso, nel bell'allestimento di Kengo Kuma – sono abitati dalle stesse figure corrose dalla fatica. 
La lunga, laboriosa avventura dei Mangiatori di patate è riassunta da alcune Teste a olio (strepitosa la donna di profilo, "sbagliata" ma incredibilmente potente. Lui del resto scriveva di aver cercato «non una testa matematicamente corretta ma l'espressione complessiva. La vita insomma»). 
Poi tocca ai ritratti, con quello, folgorante, del postino Roulin, la lunga barba ricciuta, fiero e nobile come un profeta. E di seguito le splendide nature morte di ortaggi e frutti, tutti poveri: le mele tristi, quasi incolori, e le piccole zucche del dipinto del 1885, quando ancora è in Olanda; le patate (un vero tour de force cromatico, di vibrante bellezza) del 1888, quando a Parigi ha ormai scoperto il colore degli impressionisti e le stampe giapponesi, e poi i limoni in un canestro un po' sciupato e le cipolle in un piatto di terraglia, tutti dipinti con il puntinismo pausato, denso e materico che è solo suo. Sono i paesaggi a chiudere il percorso: Arles, Saint-Rémy, Saintes-Maries-de-la-Mer, Auvers... Tutti magnifici ma uno più di tutti: è il Paesaggio con covoni e luna del luglio 1889, in cui nessun colore è verosimile ma nel quale tutto, dalle pennellate convulse alla cromia alterata, esprime lo stato d'animo perturbato del pittore, ormai alla fine della sua avventura, pronto a lasciare il Midi per l'ultima tappa, a Auvers-sur-Oise. 


Parole giuste per dipingere
Le missive inviate dal pittore al fratello Theo e agli artisti a lui contemporanei permettono di conoscere la vita, 
il pensiero e le fasi di produzione artistica del maestro

Marco Carminati

Vedere esposte alla mostra di Milano una piccola selezione delle 900 lettere di Vincent van Gogh è un piccolo colpo al cuore. Provoca emozioni non meno intense di quelle che si provano di solito davanti ai suoi disegni e ai suoi quadri. È facile capire perché. Nessun artista che si è affacciato sino a oggi sul proscenio della storia ci ha lasciato una testimonianza epistolare così vasta, intensa e appassionata. Vincent era – tra l'altro – uno scrittore di grande talento e le centinaia di lettere inviate al fratello Theo e ad altri amici artisti come Gauguin, Seurat, Signac o Bernard, vergate con grafia chiara e regolare, rappresentano un sorprendente racconto di vita e una chiave eccezionale per interpretare le sue opere. Queste lettere ci permetterono di ricostruire in dettaglio i passi dell'esistenza di Vincent e ci permettono anche di smontare molti luoghi comuni venutisi a creare attorno al suo personaggio. Van Gogh aveva ricevuto un'ottima educazione e nelle lettere è in grado di esprimersi in diverse lingue: olandese, francese e inglese. In alcune missive, addirittura mescola tutte queste lingue. Questo preziosissimo materiale epistolare ci permette, altresì, di conoscere nei minimi particolari i suoi pensieri sull'arte, propria e altrui. Inoltre, parlando dei suoi quadri, van Gogh affianca spesso alle descrizioni verbali dei dipinti piccoli e accurati disegni, dai quali è possibile desumere come siano nate e si siano sviluppate le idee figurative di molti dei suoi capolavori più celebri. Infine, ci possiamo rendere conto delle sue non comuni capacità di narratore, della finezza dei suoi giudizi, del gusto per gli aforismi. Di contro, attraverso questi scritti, van Gogh ci permette di entrare anche nel suo intimo, ci fa partecipi con grande lucidità della sua condizione esistenziale, dei suoi disagi e della malattia mentale che lo porterà alla morte per suicidio.
Di recente i lettori italiani hanno potuto disporre di ben due antologie di lettere di van Gogh, una edita nei Millenni Einaudi a cura di Cynthia Salzman (pagg. 764) e una nella Biblioteca Donzelli a cura di Leo Jansen. Hans Luijten e Nienke Bakker (pagg. 1.070, € 55,00). Si tratta di strumenti di conoscenza davvero preziosi per entrare nel mondo di van Gogh.
«Molti immaginano che le parole siano niente. Invece non è così. Dire bene una cosa è altrettanto interessante e altrettanto difficile che dipingere una cosa». Questo scriveva Vincent a Emile Bernard il 19 aprile del 1888. Oltre a essere un prolifico scrittore van Gogh era anche un grande lettore. Aveva familiarità con la Bibbia, con Shakespeare e con i romanzieri del suo tempo. Amava Balzac e Zola, e così ebbe a scrivere: «Comincio a sentirmi sempre più attratto da Daumier. C'è in lui qualcosa di vivo e di meditato... In Balzac o in Zola ci sono brani – per esempio nel Pére Goriot – in cui nelle parole si trova un simile livello di passione incandescente». Leggendo le sue lettere, si avverte che egli ebbe accesso agli scritti di Théophile Thoré, Charles Blanc, Baudelaire e alla vasta produzione di Gautier. Inoltre, oltre ai romanzi amava anche i celebri Salons e la letteratura di viaggio.
Nelle lettere Vincent non può fare a meno di comunicare – soprattutto al fratello Theo – le sue infatuazione per gli artisti. Nel gennaio 1874 informa Theo: «Ecco l'elenco di nomi di pittori che amo particolarmente. Scheffer, Delaroche, Hébert, Hamon. Leys, Tissot, Lagye, Boughton, Millais, Thijs Maris, Degroux, De Braekeleer Jr. Millet, Jules Breton, Feyen-Perrin, Eugène Feyen, Brion, Jundt, George Saal. Israëls, Anker, Knaus, Vautier, Jourdan, Jalabert, Antigna, Compte-Calix, Rochussen, Meissonier, Zamacois, Madrazo, Ziem, Boudin, Gérôme, Fromentin, De Tournemine, Pasini. Decamps, Bonington, Diaz, T. Rousseau, Troyon, Dupré, Paul Huet, Corot, Schreyer, Jacque, Otto Weber, Daubigny, Wahlberg, Bernier, Emile Breton, Chenu, César de Cock, Mlle Collart. Bodmer, Koekkoek, Schelfhout, Weissenbruch, e last but not least Maris e Mauve».
Si tratta di una "galleria" molto personale che egli formò nella sua mente attraverso le visite ai musei, gli acquisti, le letture di libri e riviste illustrate, il suo lavoro da Goupil. Notiamo che nella lista manca Manet. Ma di lui inizierà a interessarsi durante il primo soggiorno parigino tra il 1875 e il 1876. 
Ciascun artista di questo "museo privato" fluttuerà nella valutazione di Vincent, sarà cioè esposto a cali di entusiasmo o, addirittura, al declassamento. In questo modo van Gogh si disamorerà di Henri Leys, di James Tissot e dei preraffaelliti. Ma chi resisterà a questa erosione sarà soprattutto Millet. Millet sarà uno dei pochissimi artisti a non decadere mai da quell'autorità che van Gogh gli aveva conferito nel 1874: «Sì, questo quadro di Millet, L'Angelus della sera, è pieno di ricchezza e di poesia». L'ammirazione per Millet – prima ancora di essere rafforzata dalla lettura dell'agiografia di Alfred Sensier – è intrisa di un religioso rispetto verso l'uomo, presunto modello di una probità morale, e verso l'opera, considerata un vero e proprio vangelo. Visitando la prima retrospettiva di Millet all'Hôtel Drouot di Parigi (1875) van Gogh – in preda all'emozione – così dichiarò: «Ho sentito qualcosa come: "toglietevi le scarpe, state calpestando una terra santa"».
Van Gogh vide in Millet un pittore «autentico», proprio quando le avanguardie cominciavano a dimenticarlo, ma anche e soprattutto un pittore «dell'autentico», una sorta di santo moderno che esaltava la propria fede in mezzo ai villici di Barbizon. Poco importa che l'autore dell'Angelus fosse un totale agnostico, e non tenesse alcuna considerazione dei contadini di Barbizon.
Nelle lettere, e in particolare in quelle indirizzate all'amatissimo fratello Theo, Vincent van Gogh riesce a raggiungere vette di autentico lirismo. Leggiamo cosa scrive nel giugno del 1880: «Uno ha un grande fuoco nell'anima ma nessuno viene a scaldarsi, i passanti non scorgono che un po' di fumo al comignolo e se ne vanno per la loro strada. E allora che fare, ravvivare questo fuoco interiore, avere del sale in sé, attendere pazientemente – ma con quanta impazienza – attendere il momento in cui, mi dico qualcuno verrà a sedersi davanti a questo fuoco, e magari vi si fermerà».
In una lettera, il nostro tormentato maestro si trasforma quasi in un profeta: «Caro Theo, non posso farci nulla se i miei quadri non si vendono. Ma verrà un giorno in cui varranno più del colore che io ci metto, e della mia stessa vita».

