martedì 31 dicembre 2013

San Silvestro 2013


Oggi è l’ultimo giorno dell’anno. In tutto il mondo retto da questo calendario le persone si intrattengono a dibattere con se stesse le buone azioni che intendono mettere in atto nell’anno che incomincia, giurando che saranno rette, giuste ed equanimi, che dalla loro bocca emendata non uscirà mai più una parola cattiva, una bugia, un inganno, anche se il nemico se lo meritasse, è chiaro che è degli uomini comuni che stiamo parlando, gli altri, quelli d’eccezione, fuori dell’ordinario, si regolano in base a ragioni proprie per essere e fare il contrario sempre che ne ricavino gusto o interesse, questi sono coloro che non si lasciano illudere, arrivano a ridersela di noi e delle buone intenzioni che mostriamo, ma, alla fin fine, lo impariamo con l’esperienza, già nei primi giorni di gennaio abbiamo dimenticato metà dei nostri propositi e, avendo tanto dimenticato davvero non c’è motivo di tener fede al resto, è come un castello di carte, se sono già caduti i piani alti, è meglio che rovini giù tutto e si mescolino i semi...

José Saramago, L’anno della morte di Ricardo Reis, 1984



Bevo a chi è di turno, in treno, in ospedale,
cucina, albergo, radio, fonderia,
in mare, su un aereo, in autostrada,
a chi scavalca questa notte senza un saluto,
bevo alla luna prossima, alla ragazza incinta,
a chi fa una promessa, a chi l’ha mantenuta,
a chi ha pagato il conto, a chi lo sta pagando,
a chi non è invitato in nessun posto,
allo straniero che impara l’italiano,
a chi studia la musica, a chi sa ballare il tango,
a chi si è alzato per cedere il posto,
a chi non si può alzare, a chi arrossisce,
a chi legge Dickens, a chi piange al cinema,
a chi protegge i boschi, a chi spegne un incendio,
a chi ha perduto tutto e ricomincia,
all’astemio che fa uno sforzo di condivisione,
a chi è nessuno per la persona amata,
a chi subisce scherzi e per reazione un giorno sarà eroe,
a chi scorda l’offesa, a chi sorride in fotografia,
a chi va a piedi, a chi sa andare scalzo,
a chi restituisce da quello che ha avuto,
a chi non capisce le barzellette,
all’ultimo insulto che sia l’ultimo,
ai pareggi, alle ics della schedina,
a chi fa un passo avanti e così disfa la riga,
a chi vuol farlo e poi non ce la fa,
infine bevo a chi ha diritto a un brindisi stasera
e tra questi non ha trovato il suo.
Erri De Luca, L’ospite incallito, Einaudi, Torino 2008

domenica 29 dicembre 2013

La bambina di Tintoretto di fronte alla scala della vita


Melania Mazzucco

“La Repubblica“, 29 dicembre 2013 

Il nostro viaggio è iniziato con una porta: la soglia del Parnaso di Paul Klee. Finisce con una scala. La scala dai gradini luccicanti d’oro che molti anni fa Jacomo Robusti detto Tintoretto mi ha invitato a salire – con umiltà ma senza paura, come la piccola protagonista della sua tela.
Dalla Pasqua del 1556, la tela è appesa nella chiesa della Madonna dell’Orto, a Venezia. A qualche metro dal suolo, emana una luce propria nella penombra della navata. In origine era divisa in due parti, identiche, che foderavano gli sportelli dell’organo. Nel XVI secolo la Madonna dell’Orto era la chiesa di un monastero di monaci intellettuali e musicisti. I notabili ci si sposavano e ci si facevano seppellire; gli altri ci ascoltavano i predicatori e i concerti. Ma quando le ante si schiudevano e l’organo suonava, il dipinto non si vedeva più. “Suonava” nel silenzio: aveva la stessa funzione mistica della musica.
La presentazione di Maria al tempio è stata la mia porta d’ingresso nel Museo del Mondo. L’emozione indelebile di quella visione ha alimentato la mia sete d’arte e di artisti, e una ricerca potenzialmente infinita. Da allora, frequento la bottega di Tintoretto (così soprannominato per il mestiere del padre e l’esigua statura). Aveva un “terribile cervello”, ovvero una mente geniale, un carattere ispido come i ricci della sua barba, e non accettava in bottega garzoni cui dover insegnare i rudimenti della pittura. Solo lavoranti già capaci di fargli da assistenti. Fece un’eccezione per la figlia e i figli, ma questa è un’altra storia - e l’ho raccontata altrove. I genitori si ereditano, i maestri si cercano e poi si scelgono – e così Tintoretto è diventato il mio.
Fu incaricato di dipingere La presentazione di Maria nel 1548, per 5 scudi, 1 botte di vino e 2 stare di farina: aveva 29 anni, talento prepotente e sconfinata ambizione. Con la volontà feroce degli autodidatti, aveva assimilato la maniera di Raffaello, Michelangelo, Tiziano, Giulio Romano, ma non aveva ancora elaborato una propria lingua e liberato la sua originalità. Però nello stesso 1548 si affermò come il pittore più promettente della nuova generazione, e ignorò la commissione. Nel 1551 ridiscusse il contratto, come farebbe un calciatore nel frattempo richiesto da squadre più blasonate, e riuscì a strappare un aumento. Tintoretto, di inesauribile immaginazione ed energia, seminò fino alla morte centinaia di quadri negli edifici pubblici di Venezia:La Presentazione di Maria fu l’unico che riscosse entusiasmo unanime. Perfino i suoi detrattori, che lo biasimavano come sbrigativo mestierante, ammirarono la raffinata armonia della composizione, la plasticità delle figure, il gioco del chiaroscuro, la qualità del disegno e del colore.
Illustra un episodio dei Vangeli apocrifi e della Legenda Aurea. Anna e Gioacchino hanno consacrato a Dio la loro tardiva figlia Maria: verso i 5 anni la conducono al Tempio di Gerusalemme, dove sarà educata con altre vergini. Tinto-retto omette i genitori e fa della bambina il fulcro dell’immagine. Sintetizza la città nella folla e riduce l’architettura dell’edificio all’imponente scala di 15 gradini, vista con prospettiva dal basso – la stessa dello spettatore. Costringendolo a muovere gli occhi per seguire la bambina, mette in movimento la scala stessa, e lo coinvolge nella scena. L’oro sparso sui gradini barbaglia una luce calda e avvolgente di prodigio. La figuretta esile di Maria si staglia in controluce. Allo spettacolo assistono storpi e mendicanti (risucchiati nell’ombra ma resi in scorci virtuosistici), scribi, signori e soprattutto donne. Una processione di velate coi ceri avanza dal fondo; le altre (con le figlie tra le braccia o al seno) formano una specie di coro, sul proscenio. Una sinfonia femminile di donne di ogni età – lattanti, bimbe, adolescenti, madri, anziane – come se il quadro fosse una meditazione sul loro ruolo, e destino. Scelta singolare per il telero della chiesa di un monastero maschile. Ancora più singolare la figura al centro dell’immagine – la bionda di spalle, col piede sollevato. Un piede scalzo in una chiesa, cinquant’anni prima di Caravaggio.
I pittori ideavano i propri quadri rielaborando quelli con lo stesso soggetto che avevano visto dal vero o su riproduzioni a stampa. Tintoretto tenne presente quelli di Tiziano e di Daniele da Volterra, allievo di Michelangelo. Ma la monumentale donna con la spalla nuda è una sua invenzione. La donna e la figlia accanto a lei – con gli abiti e l’acconciatura delle veneziane del ’500 – sono dipinte con tale tenerezza e verosimiglianza che subito si generò la leggenda che rappresentassero l’amante del pittore e la sua diletta figlia. Tintoretto aveva davvero avuto una bambina, in quegli anni: Marietta – la piccola Maria. È un’ipotesi possibile, perfino probabile. Ma ciò che conta è che Tintoretto offrì a loro il ruolo- chiave del quadro: non al sacerdote né ai santi genitori né alle vergini ebree né ai committenti né a se stesso. Mediatrici fra gli spettatori e la storia sacra, testimoni e guide sono una donna qualunque e sua figlia. In pittura e nella vita, Tintoretto era un temerario, e un uomo libero.
Maria sale, con grazia, verso il sacerdote barbuto che l’aspetta in cima alla scala. Il suo ingresso nel Tempio permette l’inizio della salvezza dell’umanità. Maria è unica, irripetibile. Infatti è sola, ritagliata contro un cielo di nuvole. Ma la donna la indica a esempio alla figlia – perché anche lei accetti il suo destino e lo compia. Così il quadro, al di là del significato teologico, che Tintoretto tradusse con esemplare fedeltà, finisce per diventare altro. Un’epifania malinconica del mestiere di genitore, e di maestro. Che può solo accompagnare con amore il figlio (la figlia) ai piedi della scala, in cima alla quale lo (la) attende il futuro. L’età adulta, il compimento di una vocazione, la felicità o il dolore. La scala è ripida, nessuno può aiutarci ad affrontarla. Tocca a noi trovare il coraggio di avviarci lassù – qualunque cosa ci attenda.

Presentazione di Maria al Tempio (1553), olio su tela 480 x 429 cm, Chiesa della Madonna dell’Orto, Venezia

