lunedì 30 ottobre 2017

Dai Longobardi a Murat, le sliding doors d’Italia


Ben prima dei Savoia furono diversi i tentativi di unificare la Penisola, ma le sorti delle armi furono avverse. Le cocenti sconfitte militari del Regno a partire dal 1866, poi, alimentarono il falso mito dell’italiano pessimo soldato

Andrea Santangelo, "Il Fatto", 30 novembre 2017

Gli italiani vengono spesso accusati di avere scarso senso civico, poco amor di Patria e di essere pessimi soldati. Una delle spiegazioni che va per la maggiore è quella della nazione unita da troppo poco tempo. E controvoglia. L’unione fu imposta dalle élite e mai realmente accettata da ampi strati della popolazione. Per questo non ci fidiamo dello Stato e non siamo disposti a sacrificarci per esso, in primis militarmente. In realtà, ben prima dei Savoia ci furono tentativi di unificare politicamente la penisola, solo che la sorte delle armi fu avversa. Quelle battaglie sono diventate dei veri e propri turning point storico militari (o delle sliding doors se preferite la metafora cinematografica).
Dopo l’esperienza unificatrice dell’Impero romano, i primi ad avere un’idea di dominio dell’intera penisola furono quasi certamente i Longobardi. Il Papato glielo impedì, chiamando in Italia i Franchi di Carlo Magno che sconfissero i Longobardi, nel 773, nella battaglia delle Chiuse di San Michele. Il re dei Franchi divise saggiamente in due il suo esercito ed entrò in Italia da differenti percorsi (Moncenisio e Gran San Bernardo), mettendo in difficoltà il sistema difensivo longobardo, imperniato sulle Chiuse della Val di Susa. Dopo un rapido scontro, i Longobardi si ritirarono nella fortificata Pavia, dove poi si arresero. Se re Desiderio avesse sconfitto Carlo, la storia d’Italia avrebbe preso tutta un’altra piega e il Papato sarebbe divenuto un docile strumento al servizio della corona longobarda. Non andò così e lo Stato della Chiesa fu per tutto il Medioevo il principale ostacolo alle mire unionistiche italiane, chiamando spesso a suo supporto potenze estere. Anche diversi pontefici ebbero ambiziosi progetti di espansione, ma senza mai realmente possedere le forze militari per metterli in pratica.
Occorre attendere fino al Rinascimento per avere nuove possibilità di unificazione, seppur quasi virtuali e utopicamente effimere. Nel 1494, con la calata in Italia del re francese Carlo VIII, i litigiosi staterelli italiani misero da parte le loro rivalità fondendosi in una Lega militare. Il 6 luglio 1495, a Fornovo nel parmense, francesi e italiani si scontrarono lungo il Taro. La pioggia rese difficili le operazioni della Lega italiana, alzando il livello del fiume e rendendo pesante il terreno; il piano troppo complesso di Francesco II Gonzaga si rivelò un fallimento e Carlo VIII riuscì a ritornare in Francia. Agli italiani sembrò di aver vinto, in realtà le loro divisioni politiche e militari (ma soprattutto le loro ricchezze) attirarono l’attenzione di francesi e spagnoli che trasformarono l’Italia nel loro campo di battaglia. Se la Lega avesse distrutto l’esercito francese, forse avrebbe potuto dare agio a qualche stato italiano (Venezia? Una lega di più stati?) di unificare prima o poi il Paese.
Cinque anni dopo il turning point di Fornovo, il figlio di papa Alessandro VI, Cesare Borgia, costituì un suo ducato in centro Italia grazie ai soldi del padre e all’aiuto militare del re francese Luigi XII. In breve tempo si distaccò dai suoi due ingombranti sponsor e cominciò a guerreggiare di testa sua, attaccando chi gli pareva emettendo insieme anche eserciti assai innovativi tatticamente e in cui l’elemento italiano, e in particolar modo quello romagnolo, era predominante. L’improvvisa scomparsa di Alessandro VI mise in grave difficoltà economica “il Valentino”, che non riuscì più a mantenere sotto le armi tutti i soldati di cui aveva bisogno. E che questi piani contemplassero la gran parte d’Italia ce lo dice un cronista coevo del Borgia, il cesenate Giuliano Fantaguzzi: “volea fare a Cesena: palazo, canale, rota, studio, piaza in forteza, agrandare Cesena, fontana in piaza, duchessa, corte a Cesena, fare el porto Cesenatico et finalmente farse re de Toschana et poi imperator de Roma con castello santo Angello”. Un’Italia unita sotto Cesare Borgia avrebbe dato un bello scossone alla geopolitica del tempo, ma la morte di Rodrigo Borgia è stata la sliding door che l’ha evitata.
Il dominio spagnolo su gran parte delle penisola sedò ogni ulteriore tentativo di italianità. Tralasciando la folcloristica Disfida di Barletta, bisognò attendere le guerre napoleoniche per avere un nuovo paladino della nazione e una battaglia turning point. Gioacchino Murat re di Napoli e cognato di Napoleone, un progetto di unificazione raffazzonato e vago ma con tanto di proclama agli Italiani letto pubblicamente a Rimini. Si combatté una sanguinosa battaglia a Tolentino, che vide però la netta vittoria degli austriaci. Un’altra sliding door chiusa.
Fu solo con il Risorgimento di Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini che la porta fu finalmente tenuta aperta e si ebbe l’Italia unita.
Le prime cocenti sconfitte militari del Regno d’Italia furono il motivo per cui il nostro Paese perse per sempre la possibilità di essere una potenza militare rispettata e temuta e si dovette poi accontentare di ruoli subalterni in politica estera. La battaglia di Custoza del 1866 e quella navale di Lissa, pur combattute in netta superiorità numerica, sancirono l’incapacità italiana di fare la guerra. Il disastro coloniale di Adua, del 1896, ne fu solo l’inevitabile epilogo. Da quel momento, il cosiddetto “mondo civilizzato” ci ha sempre guardato quantomeno con malcelato disprezzo. Ed è nata la storiella che gli italiani non sanno fare la guerra perché troppo occupati a far l’amore, mangiare pizza e pasta, giocare a calcio e fare casino.

giovedì 19 ottobre 2017

I Longobardi sono ancora tra noi: l’Italia d’oggi figlia anche dei barbari


A Pavia una grande mostra riscopre il popolo che ha dato la sua impronta al Medioevo e ha cambiato per sempre la storia del Paese, nel bene e nel male