«Caro Theo, sto studiando Millet»


A Theo van Gogh: Londra, 
inizio di gennaio 1874
«Sono felice che ti piaccia Millet, perché "ci siamo proprio". Si, quel quadro di Millet L'angelus della sera "ci siamo proprio". È ricco, è poesia. Come vorrei parlare con te ancora di arte, ma ora possiamo solo scriverne spesso l'uno all'altro: "trova cose belle" più che puoi, la maggior parte della gente trova "troppo poca bellezza". Continua sempre a camminare e ad amare la natura, perché è questo il vero modo per imparare ad amare l'arte sempre meglio. I pittori comprendono la natura e la amano e "ci insegnano a vedere". E poi ci sono pittori che non fanno altro che cose buone, che non possono mai sbagliare, così come ci sono persone normali che non combinano mai nulla di buono»...
* * *
A Theo van Gogh: Amsterdam, 
lunedì 18 e martedì 19 febbraio 1878
«Ieri sera mi sono visto un'intera annata della rivista L'Art. Mi hanno colpito particolarmente delle xilografie da disegni di Millet, inclusi La caduta delle foglie (Pastore che cura il suo gregge), Stormo di corvi, Asini in una pianura sotto la pioggia, I taglialegna, Donna che scope la sua casa, Cortile (effetto notturno) eccetera, anche un'incisione di Corot, La duna, e da Breton, La festa di San Giovanni e altri, e anche da Millet I fagioli».
* * *
A Theo van Gogh: L'Aia, 
sabato 11 marzo 1882
«Non ho mai sentito un buon sermone sulla rassegnazione, né sono mai stato capace di immaginarne uno salvo questo quadro di Mauve e l'opera di Millet. Si tratta proprio di rassegnazione, ma quella vera, non quella dei preti. In questo dipinto trovo una filosofia così alta, pratica, priva di parole, sembra dire di sapere come soffrire senza lamentarsi, questa è l'unica cosa pratica, è questa la grande abilità, la lezione da imparare, la soluzione ai problemi della vita.
Mi sembra che questo quadro di Mauve sarebbe uno dei rari dipinti davanti a cui Millet sosterebbe a lungo, borbottando tra sé e sé, ha un buon 
cuore quel pittore».
* * *
A Theo van Gogh: Nuenen,
lunedì, 26 gennaio 1885
«Sono ogni giorno più convinto che quelli che non fanno del combattere con la natura il loro impegno principale "non" ci arrivano. Penso che se si cerca di seguire i maestri attentamente, li si incontra tutti a un certo punto, radicati nella realtà. Voglio dire, quelle che sono chiamate le loro "creazioni", si vedono anche nella realtà, se si ha uno sguardo simile al loro, un simile sentimento. 
Ciò che Michelangelo ha detto in una metafora di somma bellezza, penso lo dica Millet senza metafora, e uno può forse imparare meglio a vedere attraverso Millet e trovare "una fede".
Se farò lavori "migliori" più avanti, non lavorerò però in modo diverso da adesso. Voglio dire, una mela è sempre una mela, solo più matura; io stesso non volterò le spalle a ciò in cui ho creduto fin dal principio. Perché il grano è il grano, anche se di primo acchito sembra erba alla gente di città.
In ogni caso, che la gente ami o meno ciò che faccio e come lo faccio, da parte mia non conosco altro modo che combattere con la natura fino a che non mi svelerà il suo segreto».
* * *
A Theo van Gogh: Nuenen, 
mercoledì, 2 settembre 1885
«Quando penso a Millet, allora trovo l'arte moderna grandiosa quanto Michelangelo e Rembrandt – il vecchio infinito e anche il nuovo infinito – il vecchio genio, il nuovo genio.
Per quanto mi riguarda sono convinto che in questo campo si possa credere nel presente.
Il fatto che io abbia precise convinzioni sull'arte, significa anche che so cosa voglio ottenere nella mia opera e che cercherò di ottenerlo anche se morirò tentando».
* * *
A Theo van Gogh: Saint-Rémy-de-Provence, 
venerdì, 20 settembre 1889
«Al momento ho 7 copie su dieci dei Travaux des champs di Millet. Ti posso assicurare che mi interessa tantissimo fare copie, e, non avendo modelli, per ora questo farà sì che non perda di vista la figura. In più mi fornirà una decorazione per lo studio, per me o per un altro. Metto dinnanzi a me i bianchi e neri di Millet come modelli. Poi improvviso il colore, ma, trattandosi di me, non improvviso completamente, ma cercando il ricordo dei "loro" dipinti. Ma la memoria, la vaga consonanza dei colori, che sono dello stesso sentimento, se non esatti, ecco la mia interpretazione personale. Un sacco di gente non copia. Un sacco di gente copia. Per quanto mi riguarda, lo faccio per caso e scopro che mi insegna e sopra ogni cosa che, a volte, mi consola».
* * *
A Theo van Gogh: Saint-Rémy-de-Provence, 
25 ottobre 1889
«Finalmente ieri sera sono arrivate le riproduzioni di Millet e ne sono molto lieto. M. Peyron (il medico che dirigeva l'ospedale psichiatrico di Saint Rémy de Provence) mi ha ripetuto ancora che ci sono miglioramenti significativi e che è ottimista. Però, molto spesso mi prende una malinconia violenta, e inoltre, più la mia salute migliora, più la mia mente è in grado di ragionare molto lucidamente, più mi pare una follia realizzare dipinti che ci costano così tanto e che non ci fruttano nulla, neanche il costo di produrli, una cosa completamente senza senso».

mercoledì 22 ottobre 2014

Beppe Fenoglio. Quel ragazzo che parlava di Resistenza


I 23 giorni della città di Alba. Resta solo il ricordo
Il 10 ottobre 1944 i partigiani conquistano la città piemontese, 
ma il governo dura solo fino al 2 novembre quando cedono ai fascisti
A difenderla c’era un ventenne dinoccolato: Beppe Fenoglio. 
Dopo 70 anni del mondo dello scrittore è rimasto poco

