martedì 8 novembre 2016

La letteratura e il suo destino



Walter Siti

"La Repubblica", 6 novembre 2016

Il Nobel a Bob Dylan e la contemporanea scomparsa di Dario Fo, ultimo Nobel italiano per la letteratura, hanno portato i media a discutere (per poco, fosse mai che ci si abitua) sulla natura del testo letterario: la canzone e il teatro sono da considerarsi letteratura? E perché no allora il cinema, perché non assegnare il Nobel a Woody Allen, o a Almodóvar, o a Tarantino? Le sceneggiature di Pasolini stanno nei “Meridiani” Mondadori e già il graphic novel si è affacciato allo Strega… Passata la buriana delle rivendicazioni campanilistiche, dei rosicamenti, delle reciproche accuse di pedanteria parruccona e dei vi-piace- vincere-facile, forse ci si può riflettere con più calma.
Per la maggior parte della sua storia (e della sua geografia) la letteratura è esistita nell’integrazione con altre forme espressive: con la musica prima di tutto, dai tamburi alla lira, dall’accompagnamento alla melodia, dalla suggestione sentimentale alla trance. Per molti secoli la letteratura è stata orale e la voce del cantore (o dell’attore, o del retore) era elemento essenziale del testo; per non parlare dell’integrazione figurale con le immagini, dalle calligrafie orientali ai codici medievali e umanistici fino alla moderna poesia visiva o ai libri di Breton e di Sebald. Il cinema ci ha aggiunto il movimento, il teatro la presenza del corpo vivo. La seduzione dell’opera d’arte totale, che coniughi tutte le umane potenzialità espressive, ha sempre agito sottopelle e ora la tecnologia sembra renderla possibile (testi multimediali, proiezioni in 3D, trasmissione a distanza di sensazioni tattili e olfattive…).
La letteratura fatta di parole, che da sole si incarichino di evocare tutto il resto, è stata l’eccezione di poche isole culturali di cui la più vistosa è quella occidentale degli ultimi cinquecento anni; la lunga durata non esime da una possibile fine, e dunque c’è da chiedersi oggi perché la “letteratura solo scritta” sembra non bastare più. È solo un problema di logoramento, di consunzione per eccesso, di smania di novità ? È la mondializzazione che, tendendo a svalutare le lingue nazionali, privilegia i messaggi che non hanno bisogno di traduzione? (La musica è universale, quante volte l’abbiamo sentito dire, e vale più un’immagine che mille parole, e simili sciocchezze). O invece c’è, sotterranea, una rimozione che deriva dalla paura?
Quando, al tempo di Cavalcanti e Dante, le poesie diffuse epistolarmente smisero di essere per forza accompagnate dalla musica, la loro musica interna divenne una necessità. Quando molto prima, all’epoca dei santi Ambrogio e Agostino, si smise di leggere ad alta voce, le parole risuonarono in interiore homine e favorirono l’autoanalisi. E quando molto dopo, nel fiorire del romanzo moderno, le donne ebbero finalmente una stanza tutta per sé, cominciò l’uso di sognare a libri aperti immaginando mondi alternativi a partire dalla parola scritta. La poesia divenne quasi un surrogato del sacro e i romanzi si trasformarono in luoghi di riflessione filosofica incarnata nel quotidiano. Scegliendo di fare da sola, la “letteratura solo scritta” alzò l’asticella di quel che si poteva chiedere alle parole. Giocare con le parole può essere molto rischioso: le parole non appartengono mai completamente a chi le scrive, hanno una storia sociale che prescinde dall’individuo e un corpo arbitrario che prescinde dalla ragione. Le parole, unendosi insieme, fanno emergere ciò che è represso sia nell’individuo che nella società; se la repressione è cattiva, tirannica, la letteratura veicola un’esigenza di libertà – se la repressione è giusta, utile alla vita associata, la letteratura diabolicamente insinua elementi asociali e distruttivi. Quando Sartre invitò la letteratura a “impegnarsi” ne esentò non a caso la poesia, presupponendo un divario incolmabile tra poesia e romanzo; mentre ogni romanzo è anche poesia, e (quasi) viceversa.
Nell’attuale tramonto della “letteratura solo scritta” io leggo un rifiuto dell’ambiguità della parola: il che può sembrare paradossale, perché niente è più ambiguo della musica o di un’immagine. Ma il fatto è che la musica, la recitazione il movimento creano, assai più che la nuda parola stampata su un foglio, entusiasmo e condivisione. In un momento di crisi e mutazione come il nostro, può sembrare che l’arte abbia un compito di positività coatta – che tutto ciò che isola e deprime sia da rifiutare per un imperativo morale. Se la parola, o le note, o i colori, presi autonomamente possono giocarsi l’ambiguità in funzione critica, tutti insieme appassionatamente e frastornati dal rumore mediatico organizzano una festa di confermazione. Più che integrare la parola con altri mezzi, spesso ho l’impressione che si cerchi di diluirla. E lo stesso probabilmente accade con le altre arti.
Non è possibile fare discorsi estetici che non siano anche politici: l’accento che si mette oggi sui “fatti talmente forti che non c’è bisogno di inventarli”, la sensazione di molti artisti di trovarsi come in trincea, al punto che giocare con le parole appare un esercizio futile se non riprovevole, dire che la verità storica o giornalistica è la vera bellezza, tutto questo “integra” la missione profonda della letteratura come la integrano la musica o l’immagine. E allo stesso modo, con l’intenzione di rafforzarla, la indebolisce. Il Nobel alla Aleksievic è solidale con quello a Bob Dylan. Se immediatezza, efficacia pratica, coinvolgimento a tutti i costi sono i criteri, è ovvio che le convenzioni letterarie siano troppo strette. Ma si dimentica che le convenzioni, se non le ammetti e le discuti apertamente, finiscono per imporsi in modo occulto; e l’ambiguità rifiutata nella sua versione consapevole, ritorna inconsapevole e passiva. Quando una cosa fa paura, in genere ce ne liberiamo ridendo; è significativo che la licenza di giocare con le parole sia concessa oggi soltanto ai comici – chiedo ufficialmente l’assegnazione del Nobel per la letteratura a Alessandro Bergonzoni.