Maurizio Assalto, "La Stampa", 18 ottobre 2017

Anche uno dei dolci italiani più popolari, la colomba pasquale, pare sia da ricondursi all’arrivo dei Longobardi. La leggenda - tarda rielaborazione di un episodio tramandato nell’VIII secolo da Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum - narra che nel 572, dopo tre anni di assedio, Alboino si accingeva a entrare in Pavia, l’antica Ticinum, fieramente intenzionato a passare a filo di spada la popolazione, quando il suo cavallo si abbatté a terra e non volle più saperne di rialzarsi. Era la vigilia di Pasqua, e un fornaio donò all’invasore il dolce ancora caldo, in cambio della promessa a desistere dall’insano proposito. Allora il destriero si rialzò e Alboino poté fare il suo ingresso trionfale nella città che sarebbe diventata la capitale del nuovo regno barbarico.
Ma non è soltanto nella fantasiosa tradizione dolciaria che queste genti germaniche, originarie del basso corso dell’Elba, hanno lasciato la loro impronta. E neppure nella realtà tuttora viva della toponomastica e di molti nomi di persona (come quelli che terminano in -berto, da pert, illustre). La loro irruzione nella Penisola segnò una discontinuità, una rottura totale dopo la quale niente sarebbe più stato come prima. E «Longobardi. Un popolo che cambia la storia» è il titolo della mostra, curata da Gian Pietro Brogliolo e Federico Marazzi con catalogo Skira, aperta fino al 3 dicembre al Castello Visconteo di Pavia - dopo di che, integrata di ulteriore documentazione relativa ai ducati del Sud Italia, si trasferirà al Mann di Napoli (21 dicembre-26 marzo) e quindi da aprile a luglio all’Ermitage di San Pietroburgo.
Fine dell’unità politica
Oltre 300 i pezzi esposti, tra i quali 58 corredi funerari completi, per documentare, con l’ausilio di video e installazioni multimediali, una vicenda che ha diverse assonanze con il presente e lascia aperti gli interrogativi. I Longobardi sono i distruttori dell’unità politica dell’Italia, perduta nel 476 con il crollo dell’Impero romano d’Occidente e parzialmente recuperata sotto il re goto Teodorico, o coloro che cercarono di ricostituirla su nuove basi? Soltanto eversori del vecchio, o anche seminatori del nuovo, un nuovo che giunge fino a noi?
Gli «uomini dalla “lunga barba”» (langbart) erano penetrati in Italia nel 568, provenienti dalla Pannonia (attuale Ungheria) dove si erano stabiliti nel corso del V secolo. Già impiegati come mercenari nella lunga guerra contro i Goti - una sorta di Vietnam durato 18 anni, dal 535 al 553, in cui l’Impero d’Oriente si era impelagato nel tentativo di riprendere il controllo dell’Italia -, nel caos seguito alla fine del conflitto, con la Penisola spappolata come l’Iraq dopo le guerre del Golfo, avevano capito che la situazione era propizia. Non è chiaro se intendessero fermarsi o semplicemente transitare per spingersi più a Ovest (tracce delle loro presenza sono affiorate a Arles, Avignone e in diverse altre località della Provenza). Di fatto - grazie al non interventismo degli imperiali, che li lasciarono fare in funzione anti-Franchi - poterono scorrazzare per una decina d’anni in tutta l’Italia settentrionale, per poi spingersi al Centro e al Sud, dando vita a quei ducati di Benevento, Salerno e Capua sopravvissuti fino a oltre l’anno Mille, dopo che Carlo Magno nel 774 aveva posto fine al loro regno.
I Longobardi cambiarono la storia perché portarono i germi di una diversa cultura che fondendosi con quella latina e poi travasandosi in quella dei Franchi avrebbe dato luogo alla «Rinascenza carolingia» e al Medioevo così come lo conosciamo. E cambiarono la storia d’Italia perché il loro avvento comportò una serie di trasformazioni irreversibili. Dalle forme insediative e produttive (con la nascita di nuovi villaggi, i latifondi suddivisi tra gli arimanni - gli uomini liberi che portavano le armi -, la fine dei grandi traffici commerciali a vantaggio delle piccole produzioni locali) agli assetti sociali (con la decapitazione integrale della classe dirigente romana che i Goti, durante il loro predominio formalmente esercitato per conto dell’Impero d’Oriente, avevano coinvolto nella gestione del potere).
Una consolidata tradizione di studi anglosassoni ha teso a sminuire la natura barbarica e la stessa identità etnica dei Longobardi, intendendoli piuttosto come migranti pacificamente integrati, e a negare la contrapposizione delle culture. I dati archeologici e paleogenetici emersi dagli scavi degli ultimi anni parlano invece di una popolazione di conquistatori dalla marcata identità collettiva, che si mantenne pressoché inalterata per un paio di secoli.
Un regime di apartheid
Sono davvero Longobardi, e non romani abbigliati da Longobardi, quei guerrieri consegnati all’aldilà con tutte le armi e sovente con i loro cavalli e i cani, come nella sepoltura presentata in mostra, da Povegliano Veronese. Così come sono longobardi i reperti lapidei della Langobardia minor (dai monasteri di Montecassino, San Vincenzo al Volturno e Santa Sofia di Benevento) che attestano l’abbandono dell’arianesimo per aderire nel VII secolo alla fede cattolica.
Anche se smisero presto di parlare la loro lingua, adottando un latino contaminato, i nuovi padroni non si confusero però con il resto della popolazione. Numericamente minoritari - si stima che non siano mai stati più di trecentomila, contro sette-otto milioni di italiani - vivevano in una sorta di apartheid, soggetti alle proprie leggi consuetudinarie (della prima e più celebre raccolta, l’Editto di Rotari, è esposto il manoscritto redatto in latino nel 643 nel monastero di Bobbio), mentre per le relazioni tra italiani veniva applicato il codice teodosiano. Ma è nel quadro geopolitico che i Longobardi hanno lasciato il segno più duraturo. Con i loro ducati sparsi nella Penisola, formalmente soggetti all’autorità centrale ma di fatto largamente autonomi, anticiparono quelle specificità locali che hanno caratterizzato i secoli successivi. Una frammentazione politica e culturale problematicamente ricucita soltanto con il Risorgimento, ma che periodicamente riaffiora.

domenica 15 ottobre 2017

Gli ideali di Michelangelo



L’artista andò a Roma per la sua fama, ma anche per la vorticosa politica di quei decenni in cui il volto di Firenze e della città eterna cambiò sotto i suoi occhi

Massimo Firpo, "Il Sole 24 ore - Domenica", 15 ottobre 2017

Fiorentino tutto d’un pezzo, come risulta anche dalla lingua in cui scriveva, grande ammiratore di Dante Alighieri, allevato alle arti sotto l’egida di Lorenzo il Magnifico, Michelangelo Buonarroti trascorse larga parte della sua vita a Roma, dove lasciò i suoi massimi capolavori: la Pietà scolpita per il cardinale francese Jean de Bilhères alla fine del Quattrocento, firmata «MICHELANGELVS BONAROTVS FLORENTINVS»; i grandiosi affreschi della volta nella cappella Sistina commissionatigli da Giulio II tra il 1508 e il 1512; il Mosè e i Prigioni per la tomba di quest’ultimo, i cui lavori lo tormentarono per anni; e poi sotto Paolo III il Giudizio universale dipinto ancora nella Sistina tra il 1536 e il ’41, la piazza del Campidoglio, palazzo Farnese, gli affreschi della cappella Paolina, la Pietà Bandini e la Pietà Rondanini, la basilica di San Pietro con il disegno della sua immensa cupola; fino ai progetti per la chiesa di San Giovanni dei fiorentini, per Porta Pia, per la risistemazione di Santa Maria degli angeli sotto Pio IV, prima di morire novantenne nel 1564.
Non v’è dubbio che a condurlo a Roma fu la sua precocissima fama artistica, ma fu anche la vorticosa politica di quei decenni, in cui Firenze e Roma furono al centro della storia europea, tra le «guerre horrende» d’Italia inaugurate dalla calata di Carlo VIII e l’esplosione della Riforma protestante, tra gli splendori del Rinascimento e le origini della Controriforma. Le convulse vicende di quei decenni mutarono profondamente il volto delle due città sotto gli occhi di Michelangelo. Firenze passò dal crollo del regime mediceo all’effimera repubblica savonaroliana, dal gonfalonierato a vita di Pier Soderini alla restaurazione medicea del 1512, quando a governare la città furono Leone X e Clemente VII, al secolo Giovanni e Giulio de’ Medici. E poi ancora la nuova stagione repubblicana seguita al sacco di Roma tra il ’27 e il ’30, il definitivo ritorno dei Medici con Alessandro, investito da Carlo V del titolo ducale, il suo assassinio nel 1537 e la precaria successione di Cosimo, capace tuttavia di estinguere in breve tempo le residue resistenze antimedicee, di costruire un potere assoluto fondato su un’efficiente macchina amministrativa, di conquistare Siena e di ottenere infine da papa Pio V la corona granducale di Toscana. Non meno convulse furono le vicende di Roma, dove la secolarizzazione del potere papale, la corruzione di una curia simoniaca, le sconcezze di papa Alessandro VI, la bellicosa politica di Giulio II, le dilapidazioni festaiole di Leone X furono bruscamente interrotte dalla calata dei lanzi nella primavera del ’27, con un seguito inenarrabile di orrori, violenze, stupri, saccheggi, in un provocatorio inneggiare a Lutero il cui nome fu inciso dalla punta di una spada sugli affreschi di Raffaello nella stanza della Segnatura. Solo vent’anni dopo, tra continue incertezze e aspri scontri interni si sarebbe infine imboccata la strada del concilio di Trento, apertosi nel 1547 e conclusosi nel ’63, l’anno prima della morte di Michelangelo, che in tutti questi eventi fu coinvolto in prima persona.
Di qui l’importanza del tema affrontato in questo denso saggio di Giorgio Spini, che a oltre cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione resta ancora fondamentale per capire gli orientamenti e le passioni politiche che animavano Michelangelo. La storia dei Buonarroti fra Tre e Cinquecento delineata in queste pagine aiuta a comprendere il senso di appartenenza al suo casato e alla sua città che animò quel sublime «scalpellino», che amava definirsi «cittadino fiorentino, nobile e figliolo d’omo dabbene» e che tale si sentiva intus et in cute. Ad accentuare l’identità e orgoglio che egli ne traeva contribuiva la stessa decadenza, talora ai limiti della povertà, di una famiglia non più in grado come in passato di accedere alle risorse e al prestigio garantito dall’esercizio delle cariche pubbliche, e quindi dalla capacità di muoversi con sagacia tra regimi sempre instabili e frequenti rivolgimenti.
Quelle forti passioni politiche, del resto, hanno lasciato tracce profonde sulla produzione artistica di Michelangelo. Basti pensare al David posto nel 1504 (in età soderiniana) a guardia dell’antico palazzo comunale, così diverso dalle precedenti raffigurazioni fiorentine di Donatello e Verrocchio, con il giovinetto trionfante sul capo di Golia ai suoi piedi: un gigante che non ha ancora scagliato la sua pietra, ma si accinge a farlo contro chiunque si azzardi a violare la libertà repubblicana. O al tirannicida Bruto commissionato a Michelangelo da Donato Giannotti e destinato al cardinale antimediceo Niccolò Ridolfi. Ancor più significativo è il fatto che, dopo aver lavorato per i papi medicei alle tombe della basilica di San Lorenzo, alla notizia della nuova restaurazione repubblicana dopo il sacco di Roma Michelangelo accorresse nella sua Firenze per dedicarsi anima e corpo alla progettazione delle difese militari. Fu solo la sua ineguagliabile fama artistica a indurre Clemente VII a perdonarlo, per affidargli i lavori della Biblioteca Mediceo-Laurenziana. Ma dopo il ’34, quando ormai Alessandro de’ Medici era stato proclamato duca di Firenze, egli non mise più piede nella sua amatissima patria per lavorare invece per papa Farnese, nemico giurato di Cosimo de’ Medici e pronto ad accogliere a Roma ogni sorta di fuoriusciti fiorentini, ripagato di ugual moneta dal giovane principe mediceo, che non perdeva occasione di sfogare la sua collera contro «quel traditore del papa».
Inutilmente Cosimo sollecitò Michelangelo a lavorare per lui, desideroso di appropriarsi dei suoi talenti e della sua fama, nel quadro di una politica di conciliazione e riassorbimento della tradizione repubblicana. E quando morì ne fece trafugare il corpo a Roma e ne celebrò le solenni esequie in San Lorenzo, per affidare poi il compito di costruirne il monumento funebre in Santa Croce a Giorgio Vasari. Quest’ultimo nelle sue Vite ne fece il culmine dell’arte tosco-romana, presentandolo come il sommo artista che proprio con il David di piazza della Signoria era riuscito a raggiungere e superare la bravura degli antichi. Com’è noto, il pittore aretino si professò sempre ammiratore e amico di Michelangelo, ma quando arte e amicizia confliggevano con la sua vocazione cortigiana, il servile «Giorgetto Vassellario» (così lo definì Benvenuto Cellini) non aveva dubbi da che parte stare. Per questo quando gliene venne l’occasione, in un monocromo all’interno di palazzo Vecchio ormai diventato corte medicea, egli raffigurò quella statua in una scena con l’ingresso di Leone X a Firenze nel 1515. Ma la raffigurò con un basamento tanto alto che la testa (quella di David simbolo della libertà, non quella di Golia!) risultasse tagliata, e per di più con un cane che deposita placidamente i suoi escrementi davanti ad essa. Un insulto triviale, tale tuttavia da dimostrare come anche dopo la morte Michelangelo fosse coinvolto nei conflitti e nelle passioni politiche dell’età sua, sia pure degradato a strumento dell’adulazione vasariana.