Michele Concina

"Il Fatto", 20 ottobre 2014

C’è chi ne ricava un sacco di soldi, dalle Langhe. Da pochi giorni è finita la vendemmia, da qualche settimana la raccolta delle nocciole. Alla fiera di Alba compratori di mezzo mondo si disputano i tartufi bianchi, a prezzi che partono da duecento euro l’etto. Se ti siedi su una panchina con gli occhi chiusi, dopo un po’ ti sembra di vivere un sogno altrui. Un sogno di Nanni Moretti: il profumo dolciastro e inconfondibile della Nutella scende ad avvolgere la città dallo stabilimento della Ferrero, multinazionale a conduzione familiare che rifiuta di separarsi dalla sua cittadina d’origine.
C’è chi delle Langhe s’innamora. Specialmente adesso, in autunno, girando per le colline pettinate dai vigneti, fra i colori attenuati dalla nebbia leggera, i verdi non troppo verdi, i rossi non troppo rossi. Respirando l’odore di terra smossa e di funghi. Sostando nelle cascine, da tempo tirate a lucido, per un bicchiere di vino, servito con cortesia schiva, ritrosa.
E c’è chi nelle Langhe ha fatto la guerra. Combattendo i fascisti, i tedeschi, e questo stesso paesaggio oggi incantevole; ma ostile, funesto nel terribile inverno del 1944. Nei rittani, i dirupi delle alte Langhe, dove si rifugiava inseguito il partigiano Johnny: “Era un inferno di fango, lezzava di foglie marcite, la vegetazione curva su di esso a mascherarlo come un aborto di natura grondava orribilmente”. Nelle notti di guardia, quando “nulla era visibile nella ondulante tenebra, udibile soltanto il sinistro, purgatoriale crocchiare dei rami freddi sotto il vento onnipotente”.
“La presero in duemila e la persero in duecento”
Sono passati giusto settant’anni dall’ottobre in cui le formazioni della Resistenza occuparono Alba, instaurandovi una libera repubblica durata 23 giorni. Non la prima, non la più duratura, né la più importante delle repubbliche partigiane. Ma a difenderla, e poi a darle fama superiore a ogni altra, c’era un ventenne dinoccolato e un po’ goffo, figlio di un macellaio di Alba, affascinato dalla letteratura inglese. Si chiamava Beppe Fenoglio.
Seppe scrivere della Resistenza e di questa terra come nessun altro. Senza retorica, senza indulgenza verso la propria parte, senza paura delle parole: “guerra civile”, la chiamò da subito. Capace di cogliere l’epica collettiva, ma anche le insufficienze, talvolta le meschinità di chi combatteva; o trovava modo d’imboscarsi quando l’aria volgeva al brutto. “Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre” è il celebre attacco folgorante, impietoso de I ventitré giorni, il primo libro pubblicato.
Tre paragrafi più in là, racconta la sfilata trionfale dei partigiani: “Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n’era per cento carnevali”. E poi: “Su quel balcone c’erano tanti capi che in proporzione la truppa doveva essere di ventimila e non di duemila uomini”. Frasi e passaggi che scatenarono il tiro al bersaglio da sinistra. “Questo racconto di Beppe, che ha fatto la Resistenza accanto a me sulle Langhe, mi è parso aiutare chi si affanna a denigrarci”, scrisse Davide Lajolo. Carlo Salinari, gappista romano, poi illustre critico letterario di stretta ortodossia marxista, si occupò di scomunicarlo su Rinascita.
Fenoglio non ci badò più di tanto, e si diede a raccontare le Langhe del tempo di pace. Strette d’assedio non dalla Wehrmacht, ma dalla povertà. La terra dei contadini della Malora, ossessionati dallo spreco: “Finì che nelle sere d’autunno e d’inverno mandavamo Emilio alla cascina più prossima a farsi accendere il lume, per avanzare lo zolfino”.
Il punto di svolta: lo scandalo del metanolo del 1986
Sono sempre le stesse, quelle colline e quelle zolle. Ma a percorrerle oggi, anche con i libri di Fenoglio sotto gli occhi, sembra che le abbiano trasportate di peso in un altro pianeta.
E ci si chiede che cosa abbia trasformato, in un tempo inferiore a quello di una vita umana, i cupi mezzadri affamati nei gentiluomini di campagna in giacca di tweed che vendono Barolo ai miliardari cinesi e piantano rose alle estremità dei filari.
Il punto di svolta, probabilmente, fu una disgrazia: lo “scandalo del metanolo” del 1986. Ventitré persone morte per aver bevuto del vino da pochi soldi, adulterato con alcol metilico per risparmiare qualche lira sull’imposta di fabbricazione. Epicentro nelle Langhe. Rifiutati dal mercato, minacciati di estinzione, i vignaioli seri si resero conto che la loro unica speranza era puntare sulla qualità alta, altissima. La grande paura li spinse addirittura a superare il secolare individualismo, a scambiarsi esperienze e buone pratiche, a esplorare insieme mercati nuovi.
Da Slow food di Petrini a Eataly di Farinetti
Ebbero fortuna: gli americani stavano scoprendo proprio allora i cibi d’élite. E in zona cominciavano a farsi largo un paio di giovani capaci di costruire intorno alle produzioni alimentari una filosofia di vita, se non addirittura un’ideologia.
Ad Alba c’era Oscar Farinetti, futuro patron di Eataly. A Bra, da qualche anno, studiava e predicava Carlin Petrini: tra i padri fondatori del Gambero Rosso, in quel 1986 trasformò l’Associazione amici del Barolo in Arcigola; tre anni dopo diede vita a Slow Food.
Ma se queste non fossero state le Langhe, la riscoperta della terra madre e delle eccellenze alimentari avrebbe colto i poderi sguarniti, abbandonati da contadini corsi a inurbarsi nelle fabbriche.
La Ferrero e il monopolio delle nocciole
Qui, invece, c’era la Ferrero: un’azienda nata all’indomani della guerra, che ha sempre assorbito l’intera produzione dei settemila ettari di noccioleti della zona. E ha sempre preferito lasciare che i suoi operai continuassero ad abitare nei paesetti sparsi per le colline, anziché attirarli in casermoni di città.
Ancora oggi, in corrispondenza dei turni dello stabilimento, non c’è un villaggio in cui i pullman della Ferrero non si fermino a caricare i dipendenti.
Un’idea formidabile, in quegli anni. “Per il contadino che si era alzato alle quattro a zappare la vigna, il turno alla Ferrero non era neppure fatica. Tornava a casa bello fresco, e ricominciava a rivoltar la terra”, spiega Enzo De Maria, ex sindaco di Alba e oggi presidente dell’Anpi locale.
È la prosperità, alla fin fine, che ha smussato la terra di Fenoglio e le vite di chi l’abita. Senza snaturarle, per ora.
Anzi, contribuendo a ingentilire il paesaggio fino a farlo includere, quattro mesi fa, nella lista Unesco del Patrimonio dell’Umanità (con implicito sberleffo all’indirizzo del rivale di sempre, il Chianti). Ma consacrare il bello non lo mette al riparo dagli assalti del brutto.
È abbastanza noto, e deprecato, il caso della Cascina Langa, a Trezzo Tinella, l’ “aia gelata, aperta per tre lati al cielo”, in cui il partigiano Johnny e il partigiano Fenoglio trovarono rifugio nei momenti peggiori.
Certo, trasformandola in un resort di lusso l’hanno resa irriconoscibile, a forza di parallelepipedi in cemento nudo e vetrate panoramiche.
Certo, è veramente dura capire che ci fa, fra queste colline, uno hammam, che dovrebbe essere il bagno rituale di arabi e turchi.
Il manufatto che domina il costone di Trezzo
Ma lo stravolgimento di Cascina Langa è un’inezia, rispetto al vasto manufatto incredibile che domina il costone più alto di Trezzo, una specie di ranch messicano reinterpretato due volte, prima da Hollywood e poi da un qualche palazzinaro locale, di un bianco accecante.
O al ripetitore televisivo, alto il doppio della chiesa cinquecentesca, rizzato sullo spiazzo in cima a Mombarcaro. Era l’ “alpestre deserto” di Johnny.
E il luogo in cui Fenoglio andava a meditare, ritto sul ciglio del dirupo, contemplando la sua Langa aspra, poco domestica, cupa verso il tramonto. Ancora ignara del suo destino da cartolina.

Margherita Fenoglio
“Una vita breve, ma che segno enorme ci ha lasciato papà!”
intervista di Mic. Con.

Mio padre mi dà grandi soddisfazioni, ma anche un daffare pazzesco. Dall’anno scorso, quando sono iniziate le celebrazioni per i 70 anni della Resistenza e insieme quelle per il cinquantenario della sua morte, in pratica non faccio altro che occuparmi di lui”. Un mestiere ce l’avrebbe, Margherita Fenoglio: è avvocato, specializzata in diritto di famiglia; ha a che fare tutti i giorni con figli contesi e separazioni difficili. Ma nella sua vita straripa quel padre amatissimo benché mai conosciuto, ucciso da un cancro ai bronchi a 41 anni, quando Margherita ne aveva appena compiuti due. Lo scrittore e partigiano inflessibile con se stesso e con gli altri. Il Beppe Fenoglio secco e impietoso nei suoi capolavori, Il partigiano Johnny, La malora, La paga del sabato, Una questione privata. Eppure così dolce con quella bimba destinata a somigliargli che il giorno prima di morire radunò le ultime forze per scriverle un biglietto: “Ciao, per sempre, Ita mia cara. Ogni mattina della tua vita io ti saluterò, figlia mia adorata…”.
Un padre ingombrante è spesso scomodo.
Per me è prima di tutto un padre di cui andare orgogliosa, ma senza arroganza. Mia madre mi ha insegnato che il talento era suo, che non c’è alcun merito nell’essere la figlia di Fenoglio, che la stima degli altri si guadagna, non si eredita. E so che il suo ricordo lo divido con moltissimi altri, con migliaia di persone che lo amano e lo ammirano. La sua è stata una vita breve, brevissima, che però ha lasciato un segno enorme.
Ancora oggi?
Oggi più che mai, anche grazie a Internet che facilità la comunicazione, l’espressione dei sentimenti. Ogni giorno qui al Centro studi Beppe Fenoglio, e perfino al mio indirizzo privato, arrivano decine di mail. C’è qualcuno – immagino sia un uomo, ma non so neppure quello – che una volta all’anno visita la sua tomba a fumare con lui, per così dire: poggia una sigaretta intera sulla lapide, un’altra ne fuma lui, lascia il mozzicone in bella vista come fosse un fiore, e se ne va.
A proposito di sigarette, non le capita di arrabbiarsi con suo padre per aver fumato così tanto? Ha privato lei della gioia di conoscerlo, noi probabilmente di altri grandi libri.
Non sono arrabbiata con lui, e neppure con il destino. Del resto, non credo che lo abbia ucciso soltanto il tabacco. Due anni a combattere in montagna, in quelle condizioni, lasciano il segno. Le Langhe di Beppe Fenoglio non sono il paesaggio da cartolina che oggi tutti contemplano con occhi sognanti, le colline dove le rose si mescolano ai vigneti. La sua era la Langa alta, inospitale, scoscesa, gelida d’inverno. Da anni qui al Centro studi organizziamo passeggiate in quei luoghi. Andiamo nella bella stagione, con le nostre scarpe buone, cibo e acqua, un maglione nello zaino nel caso a sera rinfrescasse. E quando partecipo, mi viene l’angoscia pensando ai ragazzi che si sono arrampicati su e giù per quei dirupi in pieno inverno, malvestiti, malnutriti, inseguiti dai tedeschi.
Nei suoi romanzi, specie “Il partigiano Johnny”, Beppe Fenoglio ha rigettato la retorica che ha ingessato per decenni l’immagine della Resistenza. Non ha mai esitato a parlare di guerra civile.
C’è stato un tempo in cui per descrivere la Resistenza si usavano dosi di enfasi fortissime, quasi letali. La Resistenza era sempre alta, bionda, con gli occhi azzurri. Quel tempo è passato, e non solo grazie a mio padre. Il libro del 1991 di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza è un punto fermo.
In quelle pagine l’adesione alla lotta partigiana appare esistenziale. Molti salivano in montagna per puro e semplice ribrezzo verso i fascisti.
Mio zio Walter, fratello e compagno d’armi di Beppe Fenoglio, diceva sempre che il fascismo era brutto. Tirannico, guerrafondaio, ampolloso; ma in primo luogo brutto. Per mio padre contarono molto il pensiero e l’esempio di due dei suoi professori al Govone, il liceo di Alba: Leonardo Cocito, comunista ma partigiano in Giustizia e libertà, impiccato dai tedeschi, e Pietro Chiodi, anche lui combattente di Gl, deportato in un lager ma sopravvissuto. Aiutarono quel giovanissimo studente a dar forma a un suo disagio nebuloso, ma cocente; a trasformarlo in un messaggio di libertà. Chiodi racconta, in una lettera, di un anniversario della marcia su Roma. Quel giorno gli studenti, in tutta Italia, erano obbligati a vergare un tema sul regime fascista come erede dell’impero dei Cesari. Fenoglio lasciò il foglio in bianco, non ci fu verso di convincerlo a scrivere una riga.
Suo padre non è stato solo uno scrittore partigiano. Ha raccontato il disagio della pace e del dopoguerra. E il mondo contadino, la povertà come carcere senza sbarre, la fatica senza fine.
Aveva il senso dello sforzo, la percezione della stanchezza. Un paio d’anni prima di morire, in un’intervista, disse: “Scrivo per un'infinità di ragioni, non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti”. Scriveva sempre, tardi, di notte. Viveva circondato di foglietti.
L’ultimo lo ha scritto a Margherita.

