domenica 22 febbraio 2015

Il diavolo probabilmente



Una mostra a Rovigo raccoglie opere di grandi pittori simbolisti

Così si espressero gli incubi dell’Europa di fronte ai cambiamenti della modernità tra Ottocento e Novecento
Alle radici dell’inquietudine moderna le città regno degli oscuri visionari

Melisa Garzonio

"Corriere della Sera",  19 febbraio 2015

Paris brûle-t-il? Parigi brucia? Le truppe di Hitler non hanno ancora invaso la Ville Lumière, eppure. Siamo nel ventennio fin de siècle, la Belle Époque si sta avviando al tramonto, si spengono le luci dei boulevard, finita la magia, basta champagne. È la modernità che avanza, ma non ci sono istruzioni per l’uso. Bella la scienza, apre nuovi orizzonti ma insieme porta tensioni e crea grossi scompensi. Forse il passato era più seducente?
Il vento del cambiamento (e dello spaesamento) si coglie non solo nella Parigi bella e corrotta di Baudelaire, ma soffia impetuoso in tutta Europa, a Berlino, Vienna, Venezia, Dresda, Monaco, nella Londra noir di Edgar Allan Poe. La guerra del ‘14 è alle porte, e nel ‘29 arriverà la grande depressione che metterà in ginocchio l’economia del pianeta. Ma torniamo a Parigi. C’è un pittore, apparentemente incurante dei venti avversi, che si fa cronista dei fatti in chiave seducente, ambienta le sue tele in luoghi eclettici, esotici e fiabeschi, fa di ogni derelitto l’emblema di condizioni, caratteri, di destini e maledizioni: si chiama Gustave Moreau.
I suoi quadri, scriveva Zola, «sono enigmi... fantasticherie sottili, complicate, enigmatiche, di cui non si riesce subito a svelare il senso». Insensatezze che però interpretano stati d’animo e inquietudini collettive. È da Moreau, dal suo luciferino armamentario di sfingi, chimere, rapaci, mostri e incubi che prenderà le mosse la corrente del Simbolismo europeo. Ed è con due tra le tele più citate e dissacranti del pittore francese, Edipo e la sfinge e Salomè danzante che si apre il percorso della mostra «Il demone della modernità» al Palazzo Roverella di Rovigo (fino al 14 giugno).
L’eroe antico e la danzatrice lasciva, due temi che Moreau ha replicato ossessivamente, fin quasi alla morte. Scaldata l’atmosfera, si dà la parola ai pittori che sulla scia del maestro visionario hanno interpretato il nuovo con gusto nero e interventi audaci. Una trentina di nomi, con tante celebrità: Marc Chagall, Paul Klee, Max Klinger, Odilon Redon, Félicien Rops, Leo Putz, Alberto Martini. Ma la mossa vincente del curatore, Giandomenico Romanelli, è aver portato a Rovigo artisti magnifici e quasi sconosciuti, come Sascha Schneider, Oskar Zwintscher, Mirko Racki.


Dipingono donne, diavoli e metropoli impossibili. Come quelle di Mikalojus Konstantinas Ciurlionis, una pittura intrisa di nebbie colorate, un vedo non vedo di acropoli con torri immaginarie e cieli rarefatti.
Fu un «mistico veggente», come lo definiva Bernard Berenson, colto fino alla ricercatezza e dotato, anche, di poteri taumaturgici. «Un’arte magica — come osservava lo scrittore Romain Rolland ammirando le riproduzioni dei suoi quadri sulla rivista russa Apollon — di fronte alla quale si prova la stessa sensazione di quando, addormentandoci all’improvviso, ci sembra di volare».
E in questa sorta di sogno a occhi socchiusi, ecco apparire gli angeli, custodi meditabondi di paesaggi che adombrano una modernità addirittura industriale. «Quegli angeli sembrano vegliare su città antiche ma anche futuribili, sono Babilonia e Gerusalemme, metropoli celesti e città-macchine silenziose come cimiteri arcaici», spiega Romanelli, indicando l’incredibile tela notturna con creatura alata intitolata Demonio: una cornice di cipressi böckliniani alternati a colonne doriche e torri di Babele che custodisce una figura oscura con grandi ali da pipistrello.
Sarà il demonio, ma a noi pare una prefigurazione di Batman, il Cavaliere oscuro. E come non accostare a Gotham City, teatro delle imprese del supereroe della DC Comics, la New York livida e saettante dall’acqua nera della baia, dipinta nel 1930 da Gennaro Favai dal ponte del piroscafo Conte Rosso? La mostra arriva in porto con questo quadro omaggio al film Metropolis (1927) di Fritz Lang, che a sua volta ebbe la visione del capolavoro mentre stava sbarcando a New York per la prima dei Nibelunghi .
«La mostra — conclude Giandomenico Romanelli — vuole cogliere e percorrere lo spazio di mezzo , il tempo contrastato e irripetibile in cui la modernità si mostra come in visioni e illuminazioni che ciascuno interpreta sotto la specie di rivelazioni di forme e colori, di temi e soggetti dominati da una travolgente forza visionaria». 


Dall’inferno agli abissi umani

Le raffinate astuzie di Satana

Tra Otto e Novecento  Belzebù ha perso la sua carica simbolica e si è annidato nella psiche

Roberta Scorranese

Nel 1872 un russo divorato dalla febbre del gioco scrisse I demoni, un romanzo-affresco su una umanità posseduta, mossa da uno estremo istinto di distruzione creatrice. Nello stesso anno, un pittore (anche questo russo) dipinse una delle più singolari Tentazioni di Cristo: Gesù è solo, in mezzo al deserto, il demonio non è visibile, non ha le consuete sembianze caricaturali (come, per esempio, nelle Prove di Cristo di Botticelli). Perché il demonio è in Cristo , è nella sua espressione perduta, nelle sue mani strette dall’ansia, nelle pietre aride.
Così Fëdor Dostoevskij e Ivan Kramskoi hanno dato vita a una nuova, rivoluzionaria visione di Satana. In Russia, e forse non a caso: nella terra degli Zar il nichilismo assunse una fisionomia originale, sospesa tra la filosofia e la denuncia sociale. L’eclisse di Satana, o, meglio, la sua trasfigurazione, prende piede anche qui.
Un’eclisse che, nel periodo al centro dalla mostra «Il demone della modernità», tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, poco alla volta trasforma il demonio in qualcosa di interiore. Nevrosi, sensi di colpa, rimorsi, tormenti modernissimi, poi sigillati dalle sentenze di Freud (se non c’è Dio non può esserci il demonio, diceva in sintesi) e, in definitiva, c’è la conferma della geniale intuizione di Baudelaire: «Il miglior trucco del diavolo è nel convincerci che non esiste».
Ma il percorso non è semplice: sin dalla metà dell’Ottocento Lucifero, spogliato di una teofania impoverita, si annida nelle idee, prende a nascondersi negli abissi insondabili dell’uomo descritti da Edgar Allan Poe. Nel Diavolo nel campanile (1840) Belzebù compare nei panni di un ometto insignificante e stravolge la normalità di un piccolo, sereno borgo. Nell’inno A Satana di Carducci c’è tutta l’energia di un pensiero libero, rivolto alle cose materiali — si è detto: da massone.
In Breve storia del diavolo (Castelvecchi), Alberto Cousté annota: «Durante il secolo XIX il demonio si ritira per preparare una strategia incentrata sulla metamorfosi». Il demone della modernità si nasconde, si traveste, per poi ritornare e a volte torna in forma di caricatura: se ne I fratelli Karamazov (ancora Dostoevskij!) appare a Ivàn in abiti borghesi, nel Doktor Faustus di Thomas Mann (1947) tornerà a sedersi in salotto, di fronte al musicista Adrian Leverkühn. Nella novella La Madonnina di Pirandello, se ne sta «in agguato dietro il seggiolone su cui il padre beneficiale Fioríca sedeva con Guiduccio sulle ginocchia».
Il periodo a cavallo tra Otto e Novecento ha trasformato il demonio in una fiction. Un «personaggio letterario che non turba la vita degli uomini — scrive Cousté — anche se li istiga ad ampliare la coscienza e a ribellarsi». Lucifero è astuto: ha capito che, se dio è morto, adesso bisogna fare leva sulle nuove aspirazioni autarchiche dell’uomo. Lo ritroviamo nella vena necrofila di Gottfried Benn o nell’iconoclastia di Giovanni Papini, il quale, nel 1953, pubblica Il diavolo , saggio nel quale auspica che se la misericordia di Dio è immensa, allora anche l’angelo caduto verrà perdonato. Non verrà perdonato lui, Papini, che si ritroverà il volume nell’Indice dei libri proibiti, ma ci penserà il cinema a esorcizzare satanasso, a cominciare dalle commedie brillanti come Harry a pezzi (1997) dove Woody Allen troverà un luciferino Billy Crystal ad aspettarlo all’inferno. Ci voleva la concretezza semplice di un Papa come Francesco a ricordarci che il demonio c’è eccome, che non è una leggenda.
Forse è anche per questa recente consapevolezza collettiva risvegliata dal pragmatismo del Pontefice che oggi libri come Sottomissione di Michel Houellebecq, dove si ipotizza una Francia islamizzata, sono capaci di destare preoccupazioni, evidenziando (come con il luminol) quelle tracce demoniache ancora presenti nella realtà. Perché il diavolo non è nel nemico, come ci insegna la teologia. Il diavolo è nel nostro sguardo, più o meno consapevole. Il demone della modernità è più moderno che mai. 


L’eclissi della verità foraggia il Maligno

 Marco Ventura

Tempi propizi al demonio, i cambi d’epoca. Il nostro, all’inizio del terzo millennio, come quello rievocato a Palazzo Roverella, tra fine ‘800 e primo ‘900. Si somigliano il demone moderno
di allora e il demone postmoderno di oggi. Trovano alimento nello sconforto per un mondo al tramonto, nella paura per un nuovo mondo ostile. I demoni infiltrano
la storia, la scienza, la tecnica; se ne impadroniscono. Di lì, sfidano gli angeli e gli dei. Sostituiscono l’inferno al paradiso, al nirvana, all’illuminazione. Mettono la religione in mano al potere e al denaro. Come nel Vangelo, il diavolo è ricco e potente. Lo scorso ottobre, il Papa ha chiamato alla battaglia contro «i principati e le potenze», contro Lucifero
e i suoi. Ci hanno fatto credere che il diavolo fosse «un mito, una figura, un’idea», ha detto Francesco. Invece «il diavolo esiste»; ci spara contro «frecce infuocate».
È il padre «dei bugiardi e della menzogna». Proprio nell’eclissi della verità trova linfa il demonio. Gli artisti lo percepiscono. Esplorano le ombre perché hanno fede nella luce. Sono blasfemi, ieri e oggi, perché si ribellano alla menzogna. Dando forma al Maligno ne denunciano la presenza; esplorando gli abissi del falso, spingono l’uomo verso il vero. Per questo l’artista è indispensabile nei cambi d’epoca.
Per questo è perseguitato. Nel primo Novecento, toccò agli artisti degenerati invisi a nazisti e comunisti. Oggi è ucciso in nome di Allah chi profetizza un mondo in balìa dell’odio religioso. Come un secolo fa, l’artista sente la tragedia incombente. Vede angeli e demoni in lotta.