Giorgio Spini, Michelangelo politico, prefazione di Tomaso Montanari, presentazione di Valdo Spini, Edizioni Unicopli, Milano, pagg. 148


domenica 24 settembre 2017

Storia letteraria dell’odio


Il sentimento più diffuso sui social raccontato dai Grandi di ogni tempo. A partire da Dante


Stefano Massini, "La Repubblica", 23 settembre 2017

Che il cannibalismo sia un hobby dei giorni nostri, è un dato acquisito. I social sono diventati ormai una tavola calda per antropofagi, dove le carni altrui vengono allegramente squartate e servite in spezzatino come nel “Tito Andronico” di William Shakespeare. Se possibile, siamo un passo avanti rispetto all’insulto e alla denigrazione: la miasmatica epidemia d’odio che ci avvolge sembra rispondere a un bisogno fisico, a un istinto come quello della fame, quasi i nostri metabolismi necessitassero ormai di una regolare dose di selvaggina umana. In tempi di diete vegane, riaffiora insomma l’homo carnivorus e dunque cacciatore, sprovvisto di fucile ma armatissimo di account. E nelle foreste del web, il bottino può essere assai lauto, soprattutto se ogni pretesto è buono (dai vaccini all’immigrazione) per travestire odio e invidia dietro uno scudo di apparente legittimità dialettica.
Nella sua scientifica analisi dell’odio, Erich Fromm — in tempi non sospetti — sosteneva d’altra parte che questo passaggio fosse il più furbo per chi voglia moralmente assolversi, nobilitando i propri travasi di bile in diritti d’opinione. Per cui benvenuti nel grande mattatoio: c’è posto per tutti, e l’odio è la vera password del nostro vivere connessi. Ma nel grande archivio della letteratura, ci sono segnali che possano aiutarci a non perdere la rotta in questa bufera di coltelli? In effetti — saltando indietro di un bel po’ di secoli — un primo efficacissimo ritratto delle nostre risse tutte sbraiti e fiele, lo troviamo nientemeno che nell’Inferno di Dante, canto VIII, dove chi in vita fu adepto dell’odio sta in eterno a sguazzo in una palude fetida, dilaniandosi in una bolgia chiassosa. Non bastasse, traghettati da Flegiàs (becero a sua volta), Dante e Virgilio inorridiscono alla vista di un bullo di quartiere come Filippo Argenti, ora straziato nella broda e infine costretto a mordersi da solo.
A tentare una risposta ci provò senz’altro Shakespeare, cominciando ad aprire qualche porta fra la stanza dell’odio e quella della frustrazione: Iago visceralmente detesta Otello, trama contro lui tutto il male del mondo, ma è chiaro che tutto nasce solo da un suo complesso d’inferiorità, cosicché la chiave di tutto sta nel fatto — per dirla con Cesare Pavese — che noi odiamo gli altri perché odiamo noi stessi. Tutto insomma — piaccia o meno — ci nasce sempre dentro, anche se poi lo sbraitiamo fuori contro altri (magari in forma anonima sulla app Sarahah): per quanto ci sembri superato, diamoci atto che la fucina dell’odio 4.0 è sempre quel torbido sottosuolo dove Dostoevskij faceva agglomerare la rabbia dei suoi inetti. Se dunque il signor Iago avesse guardato un po’ di più fra i propri rovelli, si sarebbe risparmiato tempo e fatica, persi invece a sfuriare contro il Moro. Già, perché in effetti c’è il dettaglio non secondario che Otello era di carnagione scura, fattore che ti candida da sempre a intercettare gli sbraiti degli irrisolti (ed è impossibile non pensare al monologo impressionante dell’immaturo Monty Brogan che ne La venticinquesima ora, il romanzo di David Benioff diventato un film di Spike Lee, sciorina davanti allo specchio tutto il catalogo dei suoi odi newyorkesi, dai coreani puzzolenti di fritto agli italiani mafiosi, dagli ebrei con la forfora ai negri di Harlem).
Nelle pieghe della differenza (di religione, di cultura) si annida da sempre il virus dell’invettiva facile, peraltro rafforzata dal suo essere un collante sociale, cioè un invito a gridare insieme. E se v’è da gridare, niente è pretesto migliore che un odio comune o una comune lotta per la sopravvivenza (la definizione è di Lev Tolstoj). Il fatto è che di questi cori beceri non sono però depositarie solo le taverne, bensì ogni punto di ritrovo (anche virtuale) di una borghesia spaesata: già Flaubert nel 1867 si diceva allibito di come i benpensanti vomitassero fiele contro certi bohémien. Pertanto, laddove i conflitti sono stati più forti, ecco nascere un odio cieco, identitario, come quello di miss Quested contro Aziz nel Passaggio in India di Forster. Non stupirà allora che dalla letteratura afroamericana provengano fior di libri su cosa sia l’esperienza non solo di un odio subito, ma anche — per paradosso — di un odio talmente radicato da tradursi in unico metro possibile per misurare le distanze sociali: il giovane protagonista di Paura (spietato romanzo scritto nel 1940 da Richard Wright) è di fatto incapace di vivere senza odiare, e si domanda lui stesso da dove gli nasca questa irresistibile tendenza al male. È il cancro di un odio che genera odio, unendo vittima e carnefice in un tutt’uno, come ci racconta con inaudita crudeltà il grande Herman Melville in Benito Cereno — un libro certamente da riscoprire — in cui è ricostruita la vera vicenda del veliero carico di schiavi il cui equipaggio (bianco) fu interamente massacrato da una rivolta degli africani.
Fu un’ordalia, fu un tripudio di sangue, fu una mattanza disumanamente compiuta da esseri umani in risposta alla disumanità di altri esseri umani, in quell’assurda pretesa di vendetta che nella spirale dell’odio rende progressivamente spettri (si pensi a I miserabili di Hugo o al Conte di Montecristo di Dumas). È un utile promemoria, per un’epoca come la nostra in cui tutto sembra giocarsi su infinite reazioni ad attentati altrui: la parabola del male che alimenta ulteriore male è più che presente in più di un capolavoro, a partire da Moby Dick in cui la ferocia distruttiva del mostro nutre la sete di morte prima del solo Achab, e quindi dell’intero Pequod. Ed eccoci a un punto decisivo: troppo spesso non ci rendiamo affatto conto di cosa stiamo realmente odiando. L’odio di cui ci riempiamo le bocche è simile a quello descritto da Heinrich Mann nel 1918 nel suo indimenticabile Il suddito: come in quella goffa Germania pre-hitleriana, anche oggi l’odio urlato garantisce una rendita di posizione, da spendersi al mercato delle vacche della comunicazione.
Questo per i toni. Ma i contenuti? Irrisori. Quel che vale è che in assenza di un’identità, niente illude più che il sentirsi costantemente schierati contro. Contro chi? Boh. Contro cosa? Boh. Conrad descrisse portentosamente questo paradigma di un odio gratuito: ne I duellanti, i due protagonisti trascinano il loro scontro per anni e anni senza che vi sia in realtà un motivo del contendere. Il loro è un odiarsi per odiarsi, un volersi sentire impegnati in una gara di sopravvivenza che dia un senso al loro esistere, indipendentemente dalla posta in palio. Sguainano le spade, si abbandonano all’odio, reclamano per l’altro il puro male. Perché? Boh, intanto duelliamo. Temo che purtroppo siamo noi, davvero.
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martedì 18 luglio 2017