Beppe Fenoglio nasce ad Alba il primo marzo 1922. Terminato il Liceo si iscrive alla facoltà di Lettere di Torino, ma interrompe gli studi nel 1943. Dopo l’8 settembre sceglie la guerriglia partigiana sulle Langhe. Dapprima sale “a Murazzano presso quegli stessi parenti che solevano ospitarlo da ragazzo per le vacanze estive”, poi entra in una brigata d’ispirazione comunista, che opera tra Murazzano e Mombarcaro nell’alta Langa. Questa formazione partigiana, dopo l’assalto ai depositi militari di Carrù (3 marzo 1944), subisce una pesante sconfitta dai nazifascisti. Per sfuggire ai rastrellamenti, Fenoglio ritorna ad Alba. Il 10 ottobre 1944 è con le forze che liberano Alba (I ventitre giorni della città di Alba). Dopo la Liberazione, ritorna alla vita civile, ma l’esperienza partigiana è fondamentale nella sua vita e ispira molti dei suoi lavori. Nel 1949 pubblica il primo racconto, Il trucco, con lo pseudonimo di Giovanni Federico Biamonti. Nel 1952 escono presso Einaudi dodici racconti; nel 1954 viene pubblicata La malora. Nel 1961 nasce la figlia Margherita e Fenoglio comincia ad ottenere i primi riconoscimenti dalla critica; nel 1960 vince il premio Prato con Primavera di bellezza. Muore il 18 febbraio 1963.

Dare tempo alla scienza


Non possiamo vivere senza ore e minuti, ma al microscopio è tutta una illusione
Il Festival di Genova ruota quest’anno 
attorno a una delle categorie più affascinanti e sfuggenti
Ecco perché dalla teoria di Einstein alla fisica quantica 
abbiamo messo in crisi Newton. E dato ragione a Poirot

Giulio Giorello

"Corriere della Sera", 22 ottobre 2014

C’era una questione che veniva a intralciare le mie ipotesi: i tempi non si accordavano». Questa constatazione di Poirot, l’investigatore creato da Agatha Christie, potrebbe farla sua, sconsolatamente, un Newton condannato a rivivere oggi. Aveva dichiarato che «il tempo assoluto fluisce in modo uniforme senza relazione ad alcunché di esterno»; ma nel 1905 un ventiseienne impiegato dell’Ufficio Brevetti di Berna mostrò che tale «assoluto» svaniva come un fantasma. 
Due osservatori in movimento l’uno rispetto all’altro, Alberto che sfreccia su un treno e Isacco che resta fermo sulla banchina, non riescono ad «accordarsi» nel giudicare contemporanei due eventi, per esempio l’accendersi di un semaforo presso i binari e il passaggio del vagone in cui Alberto è seduto. Qualsiasi segnale i due si possano scambiare, per esempio mediante una pila come nei polizieschi, richiederà sempre un certo tempo per viaggiare dall’uno all’altro. 
Einstein (era lui il bizzarro impiegato) aveva fatto propria l’idea di Galileo che nessun esperimento possa rivelare a un osservatore se l’ambiente in cui si trova sia davvero in quiete o si muova di moto rettilineo uniforme; e vi aveva aggiunto il principio «che la luce si propaghi sempre con una determinata velocità che non dipende dallo stato di moto del corpo che la emette». Il tutto aveva conseguenze che sfidavano il senso comune: le lunghezze «si contraggono», i tempi «si dilatano» per il velocissimo Alberto. Come scrive il fisico e biologo Edoardo Boncinelli: «Perché la formulazione delle leggi della natura risulti la stessa, i diversi osservatori dovranno considerare e misurare valori differenti delle varie grandezze. Si ha una validità assoluta delle leggi e una misura relativa di molte grandezza fisiche, come gli intervalli di tempo e le dimensioni dei corpi». 
Per quanto corra veloce il treno di Alberto, i nostri sensi non percepiscono tale sottile discrepanza: veniamo da una storia evolutiva in cui essi si sono rivelati utili per sopravvivere nelle foreste e asservire ai nostri bisogni l’ambiente circostante, senza preoccuparsi troppo di altissime velocità, come quella della luce (circa 300 mila chilometri al secondo). Ma negli anni Settanta del secolo scorso i ricercatori Usa hanno collocato due orologi ad alta precisione e perfettamente sincronizzati su due jet di linea, poi decollati dallo stesso aeroporto per un giro intorno alla Terra in direzioni opposte. All’atterraggio i tempi segnati dai due orologi non si accordavano più: per uno occorreva sommare alla sua velocità quella di rotazione della Terra, per l’altro occorreva sottrarla. 
A ciascuno, dunque, il suo tempo. Ma l’articolo di Einstein in cui gettava le basi della relatività speciale era solo l’inizio delle peripezie del concetto di tempo. La relatività generale ha reso ancora più complessa la questione, prospettandoci uno spaziotempo che «come un mollusco» viene deformato dalla materia. Inoltre nel dominio del molto piccolo la fisica quantistica ha rivelato il carattere «granulare» delle grandezze pertinenti, a cominciare dall’energia. Non potremmo pensare che a un livello di piccolezza che sfida la nostra immaginazione anche lo spazio sia costituito di grani, o quanti, e che il tempo emerga solo quando si considera un enorme numero di variabili e i loro valori medi? Un po’ come la temperatura di un gas, effetto di superficie del moto disordinato delle molecole che lo compongono? Il tempo non sarebbe altro, dunque, che «conseguenza della nostra ignoranza dei dettagli microfisici del mondo», conclude Carlo Rovelli, tra i maggiori sostenitori della pionieristica concezione della gravità quantistica. 
Eppure, per noi piccoli osservatori in un universo immenso il tempo resta quello che «tutto dà e tutto toglie», come diceva Giordano Bruno nel dedicare il suo Candelaio a un’elusiva signora di nome Morgana. Un grande fisico come John Wheeler ha definito il tempo come «il migliore espediente che la natura ha escogitato per impedire che le cose avvengano tutte in una volta». Ed è per questo che abbiamo la forza della passione, la consapevolezza dell’io.

lunedì 20 ottobre 2014

«L’arte è ciò che rende straordinario l’ordinario. Soltanto l’uomo ne è capace»