La religione incompresa


La cultura moderna, la nostra cultura illuministica, è nata e si è radicata per domare il potere del fenomeno religioso
Ma la convinzione di averne ridotto la forza le si è ritorta contro

Nadia Urbinati

"La Repubblica", 18 febbraio 2015

A COMMENTO dell’attacco criminale degli estremisti islamici ai vignettisti e ai giornalisti di Charlie Hebdo, l’intellettuale francese Abdennour Bidar nella sua “Lettera aperta al mondo islamico” ha scritto che gli intellettuali occidentali sembrano aver smarrito la capacità di comprendere il fenomeno religioso. Per molti di loro la religione è un segno che sta per qualcos’altro: la narrativa che sostituisce le ideologie politiche decadute; il mezzo per mostrare contrarietà a leggi e sistemi politici; l’arma per denunciare la discriminazione, la marginalità, l’esclusione.
Certamente, la religione gioca e ha giocato tutte queste funzioni. Del resto, proprio per la sua capacità di muovere la paura e comandare l’obbedienza, ad essa si sono rivolti fondatori di Stati e loro consiglieri per indurre uomini e donne a fare cose che mai avrebbero altrimenti avuto il coraggio di fare. Spiega Machiavelli che solo quando i romani furono portati a sentire la paura della punizione divina i loro capi militari riuscirono a imporre il comando supremo nei campi di battaglia, perché la paura di dio superava quella della morte. Del resto, l’uso politico della religione ha un senso solo perché chi la usa e la mobilita ne conosce il potere tremendo e tragico, che sta oltre la vita e la morte.
La cultura moderna, la nostra cultura illuministica, è nata e si è radicata per domare e de-potenziare questo potere tremendo. Ci è riuscita permeando la vita civile della cultura dei diritti. Ma la convinzione di averne domato la forza le si è come ritorta contro, rendendola incapace di comprendere appieno le risorse di cui la religione dispone, di leggerla come nient’altro che un segno che sta per qualcos’altro, un fenomeno arcaico e un rifugio per chi non ha, per esempio, risorse culturali ed economiche sufficienti. Opium populi .
La religione è un fenomeno radicale che la cultura dei diritti ha modificato ma non cambiato nella natura. Ecco perché essa ha difficoltà ad accomodarsi con la tolleranza, un termine che designa ancora una virtù fredda o una non-virtù proprio perché richiede di accettare l’esistenza di quel che da dentro la propria fede si considera un errore. Come ci ha ricordato Norberto Bobbio in un articolo magistrale, i credenti accettano la tolleranza come una regola di prudenza ma non l’abbracciano come un imperativo o un principio in sé. Ci è voluta la retorica semplice di Papa Francesco per ricordarcelo: «se offendi mia mamma ti mostro il pugno». Certo, mostrare il pugno non è la stessa cosa di usarlo. Ma è bene ricordare che è alla cultura dei diritti che dobbiamo riconoscenza per farci capire appieno quella differenza.
Criticare l’autore di una satira invece di sopprimerlo: qui sta tutta la differenza del mondo. Ma questa differenza è segno che la tolleranza funziona come regola di prudenza, ovvero che sa suggerire comportamenti strategici senza bisogno di cambiare l’attitudine spirituale del credente. Ora, è evidente che se nei Paesi occidentali questa regola di prudenza non costa tanto e funziona abbastanza bene è perché chi la pratica opera all’interno di una cultura etica che è imbevuta di un seme religioso preponderante. La cultura europea ha una sua omogeneità, sia quando parla la lingua della religione che quando parla la lingua dei diritti. E usare la regola della tolleranza mostrando il pugno è tutto sommato un fatto eccezionale. Essere tolleranti tra eguali costa meno, rende l’autocontrollo meno difficile. E soprattutto, ci fa dimenticare la radicalità del fenomeno religioso.
Fa dimenticare che la cultura dei diritti è un bene delicato; che l’abitudine che abbiamo acquisito in questi due secoli di dissentire con ragioni invece che con i pugni non ci ha al fondo cambiati, che la religione non è diventata una filosofia o una visione del mondo come le altre; che, infine, anche il pluralismo, quando riesce a stabilizzarsi, non è proprio lo stesso di quello che si trova nel libero mercato delle idee dove si sceglie tra varie opzioni (diceva Antonio Labriola agli ottimisti positivisti del suo tempo che i valori non sono come “caciovalli appisi” che troviamo già fatti al mercato). Questo per dire che l’argomento che ci invita a considerare le condizioni del dialogo e dei suoi limiti, che ci ricorda la natura irriducibile e radicale della religione, che ci mette in guardia dal pensare che le condizioni materiali di vita siano, al fondo, la sola e vera posta in gioco di chi crede in un dio, è sensato e saggio. Nessuna giustificazione e nessuna tolleranza verso coloro che usano il pugno. Ma sarebbe riduttivo pensare che se la religione è permeabile all’intolleranza ciò è perché le persone non sono abbastanza benestanti, colte, integrate, riconosciute; che il fenomeno religioso sia segno di qualcosa d’altro.

Il rosso e il nero di Dickens


Pietro Citati

"Corriere della Sera", 16 febbraio 2015


Con la sua prodigiosa sensibilità istintiva, Charles Dickens avvertì che nella realtà esistono due universi, morali, psicologici, simbolici: quello del caldo e del colore (specialmente il rosso) e quello del gelo e del nero. Questa opposizione tra caldo e freddo, tra rosso e nero è molto più ricca, comprensiva e drammatica di quella che, da secoli, oppone il bene al male nelle chiese e nei libri.
Se vogliamo conoscere l’universo «rosso» nella sua purezza, dobbiamo aprire il David Copperfield (Einaudi, traduzione di Cesare Pavese), alle incantevoli pagine dedicate ai Peggotty e alla loro barca-casa sulla spiaggia di Yarmouth. Clara Peggotty, la domestica-balia di David, ha guance e braccia così sode e rosse che David si chiedeva «come mai gli uccelli non le beccassero a preferenza delle mele». La barca-casa è tutta colorata. Persino le vignette della Bibbia , così tetra sulla bocca dei predicatori, mostrano Abramo vestito di rosso, Isacco d’azzurro, Daniele giallo, i leoni verdi: la coperta multicolore di David «fa male agli occhi tant’è fiammante». Il bianco delle pareti squilla come il latte: le aragoste, i granchi e i gamberi, ammucchiati vivi in una rimessa, si preparano a diventare rossi nella cottura; e quando il signor Peggotty si lava nell’acqua bollente, esce talmente rubicondo che David pensa «che la sua faccia abbia questo in comune con le aragoste, i granchi e i gamberi — che entra nera nell’acqua bollente e ne esce tutta rossa». La famiglia di Peggotty è la vera famiglia dickensiana, senza il padre e la madre naturali e le costrizioni del sangue: raccoglie degli orfani, degli errabondi e dei sopravvissuti sotto la protezione di una mano amorosa. Essa è l’Arca dove gli animali vengono accolti nella barca-casa di Noè: il tiepido nido familiare, il piccolo mondo chiuso e protetto, dove creature sperdute si scaldano al calore del reciproco affetto, senza temere il vento che ulula al largo del mare.
Di fronte all’Arca di Peggotty, Dickens dispone, come il loro rovescio speculare, i tetri e sadici personaggi che fecero scoppiare in lacrime Henry James bambino. Ecco il signore e la signora Murdstone, con i neri occhi loschi, i capelli e i favoriti neri, le sopracciglia folte e nerissime: il solido borsello d’acciaio rinchiuso nel carcere di una sacca appesa al braccio con una pesante catenella; due inflessibili e solide casse nere, con solide borchie d’ottone, un enorme cane nero, e l’anima tenebrosa, fosca e metallica.
***
Il carattere di David Copperfield non dipende in nulla dal rosso o dal nero, e nemmeno dal carattere drammatico, concentrato ed esibizionista del suo autore. Come altri giovani protagonisti dei romanzi di Dickens, David è ingenuo, candido, femminile, anche quando scrive e racconta di sé stesso. Egli ha qualcosa di straordinario: da bambino vede e ricorda la propria infanzia, possiede una ricchissima capacità di osservazione, che scorge, uno per uno, uno accanto all’altro, tutti i piccoli frammenti della realtà e li ricompone in un quadro. Spia: è il dono dei grandi scrittori. E questo dono di osservazione si trasforma a poco a poco: diventa fantasia, visione, dono di prolungare all’infinito le sensazioni e le osservazioni infantili.
Le grandi doti di David sono quelle di essere flessibile e ondivago: ciò gli permette di avvicinarsi alla realtà, di avere simpatia per essa e di rappresentarla, diventando il tramite tra Dickens e il mondo. In compenso, come lo accusano Agnes e zia Betsey, egli manca di fermezza, di energia, di risolutezza, di decisione, di carattere: soprattutto di quel carattere che siamo abituati a definire virile. La storia del libro è di come David, a poco a poco, acquisti la forza di cui è privo, trasformando la sua natura flessibile in un carattere fermo. Imparando la stenografia, per esempio, egli educa in sé stesso quella paziente e diuturna energia che prima gli mancava. Quando comincia a scrivere, la perseveranza è la sorgente del suo successo. «Non avrei potuto fare quanto feci — egli dice — senza le abitudini di puntualità, ordine e diligenza», senza la risoluzione di concentrarsi su un solo dato alla volta. «Non posseggo un solo dono naturale che non abbia sforzato», insiste: mentre Dickens possedeva un immenso dono naturale, che non aveva nessun bisogno di sforzare e di costringere.
Come si usa dire, David è vittima di un potentissimo complesso edipico: egli adora la madre pallida, esile e inesistente, che immaginava di essere una madre-bambina e finì per diventare una madre-bambina. Quel topos femminile si stabilisce e si fissa nella sua anima; e, dopo di allora, egli non può amare che una donna bambina, una moglie bambina, che ripete tutti i caratteri della madre. Dora Spenlow era «affascinante, infantile, occhilucente, adorabile»: non voleva che si parlasse mai, intorno a lei, di «cose pratiche», e persino le sue zie erano degli uccellini saltellanti, che camminavano frusciando, come se i loro vestiti fossero fatti di foglie autunnali. «Ero immerso in Dora. Non soltanto ero innamorato di lei dalla testa ai piedi, ma ne ero imbevuto tutto quanto». David non voleva che Dora crescesse, egli stesso non voleva che il suo amore diventasse adulto, come di solito accade tra un uomo e una donna.
* * *
In collegio David Copperfield conosce James Steerforth, che ha sei anni più di lui, e diventa il fondamento e l’ala della sua vita. Le pagine che Dickens gli dedica sono un meraviglioso saggio sul fascino: il più bello che sia mai stato scritto. C’era nel modo di fare di Steerforth una disinvoltura — un modo gaio e leggero, non ostentato — che portava con sé una specie di incanto. «Credo che in virtù di questi portamenti, dei suoi spiriti vitali, della sua voce deliziosa, del viso e dell’aspetto bellissimo, e per quanto ne so io, in virtù di un’innata potenza di attrazione (come credo che ben pochi posseggano) egli portasse con sé un fascino al quale era naturale debolezza abbandonarsi e a cui ben pochi sapevano resistere».
Molti accenni fanno supporre che, nel rappresentare Steerforth, Dickens pensasse a Byron: come lui, era un dilettante di sensazioni, che provava e sperimentava tutte le cose. La coscienza di riuscire a sedurre sempre nuove persone gli ispirava una nuova delicatezza di percezione. Ma ogni sensazione era anche un gioco brillante, giocato con l’eccitazione del momento, nello spensierato gusto della superiorità. Afferrava e possedeva tutte le persone e le cose: poi si annoiava di loro e le buttava via, come spugne, come stracci. Liberandosi per un momento da Steerforth, Copperfield gli disse: «Ciò che mi stupisce in voi, Steerforth, è che vi contentiate di fare un uso tanto volubile delle vostre facoltà». Steerforth era volubile: ma non si accontentava affatto della propria volubilità, sebbene non facesse che cercare sempre nuove sensazioni ed emozioni. Come quella di Stavrogin, l’eroe dei Demòni di Dostoevskij, la sua anima era vuota e gelida: non poteva piegarsi a passioni, persone e mete; dominata dal tedio, inseguiva sensazioni sempre più frenetiche, la distruzione e la morte.
Il giovane Copperfield — l’orfano, il nonamato, il derelitto, che non possedeva nessuna delle qualità di Steerforth — lo amava con una travolgente passione femminile: qualcuno direbbe con un vero raptus omoerotico. Il fascino di quell’angelo colpevole, dalle grandi ali nere bagnate di luce, travolgeva senza limiti David, felice di essere un oggetto infantile nelle mani di lui. La sera Steerforth, disteso nel lettuccio del collegio Salem, non riusciva a prendere sonno; e mentre avanzavano le ore della notte, David gli raccontava, confondendoli e mescolandoli l’uno con l’altro, tutti i libri che aveva letto — il Don Chisciotte, Gil Blas, Robinson Crusoe, Tom Jones, Il Vicario di Wakefield, Roderick Random, Le Mille e una notte —, come la sultana Schahrāzād inganna la morte raccontando al suo signore le complicate storie di Oriente. L’istinto fabulatorio di David Copperfield nasce così: nella notte e nell’ombra, dal cui alone romanzesco resta fasciato; dal desiderio dell’orfano femmineo di vincere l’esclusione e la separazione, dall’ansia di salvarsi, di servire e adorare, propiziando l’angelo protettore.
Tra i culmini del David Copperfield si estende la sterminata pianura delle lacrime e del riso. Più si legge profondamente il romanzo, più ci si rende conto che il riso più sgangherato e le lacrime più commoventi sono esattamente la stessa cosa. Il riso nasce da tutto: dall’orrore e dalla tragedia: dall’eccesso di emozioni e di sentimenti, come i bottoni di Clara Peggotty, che saltano e schizzano via, ogni volta che piange o è commossa. Tutto fa ridere: persino Uriah Heep, che è certamente la persona più malvagia del libro, è un concentrato ineguagliabile di comicità e di virtuosismo grottesco — con i suoi repellenti occhi rossi e insonni, con le sue mani fredde e umidicce, con le righe sulle guance che fingono il sorriso, le narici dilatate e contratte, le contorsioni serpentine del corpo, e l’espressione ripetuta: «sono soltanto una persona umile».
Dall’altra parte del romanzo c’era Agnes. «Il suo viso era calmo e felice, aveva intorno una calma — uno spirito di pace, di bontà, di pacatezza — che non ho più dimenticato e non dimenticherò mai». Il suo fare modesto, ordinato e placido esercitava un influsso benefico sul cuore altrui: «Agnes, la mia dolce sorella, il mio consigliere e il mio amico, il buon angelo della vita di tutti coloro che entravano sotto il suo tranquillo, benefico, disinteressato influsso». Agnes era una massaia: aveva tutte le virtù che la madre di David e Dora Spenlow non possedevano; conosceva la realtà, la placava, la vinceva, la dominava e la trasformava in una pianura celestiale. David commette un immenso errore: non la ama e non la sposa appena la conosce: si innamora di Dora, il doppio di sua madre; e solo dopo aver errato a lungo nella «pianura della dissimilitudine», arriva nella distesa celeste di Agnes. Là tutto è come una volta: là apprende che lei «l’ha amato per tutta la vita». «Stretta tra le mie braccia tenevo la fonte di ogni nobile ispirazione avuta fino a allora; il centro di me stesso, il cerchio della mia vita, mia moglie; che amavo di un amore fondato sulla roccia».
* * *
Tutta la narrazione del David Copperfield, sebbene affondi in un passato che diventa sempre più ricco, è portata al presente, che coincide con lo sguardo affabulatorio di David: il presente del tempo; non quello assoluto di Dio, che Dickens ignora. Segno del presente è la rappresentazione dei personaggi, la quale non esclude l’analisi psicologica ma la traduce in violenti, robustissimi, ripetuti tratti fisici, come nel caso della signorina Dartle. «Guardando lei fissa, vidi il suo viso affilarsi e impallidire e la traccia dell’antica ferita allungarsi finché non passò il labbro sformato e affondò in quello inferiore, traversando la bocca di sghembo». Queste rappresentazioni fisiche del viso torneranno, con straordinarie somiglianze, in Guerra e pace e in Anna Karenin . Come sempre, Dickens, così molteplice e polimorfo, non si accontenta dei precisi lineamenti fisici: corteggia l’inesprimibile; l’espressione fisica del sentimento si capovolge nell’indefinito, nell’«orrore di non so che», perdendosi nel puro enigma in cui egli bagna così volentieri.