domenica 6 novembre 2016

Spari del poeta innamorato



La mattina del 10 luglio 1873 Verlaine compra un revolver a Bruxelles. Alle 14.30 fa fuoco contro Rimbaud
È l’apice di una tormentata, tragica, chiacchierata storia di passione e passioni
Il prossimo 30 novembre la sede parigina di Christie’s metterà all’incanto la pistola. La stima è intorno ai 60 mila euro

Vanni Santoni

"Corriere della Sera - La Lettura", 6 novembre 2016

Se la letteratura avesse mantenuto la propria preminenza nell’immaginario popolare, esisterebbero forse nelle città turistiche dei «café» simili a quelli in cui si espongono memorabilia del rock, ma con le bacheche consacrate agli oggetti di scrittori e poeti. Il mondo è andato in un’altra direzione, e il feticcio letterario trova rilievo solo quando riguarda gli autori massimi. Raramente, tra dipinti e preziosi, le grandi case d’aste ne vedono passare uno, quasi sempre destinato a collezioni private: nel 2010 Christie’s batté la macchina da scrivere di Kerouac (20.296 euro); quattro anni fa da Sotheby’s passarono un anello di Jane Austen (169.322 euro) e il portasigarette di Agatha Christie (6.247 euro); lo scorso settembre Julien’s ha battuto le ceneri di Truman Capote (39.475 euro). Se, fra tutti, vi è un autore che viene facile considerare «massimo», anzi rispetto al quale si è sempre in ritardo, come se il suo grido «bisogna essere assolutamente moderni» si fosse posizionato oltre il tempo, quello è Arthur Rimbaud: non stupisce allora l’interesse intorno all’incanto, previsto il 30 novembre presso la sede parigina di Christie’s, della pistola con cui Verlaine, al culmine di una tragica storia d’amore, gli sparò contro.
Il revolver che Paul Verlaine acquistò la mattina del 10 luglio 1873 all’armeria Montigny di Bruxelles, per 23 franchi. L’arma con cui minacciò di uccidersi e poi fece fuoco due volte, cogliendo Rimbaud al polso sinistro (il secondo colpo andò a vuoto, prendendo il caminetto della camera dell’Hôtel à la Ville de Courtrai in cui alloggiavano durante l’ennesimo, tormentato incontro). L’arma alla quale, di nuovo, mise mano nel pomeriggio, portando Rimbaud a denunciarlo. Denuncia ritirata qualche giorno più tardi, ma sufficiente a portare il giudice a farsi qualche domanda circa la reale natura di un’amicizia così burrascosa, e costringere Verlaine a umilianti esami pseudoscientifici atti a scoprire se il suo corpo recasse i segni del vizio. La commissione stabilì di sì, e il poeta fu sbattuto in carcere per 2 anni e condannato a pagare un’ammenda di 200 franchi. La pistola fu sequestrata e se ne persero le tracce, finché non fu scoperta presso un privato ed esposta per la prima volta alla mostra Verlaine, cella 252 a Mons, in Belgio, nel 2015.
La pistola di Verlaine, dunque. Eppure, se desta immediato e globale interesse (e un’attesa minima di vendita intorno ai 60 mila euro) è certo per via di Rimbaud.
Rimbaud è sempre feticcio (chi non possiede una sua raccolta comprata negli anni del liceo per l’idea che egli incarnava, prima che per le poesie?); Rimbaud è sempre mito. «Si dice che Vitalie Rimbaud, nata Cuif, partorì Arthur Rimbaud» scrive Pierre Michon nella biografia più fortunata del poeta, Rimbaud il figlio , e con quel «si dice» lo posiziona subito nel campo della leggenda. Come tale, Rimbaud sfugge alle categorie, a ogni facile fissaggio, ed è per questo che ogni ritrovamento, ogni foto sbiadita che esce dal baule di un antiquario, finanche la scoperta di un singolo verso (nel 2009 l’ultimo: «L’eternel craquement des sabots dans les cours», riportato sul «Gaulois» del 23 febbraio 1885) è un evento. I memorabilia rimbaudiani hanno infatti un compito ulteriore: tentare di fermare, almeno nella storia, lo sfuggente. Il