Makapansgat Pebble

Desmond Morris: Se crea, la scimmia non è una scimmia

"Corriere della Sera", 20 ottobre 2014

OXFORD (Inghilterra) «Per esempio...». Oh! Scusi solo un attimo. 
Ecco, la verità è che per fermare un fiume di passione come Desmond Morris non c’è altro modo. Zoologo, etologo, scrittore, giornalista, pittore surrealista nonché «viaggiatore» attraverso centosette Paesi da un capo all’altro del globo («Finora!», se la ride) quest’uomo di 86 anni vissuti sotto il segno dell’Acquario sta parlando da neanche un’ora, nel giardino della sua casa di Oxford, e di esempi ne avrà fatti già cinquanta. Uno più curioso e personale dell’altro. Tutti per spiegare con ironica e britannica pazienza il concetto attorno al quale ha costruito, sotto forma di una storia universale dell’arte dalle origini al presente, le 320 pagine e centinaia di immagini del suo ultimo libro: The Artistic Ape, uscito in Inghilterra l’anno scorso e appena tradotto per l’Italia da Rizzoli (La scimmia artistica). A quasi mezzo secolo dal suo bestseller che fu un caso mondiale, quella Scimmia nuda in cui esplorava la natura umana rispetto a quella dei primati, Morris torna ora sull’argomento per dire che cosa invece ci rende veramente unici rispetto a tutto il creato: e cioè l’arte, appunto. 
Perdoni ancora, poi continuiamo: senta come suona in italiano la fine del suo libro. 
«Inventando quella che chiamiamo arte abbiamo trovato il modo di migliorare la nostra vita e di arricchire il breve tempo che ci è concesso di trascorrere su questo pianeta tra la luce della nascita e la tenebra della morte». 
Le piace? 
«La vostra lingua mi è sempre piaciuta, e chiunque ami l’arte non può non amare l’Italia. Lo sa che il nostro più grande lessicografo, Sir James Murray, scrisse l’ Oxford English Dictionary proprio in questo giardino? Purtroppo arrivò solo alla lettera T... Sedeva proprio lì». 
Torniamo al suo esempio. Stava parlando del suo amico , il pittore Francis Bacon. 
«Un mio grande amico, sì. Dicevo di come sono fatti gli artisti. Francis era un genio, ma insicuro su tutto. Una volta aveva dipinto quello che secondo lui doveva essere un babbuino arrabbiato, con le fauci aperte verso il cielo. Lo aveva copiato da una foto, come faceva sempre. Mi chiese un parere da etologo: è realistico? In realtà il babbuino della foto stava solo sbadigliando. Ma non glielo dissi: avrebbe distrutto il quadro con lo stesso taglierino con cui nella sua vita ne distrusse centinaia». 
Ma l’arte, lei dice, è ciò che ci rende unici. 
«Beh, molti lo spiegherebbero con la bellezza. In realtà bisogna partire dalla caccia». 
Cioè? 
«Da un punto di vista biologico non c’è alcuna differenza estetica tra la Cappella Sistina, un tatuaggio, o una semplice piuma decorativa tra i capelli: nessuna di queste attività è essenziale per la nostra sopravvivenza fisica quanto lo sono cibo, acqua, un riparo». 
E allora? 
«Ma l’uomo è diventato quello che è diventato, grazie al proprio cervello. Si è affermato come cacciatore non perché più forte degli altri, ma perché più intelligente. E anche il cervello va nutrito. Così dopo la caccia, anziché dormire come i leoni, l’uomo è l’unico che ha sentito il bisogno di festeggiarla. Danzando, cantando, dipingendola e raccontandola. Premiando il cervello, oltre alla pancia, l’uomo gli ha dato un nuovo piacere. Ha scoperto che poteva rendere la realtà più intensa». 
Ed è per questo, lei scrive, che il nostro cervello ha orrore dell’inattività. 
«Non a caso essere rinchiusi in una cella da soli è considerata una punizione tra le più brutali». 
E cosa dice allora di Congo, di Sophie, insomma delle scimmie «artiste» di cui parla nel suo libro? 
«Ah, Congo... Quello scimpanzè cui mettemmo in mano matita e colori nel ‘56 fu in effetti impressionante. Più ancora della gorilla Sophie che sarebbe venuto dopo. Congo mostrava alcune caratteristiche simili a quelle dei bambini alle primissime armi: disegnava senza uscire dal foglio, i suoi segni avevano una certa coerenza, per esempio tracciava linee trasversali rispetto a una griglia data e che in qualche modo potevano essere lette come “variazione su un tema”, il più umano dei giochi estetici. Se gli toglievi la matita prima che avesse “finito” si infuriava. Ricordo una seduta, forse la ventiduesima, in cui raggiunse il suo vertice: tutti i disegni di quel giorno furono addirittura comprati in seguito da collezionisti privati. Uno lo acquistò persino Picasso!». 
Oddio, allora non siamo così unici... 
«E invece sì. Perché il vertice dell’espressione “artistica” a cui può arrivare una scimmia non è che il primo, elementare gradino da cui un bambino parte per esprimere la sua. L’arte fa parte di noi, perché ne abbiamo bisogno. E non ha necessariamente a che vedere con la bellezza». 
Ma se noi uomini siamo tali in quanto tutti siamo «artisti», perdoni la banalità, cosa distingue allora lo scarabocchio di un bambino dall’«Ultima Cena»? C’è un criterio? 
«Eh, lei mi fa la solita vecchia domanda di quelli che vogliono sapere che cos’è l’arte... Le risponderò mettendoci insieme anche le altre due cose che in realtà, a mio avviso, distinguono l’uomo dal resto. Mi riferisco naturalmente alla scienza e alla religione». 
Ebbene dica. 
«È quello che scrivo nel libro. L’arte è ciò che rende straordinario l’ordinario, per divertire il cervello. La scienza è ciò che rende semplice il complesso, per capire l’esistenza. La religione è ciò che rende credibile l’incredibile, per mitigare la paura della morte». 
E la bellezza non c’entra. 
«C’entra lo stupore. La famosa “meraviglia”, no? L’uomo è quell’animale che trasporta pietre gigantesche dove non c’erano per fare Stonehenge nella preistoria, che mette insieme cento milioni di tessere e due tonnellate d’oro per fare mille anni fa il mosaico pazzesco del Duomo di Monreale, ma anche quello che cuce i costumi del carnevale di Rio o che dipinge i caravan degli zingari. La molla è sempre la stessa». 
E perché quell’animale ha deciso, a un certo punto, che un orinatoio poteva valere milioni di dollari? 
«La questione della finanza e dell’arte è un’altra cosa, certo. Oggi il valore commerciale di un oggetto artistico è un concetto difficile da spiegare con criteri solo artistici. Una cosa vale milioni nel momento in cui qualcuno è disposto a pagarla milioni, punto. Se dico che voglio un miliardo per un sasso e qualcuno me lo dà, ecco, quel sasso vale un miliardo. Non piace neanche a me, ma è così».
E l’arte nel frattempo? 
«L’arte è sempre lì, e proprio opere come la Fontana del mio amico Duchamp sono una conferma di quel che dicevo. L’arte non ha a che vedere sempre con la bellezza, ma con lo stupore sì. E lo stupore nasce anche dal contesto: per esempio prendendo un orinatoio e mettendolo in un museo». 
Diciamo che per chi vedeva un Caravaggio era più facile distinguere. 
«Ma guardi che in un certo senso era più facile anche per Caravaggio! L’arte prima imitava la realtà, punto. Ampliandola, cambiandola, ma insomma sempre copiandola. Dopo la fotografia, che cosa potevano inventare gli artisti per stupire? La stessa contraddizione, peraltro, vale al contrario: l’arte non è mai stata tanto “visibile” da tutti come oggi, e allo stesso tempo mai tanto “difficile” da capire. Finiamo con una cosa buffa?» 
Certo che sì. 
«In realtà non abbiamo inventato niente: la prima opera d’arte riconosciuta come tale, risalente a tre milioni di anni fa, è un ciottolo di fiume conosciuto come Makapansgat Pebble. Somigliava a una faccia, ma era solo un sasso. Però un nostro antenato lo raccolse e lo portò nella grotta in cui gli archeologi lo trovarono. In quel momento diventò un’opera d’arte».

Se la lingua di Dante conquista anche Pechino


Italiano

È il quarto idioma più studiato nel mondo. 