La parola al computer

Stefano Bartezzaghi

“La Repubblica“, 29 dicembre 2013

Il primo trauma — e chi se lo scorda? — fu non dover andar a capo manualmente. L’amico esperto spiegava: «Per il computer, ogni paragrafo è una linea continua di caratteri; sei tu che hai bisogno di interfacciarti con uno spazio simile a una pagina di carta ». Avevo infatti bisogno, un bisogno estremo, di interfacciarmi. Solo che non sapevo cosa volesse dire. Sul computer appena acquistato, pulsava una lineetta intermittente e beffarda, come qualcuno che batta le dita sulla scrivania domandandoti: «Allora? Da dove pensi di cominciare?».
Il primo articolo inviato procurò un’imbarazzante telefonata dalla redazione: era prolisso, cresceva di una ventina di righe. Individuai il mio errore dopo una ricognizione perplessa fra gli arcani comandi della mia nuova “interfaccia”: la funzione di conteggio dei caratteri non considerava gli spazi fra una parola e l’altra. Pensavo di aver scritto sessanta righe, ne avevo mandate ottanta. Era il 1990 e incominciavo così a fare amicizia con Microsoft Word.
Il programma di scrittura più diffuso al mondo, centinaia di milioni di utenti, ha compiuto trent’anni nel 2013. Non si deve dire che è nato nell’ottobre del 1983 perché i software non nascono, i software vengono “rilasciati”. Inevitabile pensare alla fine di una detenzione, per l’effetto lisergico del lessico angloide. Rilasciato, dunque, nell’ottobre del 1983, Word già a novembre fu diffuso gratuitamente in una versione demo, tramite una rivista, con una mossa promozionale allora innovativa. A sviluppare il programma era stato un informatico americano nato in Ungheria, poco più che trentenne, Charles Simonyi. Aveva curato per la Xerox il software BravoX, ma l’azienda non aveva intenzione di commercializzarlo su vasta scala. Così Simonyi si rivolse a Bill Gates, che intuì le potenzialità del programma e del suo autore (lo arruolò subito, per dirigere lo sviluppo dei programmi applicativi di Microsoft). Erano, quelli, gli albori del personal computer, quando non tutti avevano intuito che la macchina sarebbe presto entrata non solo in ogni ufficio ma anche in ogni casa, se non in ogni stanza. A cosa doveva servire? Il mansionario sembra elaborato da Collodi: leggere, scrivere, far di conto. Ma anche giocare. Supremo utensile e balocco, compagno di lavoro e di svaghi, ragioniere, dattilografo, archivista e biscazziere. Non una mission, ma una composizione di funzioni, alcune previste, altre da inventare. Non a caso il primo nome del software di scrittura è stato “Multi-Tool Word”: milleusi, come i coltellini svizzeri in cui sono ingegnosamente ripiegati cavatappi, lame, lime, forbici e stuzzicadenti.
In quanto alla scrittura, la dattilografia si era già in parte evoluta con le macchine da scrivere elettriche ed elettroniche, che consentivano alcune minime funzioni di formattazione (corsivo, grassetto), di verifica e di correzione. Con il word processing e con le evoluzioni dei programmi di scrittura (dopo il 1983 Microsoft Word ha avuto nuove edizioni ogni due anni circa) è stato possibile spostare blocchi di testo, cercare automaticamente parole, sostituirle, cambiare il corpo dei caratteri; e poi correggere automaticamente, integrare immagini, contenuti multimediali; quindi, con l’arrivo di Internet, link a siti... Dal ristretto punto di vista della composizione linguistica del testo, però, la rivoluzione era presente sin dall’inizio. La dattilografia tradizionale, diciamo così unplugged, imponeva di comporre mentalmente la frase e poi batterla, per non perdere tempo e ritmo in laboriose sbianchettature manuali. Già con le macchine elettroniche si digitava una riga che compariva su un visore e si poteva correggere prima di farla stampare sulla carta con il comando di invio (Enter).
Il computer e il word processor resero possibile farlo non più soltanto riga per riga, ma su tutto il documento, fosse anche lungo quanto un intero libro. Risultato: non c’è stato più bisogno di pensare prima di scrivere. Poter modificare il testo all’infinito ha infatti comportato la liberazione definitiva della prima stesura. Scrivere tutto ciò che passa per la mente divenne facile, gratuito, innocuo e pressoché inevitabile. È «la felicità del primo acchito». Così almeno dice Jacopo Belbo, protagonista del Pendolo di Foucault di Umberto Eco (uscito nel 1988), che è fra le altre cose il romanzo del word processing: «Se scrivi con la penna d’oca devi grattare le sudate carte e intingere a ogni istante, i pensieri si sovrappongono e il polso non tien dietro, se batti a macchina si accavallano le lettere, non puoi procedere alla velocità delle tue sinapsi ma solo coi ritmi goffi della meccanica. Con lui, con esso (essa?) invece le dita fantasticano, la mente sfiora la tastiera, via sull’ali dorate, mediti finalmente la severa ragion critica sulla felicità del primo acchito».
Ci sarà poi tempo per correggere, infatti. Ma anche per formattare, per aggiungere, integrare, colorare, illustrare, costellare, ipertestualizzare, impaginare, dare forma di libro. Questa impressione di libertà sconfinata (o perlomeno smarginata) non avverte limiti che pure esistono. Lo «stile» prende nome dallo “stilo”, il primo strumento di scrittura di cui Microsoft Word è l’estrema evoluzione: e nessuno strumento è neutro. Primo limite: Word offre “modelli di testo” in cui riversiamo le nostre parole. Fra noi e la produzione della nostra scrittura si interpone, appunto, un’interfaccia, una pagina che proprio bianca non è, neppure materialmente (una barra di comandi la sovrasta). Il secondo limite è proprio l’assenza di limiti: l’immediatezza che rende scrivere più facile (e gradevole) che leggere, la pulizia esteriore che dà sempre l’impressione superficiale di lavoro ben fatto, la scrittura che non trova nella resistenza della materia un’occasione per ripensarsi. «Tutti gli usi della parola per tutti»: la struggente utopia di Gianni Rodari si rovescia quando dimentichiamo che la libertà di parola (e Word significa appunto parola) contempla anche la libertà di non usarla.

Poeti e contabili: gli scienziati


La ricetta di Wilson: la ricerca? Lavorate 60 ore a settimana
E vi serve tanta fantasia, non 140 di quoziente d’intelligenza

Telmo Pievani

“Corriere della Sera“, 29 dicembre 2013

Un nonno scienziato, davanti al camino, parla con due ricercatori alle prime armi. Il focolare fa luccicare le medaglie al valore scientifico appuntate sul suo petto. Ha deciso di raccontare al ragazzo e alla ragazza tutto ciò che bisogna sapere per avere successo in campo scientifico, in venti brevi lettere. La situazione è a forte rischio di noia e di retorica, ma non se la penna è quella del due volte Premio Pulitzer Edward O. Wilson, l’entomologo di Harvard che ci ha insegnato che cos’è la biodiversità e come si sono sviluppate le straordinarie società delle 16 mila specie conosciute di formiche (Lettere a un giovane scienziato, Raffaello Cortina Editore). 
Per rimanere creativi nella scienza servono prima una passione incrollabile, poi una buona formazione e infine risolutezza e dedizione al lavoro (in quest’ordine). Ingredienti essenziali sono l’audacia e la tenacia, perché ancora non sappiamo tante cose, e chissà quante non sappiamo di non sapere. La matematica è importante ma non basta: è un linguaggio che apre molte porte, tuttavia contano anche la raccolta minuziosa di dati reali, la creatività, le intuizioni, e persino i sogni. Anche se non sei un genio dei numeri e non hai un quoziente di intelligenza superiore a 140, puoi essere un ottimo scienziato, conclude Wilson. La fantasia è al centro del metodo scientifico, perché aiuta a formare concetti e a farsi un’immagine inedita del problema che si sta affrontando. La biologia poi è la scienza delle cause molteplici: richiede metodo e intuito insieme, nonché un certo fiuto per i dettagli e per gli schemi di connessione fra indizi apparentemente insignificanti. 
Sono l’immaginazione e il senso di opportunità a suggerire di non impegnarsi in campi già dissodati da altri, di evitare i settori già pieni di star della scienza, di premi e di risultati, e di esplorare invece territori sconosciuti, poco coltivati da altri. Sogna moltissimo quindi, il giovane scienziato, non smette mai di sognare, e sceglie i modelli giusti. Il processo creativo nella scienza è anche un «silenzioso colloquio interiore». La tecnologia, pure, è fantastica e bisogna servirsene, ma non innamorarsene a tal punto da farla diventare un fine in sé. Wilson è scettico sulle linee di ricerca condotte da centinaia o migliaia di ricercatori, come quelle attuali in fisica sperimentale o nell’analisi dei genomi. La sua immagine dello scienziato innovativo è tutto sommato ancora romantica: un esploratore alla ricerca del suo Graal, un introverso visionario che lavora da solo o in piccoli gruppi collaborativi. 
Nell’elargire questi consigli — talvolta di buon senso, talvolta in nostalgica controtendenza — l’ottuagenario entomologo immune a ogni falsa modestia non resiste alla tentazione di enucleare principi universali su come fare scienza, spesso un po’ speculativi, se non semplicemente banali. Alcuni poi valgono solo nei dintorni di Harvard, tipo: evita gli impegni amministrativi di dipartimento; se l’istituzione dove ti trovi non incoraggia abbastanza la ricerca, spostati altrove. La scienza non è una modalità di conoscenza fra le altre — ripete Wilson — ma «la fonte della civiltà moderna», l’unico sapere davvero universale: come tale, l’epica impresa richiede almeno sessanta ore di lavoro settimanali (e niente riposi prolungati, «i veri scienziati non vanno in vacanza»). In questo monachesimo, lo scienziato ideale di Wilson «pensa come un poeta e solo in un secondo tempo lavora come un contabile». Ogni risposta trovata genera molte nuove domande. 
Di lettera in lettera, si capisce come il mite vegliardo con sessant’anni di ricerche alle spalle sia riuscito a far scoppiare una tempesta di proteste, a metà degli anni Settanta, per aver detto che la natura umana è un insieme di istinti geneticamente definiti e che il nostro comportamento è stato interamente plasmato dalla selezione naturale. Qui però sostiene che il genio non è tanto questione di intelligenza innata, quanto di immaginazione visiva, intraprendenza ed etica del lavoro. Questo nonno scienziato ha saputo anche cambiare idea, fino a ottant’anni, rinnegando antichi convincimenti (e prendendosi così i rimbrotti degli esegeti di inesistenti ortodossie, come Richard Dawkins, che si sono sentiti traditi dal maestro). Non stare mai fermo è il suo modo di fare scienza, da quando cominciò a studiare le infinite «piccole creature che fanno funzionare il mondo». A riprova che l’età mentale non è un dato anagrafico. 

Indagini
Le «Lettere a un giovane scienziato» di Edward O. Wilson sono edite da Raffaello Cortina nella collana «Scienza e idee» diretta da Giulio Giorello (traduzione di Isabella C. Blum, pp. 226). Vincitore di due Pulitzer, 84 anni, Wilson è docente emerito di Biologia a Harvard.

sabato 28 dicembre 2013

Consigli ai liceali.


Cari ragazzi, leggete «Delitto e castigo»: dentro c'è tutta la vita

PIETRO CITATI 

“Corriere della Sera“, 28 dicembre 2013

Come hanno raccontato i giornali nei giorni scorsi, il ministro italiano della Pubblica Istruzione ha raccomandato agli studenti di leggere libri durante le vacanze di Natale. Niente di meglio che avere più di due settimane davanti a sé; e dedicarle alla lettura di un grande romanzo, affondando in esso, non lasciandolo mai, perdendosi completamente nella storia e nei personaggi. Questo è essenziale: imparare a perdersi in un libro; supporre, per qualche tempo, che nulla d'altro esista al mondo, e che il libro sia lo stesso mondo. Ciò è vero: non sono i libri che nascono dalla realtà, ma la realtà a nascere dai libri. Viviamo in Balzac, in Grandi speranze, in Flaubert, nella Recherche, nell'Uomo senza qualità; e solo allora scopriamo cosa sia verità e cosa sia felicità. 
Cosa possono leggere i ragazzi delle medie e dei licei? Non è semplice dirlo: nell'infanzia hanno letto alcuni capolavori: le Favole italiane di Italo Calvino, Pinocchio, L'isola del tesoro. Più tardi, devono entrare nella totalità della letteratura. Come è naturale, essi non sanno, e hanno bisogno di essere consigliati. Solo molto di rado, le famiglie sono in condizioni di consigliare: padri e madri non hanno letto, o non hanno letto abbastanza. I consigli devono venire soprattutto dalla scuola, come oggi già avviene. In generale, dubito dei consigli che da la scuola italiana. Un ragazzo di quindici, o anche di diciotto anni, non può leggere tutti i classici: alcuni non sono adatti, perché esigono una mentalità analitica estremamente complicata. Così, per esempio, non consiglierei mai La coscienza di Zeno a un ragazzo di liceo, come pure accade. Un ragazzo ha bisogno di grandi miti, grandi personaggi, eventi drammatici, che lo sconvolgano e lo facciano entrare nel cuore stesso della vita. Consiglierei Delitto e castigo di Dostoevski. Qualcuno mi obietterà: è troppo difficile, è troppo tragico. Ma un ragazzo ama, e capisce, la tragedia: vuole sentir parlare di vita, morte, passione, delitto; fantastica attorno a ciò che ha letto, e lo trasforma in se stesso. Una lettura come questa preannuncia e anticipa il suo futuro: lo segna in modo incancellabile, ed egli poi si rivolgerà indietro, comprendendo che con la lettura di quel libro è cominciata la sua vita. 

Best of...



NYT: 100 Notable Books of 2013 


The year’s notable fiction, poetry and nonfiction, selected by the editors of The New York Times Book Review. CLICCA QUI.