Medioevalia. Donne ribelli in cerca di libertà


Eliana Di Caro, "Il Sole 24 Ore - Domenica", 16 luglio 2017

C’erano quelle che fuggivano nei monasteri, per sottrarsi all’oppressione e alla violenza di mariti che non sarebbero mai cambiati; e c’erano coloro che fuggivano dai monasteri, desiderose di conoscere una vita diversa da quella che avevano deciso per loro i genitori, recludendole tra quattro mura in un’atmosfera di tetra solitudine. C’erano le donne il cui tentativo andava a buon fine e quelle che venivano prese e ricondotte a un’esistenza infelice.
Leggendo l’accurato Donne in fuga (il Mulino) di Maria Serena Mazzi, ordinaria di Storia medievale, si partecipa alle traversie di queste coraggiose ribelli, di cui ci è giunta notizia attraverso atti giudiziari, documenti e resoconti redatti naturalmente da uomini, in un’epoca in cui all’altra metà del cielo non è concesso di studiare. All’interno di una famiglia borghese o aristocratica, quando nasceva una femmina si cominciava a pensare ai destini coniugali della neonata: già a dieci anni le nozze erano combinate e a 16 anni l’esperienza della maternità era stata vissuta più volte (con il vivo augurio di figli maschi). Sulle donne povere le testimonianze sono minori e indirette, ma tali da poter dire che in una famiglia di contadini, salariati e artigiani si andava a lavorare da poco più che bambine e l’ipotesi di trovare un marito decente - con una dote misera o inesistente - si prefigurava difficile. Questo significava spesso finire nell’orbita di un uomo di mezza età che aveva bisogno di una serva, avendo già dei figli da crescere poiché per qualche ragione si ritrovava da solo. Insomma un destino non allettante.
È in questo panorama che si distinguono diverse figure, descritte nel libro. Due, per chi scrive, esemplari. La prima, Eleonora d’Aquitania. Cresciuta alla corte del nonno Guglielmo IX, alla morte dei suoi cari nel 1137 si ritrova ricca e potente, nella contea di Poitou e Guascogna. Sposa Luigi VII di Francia: lei ha 13 anni, lui 16. Ma in 15 anni di matrimonio, arrivano solo due femmine e la successione al trono non è garantita. La “colpa”, inutile dirlo, ricade su Eleonora. Nel 1152 viene sciolto il vincolo matrimoniale e lei, a quel punto preda non da poco, sventa ben due rapimenti e si lega a Enrico, duca di Normandia e futuro re di Inghilterra, cui dà - udite udite- cinque maschi e tre femmine. Di fronte al tradimento reiterato del consorte, Eleonora non abbassa la testa e se ne va, nonostante la Chiesa tuoni contro di lei per l’abbandono del tetto familiare. Una figura orgogliosa e indipendente come poche.
Il secondo esempio è quello di una donna di cui non ci è giunto neanche il nome, si sa solo che vive con il marito nel vicariato di Anghiari (Arezzo), nel 1416, ma la sua storia è indicativa del destino cui andavano incontro coloro che nascevano in contesti umili. Dai documenti emerge che l’uomo ha una giovane amante con cui intende trascorrere il resto dei suoi anni, e per farlo senza scatenare l’ira della comunità pensa bene di indurre la moglie a lasciarlo rendendole la vita un inferno: botte, umiliazioni, insulti. Ma i pettegolezzi (o la delazione) di un vicino gli intralciano i piani: il vicario condanna il fedifrago e anche - incredibilmente - la moglie per complicità nell’accaduto. Ma lei, nel frattempo, sfinita dalle angherie del marito, era già fuggita!
Il libro contiene numerosi esempi, dall’immancabile Giovanna D’Arco e le diverse mistiche (Caterina da Siena, Ildegarda di Bingen, Brigida di Svezia) a storie comuni e rivelatrici della prostrazione e della capacità di superarla che queste donne avevano, dalle schiave alle prostitute. Senza dimenticare naturalmente le eretiche e le streghe, «“femmine incantatrici e maliose”, che rendono impotenti gli uomini per vendetta o che li “ammaliano” per sviarli e tenerli avvinti, annullando la loro volontà, facendone strumenti nelle loro mani». Se non fosse che in tante sono andate al rogo, o in prigione, o sono state fustigate, ci sarebbe quasi da sorriderne.

domenica 16 luglio 2017

Luigi Pirandello: l'insostenibile spinta del destino


Luigi Pirandello, tra libri a lui dedicati e iniziative che prendono il volo

Ricorrenze. A centocinquant'anni dalla nascita, un percorso critico sulla figura dello scrittore e drammaturgo