E in quel milione e mezzo di appassionati crescono russi e asiatici

Laura Montanari

"La Repubblica", 20 ottobre 2014

RALLENTA nei Paesi della vecchia Europa, la lingua italiana, cresce in aree che vanno dall’Est europeo, Russia in testa, al Magreb, fino ai Paesi arabi e al Vietnam. Cambia la geografia e forse si allontana un po’ dalle radici e dai luoghi della nostra immigrazione, che pure, vedi Germania e Stati Uniti, restano numericamente di gran lunga in cima alla classifica. L’italiano conquista terre nuove e il saldo, assicurano dal ministero degli Affari esteri, è positivo. «Siamo la quarta o quinta lingua più studiata al mondo, e in crescita» sostiene il sottosegretario Mario Giro. È lui che ha voluto il nuovo censimento delle scuole di italiano oltre confine. I risultati saranno presentati nel corso degli Stati generali della Lingua italiana nel mondo in programma domani e mercoledì a Firenze. Nel 2012 erano circa 570mila gli allievi che imparavano la lingua italiana all’estero. Secondo la nuova mappatura triplicano: si arriva a un milione e mezzo perché nei conteggi sono stati aggiunti scuole private, associazioni e istituti che prima sfuggivano al censimento.
L’italiano come risorsa, come veicolo culturale, turistico ed economico di promozione del Paese. È l’idea del ministero degli Esteri, che intende rilanciare e riorganizzarne lo studio. Sfida complicata in tempi di spending review, di tagli agli istituti di cultura e alle cattedre. Si punta al web: in agenda c’è la creazione di un portale dell’italiano che metta insieme l’offerta dei corsi, lezioni online, formazione a distanza per i prof e un osservatorio permanente. L’Indire, l’istituto nazionale di documentazione e ricerca del ministero dell’Istruzione ha già pronto un progetto i cui contenuti sono stati realizzati in collaborazione con l’Accademia della Crusca. «Finalmente ci si muove con decisione per promuovere la conoscenza della nostra lingua non soltanto come vettore culturale, ma anche economico» dice il presidente dell’Accademia Claudio Marazzini.
«Agli studenti che arrivano dalla Cina nei nostri politecnici adesso si impartiscono lezioni in inglese, io proporrei di offrire loro anche corsi di italiano e di arte. È un modo — sostiene — per legarli al ricordo del nostro Paese». A proposito di Cina, uno dei soggetti più attivi nella diffusione dell’italiano estero è la società Dante Alighieri (423 sedi): «Stiamo lavorando con l’istituto Confucio — dice il segretario Alessandro Masi — per potenziare gli scambi».
Va bene Dante e Michelangelo, ma non dimentichiamo il design, la moda, il cibo, la musica lirica, il turismo, quel pacchetto che va sotto la targa made in Italy e che può essere un richiamo: «La promozione linguistica — si legge in una relazione preparatoria della due giorni fiorentina — non avrà il successo sperato se non è connessa allo scenario culturale simbolico». Suggerisce Mirco Tavoni, presidente del consorzio Icon che riunisce diciannove atenei e organizza corsi di e-learning: «Usiamo come vettori per diffondere la lingua le grandi aziende italiane già impegnate all’estero e magari anche la Chiesa cattolica». C’è invece chi pensa di qualificare le cattedre puntando sugli italodiscendenti, «perché — sibila un prof — con tutti i tagli che ci sono, chi paga più un docente italiano per andare all’estero?».

venerdì 17 ottobre 2014

Anfipoli. L’ultimo segreto di Alessandro Magno


Viaggio alla scoperta dei misteri di un miracolo archeologico, 
tra fascinose cariatidi, sfingi acefale e mosaici mai visti
Gli studiosi si dividono, giornali e tv si scatenano, i turisti si accalcano, 
la domanda è una sola: 
davvero questo mausoleo del IV secolo era la tomba del grande macedone?

Pietro Del Re

 “La Repubblica”, 16 ottobre 2014

AMPHIPOLIS. IL ronzio di un generatore è il solo indizio delle attività che fervono nelle viscere del tumulo Kastà, una collina argillosa tra i mandorleti dell’antica Amphipolis. A duecento metri dall’entrata degli scavi, ci ferma un poliziotto intirizzito dal vento gelido che scende dal vicino Monte Pangeo. L’ingresso al più grande monumento funebre mai rinvenuto in Grecia è ancora vietato ai più. Mezz’ora dopo, lo stesso cerbero in divisa bloccherà un ambasciatore che da Atene ha appena percorso 700 chilometri per visitare il ritrovamento archeologico, la tomba del Quarto secolo prima di Cristo che fa trepidare un intero Paese e che qualcuno sta già usando come antidoto patriottico contro le devastazioni della crisi economiche. Al momento, il solo non addetto ai lavori penetrato là sotto è stato il premier greco Antonis Samaras, che lo scorso agosto, con le scarpe ancora inzaccherate di fango, ha dichiarato che da questa straordinaria scoperta partirà il rinascimento della Grecia, «perché sono certo che qui sia sepolto un grande». LEGGI TUTTO...


La suggestione di Amphipolis, la terra dei sepolcri dei re

Paolo Matthiae

IL FASCINO avvincente della scoperta archeologica dipende dalla combinazione dell’attrazione derivante dalla concretezza materiale del ritrovamento e della suggestione imposta dal recupero della memoria del passato. Quel fascino è potenziato quando l’oggetto della scoperta è una tomba, è moltiplicato quando la tomba è di un personaggio regale, è al culmine se il titolare della tomba è un protagonista della storia. Di qualunque paese e di qualunque epoca.
La ricchezza, materiale o artistica, dei corredi e la grandiosità degli allestimenti funerari rendono queste scoperte leggendarie. La seconda metà del Novecento ha conosciuto almeno tre casi esemplari. Il rinvenimento, accidentale, in Cina nel 1974 di un settore della tomba di Qin Shi Huang, il primo imperatore della Cina, morto nel 210 a.C., presso Xi’an, con il suo spettacolare esercito di oltre 6.000 guerrieri di terracotta. La scoperta, tra il 1977 e il 1980, ad opera di Nicolis Andronicos, del grande tumulo di Vergina, non troppo lontano da Salonicco, dove si ritiene verosimile che sia stato sontuosamente sepolto Filippo II di Macedonia, il padre di Alessandro Magno, morto nel 336 a.C. Il ritrovamento in Perù nel 1987, da parte di Walter Alva della ricchissima tomba del cosiddetto Signore di Sipàn, un capo della cultura Moche, morto probabilmente nel III secolo d.C. LEGGI TUTTO...

Eretici, classici e popolo


L’esperienza di una vita nel nuovo saggio di Alberto Asor Rosa
Il privilegio di “un profondo, sviscerato, ancestrale amore per la parola scritta”
È di Contini “la chiave interpretativa più intelligente e matura del nostro Novecento”

Paolo Mauri

"La Repubblica", 17 ottobre 2014

SI PUÒ cominciare a leggere un libro dalla fine? Qualche volta sì, qualche volta è addirittura necessario. Per esempio il volume di Alberto Asor Rosa che si intitola Letteratura italiana (Carocci editore) e che ha come sottotitolo La storia, i classici, l’identità nazionale è bene cominciare a leggerlo dal fondo e precisamente dal capitolo 10 che è intitolato «Cinquantadue». Si tratta del discorso pronunciato dal professor Asor Rosa il 5 giugno del 2003 nell’Aula prima della facoltà di Lettere della Sapienza all’atto di lasciare l’insegnamento. Dal momento del suo primo ingresso in quell’edificio erano appunto trascorsi (ecco spiegato il titolo) cinquantadue anni.
Mezzo secolo di intensa frequentazione della Letteratura e di quella italiana in particolare: prima da studente (ah, quelle soporifere lezioni del grande Natalino Sapegno!) poi da assistente e infine da docente vero e proprio. Una vita sostenuta da un privilegio: «Un profondo, sviscerato, forse ancestrale amore per la “parola scritta”» che è diventato poi amore per i classici, per i grandi scrittori, per la poesia.
Senza questa premessa il resto del libro si capirebbe poco: perché bisogna amare la letteratura per discutere di storia letteraria, di critica, di classici e canone dei medesimi. Cosa che Asor Rosa fa, recuperando qui in bell’ordine saggi già sparsamente pubblicati e anche, utile per fare il punto su questioni complesse, una conversazione con Corrado Bologna.
Qualche anno fa, per lanciare il romanzo di uno scrittore americano, l’editore pensò di chiedere dei pareri ad alcuni testimonial (oggi si usa molto) e uno di loro disse: «È un classico». La cosa mi fece sorridere per il semplice fatto che classici non si nasce, ma si diventa e difatti la definizione di classico forse più acuta la diede Leopardi, che Asor Rosa cita diverse volte, quando scrive: «È un curioso andamento degli studi umani, che i geni più sublimi liberi e irregolari, quando hanno acquisito fama stabile e universale, diventino “classici”, cioè i loro scritti entrino nel numero dei libri elementari, e si mettano in mano ai fanciulli, come i trattati più semplici e regolari delle cognizioni “esatte”».
Dunque un Leopardi giovanissimo aveva capito cosa occorre perché un’opera diventi un classico. Comunque, scrive Asor Rosa rispondendo a Corrado Bologna, «uno non sa mai “prima” se una qualsiasi operazione letteraria è destinata a diventare un “classico”… questo si sa sempre dopo». Quel “dopo” comporta il vissuto di un’opera, spesso particolarmente ricco se si tratta di una “grande opera”. La Commedia dantesca fece fatica a diventare un classico, proprio perché aveva tali caratteri di novità che non erano facili da recepire. Carlo Dionisotti in una sua memorabile conferenza sulla alterna fortuna di Dante prese in considerazione anche le celebrazioni dantesche che scandivano i centenari della nascita e della morte. Non è un fatto secondario come una nazione vive la propria letteratura e basterebbe pensare alla fortuna di Manzoni nelle scuole.
Ma la letteratura è inevitabilmente un corpo mobile e le storie letterarie obbediscono a esigenze diverse mutando anche radicalmente nel tempo. Lo sa bene Asor Rosa che di storie letterarie ne ha scritte in proprio (l’ultima è la Storia europea della letteratura italiana) e ne ha organizzato di collettive, come la Letteratura italiana Einaudi. Il profano potrebbe chiedersi: ma non sarebbe possibile scrivere una storia scientifica della letteratura risolvendo una volta per tutte la questione? La risposta è ovviamente: no. La storia della letteratura pensata da De Sanctis per una nazione che stava guadagnandosi una nuova identità non poteva assomigliare alla grande impresa di Tiraboschi che lo aveva tanti decenni prima preceduto, obbedendo alla necessità di superare la semplice erudizione, che pure possedeva in modo sterminato, e di raccontare l’esperienza culturale (e non solo letteraria) a partire da tempi antichissimi (gli etruschi!) e dunque non muovendo dalla grande novità del volgare con cui si inaugura la nostra letteratura propriamente detta.
E qui cade, secondo me, una domanda cruciale: è più importante un’erudizione immensa o non piuttosto un “taglio” che illumini in maniera nuova il complesso castello delle grandi opere che di fatto poi fanno la storia letteraria? Senza nulla togliere ai sapienti e ai ricercatori che accumulano i dati concreti, è abbastanza intuitivo che le svolte significative vengano, diciamo così, dalla genialità dello storico e del critico che è in lui o accanto a lui. Asor Rosa indica ad un certo punto in Contini colui che «propone la chiave interpretativa più intelligente e matura della letteratura italiana del Novecento» in un saggio apparentemente minore: una Introduzione allo studio della letteratura italiana contemporanea scritto nel ‘44. Contini vede nella letteratura italiana intorno al 1925 farsi largo i nomi di Proust e di Joyce, di Katherine Mansfield e di Virginia Woolf. Sulla scorta di questi autori sarà la memoria ad acquisire una sorta di primato anche in Italia.
Contini, inoltre, vede nel magistero crociano poco incline alla storia letteraria il motivo di un certo ritardo nel mettere a fuoco quanto nel Novecento era fin lì accaduto. Dunque per costruire una storia letteraria bisogna che ci sia un bravo architetto, magari un urbanista, che disegni come si struttura la città delle lettere, che è luogo reale, ma anche sostanzialmente immaginario. Tra le molte suggestioni presenti in questo libro segnalo la lettura che Asor Rosa fa delle varie antologie di poesia che si sono succedute nel Novecento, mettendo a confronto il lavoro di Sanguineti (nato a ridosso dell’esperienza della neoavanguardia) con quello più accademico di Pier Vincenzo Mengaldo. Per capire quanto di valutazione personale entri in gioco si può far riferimento al caso Campana. Campana (scomunicato da Contini) viene glorificato da Sanguineti che lo pone alle porte del nuovo secolo, mentre Mengaldo lo considera un poeta tardo-ottocentesco. Un canone letterario (Asor Rosa fa spesso riferimento, concordando e discordando, ad Harold Bloom) non è mai scontato. Oggi siamo abituati a veder considerata la letteratura come merce e questo va un po’ a danno della critica e della civiltà letteraria che ci portiamo dietro da secoli. Il premio Nobel Patrick Modiano (un Nobel molto ben assegnato) non vende molto in Italia. Forse 4.000 copie a titolo in media. Ma è un vero scrittore. Quando era giovane lavorava per Gallimard come lettore di manoscritti, a un certo punto decise di lasciare l’incarico che pure gli procurava qualche soldo. All’editore spiegò: quella roba mi guastava lo stile.