I giurati di "Repubblica" hanno premiato la storia emozionante dell'inglese Julian Barnes Al secondo posto Louise Erdrich, un'indiana d'America tra miti tradizionali e thriller 


LEONETTA BENTIVOGLIO

                                                    “La Repubblica“, 27 dicembre 2013 

Livelli di vita di Julian Barnes è il libro migliore del 2013 secondo i giurati di Repubblica. I quali sono, oltre all'autrice di quest'articolo, Stefano Bartezzaghi, Irene Bignardi, Paolo Mauri, Gabriele Romagnoli, Roberto Saviano e Benedetta Tobagi. Vincono le emozioni levigate di una storia che ci parla d'amore e perdita, di separazioni e abissi, dei rischi estremi e della gioia del volare, in ogni senso. Un potente mix di realtà e finzione dal quale emerge una tendenza già registrata l'anno scorso con la premiazione di Limonov di Carrère, costruito sui dati concreti di una biografia. Siamo alla riconferma di quanto oggi la letteratura privilegi (come il cinema) la cronaca e il documento rispetto all'invenzione pura. 
Respira su un versante radicato nel vero anche Questa libertà, al quinto posto nelle preferenze di Repubblica. Debutto in prosa del poeta friulano Pierluigi Cappello, è scandito da sei intensissimi memoir autobiografici. Inoltre sono decise e vigorose le connotazioni realistiche di Yellow Birds, scritto dall'esordiente americano Kevin Powers, e di Non temere e non sperare dell'israeliano Yehoshua Kenaz, rispettivamente settimo e ottavo libro in classifica. Il primo viaggia nel rosso sangue di una guerra a noi vicinissima, quella in Iraq; il secondo ripercorre con slancio epico e oggettività chirurgica la dura educazione bellica dei figli d'Israele. Due romanzi nutriti dalle dirette esperienze degli autori. 
Il demone della guerra nel ventesimo secolo pulsa al contrario ne Il declino della violenza (decimo posto), la sorprendente analisi di Steven Pinker che ci dimostra, con quantificazioni rigorose, perché la nostra è l'era più pacifica della Storia malgrado tutto. Tra i saggi votati da Repubblica svetta pure la straordinaria epopea sul rapporto tra l'uomo e il mare delineata da "Atlantico" di Simon Winchester, che ha conquistato il nono posto. La fiction straniera premiata dalla Top Ten include ancora (con un glorioso secondo posto) La casa tonda di Louise Erdrich e Dieci dicembre di George Saunders (che si aggiudica la quarta posizione). Due opere originalissime per motivi diversi: l'una ha un'identità di genere ibrida e fascinosa, oscillando tra il romanzo di formazione e il thriller riverberato da leggende e miti (l'autrice è un'indiana d'America); l'altra rivela con genialità kafkiana, nel suo collage di parabole d'immaginifica e surreale "normalità", un buon ventaglio di follie del nostro tempo.
Infine gli italiani. Nella Booklist 2013 di Repubblica figurano, oltre a Cappello, Elena Ferrante con Storia di chi fugge e di chi resta (numero tre) e Antonio Tabucchi (scomparso più di un anno fa) con il postumo Per Isabel (numero sei), un visionario gioco investigativo sulle tracce di un'entità femminile da ricomporre. Non sono i loro romanzi migliori in assoluto, ma l'attribuzione di merito (terzo e sesto posto) è soprattutto un omaggio a due grandi "classici" della contemporaneità. 


Eco, o'Brien e Pynchon. I consigli degli altri

Un giro fra le classifiche inglesi, americane, tedesche e francesi 

 RAFFAELLA DE SANTIS 

Uno dei divertimenti di fine anno, oltre agli oroscopi, è un giro tra le classifiche del best of. Quest'anno sono particolarmente varie: romanzi d'amore, storie di famiglia e racconti di guerra. Emerge una grande fame di realtà, di letture che parlino di noi. Agli anglosassoni, appassionati di elenchi, piacciono i romanzi di taglio sociale. Tra le scelte del New York Times svetta Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie, per la capacità di descrivere la« tragedia e la commedia delle relazioni razziali» (sarà pubblicato in Italia da Einaudi). È la storia di una nigeriana trasferitasi negli States per studiare e che vuole ritrovare le sue radici. Guarda invece alle lotte degli anni 70 Flamerthrousers di Rachel Kushner, protagonista un'artista travolta dall'amore e dalla politica. Il libro, che uscirà per Ponte alle Grazie col titolo  I lanciafiamme, ha conquistato la stampa americana e britannica, insieme a The Luminaries della neozelandese Eleanor Catton, vincitore del Booker Prize (prossima pubblicazione Fandango): romanzo di stampo vittoriano, "scintillante" per il Guardian, ambientato nella Nuova Zelanda del XIX secolo. Ha un andamento dickensiano anche The Goldfinch (II cardellino) di Donna Tartt, atteso da Rizzoli, storia di un orfano che ha perso la madre in un attentato terroristico. Mentre Stoner di John Williams (Fazi) è stato scelto da Ruth Kendeil per la sua capacità di «raccontare le nostre passioni» ed è tra i preferiti di Julian Barnes, tra i libri dell'anno dell'Huffington Post con Livelli di vita (Einaudi).
 Ma la fame di realtà può trasformarsi in un'ossessione. Nelle liste dei best books ci sono The Circle di Dave Eggers e Bleeding Edge di Thomas Pynchon (uscirà per Einaudi), una distopia orwelliana, per il Guardian «verosimile e raccapricciante», e un thriller tecnologico. Mentre in Dieci dicembre di George Saunders (minimumfax, consigliato da Roddy Doyle e da Mohsin Hamid) c'è un racconto intitolato Fuga dall'Aracnotesta in cui si immagina la possibilità di controllare la nostra vita emotiva attraverso medicinali. Perfino il disco Modern Vampires of the City dei Vampire Weekend, palma d'oro per la rivista RollingStone, ha toni da Armageddon. 
In fondo è una distorsione della realtà pure la storia raccontata in Lui è tornato del tedesco Timur Vermes (Bompiani), in cui Hitler resuscita nella Germania della Merkel. Il bestseller è suggerito dallo Spiegel, insieme al romanzo afgano di Khaled Hosseini (E l'eco rispose, Piemme), il più votato su Goodreads. Ammorbidisce con il suo coraggio gli urti della vita Edna O'Brien, che ha saputo trasformarsi da ragazza di campagna in scrittrice glamour. La sua autobiografia Country Girl (Elliot) è da non perdere per Express e New York Times. Una curiosità: nella classifica personale di Edna c'è La Folie Baudelaire di Roberto Calasso (Adelphi). 
Ma è l'arte più della letteratura ad avere voglia di trasfigurare il reale. L'installazione Surveys del sudafricano Jane Alexander è per Holland Cotter, critico del New York Tïmes, tra i migliori eventi artistici del 2013. Testimoniano invece i fatti più significativi dell'anno le fotografie selezionate dai giornali: sul Wall Street Journal la protesta di Gezi Parkalstanbul, sul Time lo scatto di John Tlumacki dell'attentato alla maratona di Boston e quello di Emin Özmen di un uomo siriano mentre viene sgozzato. C'è poca Italia, però, in queste classifiche. Tra i film La grande bellezza di Sorrentino, scelto dai lettori del Guardian. E tra i libri La storia delle terre e dei luoghi leggendari di Umberto Eco (Bompiani), consigliato da El Pais: un omaggio all'immaginazione letteraria prima che alla realtà.


venerdì 27 dicembre 2013

Fernando Bandini, 1931 - 2013


Addio a Bandini il poeta veneto che scelse il latino

FRANCESCO ERBANI 

“La Repubblica“, 27 dicembre 2013

Fernando Bandini, poeta, è morto il giorno di Natale nella sua casa di Vicenza, in Contra Carpagnon. Aveva ottantadue anni, era ammalato e da tempo costretto su una sedia a rotelle. Nei suoi occhi, però, ancora qualche mese fa lampeggiava un guizzo poco più che adolescenziale e essi brillavano addirittura di luce infantile quando indovinava una battuta in un vicentino limpido e musicale, la lingua della sua Azneciv, come in molte poesie rovesciava il nome della città. Negli ultimi mesi si muoveva poco, era spesso in ospedale, ma non rinunciava a una rilassante chiacchierata sul suo fare poesia, sulla scelta del latino come lingua poetica non tanto perche morta, bensì perche al di là del tempo e capace, talvolta, di cogliere l'universale meglio dell'italiano. Le sue parole fluivano sciolte e ogni tanto Bandini scoppiava in una risata, anche questa con qualcosa di infantile, che si prolungava in una specie di buffo singulto. Aveva un senso, molto poetico, delle pause comiche. 
Bandini era nato nel 1931. Ha insegnato nelle scuole elementari e poi è stato docente di Metrica e di Filologia romanza all'università di Padova e quindi di Letteratura moderna e contemporanea a Ginevra. La sua prima raccolta, In modo lampante, è del 1962, edita da Neri Pozza. Seguiranno Per partito preso (1965) e poi, nella collana "Lo Specchio" di Mondadori, Memorie del futuro (1969) e La mantide e la città (1978). Nel 1985 pubblica // ritorno della cometa, mentre nel 1994 esce da Garzanti Santi di Dicembre, una raccolta seguita nel 1998 da Meridiano di Greenwich e nel 2007 da Dietro i cancelli e altrove. A settembre, al Festiva letteratura di Mantova, si è esibito in una lezione sulle sue traduzioni in latino: celebre ed emozionante quella della Bufera montaliana che quella sera ha letto per intero. Nel pubblico era seduto l'insegnante universitario con il quale - giovani entrambi, quest'ultimo lievemente più grande - Bandini aveva dato l'esame di latino. E memorabile è stato il loro duetto. 
Bandini, poeta trilingue - in italiano, in vicentino e in latino -, scriveva versi garbati e ironici, ma non limitava i suoi materiali alle piccole cose quotidiane, che pure popolano una lingua così cantabile come poche altre nel secondo Novecento. L'universo che Bandini racchiude in una metrica tanto spigliata sfiora le tensioni più acute del Novecento: «Fossero imiei versi di bella fattura / ma nutriti di umana realtà. / Fossero i miei versi come la libertà / aria della lotta e pane del riposo». L'ironia e il passo leggero condivano il suo sguardo sulla vitae i suoi racconti. Raccontava di Andrea Zanzotto, di Mario Rigoni Stern, dei suoi amici stretti, Goffredo Parise e Luigi Meneghello. Delle loro diatribe sul dialetto. Del Veneto che non c'è più e di quello che resiste ostinatamente in una roggia e in una valletta. E appena gli si citava una linea veneta della quale anche lui era parte, un po' fingeva di non sentire, un po' cambiava discorso, ma non perché la ritenesse una categoria criticamente poco attendibile. Al contrario, perché se l'aspettava e la scansava per ritrosia. 
La stessa di quando gli si chiedeva del latino. «Io il latino non lo so, ho fatto le scuole magistrali e non il liceo classico», replicava. Ma poi il seguito della chiacchiera tradiva consapevolezza letteraria: «Meglio tornare allo stato larvale di una lingua morta, che esprime valori assoluti, sentimenti fondamentali e mostra come tutto si ripeta». Non sono un poeta latino, insisteva. Eppure nella lingua di Cicerone è tessuta un'intera sezione del Meridiano di Greenwich. Quel che Bandini voleva evitare era di essere considerato un poeta-fenomeno, in gara con se stesso alla ricerca di una misura espressiva eccentrica. Tutt'altra è la sua poesia, animata dagli oggetti e dalle presenze ordinarie - gli uccelli, per esempio - e così aliena da ogni tentazione tribunizia, o anche sperimentale, sia nel lessico che nella costruzione del verso. Italiano, vicentino e latino avevano funzioni interscambiabili, ma tutt 'e tre servivano un identico ideale poetico. 
Più volte Bandini ha raccontato perché abbia adottato il latino: «Era la fine degli anni Cinquanta, rimasi sconvolto da una mostra di disegni fatti dai bambini morti nel lager nazista di Terezin. Provai a mettere quelle emozioni in versi, ma usciva sempre un tono falso, declamatorio. M'imbattei in un inno liturgico del poeta latino Prudenzio dedicato alla strage dei Santi Innocenti. Avevo trovato la lingua adatta per lo sterminio dei bambini. Nacque Sacrum Iemale, Festa d'inverno». Il latino che serve uno scopo, come il vicentino, che a lui appariva in un rapporto di antica parentela con la lingua di Grazio. Ma senza equivoci popolareschi: «II dialetto sembra una lingua materna, che non rientra in una cultura letteraria. Ma è vero fino a un certo punto. I nostri poeti dialettali grondano letterarietà. Dal friulano Pier Paolo Pasolini al lucano Albino Pierro». 