Una libertà che non fa danno



Ecco un vademecum concettuale minimo per discutere sulla questione della blasfemia in una società laica

Roberto Casati

"Il Sole 24 ore", 15 febbraio 2015

1. In primo luogo, attenzione agli «argomenti-ma», denunciati da più parti, in particolare da Salman Rushdie, nonché dai redattori nell’editoriale del primo numero di «Charlie Hebdo» dopo gli attentati. «Io non sono razzista, ma...», «Sono d’accordo sulla libertà di stampa, ma...», «Non ho niente contro i mussulmani, ma...». Tipicamente gli «argomenti-ma» vengono presentati come espressione di una leggera sfumatura di dissenso rispetto a una tesi che si suppone condivisa, quando in realtà sottintendono il contrario della tesi.
2. Veicolo o contenuto? Chi difende la libertà di espressione difende un veicolo, l’esistenza di organi di espressione, indipendentemente dalla difesa del suo contenuto. Chi sottoscrive «JeSuisCharlie» può aderire a quanto «Charlie Hebdo» pubblica, o vuole invece soltanto dire che è d’accordo che «Charlie Hebdo» pubblichi qualsiasi cosa intenda pubblicare, anche se poi non aderisce ad alcuni o a nessuno dei contenuti pubblicati. Uno potrebbe dire senza contraddirsi «JeNeSuisPasCharlie, quindi JeSuisCharlie», non sono d’accordo con i tuoi contenuti, ma proprio per questo accetto il principio superiore della libertà della loro espressione.
Se poi si vuole discutere di contenuti e non soltanto del veicolo, si devono tenere presenti ancora altri aspetti.
3. Blasfemia o incitazione all’odio (razziale o religioso)? Irridere un certo X, considerato come sacro dal gruppo Y, è cosa diversa dall’irridere gli Y, dal dire che gli Y sono esecrabili in quanto credono in X; o che gli Y vanno sanzionati – privati di diritti, espulsi, sterminati eccetera – in quanto credono in X. Se si irride l’X considerato come sacro dagli Y non si prendono di mira esplicitamente gli Y che credono in X. L’incitazione all’odio ha forme ed espressioni diverse dalla blasfemia, che vengono giustamente sanzionate.
4. Offesa o danno? La legge francese non prevede il reato di blasfemia; negli Stati Uniti sarebbe inconstituzionale perseguire un blasfemo.
In Italia la blasfemia è un illecito amministrativo; in Pakistan è punibile con la pena di morte.
A fondamento della visione laica, che non considera sanzionabile la blasfemia, c’è un’idea di John Stuart Mill secondo il quale si deve distinguere tra offesa e danno. La blasfemia può anche offendere una persona, ma non può arrecarle alcun torto. Se viene impedito agli Y l’accesso a un luogo di culto, o se gli Y vengono calunniati, viene arrecato loro un torto, ma se viene irriso un X considerato sacro dagli Y, non viene arrecato alcun danno agli Y. Il danno deve essere quantificabile, mentre la nozione di offesa è eminentemente soggettiva e sostanzialmente imponderabile.
5. Desacralizzazione offensiva o sacralizzazione offensiva? A questo proposito, vorrei spendere una parola su una sottile asimmetria che sembra far parte del discorso comune e di quello dei media. Viene dato per scontato che vi sia un solo tipo di offesa in gioco, quella di chi crede nella sacralità di X, quando X viene dissacrato. Sarebbero solo i credenti (di qualsiasi religione) ad albergare sentimenti che verrebbero offesi da certi comportamenti o immagini dissacranti. Ma dovrebbe venir tenuto presente che anche i non-credenti hanno tutti i diritti di sentirsi offesi dalla sacralizzazione di comportamenti o immagini, ovvero dal fenomeno inverso.
Non c’è nessuna ragione di accettar e l’asimmetria, ovvero di pensare che un non-credente non possa e non debba sentirsi offeso dall’ostentazione di un simbolo religioso in un luogo pubblico. Se la questione della blasfemia è, come dovrebbe essere, una questione di sensibilità alle offese, allora tutte le sensibilità devono venir prese in considerazione, anche quella dei non-credenti. Per restaurare la simmetria abbiamo dunque bisogno di un concetto di “offesa ideologica” che include come sottoconcetto sia la blasfemia sia la sacralizzazione offensiva. Chiunque volesse sanzionare la dissacrazione offensiva, dovrebbe però anche accettare una sanzione nei confronti della sacralizzazione offensiva.

L’universo smise di essere un noioso parallelepipedo



1915-2015. 
Il 25 novembre di un secolo fa 
Albert Einstein presentò la teoria della relatività generale
Il cielo non fu più quello che fino ad allora era stato pensato, ma si trasformò in una struttura viva, 
mobile ed elastica, piena di fosse, cunicoli e pendii
E l’uomo a livello cosmico divenne del tutto irrilevante