Sonia Gentili, "il manifesto", 14 luglio 2017

«Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui».
Non deve sembrare incongruo riattraversare oggi la produzione di Luigi Pirandello, autore ben digerito dai manuali scolastici e tuttavia sfuggente alle canonizzazioni per il suo posizionamento rispetto alla nostra tradizione letteraria, partendo dalle severe indicazioni che l’autore vergò su un foglietto in merito alle proprie esequie. La volontà di essere avvolto nudo in un lenzuolo va letta naturalmente come rifiuto di indossare la maschera anche al cospetto della morte: l’attinenza di questa scelta finale con la visione del mondo dell’autore che fece delle Maschere nude il paradosso identitario su cui incardinare il proprio teatro e la propria concezione dell’io è evidente.
IL VERO DRAMMA della scena e della narrazione pirandelliana non è però di ordine rappresentativo – la cosiddetta destrutturazione dell’io, con le ovvie connessioni al contesto europeo, surrealista, cubista, psicanalitico ecc. – bensì di tipo epistemico, poiché la nudità, cioè la dimensione di verità dell’io, coincide con la negazione della sua conoscibilità. A questa aporia di fondo, che separa non tanto il vestito da chi lo indossa, quanto la conoscibilità dell’abito dall’inconoscibilità di colui che lo porta, deve riconnettersi non solo il tema fondamentale della produzione romanzesca a partire dal notissimo Uno, nessuno e centomila (iniziato nel 1909 e pubblicato nel ’25) ma anche il pessimismo ironico e molto leopardiano con cui Pirandello interroga le opposte certezze della cultura del suo tempo.
Nella novella La casa del Granella (1905), l’avvocato Zummo si trova ad affrontare con gli strumenti «positivi» e scientifici della giurisprudenza il caso che oppone la famiglia Piccirilli, inquilina di una casa infestata da spiriti, al Granella, proprietario della dimora, che nega il fenomeno. L’avvocato, esponente prototipico della cultura del suo tempo sospesa tra culto positivistico della scienza e culto misticheggiante di ciò che alla scienza sfugge, passa dall’una all’altra «fede» scoprendo che il mistero dello spirito, cioè dell’anima immortale, esiste, ma… «potevano quei poveri Piccirilli condividere questo generoso entusiasmo del loro avvocato? Lo presero per matto. Da buoni credenti, essi non avevano mai avuto il minimo dubbio su l’immortalità delle loro afflitte e meschine animelle».
IL PERCORSO CULTURALE del personaggio Zummo dalla fede nella scienza alla fede nel misticismo dell’anima è sbeffeggiato da Pirandello come banale riscoperta dell’esistenza di ciò che sfugge all’occhio umano, vissuta con la stupida esaltazione della novità. Che questo percorso non sia fantasia, ma pura realtà ideologica di primo Novecento, lo prova uno scritto di Giovanni Pascoli di sei anni precedente, cioè L’era nuova (1899), in cui si teorizza che le evidenze «positive» della scienza hanno provato l’ineluttabilità del nostro destino di morte, ma la fede religiosa ci consente il «riconoscimento e la venerazione» di tale destino.
L’ITINERARIO DI PASCOLI che parte dalla fede nella scienza per approdare a quella nel mistero della morte è analogo a quello sbeffeggiato nello Zummo pirandelliano. Tanto il misticismo scientistico – religioso di Pascoli è celebrativo e patetico, quanto la sua liquidazione è attuata da Pirandello con asciutta ironia antiprogressiva: agli ex devoti al positivismo poi riscopritori del mistero Pirandello risponde che il cammino del pensiero umano torna circolarmente sulle invarianti esistenziali; l’unica novità è l’entusiasmo, del tutto incongruo, con cui la scoperta di ciò che già si sapeva (o meglio: si sapeva di non poter conoscere) viene compiuta.
TANTO BASTA a confermare da un lato il nocciolo misticheggiante del socialismo pascoliano, sintesi di scientismo e fideismo che lo scrittore assorbì dal prete modernista Giovanni Semeria, approdato presso entrambi all’esaltazione della morte in guerra (Pascoli in occasione della campagna di Libia del 1911, Semeria come interventista nel 1914) e, dall’altro, a mostrare che l’adesione pirandelliana al fascismo, oggettiva e indiscutibile, resta inconciliabile con la filosofia dell’autore. Pirandello non ebbe un rapporto facile col regime, che al momento opportuno seppe riconoscerne e ostacolarne il formidabile potenziale antiautoritario: nel 1933 vari brani della Favola del figlio cambiato, libretto pirandelliano dell’omonima opera di Malipiero, vennero sforbiciati dalla censura mussoliniana.
Ma torniamo ancora alla nudità che Pirandello chiese per il proprio corpo defunto e di qui procediamo di nuovo verso la sua opera. Nel mondo pirandelliano la messa a nudo dell’io, cioè la sua verità, risiede nella sua inafferrabilità radicale e assoluta: La vita nuda (1907) è la celebre novella in cui si narra l’impossibilità di ritrarre fedelmente un morto nel monumento funebre a lui dedicato.
La volontà pirandelliana di sottrarsi alla celebrazione funebre e di consegnarsi nudo alla morte è, infatti, diametralmente opposta alla celebrazione del sepolcro e alla monumentalizzazione della memoria come mezzo di sopravvivenza presso i posteri che conosce nel Foscolo dei Sepolcri e nel culto neoclassico della marmorea eternità dell’arte il suo capitolo più noto. Ma in sostanza tutta la linea maestra della nostra tradizione letteraria corre sul filo del mito di eternità dell’autore attraverso l’opera resa marmorea dal sepolcro e consegnata alla memoria dei posteri.
POCHI SCRITTORI hanno avuto il coraggio intellettuale di irridere quest’immagine delle opere umane riducendola ad illusione: prima di Pirandello lo ha fatto Leopardi col mausoleo di sabbia sotto cui resta sepolto il protagonista del Dialogo della Natura e di un Islandese; prima ancora lo avevano fatto i rari autori che si usa porre nel solco di Luciano di Samosata, il grande scrittore tardoantico autore dei Dialoghi dei morti che ha inventato lo sguardo sulla terra dalla luna – cioè da un punto di vista altro, che relativizza radicalmente quello umano –preso a modello da Leopardi per la composizione delle Operette morali.
Ironia leopardiana e umorismo pirandelliano sono le maggiori forze di questa linea autoriale minoritaria eppure capitale, che rifiuta la letteratura come monumento eternatore per praticarla come indagine antropologica sulla natura radicalmente inafferrabile e transeunte dell’umano.

sabato 8 luglio 2017

Pirandello, il fascino del disinganno dietro a tutto il suo Caos



Pietrangelo Buttafuoco, "Il Fatto", 8 luglio 2017

150 anni fa in Sicilia nasceva uno dei più grandi letterati della cultura italiana, Nobel nel 1934: i suoi testi tradotti nel mondo