martedì 14 ottobre 2014

Il grand Tour sotto il duce


La lungimiranza degli stranieri neutrali

La miopia degli osservatori antifascisti

L’arrivo al potere di Mussolini attirò l’attenzione di molti autori giunti dall’estero

Alcuni affermarono che il popolo si sarebbe presto ribellato alle camicie nere
altri invece capirono che la dittatura aveva basi solide ed era destinata a durare

Paolo Mieli

"Corriere della Sera", 13 ottobre 2014

Il primo osservatore straniero che seppe dare un giudizio severo del fascismo fu lo scrittore jugoslavo (futuro premio Nobel), Ivo Andric. Nel novembre del 1921, al momento del congresso fascista di Roma, vide «i cortei d’uomini in camicia nera adornati con una testa di morto, scarmigliati, sfilare a passo di parata per le vie tranquille della capitale» e individuò chiaramente «l’origine e il percorso del fascismo». «Fatta eccezione per alcuni entusiasti professori barbuti, figli di buona famiglia e studenti occhialuti», li descrisse l’autore del romanzo Il ponte sulla Drina , «tutti gli altri avevano visi poco intelligenti, brutali, da provinciali violenti… La testa scoperta, il viso illividito dal freddo intenso, con un entusiasmo arrabbiato, indossando fasce con caratteristiche parole d’ordine (“Me ne frego”, “Disperata”), brandendo manganelli nodosi, piuttosto che semplici bastoni di ferro o di piombo, evidentemente consacrati dalla tradizione di numerose risse». «È la provincia oscura, rozza, calata a Roma avida di battersi e assetata di potere… un’invasione di canaglie e di arrivisti». Lo scrittore rimase poi strabiliato dal comportamento dei politici del tempo: «L’organizzazione temibile di Mussolini, e il pericolo che ne deriva per i governanti, non distoglie affatto questi ciechi dai loro meschini intrighi parlamentari per rovesciare un governo e impossessarsi dei ministeri… Il parlamentarismo italiano marcia rapidamente verso la sua rovina». 
Uno tra i migliori eredi di Renzo De Felice, Emilio Gentile, già autore di testi fondamentali sul totalitarismo, ha raccolto in un volume denso di suggestioni, In Italia ai tempi di Mussolini. Viaggio in compagnia di osservatori stranieri (in uscita da Mondadori), osservazioni e riflessioni «da fuori» sul ventennio nero. Il venticinquenne giornalista marxista tedesco Hanns-Erich Kaminski giudicò Mussolini «un pagliaccio». Riferì di aver fatto vedere la sua foto a parecchie persone, chiedendo loro chi pensavano che fosse, e che le risposte furono pressoché unanimi: un tenore o un attore di cinema. Kaminski non ebbe dubbi: Mussolini era «un commediante», che valuta ogni atto «in funzione dell’effetto», «aspetta sempre l’applauso ed è pronto a prostituirsi per essere adulato». Nel febbraio del 1925, quando ormai Mussolini era saldo al potere, Kaminski scrisse che il Duce era «solo». «Il popolo italiano», aggiunse, «lotta oggi per la sua libertà, e poiché per il suo carattere e la sua storia può vivere esclusivamente come un popolo libero, esso combatte in verità per la sua stessa esistenza». Maliziosamente Gentile riproduce la previsione evitando di sottolineare come si dovettero attendere vent’anni perché essa si inverasse. 
Stessa malizia si intravede nella citazione di quel che scriveva il socialista americano Charles Edward Russel, secondo il quale già in quei primi anni Venti il sentimento generale contro Mussolini era così grande che «nessuno si sarebbe stupito di qualsiasi cosa gli fosse capitata», dal momento che «egli aveva commesso, o aveva permesso al suo governo di commettere, ciò che agli occhi degli italiani era la più grave delle offese: aver negato lo spirito della rivoluzione italiana, aver tradito la tradizione di Mazzini». Sulla base di questa percezione, Russel si diceva sicuro «che la fine della dittatura non era lontana dal momento che la maggioranza della nazione era manifestamente contro di essa». Il politico catalano Francisco Cambò, dopo l’uccisione del leader socialista Giacomo Matteotti, si disse certo del fatto che Mussolini non poteva «far altro che capitolare»: «si mantiene al governo perché, oggi come oggi, nessuno vuole sostituirlo». 
Più trattenuto (quantomeno per quel che riguardava le previsioni) fu il giornalista radicale inglese William Bolitho, secondo cui il Duce aveva «depredato il Paese della libertà e di tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta». «Nel terzo anno del suo dominio», scriveva Bolitho nel 1925, «l’Italia è un mondo silenzioso e ombroso, dove gli uomini hanno paura di essere visti per le strade in compagnia della verità». Ma poi allargava le responsabilità di quel che stava accadendo da Mussolini ai suoi predecessori dell’Italia liberale: Agostino Depretis, Francesco Crispi, Giovanni Giolitti. Loro «avevano usato la corruzione per dominare; il capo del fascismo oltre alla corruzione, faceva ricorso al revolver e al manganello» e questa «era l’unica differenza importante fra l’Italia sotto Mussolini e l’Italia governata dai liberali». Infine anche a lui il Duce appariva come «il sorvegliante di una prigione piena di carcerati» e il fatto che avesse imposto la censura gli sembrava essere «la prova più evidente dell’assenza di un reale consenso da parte dei suoi concittadini». Ma allora perché il Paese non si ribellava? Per la passività generale: «Passiva l’opinione pubblica, impaurita e ignorante; passive le Forze armate, che si mantengono neutrali, attorno a una monarchia circospetta; passiva e paralizzata l’opposizione politica; passiva la stampa ostile al regime; passiva la classe lavoratrice sottomessa». Unica, parziale, eccezione la Chiesa, passiva anch’essa, ma che «ha sollevato la protesta più alta da quando la libertà di stampa è stata soppressa». 
Rappresentazioni polemiche dell’Italia fascista diedero anche lo scrittore e giornalista francese Henri Béraud, l’americano John Bond e gli spagnoli Juan Chabas e Alicio Garcitoral. Quest’ultimo nel 1930 parlava delle «maschere» del Duce, che da agitatore antiborghese si era messo in tutto e per tutto al servizio della borghesia. Opinione simile a quella del comunista tedesco Alfred Kurella, che nel 1931 esultava perché a suo dire era caduta «la maschera di Mussolini» e «caduta la maschera, Mussolini è sparito e appaiono i brutti ceffi dei possidenti, degli industriali e dei banchieri, i veri padroni dell’Italia fascista». 
Il libro di Gentile non è e non vuole essere a tesi. Ma quel che viene fuori è che (tralasciati i non pochi simpatizzanti esteri del regime fascista, come il giornalista inglese Percival Phillips o l’ex ambasciatore americano a Roma Richard Washburn Child) gli osservatori neutrali, che sono la maggioranza, danno un giudizio più articolato di quello degli antagonisti su quel che accadde in Italia tra gli anni Venti e la metà degli anni Quaranta. Non di rado, un giudizio che contiene qualche concessione. 