Paolo Giordano

"Corriere della Sera - La Lettura", 22 febbraio 2015

Credo di avere incubato la fascinazione per la fisica molto tempo fa, da bambino, grazie soprattutto alla relatività generale. Ne conoscevo giusto il nome, com’è ovvio, ma quello era sufficiente a darmi l’idea elettrizzante di un sapere assoluto, «generale» appunto, e avevo visto alcune animazioni rozze nelle quali le masse dei pianeti deformavano la geometria dello spazio: mi avevano sconvolto. I residui di poche parole — «spaziotempo», «relatività», «gravitazione» —, uniti alle istantanee colorate e inquietanti delle nebulose immobili ai confini nell’universo, prevalsero al momento giusto su altre curiosità sviluppate nel frattempo, e io mi ritrovai a studiare fisica all’università.
Dovetti attendere il penultimo anno di corso per addentrarmi nella teoria che mi aveva motivato fin dall’inizio. La relatività generale, sebbene si tratti di un campo non più nuovo, fa ancora parte delle frontiere più avanzate della scienza e richiede un allenamento agonistico per essere affrontata nello specifico. Il professore che teneva i due moduli del corso aveva il vizio di non scrivere alla lavagna. Pretendeva di farci comprendere i calcoli astrusi della relatività da seduto, sviluppando tensori e integrali nell’aria trasparente di fronte a sé. Spesso interrompeva le lezioni con lunghe telefonate in russo, alle quali assistevamo perplessi e rispettosi. Riteneva, come molti iniziati alle scienze più radicali, che avremmo dovuto essere in grado di occuparci da soli delle minuzie dei conti, impresa che io tentai e ritentai in quegli anni, sempre senza una piena soddisfazione.
«È un vero miracolo che i metodi moderni di istruzione non abbiano ancora completamente soffocato la sacra curiosità della ricerca», scriveva Einstein a proposito del proprio accidentato percorso di studi. Ed è altrettanto miracoloso, per me, che l’ammirazione per la sua teoria più grandiosa sia uscita indenne, rinvigorita semmai, dai miei anni universitari e dai tentativi falliti di dominarla, al punto che, a cento anni esatti dal suo concepimento, sento il bisogno di festeggiarla come merita.
Einstein presentò il suo lavoro sulla relatività generale il 25 novembre 1915 davanti all’Accademia prussiana delle scienze. All’epoca era già una celebrità per via dei tre articoli pubblicati nel 1905, tra cui quello sulla relatività ristretta e quello sull’effetto fotoelettrico che gli avrebbe valso il Nobel, ma sarebbe stata la relatività generale a renderlo l’icona indiscussa della fisica moderna, della scienza in genere, del pensiero umano stesso.
Come accade non di rado, Einstein approdò a un risultato capitale partendo da un problema concettuale piuttosto semplice e da una convinzione personale, si potrebbe quasi dire da un principio «di buon senso». Era persuaso che le leggi naturali, le leggi fondamentali della fisica, dovessero essere le stesse da qualunque parte le si osservasse o, per dirla più precisamente, in qualunque sistema di riferimento si effettuassero le misure. Non si trattava di una convinzione nuova per lui. Nell’articolo sulla relatività ristretta aveva mostrato con eleganza come ciò fosse vero per due osservatori che si muovono a velocità costante l’uno rispetto all’altro: il «buon senso» di Einstein valeva, a patto di accettare che la luce viaggiasse a una velocità fissa per chiunque dei due la misurasse. Il problema, tuttavia, sussisteva ancora nel caso di due osservatori che avessero un’accelerazione l’uno rispetto all’altro. Nel 1907, mentre lavorava ancora presso l’Ufficio brevetti di Berna, Einstein iniziò a preoccuparsi di questa possibile estensione.
In uno dei suoi «esperimenti mentali» — che l’iconografia ci ha abituato, forse un po’ ingiustamente, a pensare come divagazioni libere durante il tedio dell’ufficio — Einstein immaginò un uomo in caduta libera insieme ad altri oggetti. Un pensiero poetico, insomma. Immedesimandosi in quell’uomo e levandogli le complicazioni del dove e perché stesse precipitando, dell’aria in faccia, del terrore di morire schiantato, intuì che non ci fosse modo per lui, durante la caduta, di accorgersi dell’esistenza della gravità, nessuna misurazione glielo consentiva. Che l’esperimento mentale tradisse una sinistra carenza di empatia, Einstein si accorse forse in seguito, al punto di scrivere nella sua Autobiografia scientifica : «Se un individuo ha il dono di pensare con chiarezza, può darsi benissimo che questo lato della sua natura si sviluppi maggiormente a spese di altri lati, e determini quindi più la sua mentalità». Comunque sia, grazie alla sua «mentalità» e alla noncuranza per le sorti dell’uomo in caduta libera, Einstein creò la prima sinapsi tra il concetto di accelerazione e quello di attrazione gravitazionale, la base della relatività generale.
Per formalizzare compiutamente la teoria gli ci vollero altri otto anni, i trasferimenti da Berna a Praga, poi a Zurigo e infine a Berlino, la separazione dalla prima moglie Mileva, dai figli, e — qui sta l’eccezionalità dell’impresa — un’immersione in rami sofisticatissimi della matematica, che pochi all’epoca immaginavano potessero rivelarsi utili per descrivere la realtà. Bernhard Riemann, un allievo geniale di Carl Friedrich Gauss, aveva studiato la curvatura delle superfici immerse in spazi a molte dimensioni, e da più parti nel mondo venivano esplorate da anni le proprietà fantasiose delle geometrie cosiddette «non euclidee»: geometrie nelle quali decadono certe ipotesi sullo spazio così come lo sperimentiamo, nelle quali le rette parallele prima o poi s’incontrano, la somma degli angoli interni dei triangoli è diversa da centottanta gradi e percorrendo a piedi un quadrato non ci si ritrova infine al punto di partenza. Sembravano arzigogolii tipici della matematica pura, modelli strampalati, e invece attendevano pazienti di debuttare da protagonisti nel mondo fenomenico.
Einstein pensò allo spaziotempo come a una struttura geometrica che viene deformata, curvata dalla presenza della materia — dall’energia e dalla massa, dalle stelle, dai pianeti, dai gas — e seppe trovare la relazione esatta fra l’ammontare della curvatura e la quantità di materia necessaria a produrla. «Einstein dice che lo spazio è curvo e che causa della curvatura è la materia», sintetizzò Richard Feynman anni dopo. Se fino a un attimo prima l’universo era un noioso parallelepipedo punteggiato di corpi celesti, il 25 novembre 1915 esso si trasformò all’improvviso in una struttura viva, mobile ed elastica, piena di fosse e rigonfiamenti e cunicoli e pendii scoscesi.
Da visualizzare non è semplice, anzi è impossibile. Per quanto dotato intellettivamente, nessun essere umano è in grado di raffigurarsi lo spaziotempo in quattro dimensioni, e ancor meno una sua deformazione. Possiamo sì intuire l’esistenza di una quarta dimensione, quella temporale, attraverso analogie brillanti, ma non certo coglierla appieno. A dispetto delle intuizioni di Einstein e delle elaborate concezioni attuali, il tempo resta per noi una variabile disaccoppiata dallo spazio, newtoniana, qualcosa che scorre in avanti e basta, con esasperante regolarità.
Non solo. Non siamo nemmeno in grado di rappresentare mentalmente un volume di spazio che viene curvato. Sappiamo farlo bene con una superficie — basta pensare all’effetto di una sfera di metallo poggiata su un lenzuolo ben teso —, ma con una dimensione spaziale aggiuntiva siamo già persi. All’immagine «istintiva» della relatività generale mancano, quindi, sempre due dimensioni e ciò è valido per tutti, per Einstein come per ciascuno di noi.
La teoria, al di là dell’ostico formalismo matematico, presenta un bizzarro aspetto democratico: non può essere davvero visualizzata da nessuno. La sua comprensione è sempre assimilabile, con più o meno sofisticazioni, a quella della sfera di metallo che crea una conca nel lenzuolo. Per i fisici moderni, abbandonare in tal senso il conforto della percezione, di quella visiva in particolare, è ormai diventato una prassi. Non solo la relatività generale, ma anche la meccanica quantistica (perfino in misura maggiore) richiedono all’uomo di allentare i lacci dell’intuitività, di chiudere gli occhi e fidarsi da un certo punto in poi della matematica e della sua interpretazione attenta. Certa fisica, in effetti, non la si comprende davvero, piuttosto ci si abitua. Se fossimo minuscoli, molte di quelle che appaiono come elucubrazioni sarebbero per noi ovvie, esperibili, ma così non è. Il Novecento ha segnato in molti ambiti questo passaggio a una «scienza dell’invisibile», di ciò che è troppo elusivo, troppo piccolo, troppo distante per essere acciuffato, se non con il pensiero o l’evidenza indiretta.
Ciò che della relatività generale conquistò tutti, prima ancora del suo significato, fu che era espressa da un’equazione, una sola, elegantissima e apparentemente innocua (per inciso, non si tratta di quella associata a Einstein nei poster, E=mc2, che ha a che vedere con la relatività ristretta, bensì di un’altra dall’aspetto più esotico). I fisici sono facilmente sedotti dalla sinteticità delle formule. Malgrado la compattezza, però, nel momento in cui il fisico malcapitato decideva di «aprire» l’equazione di Einstein, essa si rivelava di una complessità quasi mostruosa, come un nodo di serpenti velenosi, ognuno dotato di parecchie teste. La ricerca di soluzioni, sempre particolari, ha occupato non soltanto i fisici, ma eserciti di computer strapotenti, fino a oggi. E ogni soluzione trovata ha inaugurato una nuova branca della ricerca e una rivoluzione nel nostro modo di intendere il cosmo.
Non esiste altra teoria scientifica che in un unico balzo abbia portato l’uomo così in alto nella comprensione della realtà e al tempo stesso lo abbia annichilito tanto gravemente. Se scoprire che la Terra non era al centro di tutto e il Sole non le ruotava attorno fu un duro colpo alle nostre certezze istintive, è stata la relatività generale a sancire la totale irrilevanza dell’uomo, almeno a livello cosmico. Einstein stesso crebbe con l’idea di un universo costante, immutabile. In pochi decenni la relatività generale ci ha invece informati che l’universo ha avuto un’origine microscopica e drammatica, il Big Bang, e che avrà anche una fine, sebbene sia ancora dibattuto quale; ci ha informati che esso si sta espandendo intorno a noi — sta «lievitando» rende forse meglio l’idea — e lo fa sempre più in fretta; che non solo occupiamo un posto periferico nella nostra galassia, ma la nostra galassia è solo una fra le innumerevoli; che le stelle hanno destini diversi e commoventi e il nostro Sole sarà infine ridotto a una miserevole nana bianca; che balliamo tutti quanti intorno a un buco nero che inghiotte e inghiotte materia, insaziabile, azzerando ogni memoria di ciò che era prima; che ciò che vediamo e sentiamo e tocchiamo non è che il quattro per cento di quello che realmente esiste là fuori, perciò il resto lo chiamiamo Materia oscura o Energia oscura e non abbiamo idea di che accidenti sia.
Proprio in ragione della loro drammaticità, Einstein fu il primo a opporre resistenza a certe conseguenze della sua teoria. Che l’universo avesse avuto un inizio gli sembrava un’assurdità e per tutta la vita trattò i buchi neri come dei meri intoppi matematici di cui sbarazzarsi. Nessuna mente, per quanto geniale, sarebbe disposta ad accettare una tale mole di cambiamenti tutta insieme. Al contrario, per noi è quasi impossibile pensare all’universo senza contemplarne l’inizio esplosivo, guardare il cielo notturno senza essere da qualche parte consapevoli dei buchi neri incastonati nelle sue profondità. Se anche non abbiamo studiato quelle cose, esse si sono imposte in qualche strato della nostra coscienza. La relatività generale, come ogni grande rivoluzione della scienza, è stata anche un gigantesco trauma collettivo e varrebbe forse la pena, oggi, di indagare come abbia influenzato il nostro modo di essere, la fiducia che riponiamo in noi stessi.
Si tratta, con ogni probabilità, anche della teoria che ha generato più equivoci di sempre. Il suo nome, «relatività generale», ha portato molti alla conclusione sbrigativa e superficiale che, secondo Einstein, tutto quanto fosse «relativo». Hans Reichenbach diede al fisico parte della responsabilità di ciò, sottolineando come in ragione della sua scoperta egli fosse diventato «un filosofo implicito», pur rifiutando per tutta la vita un simile ruolo. «Questa è la sua forza e la sua debolezza a un tempo: la sua forza, perché ha reso tanto più concreta la sua fisica; la sua debolezza, perché ha lasciato la sua teoria esposta ai travisamenti e alle interpretazioni sbagliate».
In realtà, se si riflette sul presupposto di Einstein, ovvero che le leggi della natura debbano essere equivalenti da qualunque parte le si osservi, si capisce facilmente come la relatività generale affermi semmai il contrario della sua vulgata più deteriore.
Allo stesso modo, è sbagliato considerare l’impresa di Einstein come la supremazia del pensiero puro, teorico, sulla scienza sperimentale. Lo conferma il fatto stesso che tutte le sue intuizioni muovessero da veri e propri esperimenti, seppure immaginati. Paradossalmente Einstein, l’emblema della ragione che domina la concretezza, era un fisico legato in tutto e per tutto all’empirismo. Si premurò, fin da subito, di trovare delle prove che convalidassero la sua teoria. La prima era già disponibile: si sapeva da tempo che l’orbita di Mercurio intorno al Sole si comportava in maniera anomala, almeno stando alla legge di gravitazione di Newton. Per giustificare le irregolarità nella sua rivoluzione si era perfino ipotizzata l’esistenza di un pianeta aggiuntivo nel nostro sistema solare, Vulcano, peccato che nessuno riuscisse a vederlo. L’anomalia, si scoprì, era un effetto puro della relatività.
L’evidenza schiacciante arrivò nel 1919, quando Arthur Eddington organizzò una spedizione all’Isola di Principe, nel Golfo di Guinea, e lì, durante un’eclissi totale di Sole, fu in grado di fotografare la deflessione dei raggi luminosi, il modo in cui il segnale proveniente dalle stelle giungeva a noi curvato dal campo gravitazionale intorno al Sole.
Ma ci sono aspetti della teoria che attendono ancora un verdetto a cento anni dalla scoperta. Se la relatività generale è vera così come Einstein l’ha formulata, allora devono esistere nel cosmo delle «onde gravitazionali». Di nuovo il cervello s’imbatte in un limite intrinseco nel tentativo di visualizzare queste onde che si muovono nello spaziotempo a quattro dimensioni mettendolo in agitazione, e di nuovo si rifugia nella sfera poggiata sul lenzuolo: lasciate cadere la sfera da una leggera altezza ed essa provocherà delle increspature nel tessuto. Si suppone che onde gravitazionali generate da eventi catastrofici, come la fusione di due buchi neri, ci attraversino in continuazione, deformandoci, ma i loro effetti sono così leggeri da esserci sempre sfuggiti. «Più che a uno specchio d’acqua, lo spaziotempo somiglia a una lastra d’acciaio straordinariamente compatta, che vibra a malapena anche se percossa nel modo più violento possibile» (Pedro G. Ferreira).
Alcune generazioni di fisici sperimentali hanno ormai sacrificato la propria vita alla frustrazione di non riuscire a rilevare le onde gravitazionali. Dai grossi cilindri di metallo sospesi in aria da Joseph Weber si è passati a misurazioni sempre più sofisticate, a scrutare i sistemi binari di stelle relegati ai margini remoti dell’universo, fino a concepire l’esperimento più ardito che l’umanità abbia mai sognato, per certi versi più ardito dell’attuale collisore del Cern. Gli ideatori del Laser Interferometer Space Antenna Project, Lisa in breve, proposero di mandare in orbita intorno al Sole tre satelliti, che avrebbero disegnato un triangolo virtuale con un lato di cinque milioni di chilometri e comunicato fra loro attraverso fasci laser e specchi. Le onde gravitazionali, con il loro passaggio, avrebbero incurvato le traiettorie dei laser, modificandone in maniera lieve gli spettri di interferenza. Gli Stati Uniti si sono però tirati indietro spaventati dal costo dell’impresa, stellare anche quello, e Lisa è stato ridotto alla sua versione europea, eLisa, con bracci di «solo» un milione di chilometri, e il cui lancio è previsto per il 2034.
Pedro G. Ferreira, nel suo libro La teoria perfetta, giura che il nostro sarà il secolo della relatività generale, dopo che il Novecento ha celebrato tutto lo splendore e l’orrore della fisica atomica. Se è vero, ci siamo entrati pieni di domande, la principale delle quali è come sia possibile unificare la gravità con le altre interazioni fondamentali della natura in un’unica visione sintetica, una questione alla quale già Einstein dedicò decenni infruttuosi della sua vita e che tiene la fisica teorica in una delle più lunghe impasse di sempre, una impasse che tuttavia, come accade tanto nella scienza quanto nell’arte, ha prodotto nel frattempo teorie collaterali intrepide e inattese: la teoria delle stringhe, la gravità quantistica e le ipotesi secondo le quali il nostro universo non sarebbe che un piccolo rigonfiamento di un cosmo immensamente più esteso e composito.
È probabile che Einstein, da innovatore profondamente reazionario che era, avrebbe scartato con sprezzo la gran parte di queste congetture. La storia insegna che spesso sbagliò nel farlo. Per noi, che non dobbiamo preoccuparci del rigore delle equazioni, non ha troppa importanza. Possiamo goderci la relatività generale e i suoi costrutti più estremi come un immaginario estatico e potente, bearci di come la ragione umana, attraverso lo sforzo di un uomo e di tutti coloro che lo hanno seguito, abbia saputo cogliere un mistero tanto intrinseco della natura. E forse, per una volta, rallegrarci di vivere in un’epoca che ha almeno questo di speciale: il cosmo che ci circonda non è mai stato così tumultuoso e così grande.