L’involontario soggiorno sulla terra di Luigi Pirandello inizia il 28 giugno 1867, giusto 150 anni fa. L’uomo della distruzione dell’Io – Uno, nessuno e centomila – non gode della totale disillusione di attribuirsi, senza rimorso, il fallimento sul meglio delle sue stesse illusioni.
E’ l’infelicità – com’è facile a intendersi – a ghermirlo. Nel giorno dopo giorno della realtà, fino all’ultimo – all’ombra della bella pergola sull’incannucciata del Caos, a casa sua – Pirandello gusta lo sfascio del disinganno: “Proprio quell’inganno per cui ora dico a voi che n’avete un altro davanti.”
Si chiude la porta alle spalle – è ancora bambino, quindi studente a Bonn, poi promettente letterato a Roma, infine è in Svezia, insignito del premio Nobel per la letteratura – e la cupa malia di un destino doppio, il volto e la maschera, gli rende grave il peso di ogni cosa.
In una dedica – “a Marta Abba, per non morire” – Pirandello fronteggia l’estenuante mutevolezza dell’apparire.
Lei è l’amore suo mai vissuto, la musa per cui lui scrive, l’attrice che sul palcoscenico del Teatro Argentina, a Roma, durante le prove gli sta accanto al modo che conosce solo lui e nessun altro. E lei però non è adesso polvere accanto a lui, all’ombra del suo pino, ad Agrigento, segnata ai posteri con quella “rozza pietra” che per essere tale – in forma di sepolcro – è di certo chic, non convenzionale, ma è tomba di un’anima sola. E solitaria.
L’albero, erto a modo di Croce, lascia passare in silenzio la morte ma non certo l’angoscia i cui artigli invisibili – dal dicembre del 1961, quando dal cimitero del Verano le ceneri di Pirandello, vengono traslate in Sicilia – sussurrano ansia alle scolaresche in gita d’istruzione. E’ un’inquietudine che solo il sentimento del contrario, visitando la casa dello scrittore, può sciogliere nell’esito tutto umoristico di un foglio esposto, una reliquia tutta di comicità.
Ecco la storia: è il nove novembre 1934 e Luigi Pirandello – Accademico d’Italia – apre l’uscio e accoglie in casa una moltitudine di cronisti, operatori di ripresa dell’Istituto Luce, fotografi, funzionari di polizia e autorità prefettizie.
L’Agenzia Stefani comunica la notizia appena diramata dalla Casa Reale di Svezia, l’autore di Novelle per un Anno, di Maschere Nude, del Fu Mattia Pascal e di tante altre opere apprezzate nella scena internazionale, è insignito del premio Nobel per la Letteratura.
Affollati all’entrata, stanno ad attendere con facce ridenti gli accompagnatori, gli autisti, i curiosi e i vetturini che hanno lasciato le loro carrozzelle dove la traversa si veste di spuntoni e siepi. La petulanza degli entusiasti è insoffribile e Pirandello, che acconsente alla richiesta di fabbricare un’istantanea e un filmato che lo colga “dal vero”, così da raccontare al mondo la giornata operosa del sommo artista, batte sui tasti della macchina da scrivere – pesta al modo suo, proverbiale, con un solo dito – e per 27 volte, senza che né i fotografi e neppure i cameraman se ne accorgano, scrive la parola pagliacciate (con 24 punti esclamativi, un “paglia”, due tentativi di “pppp” e qualche “pagliaxxtte”).
L’unico filmato “dal vero” è quel foglio. L’esistere oltre l’apparire. La maschera, nella finzione, svela l’estraneo inseparabile che vive la condizione di ognuno. E a ciascuno, nel teatro visibile della storia, spetta esserci e sembrare contemporaneamente. E’ quel sentirsi vivere, oltre le convenzioni sociali, nella vita che non conclude.
La realtà d’oggi è l’illusione di domani. La parola ad Anselmo Paleari, la teoria della lanterninosofia, da Il Fu Mattia Pascal: “Nell’improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi va di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s’aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d’accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicaio, otturata per ispasso da un bambino crudele”.
L’illusione di oggi non è mai la realtà di domani. Alla rappresentazione s’affianca sempre un suo riflesso: la rappresentazione della rappresentazione. Ben tre corde – quella seria, quella civile e quella pazza, e sono quelle del Berretto a Sonagli – si fanno carico dell’intera coscienza giusto a impedire agli uomini quello che incombe sugli animali: l’immediata risoluzione del bramare. Pirandello – l’uomo che nel distruggere l’io diventa aggettivo – indica nella messa in scena pirandelliana la strada sbagliata da cui non c’è più uscita.
Chi scansa l’ora, scansa il pericolo, e Leonardo Sciascia, in Alfabeto Pirandelliano, alla voce psicoanalisi – dove Michel David lamenta nel pur cervellotico don Luigi un ritardo rispetto agli sviluppi delle scienze – può ben rallegrarsi. “Nel caso di Pirandello il proverbio è di splendente verità: l’avere scansato l’ora di Freud è stato un bel colpo di fortuna.”
Pirandello, di formazione culturale germanica, più che francese, rasenta infatti quegli stessi Holzwege (I sentieri interrotti di Martin Heidegger) che nella seconda metà del Novecento inoltrano l’estetica e la teoretica nell’aurora esistenzialista e nella fenomenologia.
Acuto scandagliatore dei segni, Pirandello non si sottrae all’incontro con Walt Disney, e tutto quel suo teatro – il suo prodigarsi perfino da capocomico, a farsi complice di Angelo Musco, ossia il supremo artista del riso a lui contemporaneo – non è un solco dove lui sta da epigono ad altri, fosse pure Carlo Goldoni o William Shakespeare, bensì dimora, luogo che dà origine.
Ancora una citazione dall’Alfabeto di Sciascia, giustappunto la voce teatro: “‘Cominciando, si era fermato su due parole ignote; nessuno, nell’ambito dell’Islam, aveva la più piccola idea di quel che volessero dire’. Le parole sono ‘tragedia’ e ‘commedia’: e Borges immagina lo smarrimento di Averroè quando, traducendo la Poetica di Aristotele, vi si imbatte. Come poteva penetrare il significato di quelle due parole, se tutto l’Islam non aveva nozione del teatro? Così – come ancora nell’Islam di cui Agrigento era parte – Pirandello il teatro lo inventa. Dirà Pitoëff: ‘Il teatro era in lui, egli era il teatro’”.
È teatro, dunque, il Pirandello che disegna il profilo elegante di Rossella Falk nell’allestimento dei Sei personaggi in cerca d’autore del 1954, con lei c’è – un monumento – Romolo Valli, ed è canone quello che si genera dall’orchestrazione di regia, parola e disinganno.
Com’è facile intendere, il fallimento sul meglio delle nostre stesse illusioni è nell’attesa, nell’assenza, nell’istante, nel compimento degli addii, nello struggimento di bellezza e grazia e nel mai più.
Il cervello nulla può, è come un mulinello, e l’amore muta in disperazione, fa bottino del cuore e lo incatena. A Marta Abba, “per non morire”, Pirandello destina quel che riserva a se stesso. Il mai più. Lo esprime in Romanza di Liolà ed è la più bella delle serenate.
Con Nicola Piovani, i versi, hanno trovato uno spartito dove poter volare (l’esecuzione più bella è quella del Maestro Antonio Vasta, la voce definitiva nel canto è quella di Mario Incudine) e fa così:

D’un regnu di biddizzi e di valuri
Avia essiri almenu na regina
Chidda ca m’avia a vinciri d’amuri
Chidda ca m’avia vinciri lu cori
Chidda ca m’avia a mettiri a catina
Ppi ciriveddu haiu un firrialoru
Lu ventu sciuscia e mi lu fa girari
E quannu sciuscia gira tuttu a coru
E non c’è versu ca si po fermari
L’amuri avi quattru arbuli ciuriti
Unu d’aranciu e l’autru di lumìa
Unu di gelsuminu spampanati
L’autru ca è a rama di la gilusia
Ca fa tutti l’amanti disperati
Ppi ciriveddu haiu un firrialoru
Lu ventu sciuscia e mi lu fa girari
E quannu sciuscia gira tuttu a coru
E non c’è versu ca si po fermari

martedì 20 giugno 2017

Saba, un Ulisse incompreso a Trieste





Si rifugiava nel mito e nella psicoanalisi, 
entrò nel canone e ne scivolò fuori: tempo di rivalutazione