Bandini, poeta in cerca dell'ignoto

Scompare l'artista vicentino che preferiva la tecnica 
e la classicità alle mode contemporanee 
 Nei versi lo sforzo di cogliere il volto segreto delle cose 

ROBERTO GALAVERNI 

“Corriere della Sera“, 27 dicembre 2013

Fernando Bandini amava l'inverno. Dicembre e il Natale, soprattutto. All'inverno e al Natale aveva legato non a caso il suo libro più bello, Santi di Dicembre, appunto. «Dimmi se il cielo cova / una nuova moneta per il viaggio / di nuovi Re, / se dobbiamo aspettarli - io che aspettavo / Natale, la sua aureola / di lumi e la sua pace...», era l'auspicio dei Versi scritti durante le feste di Natale del 1989. E adesso che il destino ha scelto con cura questi giorni e queste feste per la sua dipartita, mi piace immaginare che il poeta di Vicenza abbia eletto proprio quei versi a viatico per il suo ultimo viaggio, come la moneta che gli antichi portavano con sé. 
E antica, legata insieme al retaggio della letteratura latina e della grande tradizione poetica italiana, è anche l'idea di poesia che Bandini ha sempre coltivato. Questo non gli ha impedito affatto di essere fino in fondo un uomo del suo tempo, di continuare a credere negli altri, nella possibilità di una maggiore giustizia della storia, e d'impegnarsi allora in prima persona per le sorti del proprio Paese e della sua città. Anzi, un certo sentimento del dovere pubblico e delle virtù civiche gli veniva proprio di lì, dalla letteratura, dai poeti che più amava e che ricordava molto spesso a memoria, con una conoscenza che lasciava ammirati, e in verità anche un po' invidiosi, dei minimi ma fondamentali dettagli tecnici, delle risorse stilistiche, dei cosiddetti segreti d'officina. È proprio questo a cui alludo: al modo dei classici la poesia per Bandini è anzitutto mestiere, competenza, vale a dire conoscenza e padronanza dei mezzi espressivi. E dunque tecnica, capacità di fare, costruzione oggettiva, arte intesa in senso etimologico, civiltà poetica. Per questo le viene anche riconosciuto — forza e vincolo, insieme — uno spiccato significato istituzionale, di convenzione che l'esperienza dei poeti ha via via definito nel tempo come se si trattasse di un diritto consuetudinario. Il senso pieno, forse l'unico davvero plausibile della tradizione non è altri che questo, del resto. Così si è già nel pieno campo di tensioni di un'alchimia compositiva piuttosto singolare. 
Proprio per la sua concezione eminentemente tecnica e formale, infatti, in Bandini la poesia sembra arrivare soltanto al termine del procedimento creativo. Mi spiego. Il verso, il rigore dell'esercizio metrico e insomma tutta la solidissima macchina retorica, non intendono affatto prendere le misure e regolarizzare una spinta emotiva, una propulsione passionale o sentimentale altrimenti informi e lasciate a se stesse. No, da questo punto di vista non c'è nulla da contenere o da imbrigliare. All'opposto, il mezzo tecnico è per Bandini un'opportunità per trovare e raggiungere la poesia proprio là dove non la si vedeva o non si riusciva a credere che fosse, per riconoscere legittimità, verità e soprattutto intensità ai sentimenti più riposti e inarrivabili del proprio animo, per scoprire, mi si permetta, la qualità, il soffio poetico della propria esistenza. La forma, dunque, non come una costrizione, ma come il tramite di una liberazione. In Bandini molte cose sembrano funzionare al contrario rispetto ai più prevedibili procedimenti compositivi. Non dal fluido al solido, ma dal solido al fluido. Accade un po' come nel rapporto del poeta con la sua amata Vicenza, sempre designata attraverso il palindromo Aznèciv, a metà tra la critica, il non poterne più da un lato, e il miraggio dall'altro. Come se nel rovescio della città presente ne lievitasse comunque un'altra, uguale e diversa, oscillante tra il ricordo e il sogno. 
Allo stesso modo i versi di Bandini vivono di un contrasto fondamentale— mi sembra questo il loro tratto più pregevole e originale — tra il grande rigore formale e un immaginario poetico irregolare, sghembo, sempre un poco stralunato. I contenuti prosastici, comuni, quotidiani (la parola è oltremodo equivoca, lo so) sono spesso attraversati da un brivido di stranezza, se non di estraneità. Piante e animali dai nomi bizzarri, ricordi di accadimenti singolari, constatazioni insolite, associazioni impreviste. Il poeta metrico è zoppicante come pochi, lo scrittore della maturità può davvero cullare le curiosità e i sogni di un bambino. Per sua fortuna. Al riguardo ha detto bene Andrea Zanzotto, quando, riferendosi al laboratorio poetico trilingue di Bandini (italiano, latino e vicentino), nonché al suo grande amore per Pascoli, lo ha definito un «dotto fanciullino, ma negli anni del tardo Novecento». Ed è giusto. 
«Così verso un Altrove ignoto spesso / si dirigono inquieti i miei pensieri, / a un paese che sembra emerso ieri / dal diluvio, grondante ancora e intatto». Le sue misuratissime parole in metrica sono capaci di una malinconia, di una dolcezza, perfino una malinconia, di una dolcezza, perfino di un candore sorprendentemente diretti, e tante volte incantevoli. Fernando Bandini: così agguerrito, così disarmato. 


Grazie, professor Bandini, per avermi insegnato verbo et exemplo molto del poco che so.
S.F.

Eataly. Firenze Il Bignami del Rinascimento: l’ultima idea per vendere paccheri


Tomaso Montanari


“Il Fatto“, 27 dicembre 2013

“Eataly presenta il Rinascimento”. Esattamente come fa McDonald’s, che a Roma cita le rovine classiche e in Toscana i cipressi, anche la catena di Oscar Farinetti si mimetizza. Lo fa con lo stesso grado di fantasia (minima) e omologazione commerciale (massima). E visto che Firenze vive da secoli alle spalle del mito usuratissimo del Rinascimento, a cosa altro pensare per il nuovo negozio?
“Antonio Scurati, celebre scrittore e professore universitario, ha curato in esclusiva per Eataly un percorso museale che racconta i luoghi, i valori e le figure storiche che hanno contribuito al periodo artistico e culturale più fulgido di sempre”, recita un cartello con ritratto del nuovo Vate. E lasciamo fare l’idea che la storia sia una top ten: è incredibile definire “percorso museale” alcuni piccoli pannelli appesi intorno alla scala che sale al primo piano e fruibili (unico particolare... ‘museale’) anche attraverso un’audioguida con la viva voce del “celebre scrittore e professore”.
Ma non era meglio dialogare con Firenze, invece che farne il riassunto? Non siamo a Sydney, o a Pechino: perché mai un fiorentino o un turista dovrebbero perdere tempo a sentire una sfilza di inevitabili banalità invece di andare a vedere con i propri occhi il Rinascimento, che si trova a pochi metri? E qui capisci che lo spirito di Eataly è il contrario di quello di Slow Food, del chilometro zero o, per rimanere a Firenze, di un Fabio Picchi: quello che conta è il packaging, la confezione. Che è capace di venderti tutto, perfino il Rinascimento ai fiorentini.
LA COSA diventa imbarazzante quando si legge. Un fiume di aneddoti triti e ritriti (e raccontati senza comprenderli: come quello sui crocifissi di Donatello e Brunelleschi, che manca del finale), riassuntini da wikipedia, slogan a effetto (Lorenzo il Magnifico è “una scimmia squisita”), tentativi penosi di stupire (il David di Donatello è definito “rilievo a tutto tondo”, ed è fotografato dal lato b). Un bignamino del Rinascimento da terza media, ma raccontato come se fosse una rivelazione storico-letteraria.
Sul sito di Eataly Firenze, poi, la cosa diventa tragica. “Gli otto valori del Rinascimento secondo Scurati” (ma quanto l’hanno pagato per convincerlo a prestarsi a una cosa del genere?) sono un rosario di errori madornali, in un italiano che non può essere del “celebre scrittore”: “Si abbandona la brutalità del Medio Evo per valori più raffinati e nobili quali la bellezza e la gentilezza che diventano norme del comportamento” (e addio allo Stilnovo, e alla cavalleria) ; “Le leggi matematiche lasciano spazio all’idea di infinito tramite la prospettiva centrale che durante il Rinascimento viene teorizzata da Leon Battista Alberti” (dove Alberti è scambiato per Giordano Bruno, e annegato in una specie di maionese storica impazzita). Ma ancora: “Si parte da Piazza Annunziata dallo Spedale degli Innocenti, l’edificio realizzato da Brunelleschi è il simbolo dell’origine dell’architettura rinascimentale e il protagonista indiscusso Cosimo de’ Medici, sovrano di Firenze ma soprattutto mercante d’arte”. Allora: la piazza si chiama della Santissima Annunziata (e questo è un dettaglio), e Cosimo non fu il sovrano di Firenze, e non fu un mercante d’arte (e questi non sono dettagli). E così via, pannello dopo pannello.
Ma come è possibile strumentalizzare con tanta arroganza qualcosa che si dichiara di voler far conoscere? È questo che intende Oscar Farinetti quando dichiara: “Caravaggio non può esser tenuto in cantina, non so se mi spiego”? E “gli studi e le ricerche inutili” che – come ha detto al Fatto – andrebbero eliminati, sono per caso quelli di storia e storia dell’arte? Esci da Eataly pensando all’identico uso del Rinascimento che fa il grande amico di Farinetti, Matteo Renzi: che non scrive un libro senza condirlo di strafalcioni su Leonardo, Michelangelo e Brunelleschi, che fora i muri di Palazzo Vecchio per cercare affreschi inesistenti e annuncia di voler costruire facciate progettate 500 anni fa. È la stessa idea di cultura ridotta a strumento per venderti qualcosa: poco importa se il prosciutto, o una candidatura.
E ormai non riesci a capire se è Renzi che imita Farinetti, o Farinetti che imita Renzi. L’unica cosa certa è che il Rinascimento non è mai stato così lontano.

La replica di A. Scurati: CLICCA QUI.
... E la controreplica di Montanari. CLICCA QUI.