sabato 7 febbraio 2015

Il suono del silenzio che si ascolta nei libri


Da Dante a Manzoni a Primo Levi 
se le parole non bastano più

Francesco Erbani

"La Repubblica", 7 febbraio 2015

«TACI, a meno che il tuo parlare sia meglio del silenzio»: è la traduzione non proprio letterale di « Aut tace, aut loquere meliora silentio » , l’iscrizione che Salvator Rosa regge con una mano nell’autoritratto che il pittore realizzò a metà del Seicento e che ora è alla National Gallery di Londra. Il silenzio compete con la parola. Non è solo il niente, non è il contrario del rumore né il grado zero della comunicazione. È mancanza e rinuncia, ma anche il “non detto” ha la propria capacità comunicativa.
E la letteratura ha elaborato nei secoli una esauriente gamma di significati che al silenzio si possono attribuire e che riscattano un’immagine apparentemente priva di senso, bensì ricchissima di sfumature, di implicazioni culturali ed emotive. Bice Mortara Garavelli, linguista, studiosa di grammatica (l’ha insegnata per tanti anni all’Università di Torino) ha composto una galleria di silenzi traendoli da un repertorio che va dai tragici greci fino a Carlo Levi, da Dante, Ariosto e Manzoni a Elsa Morante, a Primo Levi, a Lalla Romano (Silenzi d’autore, Laterza, pagg. 135). Mortara Garavelli si è occupata di retorica e si è spinta a ricostruire una storia della punteggiatura, seguita da un prontuario dedicato al punto, alla virgola, al punto e virgola e ai due punti: a dispetto di una presunta aridità della questione, l’ultima edizione disponibile, quella del 2012, avvisa che con essa si è giunti alla quindicesima ristampa.
L’antologia sul silenzio potrebbe allungarsi a volontà, ma intanto dà la misura della frequenza del cimento di autori di diverso carattere con una funzione del linguaggio e della comunicazione che non è solo assenza. O che all’assenza fornisce un valore. Partendo dalle ultime prove ecco che cosa dice Mario Brunello, grande violoncellista, in un libro che intitola proprio al Silenzio (il Mulino), degli esperimenti di un altro grande musicista, John Cage, il quale volle che una volta terminata l’esecuzione della sua opera 4,33, il pianista restasse in silenzio esattamente per quattro minuti e trentatré secondi: «L’intento di Cage era ridefinire il concetto tra suono e silenzio e ricondurre i due elementi a una parità di fronte all’arte musicale».
La parità, o quasi, fra il suono e il silenzio nel linguaggio musicale ha ampia cittadinanza, come ce l’ha in architettura quella fra il pieno e il vuoto. In musica o in architettura il silenzio e il vuoto hanno un’evidenza. In letteratura per definire il silenzio occorre ricorrere al suo contrario, la parola. L’Innominato dei Promessi sposi vede il silenzio accompagnarsi alle tenebre e in coppia, il silenzio e le tenebre, aprono il varco a una morte spaventosa. Il silenzio e la notte sono affiancati nella Gerusalemme liberata. Nel V dell’Inferno Dante esprime il buio in quanto «d’ogne luce muto», perseguendo la trasposizione da una sensazione della vista a una dell’udito già presente nel I dell’Inferno: la selva oscura è un luogo «dove ‘l sol tace».
Fu il teologo e vescovo Gregorio Nazianzeno (III secolo) a elevare il silenzio al rango della parola ingiungendo a chi parla di esser sicuro che quel che sta dicendo è certamente meglio del silenzio stesso. Quasi che il silenzio fosse la condizione naturale alla quale si può derogare solo se ci sono cose molto importanti per interromperlo. Per Ariosto, racconta Mortara Garavelli, il silenzio diventa persona. Nel quattordicesimo canto dell’Orlando furioso l’arcangelo Michele è inviato sulla terra alla ricerca del silenzio, «quel nimico di parole». Il primo luogo verso il quale si dirige è un convento «dove sono i parlari in modo esclusi, / che ‘l Silenzio, ove cantano i salteri, /ove dormeno, ove hanno la pietanza, / e finalmente è scritto in ogni stanza ». Ma ormai nei conventi, per somma delusione dell’arcangelo, il silenzio «non v’abita più, fuor che in iscritto». Dalla ricerca si appura che dove c’è discordia non c’è silenzio, e che il silenzio, un tempo fiancheggiatore di filosofi e di santi, ora «fece alle sceleragini tragitto».
L’esperienza quotidiana, alla quale può attingere la letteratura, mostra che in silenzio si comunicano tante cose, spesso più efficacemente che parlando. Lo attesta Giovanni Boccaccio nella novella del Decameron in cui narra l’amore straziato di Ellisabetta, alla quale i fratelli uccidono l’amante. È stato Cesare Segre, rileva Mortara Garavelli, a mettere in evidenza come i prolungati silenzi della donna, cadenzati dal pianto, esprimano dolore con «repressa eloquenza». Di contro, i silenzi dei fratelli sono opprimenti, non vogliono convincere, ma reprimere.
Un balzo di secoli e d’atmosfera porta Mortara Garavelli all’Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra, nelle cui pagine il silenzio, insieme alla ristrettezza di orizzonti, pare dominare l’intera generazione che va in guerra (in quella stessa guerra dove Renato Serra trova la morte nel 1915). Da Serra al mondo contadino di Carlo Levi, il quale racconta le «terre zitte e solennemente silenziose» di Lucania. O, ancora, alla Napoli di Anna Maria Ortese, dove «il rumore fitto di chiacchierii, di richiami, di risate, o solo di suoni meccanici» non riesce a coprire il fatto che «latente e orribile vi si avvertiva il silenzio».
La galleria di Silenzi d’autore è ancora molto estesa. Ma è sull’indicibile per definizione che può chiudersi questa breve rassegna. Ad Auschwitz, scrive Primo Levi in Se questo è un uomo , «per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo».

Caro amore ti scrivo

Quando la passione aspettava il postino
Da Cicerone a Lutero, da Marx a Joyce, 
in un’antologia le lettere scritte da “uomini e donne straordinari”

Massimiliano Panarari

"La Stampa", 5 febbraio 2015

Cosa dicono, quando scrivono d’amore, i grandi della cultura, dell’arte e della politica? Il genere epistolare, si sa, ha risentito fortemente del passaggio dalla missiva vergata a mano a quella spedita con un clic. Se non nella intensità dei sentimenti che viaggiano attraverso le parole (chissà, però, se donne e uomini provano esattamente le medesime emozioni al cambiare di tempi e generazioni…), di sicuro nella lunghezza dei testi con cui li declamano. La turbo-mail via posta elettronica è perciò assai differente dalle arzigogolate Lettere d’amore di uomini e donne straordinari, autentici esempi di trattatistica sentimentale, tra sospiri, battiti del cuore, dolori lancinanti e spasimi, raccolte da Alessandro Miliotti per i tipi di Piano B edizioni (pp. 191)
Epistole dall’esilio sono quelle della classicità romana, con Marco Tullio Cicerone e Publio Ovidio Nasone intenti a consolare le mogli (rispettivamente la ricca patrizia Terenzia, poi ripudiata, e la perennemente amata Fabia), dopo essere stati allontanati dal potere di turno. Un bel po’ di secoli dopo, nell’Europa delle guerre di religione, Martin Lutero corrispondeva con Katharina von Bora, la monaca che aveva aiutato a fuggire dal monastero e che aveva sposato (madre dei suoi 6 figli), di cui si definisce «suddito», informandola, da animo un po’ grossier quale era, del fatto che «divoro come un boemo e sbevazzo come un tedesco». 
Amori tormentati quelli dei filosofi del razionalismo e dell’Illuminismo francese, con pochi Lumi e molti struggimenti (nel privato amoroso, dunque, più dei romantici che degli alfieri della Ragione…). Cartesio ebbe una intensa relazione platonica (per scomodare un altro pensatore illustre), da confidente molto affettuoso, con la principessa di Boemia Elisabetta, rara poliglotta che parlava sei lingue. Una corrispondenza così intensa da costituire la base del trattato cartesiano su Le passioni dell’anima del 1649; e tante furono le cosiddette «pensatrici cartesiane» (a partire dalla regina Cristina di Svezia), vale a dire le donne che, in età barocca, si avvicinarono al filosofare sotto l’impulso di Descartes. Voltaire diede invece scandalo non solo per le sue posizioni ideologiche, ma anche per la relazione con una giovane ugonotta, Catherine Olympe Dunoyer, che aveva conosciuto all’Aia da segretario dell’ambasciatore francese. E se ne dovette ritornare in patria di gran carriera, costretto dalla famiglia di lei, per evitare la galera, anche se poi non la scampò a casa, dove nel 1716 venne incarcerato per quasi un anno per i suoi scritti «sovversivi».
Laceratissimo era Jean-Jacques Rousseau, gran teorico della bontà della natura umana, mentre le donne lo fanno molto soffrire: come la contessa Sophie d’Houdetot, di cui si era innamorato follemente nel 1757. Le scrive allora chiaro e tondo che è «senza pietà» e ha un «cuore ingiusto» perché, dopo tre mesi di passione travolgente, fa ritorno tra le braccia dell’amante di sempre, il poeta Saint Lambert. 
Venendo ai romantici veri e propri, il filosofo e poeta Friedrich von Schiller, dopo lunga esitazione e altrettanto prolungata meditazione riguardo le due sorelle Carlotte e Carolina von Longefeld, si risolve per la prima, la più timida Lotte. E lo dice, naturalmente per lettera, richiedendo la sua mano. Precorritrice di certa temperie romantica è anche una figura notevolissima quale la filosofa settecentesca Mary Wollstonecraft, fondatrice de facto del femminismo e madre di Mary (l’autrice di Frankenstein e seconda moglie di Percy B. Shelley), che per amore di un gaglioffo americano tenta ripetutamente il suicidio. 
Non precisamente fortunati in amore furono vari pensatori e artisti comunisti, a partire da Marx stesso con la sua Jenny von Westphalen, coppia contro la quale si accanirono le incertezze economiche (la dura legge della «struttura»), per arrivare sino a Gramsci. Per non dire dell’impetuoso aedo della rivoluzione d’ottobre Vladimir Majakovskij, tra le ragioni del cui suicidio, nel 1930, pare ci fosse stato anche l’amore non pienamente corrisposto da parte di Lilja Brik, giovane attrice, moglie del critico letterario Osip Brik (con conseguente complicatissimo ménage à trois). Ma nel libro ci sono anche lettere a mogli o amanti di Washington, Baudelaire, Wagner, Joyce, Pessoa, Svevo, e molti altri. Tutti umani, fin troppo umani. E questo, a ben pensarci, era anche il loro bello…