È il caso di Edgar Ansel Mowrer, corrispondente in Italia del «Chicago Daily News», il quale incontrò Mussolini già nel maggio del 1915 e il 29 ottobre del 1922 fece con lui il viaggio in treno che portò il futuro capo del governo nella capitale all’indomani della marcia su Roma. Grande amico di Giuseppe Prezzolini, Mowrer, pur non avendo grande simpatia per il Duce, scrisse pagine assai acute sull’«inatteso risveglio» del nostro Paese. Mowrer era rimasto colpito da un’affermazione di Francesco Saverio Nitti: «Noi italiani non facciamo rivoluzioni, facciamo discorsi». Effettivamente, aggiungeva il giornalista americano, agli italiani piaceva annunciare intenzioni e «spararle grosse». Tale abitudine, aggiungeva, «sarebbe innocua se non fosse per il fatto che questo gas verbale è di gran lunga più micidiale di quelli usati in guerra, perché crea una cortina tra chi parla e la realtà, dando di questa un’immagine distorta; agli italiani accade di vedere ogni cosa attraverso una cortina fumogena di iperboli, retorica e semplici assurdità». 
Stesso discorso vale per lo scrittore inglese Richard Bagot. E per lo studioso francese Maurice Pernot, che attribuiva «la causa originaria del fascismo alla carenza dell’autorità dello Stato nel corso dei primi due anni del dopoguerra»; secondo lui era merito del fascismo aver fatto appello alla nazione affinché la smettesse di piangersi addosso e riacquistasse l’orgoglio assieme alla volontà di riaffermare il proprio ruolo nel mondo, come aveva fatto con l’interventismo, con la guerra e con la vittoria. L’americano Carleton Beals tenne un diario della marcia su Roma e fece acute notazioni su quanto il degrado dei servizi nel primo dopoguerra avesse contribuito all’affermazione del partito fascista: «Condurre affari pubblici richiedeva infinite complicazioni burocratiche, conoscenze influenti ed esborso di denaro… Telefonare era pressoché impossibile, le poste erano nel caos più completo». 
Benevoli furono in qualche modo Kenneth Roberts e il riformista George Herron, che deprecò il «sistema tirannico delle leghe rosse» e sostenne le ragioni degli italiani in merito agli esiti della Prima guerra mondiale. Così anche Paul Hazard che, riprendendo le osservazioni di Beals sulla burocrazia, vedeva come gli abitanti dell’intera penisola si attendessero dal fascismo il «miracolo più grande»: «Forse attaccherà i ministri e i burocrati dei ministeri; forse farà comprendere ai burocrati di Roma che “urgente” non vuol dire “sei mesi”; e farà capire agli italiani che le leggi sono fatte per essere osservate, qualunque cosa ne pensino». 
L’unica alternativa al fascismo individuata da questi osservatori stranieri, in viaggio per l’Italia all’inizio degli anni Venti, si trovava nel mondo cattolico. Hazard si disse molto favorevolmente impressionato dall’arcivescovo di Milano Achille Ratti (il futuro Papa Pio XI). E dal fondatore del Partito popolare, don Luigi Sturzo: «L’istinto delle realizzazioni pratiche è la sua passione», scrisse, «è dappertutto, vede tutto, prevede tutto, interviene al momento opportuno per proporre agli esitanti, agli indecisi, ai confusionari, le soluzioni opportune». E ancora: «Cosa sarebbe il Partito popolare senza di lui? Certamente senza di lui non sarebbe arrivato a un tale livello di prosperità… Don Sturzo lo domina: ne è il dittatore; so che si irrita quando lo si chiama così, e protesta… Diamogli questa soddisfazione e diciamo allora che don Sturzo è un soldato semplice come Napoleone era il piccolo caporale». Ma Hazard previde anche quel che stava per accadere nel nostro Paese. I fascisti, scriveva prima della marcia su Roma, consideravano l’Italia «gravemente ammalata» e «dopo averla salvata, volevano guarirla… spazzando via gli uomini al potere e installandosi al loro posto, ripudiando le istituzioni sorpassate, i metodi invecchiati, le abitudini timide». Ed era bene non farsi illusioni: «Essi vanno diritti a un colpo di Stato, profezia tanto più facile da farsi, dal momento che l’annunciano rumorosamente». 
Per il resto, fa notare Gentile, anche un osservatore poco sensibile al fascino mussoliniano come Beals si sentì in dovere di riconoscere che quella del Duce era «una personalità trascinatrice di primo piano» e notò la sua «determinazione calvinistica» che si univa a una sorta di «egoismo cromwelliano»; inoltre «questo leader energico, alquanto dogmatico eppure fantasioso, è diventato sempre più, col passare del tempo, un punto di raccolta attorno al quale può turbinare la corrente emotiva del popolo». 
Kenneth Roberts, pur assai critico nei confronti della deriva autoritaria mussoliniana («se tutti gli atti di Mussolini sono costituzionali, allora il monumento di Washington è fatto di caramelle alla menta», ironizzò), riconobbe l’effetto della sua «magia nera» che aveva salvato l’Italia mentre stava precipitando nel gorgo di un disastro finanziario «al cui confronto le cascate del Niagara sarebbero apparse come una placida pozzanghera d’acqua piovana». Gli italiani, osservava Roberts (sfavorevolmente impressionato dal peso che sull’amministrazione pubblica avevano «burocrati che non avevano mai udito il suono di una sveglia»), «non sono abituati a rispettare la tabella di marcia, specialmente (e siamo di nuovo a quel che aveva colpito Beals e Hazard, ndr ) quelli impiegati nell’amministrazione pubblica… Mussolini ha messo fuori dalla burocrazia statale migliaia di impiegati per migliorare l’efficienza degli uffici; il risultato è che ora tutti gli altri sono solerti. Sotto di lui, un ufficio statale italiano appare il luogo più indaffarato del mondo». Anche se, avvertì l’americano Clayton Cooper, in Italia «è più facile fare una rivoluzione che costruire un governo stabile». E, aggiunse Beals, «per quanto forte sia questo Stato, l’Italia è ancora un guscio di noce nel mare tempestoso d’Europa». 
Colpisce in questo straordinario libro di Emilio Gentile la diversità tra i giudizi più ingenui e ottimisti degli antifascisti e quelli ben più profondi e realistici degli osservatori che tenevano ben distinta l’analisi dalla battaglia politica. Ma colpisce altresì l’ampiezza di credito che, in virtù di queste analisi, fu dato in sede internazionale all’esperimento mussoliniano. Il che spiega anche i comportamenti non ostili delle supposte potenze antifasciste fino alla metà degli anni Trenta. E anche oltre, in qualche caso. 

Voci antagoniste e simpatizzanti nella rassegna di Emilio Gentile
Esce in libreria domani il volume In Italia ai tempi di Mussolini. Viaggio in compagnia di osservatori stranieri (Mondadori, pagine 360, e 20), nel quale lo storico Emilio Gentile offre un’ampia rassegna dei giudizi che autori esteri di vario orientamento formularono sul fascismo e sul suo capo. Nato a Bojano, in provincia di Campobasso, nel 1946, Gentile è stato allievo di Renzo De Felice. Studioso del fascismo e più in generale del totalitarismo, si è occupato a fondo anche dello sviluppo dell’identità nazionale italiana dal Risorgimento in poi. È uno dei più autorevoli sostenitori della tesi secondo cui il fascismo fu un regime pienamente totalitario. Un saggio di Gentile sul primo conflitto mondiale, L’apocalisse della modernità , uscirà in edicola con il «Corriere della Sera» l’11 dicembre prossimo nella collana «La Biblioteca della Grande guerra».