I gay e la scienza, la pagina nera della discriminazione di Turing


Giovanni Caprara

“Corriere della Sera“, 27 dicembre 2013

Sono occorsi 61 anni perché la regina d’Inghilterra riscattasse l’onore e la figura del padre dell’intelligenza artificiale Alan Turing, ingiustamente accusato e colpevolizzato per la sua omosessualità. Ma il suo non è l’unico caso nella storia della scienza. Altri, da Leonardo da Vinci a Isaac Newton, da Alexander von Humboldt ad Anna Freud, si sono dovuti confrontare con una società che li osservava attentamente. I momenti in cui vivevano, però, erano diversi e la loro omosessualità fu socialmente percepita in modo differente. Le reazioni ai loro comportamenti non incisero negativamente sul lavoro di ricerca. 
Turing invece soffrì così profondamente da suicidarsi con il veleno (forse una mela con cianuro di potassio, secondo una leggenda) quando aveva 41 anni. Così, tragicamente, scompariva una delle menti più geniali, iniziatore della computer science. La regina Elisabetta alla vigilia di Natale ha elargito il suo «perdono» attraverso il Royal Prerogative of Mercy annunciato dal segretario alla giustizia Chris Grayling, che ha parlato del trattamento ingiusto e discriminatorio subito da Turing spiegando che l’illustre matematico doveva essere ricordato e considerato per il suo eccezionale contributo allo sforzo bellico e per l’eredità scientifica. 
Turing, già famoso per le sue scoperte, fu arruolato con altri scienziati nei primi anni Quaranta, tutti riuniti in un palazzo di mattoni immerso nel verde di Bletchley Park, vicino ad Oxford. Lì nascosti, segretamente riuscirono a decrittare i codici della macchina Enigma attraverso la quale i nazisti trasmettevano i loro messaggi alle forze armate. Fu uno sforzo prodigioso che permise agli alleati di sopraffare le navi italiane nel Mediterraneo, i sommergibili nell’oceano Atlantico e le forze nemiche in Africa contribuendo in modo definitivo alla vittoria. Il suo apporto rimase segreto e nel 1952 Turing fu accusato di «indecenza» per aver avuto rapporti con un uomo. Uno scandalo che la legge puniva con iniezioni di ormoni: era la castrazione chimica. Così, mentre vedeva il suo seno crescere come conseguenza degli ormoni, a Turing venne tolta la facoltà di lavorare ai progetti di ricerca più avanzati e segreti. Fino a che nel ‘54 il giovane dai capelli neri ben pettinati che andava in bicicletta a Bletchley Park per salvare la patria, si tolse la vita diventata per lui impossibile. 
Nel silenzio ufficiale emerse soltanto la «colpa» e nessun merito. Anche se per la scienza era sempre più evidente il suo contributo fondamentale alla nascita dell’informatica (contribuì alla realizzazione del primo computer) mentre poneva le basi dell’intelligenza artificiale. Tanto che porta il suo nome il famoso test per distinguere se una macchina può essere classificata intelligente. 
Verso la fine dello scorso decennio ha raccolto 30 mila firme la petizione tra gli scienziati che chiedeva al governo un intervento di riabilitazione. Nel 2009 il primo ministro Gordon Brawn, ammettendo che Turing fu vittima di un trattamento ingiusto, aggiunse perfidamente che «avrebbe dovuto sapere» che stava commettendo un reato secondo la legge del tempo. Ma la raccolta firme degli scienziati non si è fermata, ha toccato quota 35 mila — compresa quella dell’illustre astrofisico Stephen Hawking — e finalmente l’appello ha raggiunto la regina che ha concesso il perdono. Così si chiude una brutta storia della società britannica, fatta di accanimento su un ricercatore giudicato tra i 100 più importanti del ventesimo secolo. 
Del resto nessuno accusò Leonardo da Vinci di farsi accompagnare dai giovani allievi Francesco Melzi e Gian Giacomo Caprotti detto Salai. Non ci sono state persecuzioni o indagini nei confronti di Cartesio o Newton, ritenuti omosessuali pur non essendo mai stata raccolta una prova definitiva. Altrettanto per Nicola Tesla, il fisico americano concorrente di Marconi. E nell’Ottocento, il grande naturalista ed esploratore prussiano Alexander von Humboldt che influenzò i lavori di Darwin oltre ad essere tra i fondatori della meteorologia, non fu certo perseguito nonostante le sue note amicizie maschili tra cui il celebre chimico francese Gay-Lussac di cui a scuola studiamo le leggi. Così come nessuno ha mai puntato il dito contro Anna Freud, figlia del padre della psicanalisi e fondatrice della psicologia infantile, per la sua presunta omosessualità. Rimaneva solo la vicenda di Alan Turing, una pagina nera nella storia umana della scienza. Per fortuna ora la regina d’Inghilterra ha voltato pagina. 



Così è l’amore secondo Stendhal: eterna sfida tra ardore e freddezza


Le figure femminili che affascinano (e dividono) i lettori

Giorgio Montefoschi

“Corriere della Sera“, 27 dicembre 2013

«Era una donna alta, ben fatta, che era stata la bellezza della regione, come si dice tra queste montagne. Aveva una certa aria di semplicità, e un’andatura giovanile; a un parigino quella grazia ingenua, piena di innocenza e di brio, avrebbe addirittura suggerito qualche idea di dolce voluttà». Così, per la prima volta, viene descritta da Stendhal la signora de Renal, una delle due protagoniste de Il rosso e il nero, che oggi, per una collana di classici con nuove traduzioni — questa è di Margherita Botto — propone Einaudi (pagine 524, e 24). Quando apre la porta di casa, nel villaggio di Verrières, ai piedi del massiccio del Giura, e si trova di fronte Julien, il ventenne figlio del carpentiere che suo marito, il sindaco di Verrières, ha scelto come precettore per i loro figli, è colpita dalla sua carnagione pallidissima, dagli occhi dolci che hanno appena pianto. Il ragazzo timido che conosce a perfezione la Bibbia e a memoria sa recitarla in latino, e la moglie del sindaco si guardano. L’attrazione reciproca è immediata. 
Inizia in tal modo la prima delle due vicende sentimentali e tragiche che coinvolgeranno Julien, attraverso le quali — fermo restando il carattere volitivo e ambizioso del giovane avviato alla carriera ecclesiastica, ammiratore di Napoleone, corrotto dal veleno delle disparità sociali, egoista come tutti nelle passioni, ingenuo e cinico, straziato dal contrasto fra il tumulto amoroso e ciò che gli impone come dovere il proprio orgoglio — conosceremo due donne diversissime che, fino all’ultima pagina del romanzo, ci lasceranno dubbiosi sulla risposta da dare a una domanda assai semplice, in definitiva: noi chi avremmo più amato, la signora de Renal, o la sua rivale, la signorina de La Mole ? 
La signora de Renal, che di anni ne ha trenta, è sposata a un uomo gretto e vive in un ambiente gretto. Julien è una scintilla imprevista nella noia della vita coniugale. La seduzione si consuma in una serie di contatti fisici che avvengono in giardino di giorno, e durante le notti estive sotto il grande tiglio avvolto nell’oscurità. Sono scene meravigliose. La signora de Renal si è già rivolta a Julien chiamandolo «mio caro». Una mattina, passeggiando, si appoggia al suo braccio in un «modo strano». Poche sere più tardi lui le tocca la mano poggiata sulla spalliera della poltroncina e lei si ritrae; la sera seguente lui nuovamente gliela prende e la «sventurata» lascia che gliela stringa, provocando un’ondata di gioia; una terza sera, Julien, in presenza addirittura del sindaco, copre il braccio nudo della signora de Renal di baci frementi; durante una assenza di Julien, lei, ormai perdutamente innamorata, compra delle calze traforate e delle deliziose scarpette; lui, mentre passano da una stanza all’altra, la bacia; lei pensa: è pazzo, e dopo: cosa mi accadrebbe se fossi sola con lui; lui, quella sera, le tocca il piede inguainato nella calza traforata e le annuncia che alle due della notte sarà nella sua stanza; lei gli apre la porta e esclama: «Disgraziato!»; lui si getta alle sue ginocchia; lei, persino quando non ha più nulla da rifiutargli, lo respinge con autentica indignazione, quindi lo stringe fra le braccia. 
Ora, il gioco degli sguardi che più si sottraggono e più sono rivelatori, i turbamenti e le gelosie che subito intervengono nel cuore della signora de Renal, e sono le stigmate della passione, svaniscono per lasciare il campo a un doloroso supplizio. Lei, la progenitrice di Madame Bovary, è tormentata dalla consapevolezza della differenza d’età che le fa temere di perdere il suo amante; lui, dal proprio dissidio interiore; lei sente di non aver mai provato questa «cupa follia» che la sconvolge; lui è roso dal tarlo sociale che gli impone di non cedere a se stesso e di recitare, anche nei momenti più belli, un suo ruolo. Poi, un figlio della signora de Renal si ammala e lei, adultera, pensa che sia la punizione divina, impone a Julien di andarsene e intanto gli si avvinghia come l’edera a un muro; il bambino guarisce; i baci si fanno più ardenti perché la signora de Renal sa che il tempo corre; compaiono le inevitabili lettere anonime; Julien, seguendo il consiglio del suo abate, va a ritirarsi nel seminario di Besançon; quindi torna, una notte, e con una scala sale nella sua stanza; lei, coprendolo di baci, sussurra: «Ah, morire, morire così!»; all’alba, Julien parte a cavallo, voltandosi, fino all’ultimo, a guardare il campanile di Verrières. 
Le vicende del romanzo che (al pari di quelle fin qui trascurate) non raccontiamo, portano Julien a Parigi, nello sfarzoso palazzo del ricco marchese de La Mole. Julien diventa il suo segretario. Il primo giorno, a tavola appare Mathilde de La Mole. Questa, la descrizione di Stendhal: «Una ragazza biondissima e molto ben fatta, che andò a sedersi di fronte a lui. Non gli piacque; eppure, guardandola attentamente, pensò di non aver mai visto occhi così belli; però rivelavano una grande freddezza d’animo. Poi gli parve che tradissero una noia che scruta ma senza dimenticare di incutere rispetto. «Che differenza — pensa Julien — con gli occhi della signora de Renal animati dall’ardore delle passioni; in questi, brilla casomai quello dell’arguzia». 
La vita che si svolge nel palazzo dei de La Mole, è la vita stolta di una magione nobile nell’epoca della Restaurazione: cene, visite, conversazioni inutili. A Mathilde la sorte ha dato ogni cosa: lustro, ricchezza, gioventù; tranne la felicità. Ben presto i suoi occhi si posano su Julien, che lavora in biblioteca, con una diversa attenzione rispetto a quella gelida dell’inizio. Anche perché Julien è colto , intelligente, diverso dai suoi svenevoli corteggiatori. Ma a lui continua a essere indifferente. Una sera, con la «voce vivace e secca e senza alcunché di femminile che usano le donne dell’alta società», lei lo invita al ballo del signore di Retz. Lui obbedisce. Ed è in questa serata — in un altro palazzo da favola pieno di candele, profumi e belle donne — che cambia tutto. È uno dei «balli» psicologicamente più intensi della letteratura ottocentesca, non inferiore a quelli della Austen. Mathilde ha un abito molto scollato ed è molto ammirata. Ma «si direbbe che abbia paura di piacere a chi sta parlando». I suoi grandi occhi azzurri, proprio quando sembra che stiano per tradirsi, lentamente si abbassano. È l’arte della seduzione nascosta in un nobile ritegno, o non è piuttosto la paura di amare? Julien la guarda e si accorge che è bella. Lei è preda dei sentimenti più confusi, nei suoi confronti: non ultimo l’irritazione se lui non la guarda. Dunque, balla fino a stordirsi. 
La mattina seguente, entra in biblioteca vestita a lutto. Indossa il nero, perché è l’anniversario di un episodio che appartiene alla storia della sua famiglia per il quale ha un vero e proprio culto. Bonifacio de La Mole, amante della regina Margherita di Navarra, voleva restituire la libertà ai suoi amici. Non vi riuscì e fu consegnato al boia. Margherita si fece dare la sua testa e andò a seppellirla personalmente ai piedi di Montmatre. Quale donna — dice Mathilde a Julien mentre passeggiano in giardino — oggi non inorridirebbe al pensiero di toccare la testa del proprio amante decapitato? Julien pensa che i nobili hanno questo vantaggio rispetto ai plebei come lui: la storia dei loro avi li innalza al di sopra dei sentimenti volgari e non devono sempre pensare ai mezzi per sopravvivere. Lei si appoggia al suo braccio in un «modo molto strano». Julien pensa: mi prende in giro o mi ama? 
Inizia, a questo punto, un doppio conflitto — feroce — nell’animo dei due. Lei ama, ne è più che certa, ma deve vincere, più che l’orgoglio di abbassarsi ad amare un contadino, la sua paura di amare. Lui teme un raggiro, è diffidente: «Anche quando i suoi begli occhi azzurri mi fissano con abbandono, vi scorgo sempre una certa sfumatura inquisitoria, un fondo di freddezza e di cattiveria». Un giorno, lei gli scrive una lettera in cui si dichiara. Lui è cauto. Lei, in una seconda lettera, gli dice che quella notte vuole parlargli. «Il cielo — scrive Stendhal con un accostamento sublime di due parole — è disperatamente sereno». Julien monta su una scala (sempre una scala, sempre una salita) come gli è stato detto di fare, e entra nella stanza di Mathilde; le ultime resistenze reciproche sono vinte; i due diventano amanti. E di nuovo, in una oscillazione senza fine di rifiuti, cadute nell’abbandono e di nuovo rifiuti e abbandono, ricomincia la spietata lotta di ciascuno dei due contro se stesso. Finché Mathilde non scopre di essere incinta e il meccanismo obbligato delle vicende non sopravanza questa lotta. 
Tutti sappiamo come si conclude Il rosso e il nero . Costretta dal suo confessore, la signora de Renal scrive al marchese de La Mole accusando Julien di essere un profittatore. Mathilde lo avverte. Lui compra due pistole e a Verrierès, in chiesa, spara alla signora de Renal. Che però si salva. Julien, quindi, si dichiara colpevole. In attesa della ghigliottina, le due donne se lo contendono, ma lui confessa alla signora di Renal che ha amato solo lei, nella vita. Poi affronta il patibolo. Tre giorni dopo la signora di Renal muore. Mathilde si fa consegnare la testa di Julien e la seppellisce con le sue mani. E noi lettori non sappiamo ancora se abbiamo amato di più la tenera, tremante provinciale e le sue estenuanti effusioni, oppure l’algida ragazza parigina che ha combattuto con ogni sua forza contro l’amore, e dall’amore è stata vinta.