L’altro Lombroso: criticava i professori e studiava la magia


Non si occupava soltanto di classificare i criminali

"Corriere della Sera", 6 febbraio 2015

«Non v’è solo la camorra nel golfo di Napoli e fra i cocchieri e i rivenduglioli: purtroppo ve n’è pure, e di terribile nel seno delle Facoltà e nelle regioni governative, se non proprio nel Governo, così forte, in ogni modo, da forzare a questo la mano».
Lo scrive, scandalizzato per come vanno in cattedra certi colleghi universitari, Cesare Lombroso. È il 16 maggio 1901, il padre dell’antropologia criminale è da decenni lo scienziato italiano più celebre nel mondo e il «Corriere» ospita i suoi interventi, non frequentissimi, dando loro il massimo risalto. Anche quando prende a martellate il mondo dell’accademia.
Certo, scrive lo studioso invocando il pubblico concorso anche per gli «straordinari», c’è chi dice che questi «straordinari» hanno solo un incarico provvisorio. Ma non ce n’è uno poi «che perda il suo posto». Anzi: «Quanto più è scarso di ingegno e di cultura, tanto più egli si arrabatta colle arti dell’intrigo per restare nella sua nicchia, per avere favorevole quella maggioranza della Facoltà che non manca mai agli indotti e agli intriganti, e restare per lo meno a perpetuità straordinario». Un secolo fa…
Sono pepite d’oro, a rileggerli oggi, gli interventi dello scienziato pubblicati dal nostro giornale e raccolti nel libro Cesare Lombroso. Scritti per il «Corriere» 1884-1908 , edito dalla Fondazione Corriere e curato dal docente della Cattolica Damiano Palano, con una prefazione dell’ex ministro Lorenzo Ornaghi.
Molti articoli, come è ovvio, sono dedicati alla grande passione dello scienziato. E cioè, per dirla con Giorgio Ieranò dell’Università di Trento, all’«illusione di poter offrire di ogni aspetto, anche minuto, dell’universo una spiegazione scientifica, la ferma convinzione di poter misurare quantitativamente ogni fenomeno. Lombroso era un utopista che credeva nella missione redentrice della scienza». Con risultati tragicamente capovolti, spesso. Al punto d’esser presi a sostegno delle tesi più razziste sui neri, gli zingari, gli arabi, i meridionali o addirittura gli ebrei come lo stesso Lombroso…
Certo, lascia sbalorditi leggere oggi che il detenuto calabrese Giuseppe Villella era un «criminale» perché aveva nel cranio una «fossa occipitale mediana» che dimostrava l’appartenenza a uno stadio evolutivo precedente: «Questa particolarità manca nelle scimmie superiori (antropomorfe) e si vede solo appena accennata nei platirrini, nei macachi, nei cinocefali e ben distinta nelle più infime specie dei lemurini…».
Per non dire di certe generalizzazioni: «In genere, i ladri hanno notevole mobilità della faccia e delle mani, l’occhio piccolo, errabondo, mobilissimo, obliquo di spesso, folto e ravvicinato il sopracciglio, il naso torto o camuso (…). Negli stupratori, quasi sempre l’occhio è scintillante, fisionomia delicata, le labbra e le palpebre tumide, e per lo più sono gracili e qualche volta gibbosi (…); gli omicidi abituali hanno lo sguardo vitreo, freddo, immobile, qualche volta sanguigno e iniettato, il naso spesso aquilino o meglio grifagno…». Ma quello, che già divideva gli scienziati dell’epoca, è il Lombroso più conosciuto.
La raccolta di articoli sul «Corriere» è preziosa perché recupera anche un «altro» Lombroso. Curioso di tutto, appassionato a tutto, deciso a dir la sua su tutto. Dalla vaccinazione contro il colera all’esaurimento del genio, dove cerca di dimostrare che i grandi genii vivono sì più a lungo perché Michelangelo e Petrarca «vissero fino a novant’anni, Hobbes a 92, Tiziano 99…», ma che il meglio lo diedero da giovani.
E accanto a piccoli e ustionanti saggi sulla criminalità della Barbagia o sui suicidi nelle carceri dove denuncia la cella d’isolamento come «il più atroce e insieme il più inutile dei supplizî (…) perché l’uomo, essendo un animale socievole, ha più bisogno della vita sociale che del pane; supplizio inutile, perché, invece di preparare il delinquente ad una nuova vita, lo inasprisce nel male», ecco apparire un lungo pezzo sui miliardari americani, dove spiega che non hanno «quasi mai caratteri del genio» ma «grande equilibrio mentale e spirito di risparmio che va fino all’avarizia». O perfino un intervento su «Le stalattiti e l’arte indiana e moresca» dove afferma che le origini «si possono cercare nell’imitazione dei blocchi stalattitici», giacché un sacco di templi buddisti sono ospitati in grandi e antiche grotte.
Le chicche, però, sono soprattutto tre pezzi. Nel primo illustra estasiato  le invenzioni delle «macchine alleate del pensiero» come la macchina per scrivere, il «contometro» padre della calcolatrice, il «tachiantropometro» costruito per misurare il cranio delle persone… Nel secondo racconta l’improvvisa scoperta della magia: «Ora io che ero così avverso allo spiritismo da non accettare per molti anni, nemmeno, di assistere ad un esperimento, dovetti nel marzo 1891 presenziarne uno in pieno giorno, da solo a solo, coll’Eusapia Paladino, in un albergo di Napoli, in cui vidi alzarsi ad una grande altezza un tavolo e trasferirsi in aria oggetti pesantissimi; e d’allora accettai di occuparmene».
Restò tanto impressionato che a un certo punto chiese alla donna di incontrare sua madre, che gli parlava in dialetto veneto: «Subito dopo vidi (… ) staccarsi dalla tenda una figura alquanto bassa come era quella della mia mamma, velata, che fece il giro completo del tavolo fino a me, sussurrandomi delle parole da molti udite, non da me, sordastro; tanto che io quasi fuor di me dalla emozione la supplicai di ripeterle, ed essa ripeté: “Cesar, fio mio”», Cesare, figlio mio…
Ma come dimenticare gli ambasciatori? «La maggior parte degli uomini che giudica così alla grossa sulle cose umane, vedendo i diplomatici, sempre in cilindro e frack, carichi come un cimitero di croci, gravemente sdraiati in cocchi ricchissimi, accigliati come uomini a cui pesi il pondo di immense responsabilità, tenaci a non sbottonarvisi se non a monosillabi, a parole tronche, a gesti sobrî, non si sognano nemmeno che si tratti spessissimo, invece che di genii latenti, di uomini di una fenomenale leggerezza che dànno più importanza alla ricchezza e ai titoli di nobiltà che non alla più superficiale coltura; né immaginano mai che quei gravi pensieri da cui pare debba dipendere il fato degli umani si risolvano al più in qual cavallo sia per vincere al Derby e quale sarà l’uomo preferito della ballerina X».

La strategia del cibo


Il manifesto della terza via fra carnivori e macrobiotici
La lobby della salute e del fitness impone il modello del digiunatore
Un saggio di Marino Niola, un diario etnologico contro i tanti libri sulla tavola, le ossessioni da privazione e da eccessi alimentari

Francesco Merlo

"La Repubblica", 6 febbraio 2015

MANGIARE è peccato, lo sfizio è vizio, invecchiare è reato e il grasso è una colpa imperdonabile che pesa sulla coscienza più che sulla bilancia. Così ci ha ridotto la lobby planetaria della salute e del fitness che ci ha imposto il modello del digiunatore di Kafka, la cui magrezza «i bimbi guardavano ammirati a bocca aperta». E però il digiunatore «forse non era dimagrito per il digiuno, ma perché non era soddisfatto di sé», scrive Kafka che, infelice come l’Homo Dieteticus esplorato da Marino Niola (il Mulino), era di poco e strambo pasto, e nei Diari ricorda infatti di un cenone di Capodanno «con scorzonera e spinaci accompagnati da un quarto di Xeres».
Certo, se bastasse mangiare male come Kafka per scrivere bene come Kafka, forse varrebbe la pena questa evoluzione (involuzione) in homo dieteticus che ha subito il rimpianto homo sapiens. Altrimenti è meglio ribellarsi, e non al capitale come una volta ma alle diete, all’inferno delle privazioni che è lastricato di buone ossessioni sino a quella diffusissima e micidiale patologia che i medici chiamano ortoressia: la fissazione insana del mangiar sano, del vivere da malati per morire in perfetta forma.
Ecco perché Homo Dieteticus può diventare il Manifesto di chi vuol sottrarsi alla lotta «tra quelli che hanno un disperato bisogno di mangiare e quelli che hanno un disperato bisogno di non mangiare». Leggerlo infatti non è solo un’indigestione di ironia sulla rieducazione del ventre a crusca, a mezze mele, a toccasana vegetali, parafarmaci omeopatici miracolosi e tutto l’alfabeto delle vitamine in un’atmosfera di crisi e decadenza lucreziana da Tristi tropici. Homo dieteticus è anche il libro che smaschera i libri sul cibo, l’apocalisse calorica, l’ideologia del nudo e crudo, del tutto polpa e niente colpa, il messianesimo che propugna il ritorno alla natura con le sceme leggende su «i preistorici che, come gli eschimesi, non soffrivano di carie dentarie» mentre gli hunza himalayani «non solo vivono in media 130-140 anni, ma non conoscono neppure le nostre tanto temute patologie degenerative, il cancro e le malattie del sistema nervoso». Perché? Ma suvvia, «perché non si avvelenano con braci e padelle, fornellini e barbecue, piastre a induzione e forni a ventilazione ….». E dunque da oggi si mangia solo “raw”.
Secondo Cardano, il più famoso medico matematico del Cinquecento, «i mezzi per preparare i cibi sono 15: fuoco, cenere, bagno, acqua, tegame, padella, spiedo, graticola, pestello, filo e costa del coltello, grattugia, prezzemolo, rosmarino e luaro». Il Lombroso lo ritenne pazzo. Alle fine, il massimo esperto italiano di enogastronomia critica, il professor Niola, non ci autorizza a dire con Paolo Villaggio che la dieta è «una boiata pazzesca» solo per rispetto verso il povero corpo che le ha provate e dunque sofferte tutte — l’antropologo infatti deve stare dentro — e poi senza rimpianti le ha lasciate tutte — l’antropologo infatti deve stare fuori. Dunque, seguendo la regola della buona distanza di Lévi-Strauss, Niola si è cibato del junk food degli umiliati e obesi così come quello aveva dormito nelle capanne (le baitemmannageo) per single dei Bororo del Mato Grosso. E poi, visitando tutte le tribù alimentari, si è dato ai cibi naturali e a quelli identitari, ha sconfitto la xenofobia con la xenofagia, ha saziato la fame di patria con la zuppa della nonna e, in una spettrale mensa psichica, ha mangiato la “mela insana” (melanzana) della tradizione, sino agli arancini di Montalbano gustati con sobbalzi dell’anima.
E va bene che, tra vita e girovita, «siamo a dieta da sempre» molto prima che i profeti del benessere ci dispensassero, a pagamento, i loro comandamenti a base di agli, oli e sermoncini, ma quando Niola ha seguito la dieta del gruppo sanguigno si è sentito modernissimo per poi diventare l’avo di se stesso con «niente forno né fornelli per restare sani e belli» e ha reagito al disagio dell’inadeguatezza con un gaberiano «quasi quasi mi faccio uno scampo».
Come Lévi-Strauss si integrò tra gli indiani Nambikwara e Caduveo, Niola si è integrato tra vegetariani, vegani, macrobiotici, lattofobi, crudisti, sushisti, naturisti, no gluten, carnivori, fruttivori, localivori… E oggi che tutto è finito e il libro è qui, allegro e malinconico diario etnologico della paura di vivere, il corpo dell’antropologo non dimentica di avere militato in tutte le ossessioni, tofu contro carne, soya contro uova, quinoa contro grano, crudo contro cotto fino ai vengansexuals che si accoppiano solo tra di loro per paura di essere contaminati dai carnivori, sino alla polpetta di Frankenstein che è il cibo sanissimo di laboratorio, e sino «a sentire sulla pelle» tutti i diminutivi e accrescitivi del peso format dell’anima: «grassottello, rotondetto, in carne, corpulento, paffuto, ciccione, falso magro… ». E ha pure avuto il ventre piatto, poverino, dopo che i nutrizionisti lo avevano esposto alla vergogna del molle.
Ebbene Niola ha capito che continueremo a cambiare dieta non potendo più cambiare il mondo, ma non saremo mai più come prima, felicemente onnivori. Non torneranno i tempi quando avevamo fame e non paura di mangiare e solo per malattia ci si metteva a dieta, vale a dire in penitenza-astinenza dal piacere come capitò a Carlo Emilio Gadda che, costretto dal mal di stomaco, compose la famosa parodia manzoniana: «Addio monti di spaghetti sorgenti dall’acque salsose della pommarola che giungeva quasi ‘ncoppa e con cui m’imbrolodolavo (nei momenti d’oblio) il bavero della giacca e la mia poco rivoluzionaria cravatta! Addio care memorie di spigole, di vongole, di spiedini di majale, di panforte, e di altri vermiciattoli mangiati nelle più nefande e saporose bettole della suburra, facendo finta di discutere lettere e politicaglia tanto per salvare un po’ le apparenze, ma in realtà con l’occhio al piatto che arriva, fumante, trionfante, eccitante, concupiscente e iridescente di smeraldino prezzemolo. Addio!».

domenica 1 febbraio 2015

Arthur Rimbaud


«Illuminazioni» di Nouveau?