Paolo Di Stefano, "Corriere della Sera", 20 giugno 2017

A sessant’anni dalla morte, Umberto Saba rimane un poeta per tanti aspetti misterioso e incompreso, per non dire sottovalutato. Come se il suo progetto di una «poesia onesta», piana, autobiografica e domestica, per di più proveniente da una zona di frontiera («arretrata») com’è Trieste, lo avesse penalizzato. Tanto più rimane in ombra il suo valore di scrittore in prosa, nelle forme variegate del saggista, del narratore autocritico, dello scrittore d’invenzione o sapienziale. Ora, la nuova monografia su Umberto Saba, scritta da Stefano Carrai (Saba, Salerno Editrice), studioso di letteratura medievale e rinascimentale oltre che di Novecento (Montale, Sereni, Fortini, Raboni…), si sofferma su diversi luoghi ancora oscuri della sua biografia, della sua opera e della relazione tra la «calda vita» con i suoi traumi, il contesto storico e l’opera. Su questa via, Carrai si avvale delle acquisizioni filologiche, dei materiali epistolari, di puntuali analisi metrico-stilistiche.
«L’infanzia per i poeti — dice Carrai — è quasi sempre un affioramento che provoca dolore, ma nel caso di Saba equivale a una serie di nodi irrisolti che diventano un vero e proprio groviglio esistenziale. I contrasti in mezzo ai quali la sua infanzia e la sua adolescenza si dipanarono rimasero fino all’ultimo vivi e cocenti anche nell’adulto, come traumi e ferite insanabili. Il ragazzo infatti apparteneva a una famiglia dimidiata perché il padre l’aveva abbandonata ancor prima che lui nascesse. L’acrimonia e le recriminazioni della madre nei confronti dell’assente furono una costante angosciosa. Inoltre Umberto si sentiva estraneo alla cultura chiusa e ottusa del ghetto ebraico in cui crebbe. Questi elementi di disagio sarebbero bastati a far maturare in lui la sensazione di essere un diverso e un originale».
E poi si aggiunge il complicato rapporto con l’amata Peppa, la contadina slovena che gli fece da nutrice e che scatenò la gelosia della madre…
«La presenza della balia ha contribuito a complicare ulteriormente il quadro psicologico: un rapporto in parte letteraturizzato per l’influenza di una poesia dedicata alla nutrice da d’Annunzio, ma fondato su un affetto vero e profondo, perdurato fino all’età matura, in contrapposizione alla anaffettività della madre naturale. E naturalmente va messa in conto anche la scoperta del sesso, l’esperienza dell’omosessualità o della bisessualità descritta in Ernesto , che sottintende una incertezza nella definizione della propria identità anche sessuale appunto. Sono tutti temi che tornano, spesso come sofferenza, in ogni stagione della poesia di Saba».
In che forma si presenta l’«ulissismo» di Saba?
«Ulisse è un eroe molto caro all’inquietudine novecentesca. Nella poetica di Saba il suo mito serve a trasfigurare la sensazione di non essere di casa in nessun luogo, con l’eccezione certo dell’amata Trieste, che ha costituito sempre un rifugio, specie dopo l’acquisizione della sua libreria antiquaria. Però anche qui l’umoralità e la suscettibilità esasperate di Saba facevano sì che fosse spesso ferito e urtato dagli altri, persino dai suoi amici più cari, come se anche negli affetti fosse costretto ad una peregrinazione continua. Dai circoli letterari fiorentini e romani nei quali ambiva a essere accolto, poi, non si è mai sentito accettato. Ecco, anche questo è stato vissuto da Saba come una sindrome di Ulisse».
Si ha continuamente l’impressione di un pendolarismo intimo tra marginalità (Trieste) e centro (il rapporto difficile con Firenze, e poi Milano, Parigi). Saba sembra un uomo profondamente solo ma circondato da tantissimi amici sempre pronti ad aiutarlo (non soltanto Montale).
«Sì, anche per il suo narcisismo estremo Saba ha sofferto di non essere adeguatamente considerato e riconosciuto come poeta, specie agli inizi, quando Slataper, con un vero e proprio equivoco critico, pensò di fare di lui un semplice emulo di Gozzano. Poi con gli anni Venti, grazie soprattutto a Debenedetti, Solmi, Montale, le cose cambiarono e tra le due guerre la sua fama si consolidò. Certo però rimaneva sempre un poeta appartato nella sua Trieste, dove era al centro di un cenacolo artistico numeroso e dove molti giovani andavano per conoscerlo, ma pur sempre un poeta che solo ogni tanto si faceva vedere negli ambienti che contavano. Tuttavia quanto fosse stimato e amato si vide dopo le leggi razziali e soprattutto dopo l’otto settembre del ’43, quando sarebbe certo finito in una camera a gas se non avesse potuto contare sull’aiuto di amici come Montale, Vittorini e altri».
Nonostante la depressione che lo coglie in tarda età, e nonostante i messaggi ultimativi (minacce di suicidio e minaccia di smettere precocemente di scrivere), Saba lavora fino all’ultimo o quasi. Da cosa nasce l’idea di tornare sul «Canzoniere» e di commentarlo?
«Storia e cronistoria del Canzoniere è uno straordinario esempio di autocommento, nato dalla convinzione di essere incompreso dalla critica del Dopoguerra e dagli alfieri dell’ermetismo. Si potrebbe perfino dire che un’opera straordinaria come questa, che più che spiegare il senso delle poesie costruisce un autoritratto dell’autore fra versi e prosa, sia nata inizialmente per impulso del complesso di persecuzione di Saba. E poi fino all’ultimo Saba ha scritto anche poesie: da “Mediterranee” a “ Sei poesie della vecchiaia” le appendici al Canzoniere vero e proprio regalano al lettore gli estremi gioielli della poetica sabiana».
L’opera di scarnificazione e di semplificazione è solo reazione alla retorica fascista?
«L’avversione al fascismo (dopo un’iniziale, momentanea simpatia) fu costante in Saba, anche se nel 1938 fu costretto al gesto umiliante di supplicare Mussolini perché risparmiasse lui e la sua famiglia, per meriti poetici, dall’applicazione delle leggi razziali. Una vera ossessione, da comunicare solo agli amici più stretti, fu la roboante propaganda del regime, odiatissima per l’invadenza ma anche per la tronfia retorica. E penso di sì, che non sia un caso se proprio negli anni Trenta la sua poesia prende la strada di una concisione linguistica, che tuttavia risentiva dichiaratamente del fascino esercitato da modelli come Ungaretti e Montale, in parte anche il giovane Penna».
Saba fu il primo poeta a confrontarsi con l’inconscio: quali conseguenze ebbe la «scoperta» della psicoanalisi?
«La psicoanalisi fu per Saba una scoperta totalizzante, cui si abbandonò con un’adesione quasi fideistica, al punto da interpretare ogni fatto della vita alla luce delle teorie di Freud. Dopo la cura intrapresa, tra il ’29 e il ’30, con lo psicanalista triestino Edoardo Weiss, che era stato allievo di Freud a Vienna, Saba accordò ancor più importanza ai traumi infantili che fin dalla prima giovinezza aveva ritenuto responsabili della propria inguaribile infelicità. Le poesie dei primi anni Trenta, raccolte nella sezione “Il piccolo Berto” del Canzoniere , sono incentrate proprio sulla scoperta dell’inconscio e del ritorno del rimosso, perciò pongono al centro la drammatica rappresentazione di uno strappo: la madre naturale che per gelosia lo sottrae con violenza, all’età di tre anni, all’amore di una madre più vera, cioè della balia, che il ragazzo tornerà a cercare nell’adolescenza. Ecco, la psicoanalisi ebbe, in fondo, l’effetto di convincerlo definitivamente che a causa delle ferite subite nella prima infanzia era destinato a scontare un’infelicità senza rimedio».
Come mai il romanzo, quel tipo di romanzo che è «Ernesto», arriva solo alla fine?
« Ernesto non è soltanto la struggente confessione di una iniziazione sessuale anomala, ma è anche la rievocazione di una stagione della vita e di un’epoca tramontata, inimitabile, all’alba del Novecento. Saba non poteva arrivare a scriverlo che con la libertà e col disincanto della senilità: è un piccolo capolavoro e c’è da rammaricarsi del fatto che oltre che anziano egli fosse allora troppo provato dalla malattia nervosa e minato nel fisico dall’eccesso di farmaci per riuscire a condurlo a termine».
Come si colloca la «funzione Saba» all’interno della poesia novecentesca? E con quali peculiarità?
«È vero, c’è nella poesia del Novecento una funzione Saba che si tende forse a sottovalutare. Un certo sabismo è evidente in poeti come Penna, Caproni, Bertolucci, Giudici, ma anche in Sereni è forte. Direi che se mettiamo insieme cantabilità del verso e fuga dall’enfasi del poetichese abbiamo già una tonalità in qualche misura sabiana».
Quando si pensa al meglio della poesia novecentesca, purtroppo pochi pensano a Saba. Nonostante la sua «leggibilità» e il notevole successo critico, qualcosa gli ha impedito (e ancora gli impedisce) di ottenere quel che meriterebbe. Come si spiega?
«Questa è la domanda più difficile di tutte. D’istinto direi che Saba non è mai stato, a differenza di altri poeti, un buon manager di se stesso. Una vera consacrazione l’ha ottenuta solo col premio Viareggio nel 1946 (peraltro ex aequo con un narratore viareggino come Silvio Micheli che oggi nessuno ricorda più), cioè quando aveva già sessantatré anni. Gli undici anni che gli restavano da vivere furono segnati dalla dipendenza dalla morfina e dai ripetuti ricoveri per crisi depressive. Quando ero ragazzo Saba era considerato uno dei classici della poesia del Novecento al pari di Ungaretti e Montale. Poi, è vero, la sua fortuna editoriale è un po’ calata, la sua fortuna critica è scesa ancora di più. Spero che il mio libro contribuisca a rendere giustizia a uno tra i massimi poeti italiani della modernità».

lunedì 19 giugno 2017

Machiavelli per principianti



Erica Benner, “La Repubblica”, 18 giugno 2017

Se sei un outsider della politica e vuoi arrivare in fretta alla carica più alta in una democrazia, che cosa devi fare? Puoi cominciare andando a rovistare in un libro scritto cinquecento anni fa da un pubblico funzionario italiano in ristrettezze economiche. Il modo più veloce, dice, è avere la Fortuna dalla tua parte fin dal principio, con dovizia di soldi ereditati e amicizie di famiglia. Se mentire e infrangere i giuramenti ti torna utile per sgominare i tuoi avversari, fallo pure. Fai del Popolo il tuo migliore amico: prometti di proteggere i suoi interessi contro la voracità delle classi dominanti e contro gli stranieri. Fomenta gli odi partigiani in modo da far apparire che solo tu ti ergi al di sopra di essi, come un Salvatore della Patria.