martedì 24 dicembre 2013

Buon Natale

Auguri 
da 
illuminations

mrsflakes

E online tutti diventano storici


Vincenzo Grienti

«Avvenire», 19 dicembre 2013

Nell’era digitale fatta di computer senza fili, tablet e smartphone intelligenti il binomio storia e web potrebbe sembrare anacronistico. Basta invece andare sui principali motori di ricerca e su centinaia di siti per capire che non è così. Il primo viaggio di Cristoforo Colombo alla scoperta dell’America del 1492, la Rivoluzione francese del 1789, la Rivoluzione industriale in Inghilterra così come l’epopea di Napoleone, l’Unità d’Italia e i due conflitti mondiali possono essere riletti, approfonditi e condivisi grazie ai nuovi strumenti del web 2.0 e ai social network. 
Dall’enciclopedia online Wikipedia, che ha fatto della partecipazione collaborativa la sua bandiera, ai siti come cronologia.leonardo.it/storia, Dizionario di storia moderna e contemporanea (www.pbmstoria.it), Ars Bellica (www.arsbellica.it) alle centinaia di riviste specializzate pubblicate solo in Rete c’è solo l’imbarazzo della scelta. 
Su YouTube, la principale piattaforma di video sharing, è possibile inoltre visualizzare migliaia di clip, film, documentari in bianco e nero caricati da singoli utenti o da centri studi, enti, istituzioni, testate giornalistiche impegnate nella divulgazione storica. In Italia un’esperienza originale è quella dell’Istituto Luce Cinecittà (www.youtube.com/cinecittaluce) che ha stretto un accordo con Google per rendere accessibile e condivisibile l’immenso patrimonio audiovisivo mentre su www.archivioluce.it viene offerta la possibilità di consultare 200mila schede catalografiche, 4mila ore di filmati, 400mila fotografie, in libera consultazione. Una risorsa indispensabile per studiosi e cultori di storia sono poi gli archivi digitali e le riviste online. 
Ne è un esempio il The National Security Archive della George Washington University fondato nel 1985 che, oltre ad essere centro di giornalismo investigativo e istituto di ricerca sulle questioni internazionali, raccoglie e pubblica documenti declassificati degli Stati Uniti. Digitando www2.gwu.edu/~nsarchiv è possibile entrare in una tra le più grandi e aggiornate collezioni non governative del mondo. 
È del 4 dicembre la più recente pubblicazione della Relazione sugli archivi di polizia guatemaltechi disponibili in inglese. Scribd.com, invece, è un servizio per la condivisione di documenti e libri in vari formati (Pdf, word, txt). Basta registrarsi e accedere al suo patrimonio digitale scaricabile che mensilmente fa incontrare oltre 50 milioni di utenti per più di 50mila tra libri, relazioni, saggi di storia, articoli, sintesi storiche. Frequentato dal mondo accademico è Academia.edu, dove è possibile trovare pubblicazioni scientifiche. Lanciato nel settembre 2008, conta più di un milione di utenti registrati. 
In Italia, tra le poche realtà non governative o statali a rendere disponibili libri, saggi di storia e redirect ad altre biblioteche digitalizzate è la Sism, la Società italiana di storia militare: «Tra i nostri fini statutari – dice il presidente, Virgilio Ilari – c’è quello di promuovere lo studio della storia militare e offrire ai propri soci la pubblicazione gratuita online, sia sul nostro sito sia nei siti open come Scribd, Archive, Academia di articoli e libri approvati da specialisti della materia trattata». 
Su www.societaitalianadistoriamilitare.it sono anche scaricabili gratuitamente saggi, relazioni e numerosi volumi di non facile reperimento, perfino risalenti al Cinquecento. Sul fronte universitario meno di un anno fa è nata la rivista Polo Sud di recente è nato un semestrale online redatto da storici del dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania «con l’intenzione di fare incontrare la grande storia con quella locale per cogliere meglio la complessità dei processi storici». spiega Giancarlo Poidomani, docente di storia contemporanea presso l’ateneo catanese. Diretta da Rosario Mangiameli, la rivista può essere sfogliata su www.editpres.it/cms/book/polo-sud-1
Un’iniziativa nata attorno a uno dei molti periodici di storia specializzati è quella di Storia Doc (www.storiadoc.com), il primo sito italiano dedicato esclusivamente ai documentari di storia. «In streaming sono disponibili biografie, retroscena della storia dell’arte, enigmi storici e processi controversi», sottolinea Fabio Andriola, direttore del mensile Storia in Rete (www.storiainrete.com). 
Sulla stessa scia ma con obiettivi più divulgativi è la rivista online InStoria (www.instoria.it), «un progetto editoriale nato per offrire ai suoi lettori alcuni approfondimenti su rilevanti tematiche del nostro presente e del nostro passato», spiega il direttore Matteo Liberti. Storia in Network (www.storiain.net) ha appena rinnovato il proprio sito. Si tratta di un mensile diretto da Alessandro Frigerio giunto al suo 203° numero e rivolto a studenti e appassionati del Novecento e dei secoli passati. Su Facebook e Twitter digitando la parola “storia” nella sezione “cerca” il risultato sono centinaia di pagine fan e microblog di mensili, riviste, canali e trasmissioni televisive e radiofoniche.
È il caso di RaiStoria e History Channel oppure di programmi come La Storia siamo noi della Rai o Quando l’Italia e I militi ignoti della fede di Tv2000.

lunedì 23 dicembre 2013

Se l’artista è tentato dall’albero della follia


La «stranezza» come fenomeno di massa della modernità. 
Ma l’ispirazione è un’altra cosa

Gillo Dorfles

“Corriere della Sera“, 20 dicembre 2013

Il vocabolo greco skizo è certamente il più idoneo a indicare quella separazione, scissione, dissociazione della personalità che costituisce la caratteristica più tipica della schizofrenia: quella che è certamente la più grave e più complessa forma morbosa mentale. Infatti, la differenza tra tante altre alterazioni mentali e la schizofrenia è per l’appunto il fenomeno dissociativo di questa forma morbosa. E, infatti è proprio il fatto dissociativo che più di ogni altro costituisce la vera essenza della dementia praecox come fu definita ai tempi di Bleuler e Binswanger. Una forma psichiatrica che si differenzia nettamente da quelle della paranoia, della melanconia o della mania, nonché da quelle dove la coazione è dominante. 
L’elemento delle molteplici patologie mentali — anche nelle forme più lievi fino a quelle addirittura demenziali — è quasi sempre presente, anche se spesso non riconosciuto come forma morbosa. La dissociazione, infatti, tra mente e sentimento, tra azione e reazione, tra istinto e ragione, è molto spesso presente in parecchi casi patologici, anche quando rimangono non identificati o considerati soltanto come «un po’ strani». E questo può spiegare come accada spesso che la dissociazione affettiva e cognitiva siano invece indice di uno stato morboso che spesso non viene identificato nelle prime fasi della malattia. 
Ma, a prescindere dalla vera e propria forma morbosa e dalle diversità del suo trattamento, quello che mi sembra più interessante, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti societari è che, al di là di una vera e propria forma morbosa, è il quoziente dissociativo a presentarsi anche in molte situazioni normali della nostra società. Sicché ritengo che effettivamente uno degli aspetti più significativi della nostra epoca — anche in ambiti lontani da ogni morbosità e anomalia psicologica — possa essere considerata una parziale, se non una totale forma dissociativa; che può essere ovviamente distinta dal settore psicologico, soprattutto quando colpisce esclusivamente quello societario e politico. 
La nostra, dunque, può essere considerata un’età dissociata, non soltanto nei casi patologici, ma in un certo senso come testimonianza della «psicosi» di cui spesso la nostra società è affetta. Un interessante saggio — un vero e proprio manuale scientifico — sui problemi del rapporto tra schizofrenia e modernità nelle diverse arti, è il recente trattato di Louis A. Sass, Follia e modernità (Raffaello Cortina), che costituisce una messa a punto dei rapporti effettivi o apparenti tra schizofrenia e alcune forme creative come la letteratura e la pittura quando si realizzano da parte di letterati come Musil, Sartre, Breton o di artisti come De Chirico, Modigliani, Klee, sia per la particolare personalità degli stessi che per i personaggi da loro concepiti. 
Tali opere naturalmente vanno considerate con molta attenzione e cautela; l’importanza del parallelismo compiuto da Sass — pur riconoscendo il valore del noto psicologo della Rutgers University del New Jersey — è un ampio tentativo di tracciare una analogia tra la vera e propria follia e le varie forme impersonate o citate dagli artisti considerati. Sarà opportuno pertanto prendere con molta cautela l’effettivo valore di questa associazione, giacché molto spesso gli artisti citati vanno riconosciuti come perfettamente normali dal punto di vista psichico e soltanto fantasiose le opere letterarie da loro prospettate. 
È fin troppo semplicistico individuare nelle diverse opere pittoriche e letterarie la presenza di una «vena di pazzia» senza che questo abbia nulla a che fare con un’autentica schizofrenia; ma è assai facile individuare in ogni creazione artistica quella anomalia dalla norma, che può essere classificata come patologica da chi non possiede le dovute conoscenze scientifiche. Per cui citare Klee o Modigliani come affetti da anomalie psichiche non è che un «vezzo», il quale non va assolutamente considerato come una diagnosi scientifica. 
Lasciando da parte il tema del volume — che del resto è senz’altro un’ottima guida da parte di uno dei più acuti specialisti di psicologia patologica — è meglio non soffermarsi sulla presunta psicosi di queste personalità senza rendersi conto di come la loro mentalità non basti a giustificare quella che rimane soltanto una «stranezza» e non ha nulla o poco a che fare con una vera anomalia psichica. Già a partire da Binswanger, l’alterazione spazio temporale, la Schrumpfung (il «raggrinzimento») della componente spazio-temporale era stata esaminata in alcuni casi di schizofrenia, ma senza precisare fino a che punto tale alterazione — ideativa ma anche percettiva — si potesse mettere in rapporto con l’esistenza di una componente conoscitiva. Ossia, fino a che punto le difficoltà interpretative della vita di tutti i giorni da parte del malato mentale potessero essere ricondotte alle alterazioni della componente spaziale e temporale di cui sopra. 
Questo, forse, è uno dei punti salienti che risulta anche dall’analisi compiuta dall’autore per giustificare il problema di talune esperienze psicotiche come inerenti alla condizione normale dell’uomo e per svelare alcuni rapporti tra linguaggio letterario e artistico e linguaggio schizofrenico. 
Ecco perché, per vincere il «raggrinzimento» spazio temporale del pensiero che conduce alla presentificazione di ogni ideazione e a un irrigidimento spaziale, è spesso necessario da parte del paziente servirsi di un linguaggio simbolico. In questo senso, si può forse ammettere che il linguaggio schizofrenico abbia quel rapporto con i linguaggi artistici di cui parla l’autore. 
Non intendo soffermarmi più a lungo nei meandri delle diverse forme schizofreniche e del loro rapporto con le forme artistiche della contemporaneità, perché purtroppo l’elemento dissociativo è presente non solo in alcuni malati mentali, ma in molta parte dell’umanità, tuttavia non considerata come affetta da disturbi del rapporto affettivo cognitivo come in molti esempi di schizofrenia. Il fatto che una fascia dell’umanità — considerata di solito normale — abbia avuto la possibilità di sviluppare degli elementi creativi di tipo nettamente dissociativo (romanzi, pitture, teatri), ma accettati come tali dalla popolazione «normale», dimostra una differenziazione notevole dalla realtà quotidiana, così da poter essere assimilata con alcuni dei deliri schizofrenici. 
Quello che invece mi sembra più importante è distinguere tra il livello di anomalia psichica e la carica creativa di un artista, in maniera da non creare quegli spiacevoli compromessi che portano a dare un giudizio estetico a un’effettiva anomalia, mentre quelle che sono le sollecitazioni fantastiche di una mente creativa presentano quasi sempre un elemento simbolico e metaforico che ha la meglio sulla nuda realtà esistentiva. 