Armando Torno

"Domenica - Il Sole 24 ore", 1 febbraio 2015

Rimbaud sosteneva che dopo i greci la poesia si fosse dissolta in un gioco futile di versi e rime. Il vero poeta è chiamato a «farsi veggente con un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi, deve vivere ogni forma d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, assorbe in sé tutti i veleni per non serbarne che le quintessenze». Scrisse tali parole a sedici anni e qualche mese in una lettera a Paul Demeny, il 15 maggio 1871. Ora altre missive, riguardanti l’opera Illuminations, la cui composizione oscillerebbe tra la fine del 1872 e il 1874, entrano in gioco nel recente saggio di Eddie Breuil Du Nouveau chez Rimbaud e fanno da base a rinnovate indagini filologiche, grafologiche e testuali. La conclusione a cui lo studio giunge è sconvolgente: la celebra raccolta di poemi in prosa – pubblicata tra maggio e giugno 1886 sulla rivista «La Vogue», quindi in volume con la prefazione di Verlaine – si deve a Germain Nouveau.
La tesi di Eddie Breuil – svolge ricerche con Philippe Régnier nell’équipe di Lire (Umr 5611) – è discussa e ha già suscitato non poche reazioni; egli, comunque, ricorda che gli editori tendono a presentare Illuminations come un’opera compiuta, ma si tratta di una raccolta non autorizzata che ha riunito manoscritti non firmati di mano di Nouveau e Rimbaud, vergati tra il 1873 e il 1874: in essa nulla è sicuro, né il titolo, né il contenuto, né il «classement» dei testi (p. 15).
Propone un riesame completo dei manoscritti (dove rileva errori di trascrizione che un autore non avrebbe commesso), giacché la storia di quest’opera si basa su continue approssimazioni, su talune bugie di Henry de Bouillane de Lacoste (l’artigiano della versione attuale delle Illuminations), su tradimenti delle indicazioni di Verlaine (sovente, in tale materia, criptato o ignorato). Breuil riesamina le edizioni capillarmente, dalle due de «La Vogue» alla Vanier del 1895, dai nuovi elementi che emergono nel 1898 (Berrichon e Delahaye integrarono dei testi) a quella del 1914 del Mercure de France o all’apparsa nel 1949 («vers un statu quo») o alla Pléiade del 1971. Si chiede inoltre se le Illuminations siano veramente una raccolta di poemi in prosa o se tale sistemazione sia stata «forzata (p. 53). La parte centrale del saggio studia il ruolo di Rimbaud nella copie dell’opera, inoltre rilegge l’epistolario di Germain Nouveau. Le sue lettere sono la «sola testimonianza di prima mano» (p. 95).
È il caso di aggiungere che Nouveau (1852-1920), poeta che dopo la fase bohémien scelse di rinunciare a tutto e di vivere chiedendo la carità, è poco conosciuto in Italia.
Nel 1972 Einaudi pubblicò I baci e altre poesie, ora reperibile soltanto in antiquariato (la sua opera è leggibile in rete, in lingua originale: basta inserire in un motore di ricerca poèmes de germain nouveau en ligne). Eugenio Montale in un elzeviro del 1954 scrisse che Cézanne più volte negò l’elemosina al poeta mendicante, accovacciato sui gradini del Duomo di Aix-en-Provence. Il grande artista, probabilmente, soffriva di invidia per la sua libertà.

Eddie Breuil, Du Nouveau chez Rimbaud , Honoré Champion , Paris,


Piccolo genio infelice

Giuseppe Scaraffia

Un ragazzo timido e fragile dall’aria sognante, che lo fissava dal primo banco coi grandi occhi chiari. La testa sotto i capelli domati dall’acqua, sembrava piccola rispetto al corpo dinoccolato. Questa fu la prima impressione del supplente, il giovane professor Izambard di ventidue anni, sei più di quel primo della classe che arrossiva se veniva interpellato inaspettatamente.
Benché fosse molto diverso dai suoi compagni, Arthur Rimbaud era riuscito a farsi rispettare aiutandoli durante i compiti in classe. E proprio in una di quelle occasioni Izambard assistette all’unico episodio di violenza di quel mite alunno. Quando un compagno gli aveva fatto la spia durante la prova di latino, Rimbaud si era alzato senza scomporsi e aveva tirato il dizionario in testa al suo accusatore, prima di sedersi di nuovo, rassegnato.
Il professore non sapeva ancora che dietro la timidezza di Arthur e il suo terrore di sporcare i modestissimi abiti c’era la madre. Abbandonata dal marito, atterrita all’idea che il figlio seguisse l’esempio dello zio che si era dato al vagabondaggio, madame Rimbaud era severissima con il figlio, malgrado tutti i suoi successi scolastici.
Quando Izambard, affascinato dalla sua non comune intelligenza e dalla sua illimitata capacità di apprendimento, cominciò a trattarlo alla pari, Arthur si aprì e iniziò a confidargli i suoi sogni e le sue letture. Ma soprattutto osò fare vedere a quello che gli sembrava una sorta di padre i suoi straordinari versi. Per quell’insegnante, isolato dalla sordità e dalla meschinità della provincia, quella strana amicizia era un conforto insperato.
Qualche anno prima Rimbaud aveva avuto una crisi mistica. Stravedeva per la religione. Un giorno, in chiesa, quando gli altri allievi, approfittando dell’assenza del sorvegliante, avevano cominciato a schizzarsi con l’acqua dell’acquasantiera, il dodicenne, furibondo, si era buttato sui sacrileghi, incurante della superiorità numerica. Arthur era fiero di essere stato soprannominato «lo sporco bigotto» dai compagni stupiti e irritati dalla sua reazione.
Ben presto lo stesso slancio con cui aveva creduto si era rivoltato contro la divinità. «Io credo, credo in te, divina madre! / Afrodite marina! – Oh la strada è amara / da quando l’altro dio ci aggioga alla sua croce. / Carne, marmo, fiore, Venere è in te che credo!». Era così iniziato un lavorio intenso, tutto interiore, di demolizione della morale vigente.
«Che fatica!», si lamentava con un amico, stupito dalla strana maturità di quel coetaneo.
Malgrado l’avesse intuita, la durezza di Madame Rimbaud fu una sorpresa per Izambard che aveva cominciato a prestare libri all’adolescente. «Non potrei approvare un libro come quello che gli avete dato giorni fa, I miserabili... sarebbe certamente pericoloso», scrisse la donna al professore del figlio. Nel suo terrore che Arthur diventasse un “miserabile”, non si era accorta che il libro sotto accusa era invece Notre-Dame de Paris.
Quell’incidente raddoppiò l’affetto di Izambard per lo sfortunato ragazzo. Da allora Arthur andò ogni pomeriggio a casa sua per leggere e discutere di poesia. Poi il lento ritmo della vita di Rimbaud era stato interrotto prima dalla guerra franco-prussiana e dalla Comune di Parigi. Era iniziato il periodo delle fughe. Le prime erano solo inconsapevoli prove generali, poi sarebbe arrivato il distacco, anche se il legame con la famiglia non sarebbe mai stato reciso.
L’incontro con i poeti parigini e gli amori con Verlaine, di dieci anni più anziano, accentuarono la vertiginosa precocità poetica di un genio destinato a restare solitario. Nei Poeti maledetti Verlaine evoca quello che ormai era diventato un uomo dall’aria atletica, con «occhi di un azzurro pallido inquietante» nell’ovale «da angelo in esilio». Quando lo scrisse anche la sua vita era stata travolta da quella meteora, ma insisteva a dire: «Abbiamo avuto la gioia di conoscere Arthur Rimbaud».

La memoria chimica di Levi


L’elenco inedito dei deportati del primo convoglio per Auschwitz e le analisi dello Zyklon B, il veleno usato nelle camere a gas