Il libro è Il principe, il suo autore è Niccolò Machiavelli. Al netto della televisione e di Twitter, sembra che le tecniche degli ambiziosi “ principi nuovi”, come li chiama lui, non siano cambiate di una virgola. Ma perché Machiavelli scrisse un libro intero su costoro, disseminandolo di esempi di uomini ascesi al potere corrompendo e sfruttando le debolezze altrui (Giulio Cesare, il papa Alessandro VI, Cesare Borgia)?

Molti oggi danno per scontato che il pensatore fiorentino non si fosse limitato a descrivere i loro metodi. Abbiamo sentito dire innumerevoli volte che era il consigliere di questi “principi nuovi”, il prototipo del machiavellismo, il primo professore onesto di una politica disonesta. Oltre all’informazione, anche la cultura popolare porta legioni di politici machiavellici nelle nostre case, rendendoli umani e divertenti: Tony Soprano, Frank e Claire Underwood di House of Cards, Lord Petyr Baelish del Trono di Spade. Questi machiavellici sono dei farabutti, ma sagaci: i farabutti degli intellettuali. Guardando le loro macchinazioni sullo schermo noi, come le loro vittime, non riusciamo a fare a meno di sentirci sedotti da tanta perversa abilità. Perciò non ci sconvolge più pensare che un uomo di grande intelligenza vissuto cinque secoli fa, in tempi che ci immaginiamo di gran lunga più crudeli dei nostri, passasse una notte dopo l’altra nella campagna toscana, con la moglie e i figli che dormivano nella stanza accanto, a redigere il manuale dei cinici populisti e autoritari dei giorni nostri.

Ma se invece ci fossimo lasciati sfuggire i messaggi meno evidenti di Machiavelli, se non avessimo colto le sue intuizioni più profonde sulla politica? Fino più o meno a un decennio fa non mi era mai venuto in mente di pormi questa domanda. Parte del mio lavoro consisteva nell’insegnare la storia del pensiero occidentale, da Platone ai giorni nostri, e Machiavelli sbucava verso l’inizio dell’anno, incastrato fra Sant’Agostino e Hobbes. Come migliaia di professori sovraccarichi di lavoro, avevo i miei espedienti. Prendendo Il principe o i Discorsi, evidenziavo tutte le frasi di Machiavelli che restano più impresse e il resto lo trattavo sommariamente. I compendi accademici mi dicevano che Machiavelli era consacrato al benessere della sua città natale, Firenze, e del suo Paese, l’Italia, in un’epoca in cui entrambi erano devastati dalle guerre. Sì, ha offerto giustificazioni piuttosto inquietanti alla violenza e all’ipocrisia. Ma le sue ragioni erano patriottiche, umanistiche, benevole.

Eppure più leggevo, più mettevo in discussione questa versione. Cominciai a notare che gli scritti di Machiavelli parlavano con voci diverse in momenti diversi. A un certo punto sembra applaudire gli uomini che infrangono i giuramenti a loro piacimento e si curano poco della rettitudine. Ma dice anche — in un passaggio che molti studiosi trascurano — che “le vittorie non sono mai sì stiette, che il vincitore non abbia ad avere qualche respetto, e massime alla giustizia”. Per ogni precetto cinico del pensatore fiorentino, ne trovo due o tre che lo contraddicono.

Cominciai a dubitare che Machiavelli credesse veramente nei consigli che forniva. Questi dubbi si rafforzarono quando cominciai a scavare nella sua vita e nella sua epoca, cercando di capire cosa lo spingesse a dire le cose che diceva. La versione tradizionale recita che Il principe fu scritto in un momento in cui Machiavelli cercava di accreditarsi come consigliere della famiglia più illustre di Firenze, i ricchissimi Medici: in pratica, una richiesta di assunzione. Ma nelle sue vesti di alto funzionario incaricato degli affari esteri e della difesa, Machiavelli era stato uno dei più accaniti difensori della Repubblica, contro i Medici stessi. Solo un anno prima del completamento della prima bozza del suo “ opuscolo” i Medici erano tornati tumultuosamente a Firenze con un colpo di Stato che aveva contato sull’appoggio di potenze estere, dopo aver trascorso anni in esilio. Non si fidavano per nulla di Machiavelli: lo revocarono dai suoi incarichi e poi lo fecero imprigionare e torturare, sospettandolo di complottare contro di loro.

Se davvero Machiavelli inviò Il principe ai Medici, cosa che sembra improbabile, non poteva aspettarsi che prendessero i suoi “consigli” — arrivare al potere corrompendo, imbrogliando e assassinando — come doni di amichevole saggezza. Né avrebbe giovato alla sua causa rivolgersi ai Medici, nella dedica, chiamandoli “principi”, e insistere sulla loro lontananza dal popolo. La famiglia dominante di Firenze desiderava tenere in piedi la finzione che loro erano semplicemente i “ primi cittadini” della Repubblica di Firenze, non monarchi o tiranni. Chiamarli principi era un atto di audacia. Non c’è da stupirsi che lettori di altre epoche del Principe — filosofi come Francis Bacon, Spinoza e Rousseau — non avessero il minimo dubbio che l’opera di Machiavelli fosse un’ingegnosa denuncia dei tranelli messi in atto dai principi, un manuale di autodifesa per cittadini. “ Il libro dei repubblicani”, lo etichettò Rousseau.

Non giudicate sulla base della reputazione o delle apparenze. “Non accettate nulla in virtù dell’autorità”. È una fra le massime meno conosciute di Machiavelli, e dovremmo applicarla alle sue stesse parole. Se ci soffermiamo di nuovo sul modo in cui conduceva la sua vita, e come quella vita plasmava i suoi pensieri, l’impressione che si ricava è che Machiavelli non l’abbiamo capito.

Ed è tempo che lo capiamo, perché nessuno scrittore contemporaneo è in grado di guidarci con la sua stessa efficacia per interpretare e affrontare il nostro mondo politico. Come segretario della Repubblica e attraverso i suoi scritti — che includono risme intere di poesie, commedie scollacciate e una storia di Firenze di sommessa tragicità — trascorse la vita a difendere il Governo repubblicano della sua città contro le minacce interne ed esterne. Fu una lotta dura, con battaglie su molti fronti. Lo condusse in un lungo viaggio attraverso la Francia con re Luigi XII, e alla corte di Cesare Borgia, dove trascorse mesi sfibranti a cercare di dissuadere il violento giovanotto dall’attaccare Firenze.

Ma Machiavelli era convinto che le vere minacce alla libertà venissero dall’interno, dalle macroscopiche disuguaglianze da un lato e dalla partigianeria estrema dall’altro. Vedeva con i suoi occhi con quanta facilità, in condizioni simili, l’autoritarismo poteva mettere radici e prosperare, perfino in repubbliche come quella fiorentina, che andavano fiere della loro tradizione di autogoverno del popolo.

La storia tempestosa della sua città insegnò a Machiavelli una lezione che cerca di trasmettere ai lettori futuri: nessun uomo può sopraffare un popolo libero se quest’ultimo non glielo lascia fare. “Sono tanto semplici li uomini”, ci dice, “e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare”. A ognuno di noi, Machiavelli dice: non diventare chi si lascia ingannare. I cittadini devono capire che quando si fidano troppo dei leader e troppo poco di se stessi creano con le proprie mani i loro incubi politici. “Io vorrei loro la via dello Inferno per fuggirla”, scriveva al Guicciardini negli ultimi anni della sua vita.

Oggi, ancora una volta, le democrazie vecchie e nuove stanno lottando per la loro sopravvivenza. Tra le sue righe a doppio taglio, Machiavelli spiega chiaramente perché un Governo del popolo, regolato dalla legge, è sempre meglio di un Governo autoritario: “Un popolo che può fare ciò che vuole, non è savio”, ma “un principe che può fare ciò ch’ei vuole, è pazzo”. La sua vita e le sue parole ci ispirano a diventare persone capaci di leggere più acutamente i segnali di allarmi politici, e disposte a lottare senza quartiere per difendere le nostre libertà. ?

TRADUZIONE DI FABIO GALIMBERTI

L’autrice

Erica Benner ha scritto due volumi dedicati a Machiavelli: Esser volpe. Vita di Niccolò Machiavelli è arrivato in queste settimane in libreria per Bompiani. Benner è stata ricercatrice in Filosofia politica a Yale e ha insegnato per molti anni a Oxford e alla London School of Economics. Il testo pubblicato è la rielaborazione di un articolo uscito sul Guardian.