Per Beccaria vittoria a metà su tortura e pena di morte


Violenze ed esecuzioni capitali restano pratiche diffuse

Paolo Mieli

“Corriere della Sera“, 23 dicembre 2013

Tra breve cadranno i 250 anni del 1764, allorché Cesare Beccaria diede alle stampe Dei delitti e delle pene. Beccaria aveva 26 anni (era nato nel 1738) quando pubblicò — senza firmarlo — quel libro e, ai tempi, era un giovane funzionario dell’amministrazione austriaca in Lombardia. Il saggio è uno straordinario atto d’accusa contro la pena di morte e contro la tortura (quest’ultima già abolita in Svezia nel 1734, a Ginevra nel 1738, in Prussia nel 1740, in Austria nel 1752: però in Francia lo sarà solo nel 1780). Ma, a metà Settecento, l’abolizione della pena capitale è ancora un tabù. Beccaria, per privilegiare il carcere al patibolo, scrive: «Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, bensì il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti». Il condannato che espìa sul patibolo suscita una «compassione mescolata al disprezzo», piuttosto che «il salutare terrore che la legge pretende ispirare». 
Dopodiché si pone un problema che molti (ad esempio qui da noi i Radicali) affrontano ancora oggi: non è da considerarsi la schiavitù perpetua, vale a dire l’ergastolo, contraria quanto la morte a ogni principio di civiltà e ugualmente crudele? Beccaria risponde che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù, lo sarà, crudele, anche di più, ma questi «sono stesi sopra tutta la vita e quella esercita tutta la sua forza in un momento… ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre». Laddove più che l’argomento usato per ribattere ai fautori del patibolo, va considerata la sensibilità che lo porta ad individuare, già a metà Settecento, il labile confine tra capestro e prigione a vita. 
Beccaria si batte con decisione per la secolarizzazione della giustizia. I crimini, secondo lui, non devono più essere concepiti come peccati, ma soltanto come infrazioni sociali: «Io non parlo che dei delitti che emanano dalla natura umana e dal patto sociale, non dei peccati, de’ quali le pene, anche temporali, debbono regolarsi con altri principii che quelli di una limitata filosofia». Spingendosi a chiedere una riformulazione di tutte le pene, ivi compresa quella per i suicidi, che all’epoca si traduceva nella pratica dei «processi ai cadaveri» (una sentenza del Parlamento di Parigi del 1749 disponeva che — a offesa dei parenti — i corpi di coloro che si erano dati la morte fossero messi pubblicamente su una graticola, «testa in giù, faccia rivolta contro la terra»). La repressione del suicidio, scriveva Beccaria, è socialmente inutile: punisce una famiglia innocente, agisce senza effetto «sul corpo freddo e insensibile» del morto. Inoltre la pena «non farà alcuna impressione sui viventi, come non lo farebbe lo sferzare una statua». Il «processo ai cadaveri» è per lui un’usanza «ingiusta e tirannica perché la libertà politica degli uomini suppone necessariamente che le pene sieno meramente personali». 
Parole di fuoco spendeva poi contro la lentezza dei processi: «La prontezza delle pene è più utile, perché quanto è minore la distanza del tempo che passa tra la pena ed il misfatto, tanto è più forte e più durevole nell’animo umano l’associazione di queste due idee, delitto e pena, talché insensibilmente si considerano uno come cagione e l’altra come effetto necessario immancabile». Va ricordato che quando Beccaria scrive non sono ancora stati del tutto aboliti i roghi delle streghe ed è ancora vivo il ricordo dell’atroce morte inflitta nel 1757 (dopo il «supplizio delle tenaglie») a Robert Damiens, «squartato da quattro cavalli» per aver ferito con un colpo di temperino il «corpo reale» di Luigi XV. 
In Francia, l’abate André Morellet lesse Dei delitti e delle pene e lo tradusse nella sua lingua, impegnandosi a diffonderlo. A operazione compiuta, il 3 gennaio del 1766 scrisse a Beccaria i sensi della propria ammirazione. Beccaria gli rispose raccontandogli quanto fosse stato importante per lui la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu, del rilievo che avevano avuto per la sua formazione autori come Helvétius, Diderot e d’Alembert, di quanto avesse contato, più in generale, la cultura francese per aprirgli gli occhi dopo «otto anni di istruzione fanatica e servile» ricevuta dai gesuiti. Sembravano le premesse per un asse illuminista che avrebbe presto congiunto Milano a Parigi. E invece… 
Anno fatidico il 1766. In febbraio, Dei delitti e delle pene viene messo all’Indice dalla Chiesa di Roma e alcuni mesi dopo (in settembre) Voltaire proclama Beccaria «fratello in filosofia». Nel 1767 il libro sarà tradotto in inglese da John Almon. Quello stesso anno ne comparirà una vibrante confutazione ad opera di Pierre-François Muyart de Vouglans (definito da Voltaire «l’avvocato della barbarie»). Il monaco Ferdinando Facchinei accuserà Beccaria di essere il «Rousseau degli italiani». Definizione che lui accoglierà come un encomio. Nel 1770, Gustavo III di Svezia esprime il suo apprezzamento per l’opera. Lo stesso faranno in Spagna Carlo III e negli Stati Uniti Thomas Jefferson. Nel 1786, il granduca di Toscana Leopoldo II, in omaggio alle sue tesi, abolirà la pena di morte. 
Ma torniamo al 1766. Quell’anno, scrive Michel Porret, nel libro Beccaria. Il diritto di punire (di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino), il nostro autore sarà amareggiato da alcune circostanze. In particolare da un viaggio a Parigi che compirà in autunno. I suoi due più cari amici Alessandro e Pietro Verri, fondatori dell’Accademia dei Pugni e della rivista «Il Caffè», lo convincono ad andare in ottobre, a Parigi, dove per merito, come si è detto, dell’abate Morellet il suo libro è già molto famoso. Lì in Francia, però, «l’intellettualismo gelido e il clima libertario dei salotti letterari parigini», racconta Porret, «infastidiscono il milanese; la sua timidezza invece delude i francesi… Malinconico, geloso della moglie corteggiata da Pietro Verri, Beccaria, in dicembre, lascia prematuramente Parigi e ritorna a Milano… Progettato per sei mesi il suo “tour filosofico” è un fallimento». 
Da quel momento si fa sempre più schivo e sospettoso. È invitato in Russia per entrare in una commissione legislativa voluta da Caterina II, così come Diderot che viene chiamato a fare da istruttore al futuro zar Paolo I. D’Alembert sconsiglia a Beccaria quel passo: «Perderete molto al cambio, un bel clima per un Paese molto sgradevole, la libertà per la schiavitù, e i vostri amici per una principessa di gran merito, ma che tuttavia è meglio avere come amante che come moglie». Risultato: Diderot accetta, mentre Beccaria rifiuta. Poi una nuova delusione. Nell’Enciclopedia , che viene pubblicata dal 1751 al 1772 (quindi per ben otto anni ancora dopo l’uscita di Dei delitti e delle pene ) di lui non si fa menzione. Nel 1769 Beccaria accetta di essere nominato professore in «Scienze camerali» presso le Scuole palatine di Milano. Nel 1791 accoglierà l’invito a far parte della commissione per la revisione del sistema giudiziario civile e criminale della Lombardia austriaca. Nel 1794, all’età di 56 anni, morirà per un colpo apoplettico. Nove anni dopo che sua figlia Giulia aveva dato alla luce Alessandro Manzoni. Quella Giulia che, per uno strano intreccio della storia, a dispetto del matrimonio con l’anziano conte Pietro Manzoni, aveva perso la testa per il vivace Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro. 
Oggi, ad oltre due secoli dalla morte di Beccaria, Michel Porret ricorda che nel mondo solo 109 Stati su 192 (poco più della metà) hanno gradualmente eliminato la pena capitale, oppure rinunciano al suo impiego. Ma, come con ostinazione ci riportano alla memoria i seguaci di Marco Pannella e di Emma Bonino, accanto a regimi autoritari (Cina, Iran, Iraq, Pakistan) e teocratici, nei quali la sfera religiosa contamina sempre quella penale (Afghanistan, Arabia Saudita, Nigeria), gli Stati Uniti restano l’unica potenza democratica che si sottrae all’abolizione totale della pena di morte. Anche se la Corte suprema ne limita ora l’applicazione (esclusa per i malati di mente), essa rimane in vigore in 38 Stati. E tutte, ma proprio tutte, le rivoluzioni del secolo scorso si sono distinte per il ricorso al capestro. 
A 250 anni dalla pubblicazione del suo libro, siamo dunque ben lontani dall’aver assistito al trionfo di Beccaria. Anzi in alcuni campi, come quello delle sevizie sui prigionieri, si sono fatti addirittura dei passi indietro. Per fortuna, però, il solco da lui tracciato è ancora assai fecondo. E un bel libro di Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura? Ascesa e declino dello Stato di diritto (Il Mulino), ne è la riprova. Il libro è interamente dedicato al mondo del dopo 11 settembre 2001, dove «tutto pare rimesso di colpo in discussione». Vengono ricordate la dure parole di Beccaria contro le crudeltà nei confronti dei sospettati: «Un altro ridicolo motivo contro la tortura è la purgazione dell’infamia, cioè un uomo giudicato infame dalle leggi deve confermare la sua deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest’abuso non dovrebbe essere tollerato nel decimottavo secolo». «Noi scriviamo nel XXI», si limitano ad aggiungere i due autori. I quali ricordano come Josef von Sonnenfels, consigliere della corona asburgica, nel 1775 scrisse, nel saggio Sull’abolizione della tortura (pubblicato a Zurigo), che quello poggiato sulle afflizioni non era potere legittimo, bensì tirannia. 
Tirannia che si regge su un intreccio di violenza e paura, intreccio che dà l’illusione a colui che vi fa ricorso di aumentare la propria stabilità, proprio nel momento in cui sta imboccando il cammino del suo declino. Quel che avrebbe ripetuto con forza anche Gaetano Filangieri. E che avrebbe ribadito nel Novecento Hannah Arendt: « Il dominio per mezzo della pura violenza entra in gioco quando si sta perdendo il potere». In Sulla violenza (Guanda) la Arendt scrive: «Sostituendo la violenza al potere si può ottenere la vittoria, il prezzo però è molto alto; in quanto viene pagato non solo dal vinto ma anche dal vincitore… In nessun caso il fattore di autodistruzione nella vittoria della violenza sul potere è più evidente che nell’uso del terrore per mantenere la dominazione… Il terrore non è la stessa cosa della violenza; è piuttosto la forma di governo che viene in essere quando la violenza, avendo distrutto tutto il potere, non abdica, ma al contrario rimane in una posizione di controllo assoluto». 
Va ricordato però che il citato Sonnenfels, a differenza di Beccaria, concesse una deroga all’abolizionismo: definì la tortura «lecita» laddove si tratta di scoprire i complici del reo. È possibile che l’«eccezione di Sonnenfels» sia stata pensata, concedono La Torre e Lalatta Costerbosa, «al fine di rendere la sua proposta abolizionista meno radicale e dunque capace di ottenere l’approvazione della corona». Resta il fatto che il suo abolizionismo non è «assoluto» e «lascia aperto un varco all’uso della tortura nelle situazioni di emergenza che sono oggi — come sappiamo — quelle che si invocano per giustificare la revisione del consolidato e assoluto divieto di torturare». Proprio quelle che Friedrich von Spee già all’inizio del Seicento aveva riconosciuto come «insidiose e infondate». A rendere più evidenti i tratti della sua grandezza, La Torre e Lalatta Costerbosa fanno notare quante resistenze incontrò Beccaria. Per ironia della sorte nel Ducato di Milano fu Gabriele Verri, padre di Pietro, Alessandro e Giovanni a formulare un parere del Senato contrario all’abolizione della tortura. Gabriele Verri suggerisce un «uso temperato della tortura» (cioè non esteso a tutti i reati, escludendo «i casi senza prova alcuna e coloro che già sono stati condannati a morte»); tortura che, però, Verri padre conferma valida tanto nell’interrogatorio come mezzo per l’accertamento della verità, quanto come pena prevista per taluni reati. 