Domenico Scarpa

"Il Sole 24 ore - Domenica", 25 gennaio 2015

Settantasei su novantacinque significa l’ottanta per cento: un elenco dattiloscritto di settantasei nomi, ciascuno accompagnato da una lettera dell’alfabeto a indicarne il destino. Era il 3 maggio 1971 quando Primo Levi consegnò quel foglio – completo di conteggi e di legenda esplicativa – al pubblico ministero Dietrich Hölzner del tribunale di Berlino Ovest, giunto a Torino per raccogliere la sua testimonianza. Si chiudeva la fase istruttoria del processo contro l’ex colonnello delle SS Friedrich Bosshammer, collaboratore diretto di Eichmann, accusato della deportazione di 3.500 ebrei italiani. Tra i luoghi di partenza di quei deportati c’era il campo di raccolta di Fossoli-Carpi: il primo convoglio prese la via di Auschwitz il 22 febbraio 1944, viaggiando cinque giorni e quattro notti. I dodici vagoni contenevano 650 persone, tra cui l’allora ventiquattrenne Levi; il più giovane, Leo Mariani, aveva due mesi, la più anziana, Anna Jona, ottantotto anni. 
La sera del 26 febbraio, all’arrivo, meno di un quinto dei deportati furono selezionati per il lavoro forzato in Lager: novantacinque uomini più ventinove donne. Tutti gli altri furono condotti alle camere a gas.
A un quarto di secolo dai fatti, Primo Levi riuscì dunque a ricostruire l’identità e la sorte di settantasei uomini sui novantacinque che insieme con lui entrarono vivi in Auschwitz. «La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace», avrebbe scritto nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati. E quell’ottanta per cento fu realmente un risultato straordinario, una vittoria in una prolungata battaglia contro l’oblio, a favore dell’esattezza dei fatti. Eppure, sarebbe sbagliato considerare un semplice exploit di mnemotecnica il documento inedito riprodotto in questa pagina.
Le cronache apparse nel maggio ’71 sui quotidiani torinesi riportano che Hölzner ricevette in dono da Levi una copia della versione tedesca di Se questo è un uomo, e che la allegò agli atti del processo Bosshammer. Fu un gesto giuridicamente pertinente; quel libro non era un semplice referto: era un’indagine sulla struttura e l’antropologia del Lager, radicata nel terreno dei fatti: al neutro orrore dei numeri davano senso i nomi delle persone, i loro comportamenti, i loro destini. Proprio come in Se questo è un uomo, sul foglio consegnato a Hölzner Levi restituiva il nome a 76 persone già declassate a numeri di matricola.
Il libro pubblicato da Einaudi che oggi raccoglie l’elenco del 1971 s’intitola Così fu Auschwitz. Gli autori in copertina sono due: a Levi si affianca Leonardo De Benedetti, il medico torinese nato nel 1898 che fu con lui durante il ritorno narrato nella Tregua: l’amico o fratello maggiore, l’«uomo buono», la persona dotata di «coraggio silenzioso» con cui Levi scrisse a Katowice, già nella primavera 1945, un rapporto sulle condizioni igienico-sanitarie di Auschwitz che rappresenta la prima testimonianza di carattere scientifico sui Lager resa da ex deportati italiani. Nei decenni successivi, Leonardo e Primo non avrebbero smesso di testimoniare: e più d’una volta, come in occasione del processo Bosshammer, l’uno accanto all’altro.
Così fu Auschwitz è una raccolta di scritti, in gran parte inediti o dispersi, che da oggi si colloca accanto a I sommersi e i salvati: non come un semplice retroscena di quel libro definitivo, ma come un’opera nuova, anzi innovativa e autonoma. Come un libro che porta alla piena evidenza una lezione di metodo: il metodo di Primo Levi, rispetto al quale persino parole come «testimonianza» e «memoria» finiscono per apparire insufficienti: o meglio, monche, perché non rendono giustizia ai modi in cui Levi seppe indagare per oltre quarant’anni i fatti di Auschwitz.
Un esempio concreto: soltanto oggi apprendiamo, grazie a due tra i documenti più remoti (risalgono al 1946-47), che Levi volle materialmente analizzare lo Zyklon B, il gas dello sterminio: «ricerche mie personali» afferma nella prima testimonianza, per poi specificare nella seconda, senza possibilità di equivoco, che «il veleno usato nelle camere a gas di Auschwitz, e da me esaminato», era una sostanza composta «da acido prussico, addizionato di sostanze irritanti e lacrimogene allo scopo di rendere più sensibile la presenza in caso di fughe o rotture degli imballaggi in cui veniva contenuta». Non dovette essere troppo difficile, nell’immediato dopoguerra e per un chimico reduce da Auschwitz, procurarsi una confezione di quella «preparazione chimica in forma di polvere grossolana, di colore grigio-azzurro, contenuta in scatole di latta». Più difficile per noi misurare la forza d’animo necessaria a eseguire l’analisi e a non farne parola, eccetto che in referti destinati alle aule dei tribunali, che solo oggi riemergono.
L’episodio dello Zyklon B rivela che il Levi analista di Auschwitz non fu solo un testimone, ma assunse il ruolo del ricercatore. La differenza è essenziale. Levi ha ricordato più volte che, subito dopo il ritorno a Torino, avvenuto il 19 ottobre 1945, cominciò a raccontare la propria storia spinto da una febbre di necessità: la imponeva a chiunque, anche durante un breve tragitto in tram. Tutto questo è vero ed è all’origine di Se questo è un uomo, ma è solo metà del vero. Dopo la liberazione, Levi non si limitò a consegnare una vicenda a chi fosse disposto ad ascoltarla: impiegò sistematicamente il suo tempo a raccogliere notizie sui compagni di deportazione, dedicandosi a salvare nomi e destini. 
Così si spiega, molto prima di quel foglio datato 3 maggio 1971 per il processo Bosshammer, il contenuto della prima testimonianza che rese dopo il ritorno. Ritrovata qualche mese fa nell’Archivio Ebraico Terracini di Torino, la «Relazione del dott. Primo Levi n. di matricola 174517 reduce da Monowitz-Buna» consiste in un elenco di trenta persone coinvolte nella micidiale marcia di evacuazione da Auschwitz decisa dai tedeschi il 17 gennaio 1945. 
Quando Levi lo scrisse, tra metà novembre e metà dicembre del ’45, ancora non si conosceva l’esito disastroso della marcia, cui sopravvisse appena un quinto dei prigionieri. Ma la «Relazione» appare sbalorditiva perché è il frutto di un lavoro di ricerca dei fatti, e di deduzione logica a partire dai fatti stessi, che si appoggia a sua volta sull’esame critico di informazioni raccolte da Levi in momenti e in ambienti diversi: ad Auschwitz dopo la liberazione del Lager, durante l’avventura del ritorno attraverso l’Europa, nella città di Torino poco dopo il rientro, da precoci scambi di lettere con ex compagni di deportazione come lui sopravvissuti.
Tutto questo si trova nella «Relazione» del ’45. Più un pudico calore umano che circola in ogni nome, in ogni informazione incolonnata su quei fogli, battuti a macchina con lo scrupolo di ordine connaturato in Levi. Il segno del suo stile si coglie in un colpo di barra spaziatrice: quello che separa il primo nome dell’elenco, «ABENAIM toscano» – un cognome, una provenienza: per chi andasse in cerca di lui – dalle parole «sapeva fare l’orologiaio». Non: orologiaio, oppure: era orologiaio, ma: sapeva fare. Un ricordo che è già un ritratto stagliato su uno spezzone di rigo: una qualità e un fatto umano, un’apposizione concreta, un segno particolare su un documento d’identità morale, un mestiere praticato bene per buona volontà. 
Qui il Primo Levi testimone diventa, fin dal principio, il Primo Levi che sa fare mestieri più complessi: che non si limita ad accumulare dati ma li interroga, li incrocia, ne trae un aumento di empatia oltre che di conoscenza. È qui che Levi diventa, fin dal principio, il Levi che conosciamo: un uomo animato da raro interesse per ciò che gli uomini sono e sanno fare, un testimone e uno scrittore che «sapeva fare» anche lo storico.


Primo Levi
«Se io fossi Dio» ad Auschwitz

Jean-Claude Milner analizza le tredici righe di «Se questo è un uomo» sulla preghiera di Kuhn, l’ebreo devoto: 
e le cartesiane ragioni per cui il chimico rigettò quella preghiera

Sergio Luzzatto

Tutti i lettori dell’opera di Primo Levi sanno quanto lo scrittore torinese fosse capace di cogliere la potenza del dettaglio. Quanto fosse abile nel riconoscere e nel soppesare anche la più piccola dose di umana o disumana materia dissolta nella massa molare del mondo. Era questa un’arte che il giovane chimico aveva applicato già negli inferi di Auschwitz, e di cui aveva fatto immediato tesoro di ritorno fra i vivi. L’esperienza restituita in Se questo è un uomo va considerata anche un «esperimento mentale» (come lo ha definito Massimo Bucciantini) volto all’identificazione e alla pesatura degli ingredienti costitutivi del campo di sterminio. La narrazione di Se questo è un uomo potrebbe essere letta, al limite, come niente più che un’implacata e implacabile collezione di dettagli antropologici.
Così, giunge opportuna l’inclusione di Levi nel libro che un linguista e filosofo francese, Jean-Claude Milner, ha titolato La puissance du détail. Un intero capitolo del volume è dedicato a un singolo passo di Se questo è un uomo: la mezza pagina di chiusura del capitolo dove si racconta di una «selezione» ad Auschwitz-Monowitz. Le tredici righe di «Ottobre 1944» in cui Levi introduce e congeda – fra gli scampati della sua baracca alla selezione per le camere a gas – la figura di Kuhn.
«A poco a poco prevale il silenzio, e allora, dalla mia cuccetta che è al terzo piano, si vede e si sente che il vecchio Kuhn prega, ad alta voce, col berretto in testa e dondolando il busto con violenza. Kuhn ringrazia Dio perché non è stato scelto. / Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha vent’anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più? / Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn».
Secondo Milner queste tredici righe contengono, nella forma breve tipica di Se questo è un uomo, l’alfa e l’omega del giudizio di Primo Levi sulla metafisica dopo Auschwitz. E li contengono a partire da una riflessione che risulta modellata sulle Meditazioni di Cartesio: una meditazione di fine giornata, nel silenzio propizio alla contemplazione di Dio, con il carattere di un ragionamento sillogistico, e con l’assunzione di responsabilità consistente nel ragionare di cose ultime dicendo «io». Senonché l’esito della meditazione di Levi è un Cogito rovesciato. Ha la forza (forza folle, tiene a precisare Milner) di uno sputo metafisico.
Occorrerà – prima o poi – rileggere tutto Primo Levi alla luce dei suoi pronomi personali: cercare un qualche sistema periodico nell’uso leviano dell’«io», del «tu», del «noi», del «voi»... E chi si metterà all’opera dovrà fare i conti, giocoforza, con la mezza pagina sul vecchio Kuhn e con quel periodo ipotetico, «Se io fossi Dio»: con l’impressionante occorrenza di un io che, da Dio consapevole della Soluzione finale, sputa a terra la preghiera dell’ebreo salvato. Per il momento, bisogna contentarsi di seguire Jean-Claude Milner, la sua lettura di tredici righe fra le più impegnative che Levi abbia mai scritto.
Il Dio verso il quale Kuhn eleva dondolante la sua preghiera, per averlo salvato dalla selezione e magari perché torni a salvarlo una prossima volta, corrisponde al prototipo stesso del genio maligno di Cartesio. Il campo di sterminio esclude infatti, ipso facto, un cartesiano «dubbio radicale». Al di qua di ogni possibile dubbio filosofico, Auschwitz esiste. E siccome Auschwitz esiste, il Dio d’Israele non può esistere altro che come grande ingannatore. Kuhn è pazzo a pregare un Dio simile. E Kuhn è cieco a non vedere Beppo il greco. Il quale, nell’interpretazione di Milner, non corrisponde soltanto al prototipo del «sommerso»: l’uomo in dissolvimento, il «mussulmano» che attende inerte di andare in gas. Beppo il greco vale almeno altrettanto da incarnazione stoica, ventenne figura della saggezza.
Nessuno più lontano di Beppo dagli altri greci deportati ad Auschwitz che l’autore di Se questo è un uomo ha evocato, in un capitolo precedente, con toni da epopea: «Ammirevoli e terribili ebrei Saloniki tenaci, ladri, saggi, feroci e solidali, così determinati a vivere e così spietati avversari nella lotta per la vita». Nella sua immobilità di morituro, Beppo ha la capacità di sopportazione e di astensione di Epitteto. E oltreché una figura stoica, Milner riconosce in lui una figura platonica. Coricato, muto, lo sguardo fisso, Beppo è il Socrate del Fedone. Ma con una differenza decisiva. Ad Atene, la morte di Socrate realizza il compimento della filosofia. Ad Auschwitz, la morte di Beppo nulla garantisce in materia di immortalità dell’anima. «Beppo figura la saggezza amputata del logos».
L’animata preghiera di Kuhn rimanda a una fede ormai possibile unicamente come fede cieca e ipocrita, farisaica: mentre la rassegnata inerzia di Beppo, la sua saggezza ormai priva di pensiero e di linguaggio, conserva almeno la dignità della ragione classica. E anche perciò Levi scrive Se questo è un uomo, non Se questo è un ebreo: perché «lo sterminio colpisce l’umanità attraverso gli ebrei; ma il punto d’umanità che lo sterminio raggiunge attraverso gli ebrei e negli ebrei prende immediatamente il nome di un greco». Insomma: il poco o nulla che resta della ragione di Atene rivela a Levi, nella baracca di Monowitz, tutta la follia di Gerusalemme. Kuhn è pazzo non perché prega, ma perché prega da ebreo. Beppo è saggio non perché attende la morte, ma perché la attende da greco.
Altrettante impressioni e conclusioni – queste di Jean-Claude Milner – che meriteranno di essere attentamente valutate, ed eventualmente criticate da lettori e cultori di Primo Levi. Qui resta da sottolineare l’interesse di una lettura “cartesiana” dell’episodio di Kuhn alla luce di un passo che Milner curiosamente rinuncia a citare, mentre dall’edizione del 1958 se ne sta lì, bene in vista se non ben chiaro, nella primissima pagina di testo di Se questo è un uomo: la descrizione che Levi ha proposto del suo mondo mentale di prima della deportazione, un mondo «popolato da civili fantasmi cartesiani».
Nel 1976, Levi avrebbe spiegato come i suoi fantasmi cartesiani d’ante-Auschwitz andassero intesi quali «sogni e propositi forse mal realizzabili, ma non confusi, bensì razionali e logici». È una definizione che perfettamente si attaglia – in fondo – anche al suo Cogito rovesciato di Monowitz. Al vertiginoso suo periodo ipotetico, «Se io fossi Dio», e al salivare suo rigetto della preghiera di Kuhn.

Jean-Claude Milner, La puissance du détail. Phrases célèbres et fragments en philosophie, Grasset, Parigi, pagg. 276, € 19,00