Per mettere meglio in risalto la novità rappresentata da Beccaria, molte pagine di questi libri sono dedicate a importanti pensatori che in un modo o nell’altro hanno giustificato la tortura. È il caso di Jeremy Bentham, che «sorprendentemente» accetta, nel 1843, questo genere di vessazioni. Colpisce un passaggio in cui Bentham sostiene che la tortura è una specie di pena, la quale, però, ha uno scopo ben più, e meglio, circoscritto, o determinato, e dunque si presta meno all’abuso. Quale sia lo scopo della detenzione del reo per Bentham «è poco chiaro»; il rapporto tra fatto (pena detentiva) ed effetto (comunque vago) è in tal caso ipotetico e indeterminato. Nella tortura al contrario la «catena causale» tra fatto ed effetto o risultato è assai più definita e precisa (meglio, proporzionale) di quanto non accada in ogni altra forma di pena. Infatti torturando si infliggerà solo ed esclusivamente quella misura di coazione e di sofferenza che sia necessaria ad indurre il reo a una certa azione o ammissione. Nella detenzione invece, osserva Bentham, la proporzionalità è violata, poiché lo scopo della punizione non risulta affatto chiaro. A Bentham si sarebbe potuto obiettare che «la detenzione è predeterminabile nella sua durata, e dunque non si presta sotto questo profilo all’abuso di colui che la commina, mentre la tortura è necessariamente indeterminata tanto per la durata quanto per l’intensità delle sofferenze inflitte». Ma Bentham risponde preventivamente che tale indeterminatezza è prodotta dalla condotta del reo, il quale continua a non rispondere alle domande che gli vengono rivolte o a non cedere alle richieste che gli vengono indirizzate. 
Restando alla tortura, importantissimo è poi, secondo La Torre e Lalatta Costerbosa, il discorso di Beccaria sulla presunzione di innocenza. «Un uomo», scrive Beccaria, «non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violato i patti coi quali gli fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dà la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente?». Discorso qui fatto per la tortura, ma che può tranquillamente essere esteso a forme particolarmente afflittive della carcerazione preventiva. Come è quella di far calare una cappa di infamia sul «detenuto in attesa di giudizio». 
«Parlò invano e ancora per molti anni Cesare Beccaria», ha scritto Francesco Calasso nella voce «Tortura» della Enciclopedia italiana (1937), «ma la Rivoluzione francese spazzò via per sempre» la tortura, «chiudendo così una delle pagine più dolorose e lugubri della storia dell’umanità». «E colpisce, anzi scoraggia», affermano nel 2013 La Torre e Lalatta Costerbosa, che quell’analisi che doveva «apparire ovvia» alla fine degli anni Trenta, oggi risulti invece «ottimistica e ingenua». 
Pur tuttavia Beccaria ebbe molti riconoscimenti dopo la morte. Ma all’epoca in cui visse fu un incompreso. Anche negli ambienti che avrebbero dovuto essergli non ostili. A favore della pena capitale, sia pure in casi limite, era stato Montesquieu per il quale «un cittadino merita la morte, quando ha violato la sicurezza al punto da togliere la vita, o da cercare di toglierla… Tale pena di morte è come il rimedio della società malata». Lo sarà Rousseau, secondo cui la forca è legittima contro il «nemico pubblico» che si manifesti in contrasto allo Stato: in questo caso è «un atto contro un nemico piuttosto che un’azione contro un cittadino» (quel «nemico pubblico», gli risponderà Beccaria, non è altro che un «uomo vinto»). E contro l’abolizione della pena di morte saranno sia Kant che Hegel. Kant — ricorda Michel Porret — intorno al 1796 rimprovera a Beccaria «il sentimento di falsa umanità» che lo ha ispirato e stabilisce che «il diritto di punire è il diritto del sovrano nei confronti dei suoi sudditi di infliggere loro una pena dolorosa in ragione del crimine commesso». Senza questo diritto, afferma il filosofo, «il diritto cede, l’ordine crolla, il legame sociale si sfalda, lo Stato vacilla». E Hegel la pensa più o meno nello stesso modo. 
Del resto, Voltaire — che pure di Beccaria era stato un grande estimatore — nel 1768 gli aveva scritto una lettera di encomio sì («Voi avete spianato il cammino dell’equità, nel quale tanti uomini procedono ancora come barbari»), ma con uno spiraglio aperto nei confronti della pena di morte. Voltaire aveva paragonato la propria difesa di Jean Calas — nel Trattato sulla tolleranza (1763) — a quella che Beccaria aveva fatto del cavaliere de la Barre mandato a morte, non ancora ventenne, il 1 luglio 1766 per non essersi tolto il cappello al cospetto di una processione e per aver pronunciato frasi blasfeme. Una vicenda quest’ultima «più orribile» di quella di Calas il quale, scrive il filosofo, «avrebbe meritato il suo supplizio se l’accusa fosse stata provata». E invece no: secondo Beccaria nessuno e per nessun motivo può mai meritare quel supplizio. 
Ancora più dirompente è — sempre nel solco aperto da Beccaria — quel che afferma Luigi Ferrajoli in un libro-conversazione con Mauro Barberis: Dei diritti e delle garanzie (Il Mulino). Ferrajoli, uno dei magistrati che alcuni decenni fa fondarono Magistratura democratica, se la prende con l’attuale «andamento circolare della logica inquisitoria, che rende le tesi accusatorie di fatto infalsificabili». Una «tentazione pericolosa soprattutto nei grandi processi, nei quali, anche a causa della loro risonanza mediatica, il magistrato inquirente è portato a vedere nella conferma in giudizio delle ipotesi accusatorie una condizione della propria reputazione professionale». D’accordo, ma che c’entra Beccaria? «È questa forza del pregiudizio», risponde Ferrajoli, «che trasforma il procedimento in quello che Cesare Beccaria chiamò il “processo offensivo”, nel quale il giudice anziché essere “un indifferente ricercatore del vero… diviene nemico del reo”». E non vuole trovare la verità del fatto, «ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quell’infallibilità che l’uomo si arroga in tutte le cose». 
A Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Diderot e Condorcet, vale a dire ai filosofi dei Lumi è ispirata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino decretata dall’Assemblea nazionale il 26 agosto 1789, che pure manteneva in vigore «l’ultimo supplizio». E in Francia, a dispetto delle molteplici battaglie abolizioniste (la più celebre delle quali fu quella di Victor Hugo con il libro L’ultimo giorno di un condannato e altri scritti sulla pena di morte pubblicato in Italia da Rizzoli), l’abrogazione della pena di morte si avrà solo nel 1981, ad opera del ministro della giustizia Robert Badinter. 
Dopodiché, prosegue Ferrajoli (qui in sintonia piena con i Radicali italiani), «si dovrebbe avere il coraggio di togliere al carcere la centralità che occupa negli odierni sistemi punitivi, e non solo nel nostro, approvando misure di drastica decarcerizzazione». Il carcere, «lo sappiamo, è un’invenzione moderna: una conquista dell’illuminismo penale, in alternativa alla pena capitale, ai supplizi, alle pene corporali, alla gogna e agli altri orrori del diritto premoderno; tuttavia, poiché consiste nella privazione di un diritto fondamentale come è la libertà personale, oltre che di vessazioni lesive della dignità della persona, esso si giustifica solo nella misura “minima possibile” secondo l’insegnamento di Beccaria: come extrema ratio, cioè soltanto per reati lesivi di altri diritti o beni fondamentali costituzionalmente stabiliti». 
Ciò che, a detta di Ferrajoli, richiede almeno tre riforme. La prima è «l’abolizione della vergogna, in Europa ormai quasi soltanto italiana, della pena dell’ergastolo, palesemente in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato». La Corte costituzionale ha dichiarato con due sentenze (nel 1974 e nel 1983) che questo genere di pena non è incostituzionale perché di fatto virtualmente non è perpetua, essendo riducibile a 28 anni di reclusione grazie alla sospensione condizionale e a circa vent’anni grazie ai benefici di pena introdotti dalla riforma penitenziaria del 1975 ed estesi dalla legge Gozzini del 1986. Ma, osserva Ferrajoli, «a parte che questo non è vero, essendoci ancora nelle nostre carceri molti ergastolani che hanno espiato ben più di 28 anni di reclusione, la Corte costituzionale non deve decidere sui fatti bensì sulle norme, censurandone l’invalidità, quale che sia il numero di violazioni costituzionali da esse reso di fatto possibile». 
La seconda delle tre riforme, sempre secondo Ferrajoli, dovrebbe consistere in un drastico abbassamento della durata della reclusione, fino ai livelli degli altri Paesi europei: non più quindi gli attuali trent’anni, ma venti o quindici, come in Francia, in Germania, in Danimarca e nei Paesi scandinavi e come potenzialmente avviene anche in Italia qualora siano concessi, nella forma delle attuali misure alternative alla detenzione, i benefici di pena previsti, in base ai progressi nella rieducazione, dalla legge Gozzini. Ne conseguirebbe «oltre alla restaurazione della certezza delle pene, l’eliminazione di tutti quegli strani esami diagnostici oggi richiesti per la concessione dei benefici e consistenti, quando non si risolvono in giudizi puramente burocratici, in lesioni della libertà interiore della persona, cioè del suo diritto di essere e rimanere quella che è». 
Terza riforma che ci imporrebbe la coerenza con Beccaria e «forse la più importante» dovrebbe essere «la previsione della reclusione per i soli reati più gravi e, per tutti gli altri reati, di pene più lievi quali sono le attuali misure alternative, che occorrerebbe perciò trasformare in pene principali, irrogate direttamente dal giudice al momento della condanna: come gli arresti domiciliari, la detenzione di fine settimana, la sorveglianza speciale, la libertà vigilata e l’affidamento in prova ai servizi sociali». Ripetiamo: c’è una grande sintonia con alcune importanti battaglie dei Radicali italiani nonché di settori consistenti (e trasversali) della politica, ma anche della cultura del nostro Paese. È probabile che il prossimo anno, quando si ricorderanno i due secoli e mezzo dalla pubblicazione dell’importante libro di Cesare Beccaria, dai convegni a lui dedicati vengano fuori idee (e iniziative) destinate ad avere un’eco maggiore di quella prodotta dalle celebrazioni. È molto probabile. 

Bibliografia:
Esce in libreria il prossimo 9 gennaio il saggio Beccaria (Il Mulino) dello studioso svizzero Michel Porret. Sono già disponibili invece il libro di Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa  Legalizzare la tortura? Ascesa e declino dello Stato di diritto (Il Mulino, pagine 208, e 19) e il volume Dei diritti e delle garanzie (Il Mulino, pagine 192), una conversazione di Luigi Ferrajoli con Mauro Barberis.