simbolo stesso dell’irriducibilità. Rimbaud non si fissa, non si categorizza, non si possiede. Non lo si può sottomettere — i parnassiani e gli zutisti, primi circoli poetici con cui entrò in contatto a Parigi, e lo stesso Verlaine, comunque «principe dei poeti», erano destinati a venire bruciati come dal passaggio di una cometa — ma neanche si riesce a bloccarlo posizionandolo all’apice di qualcosa. Definito, negli anni, padre del decadentismo, del simbolismo, del surrealismo («l’essere più straordinario che abbia solcato la terra» per Cocteau), del modernismo (per l’intuizione dell’intertestualità nel Battello ebbro ), della psichedelia (da Ginsberg, per la Lettera del veggente : «Bisogna essere veggente , farsi veggente , attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi »), antesignano del punk e del femminismo (da Patti Smith, per il suo rifiuto di ogni convenzione, inclusa la volontà di avere un futuro, e per le sue affermazioni circa la necessità di una liberazione di genere), inventore dell’identità gay moderna per il biografo Graham Robb (e sotto sotto anche per Edmund White, autore del godibile La doppia vita di Rimbaud ); precursore addirittura del postmodernismo per la fuga improvvisa e mai rinnegata dalla letteratura, intesa essa stessa come atto artistico, come scrive, tra gli altri, Jamie James nel Rimbaud a Giava, di recente pubblicazione per Melville Edizioni, e finanche della singolarità tecnologica («La scienza, la nuova nobiltà! Il progresso. Il mondo cammina! Perché non dovrebbe svoltare? È questa la visione dei numeri. Andiamo verso lo Spirito...»).
Ovunque lo si collochi, Rimbaud è già un passo avanti: il caso più stupefacente e insolubile della storia della poesia, come ebbe a scrivere Palazzeschi, fa parte a sé, senza le parentele che tutti i poeti hanno fra di loro, e sfugge quindi a ogni definizione che non sia iperbolica. Così è un attimo esagerare: ecco la critica Edith Sitwell a definirlo iniziatore della prosa moderna, ecco René Char che parla del primo poeta di una civiltà non ancora nata, e ancora Fénéon che lo mette «al di fuori e al di sopra di ogni letteratura», Mallarmé che parla di un «dio della mitologia», Camus di «oracolo sfolgorante»... Quasi senza accorgercene ci ritroviamo con Jim Morrison a definirlo «salvatore della razza umana», e senza sentirci esagerati.
Questo è Rimbaud. Se ha qualche parentela, sono quelle da lui stesso indicate: diciassettenne, riconosce un solo re, Baudelaire, e un solo vero poeta subito sotto, quel Paul Verlaine che lo avrebbe invitato a Parigi, certo del suo genio, che se ne sarebbe innamorato, che da lui avrebbe tratto lo strappo necessario anche alla propria grandezza, che invano avrebbe tentato di trattenere a sé. «Venite, cara grande anima, vi chiamiamo, vi aspettiamo», scrive Verlaine nell’agosto del 1871, in risposta alle lettere e alle poesie del diciassettenne Arthur. «T’insegno io a volertene andare» urla lo stesso Verlaine due anni più tardi, mentre fa fuoco. In mezzo si è consumata la loro storia d’amore, il cui scandalo avrebbe distrutto il matrimonio del primo e fatto odiare il secondo da quegli stessi circoli parigini che si erano inchinati al suo arrivo. Braccati dalle maldicenze (e dalla moglie di Verlaine, Mathilde, che, quando inizia la relazione con Rimbaud, gli ha appena dato un figlio), le loro fughe si sono fatte sempre più goffe e rocambolesche, e l’abuso di assenzio non aiuta. L’ultima li ha portati prima a Londra, poi a Bruxelles.
Sono le 14.30 del 10 luglio 1873 quando Verlaine, dopo l’ennesima lite, fa fuoco. Così si arriva alla pistola. Al revolver Lefaucheux 7 millimetri pet de lapin (ovvero «cucciolo di coniglio» — tutto, in Rimbaud, riverbera: il francesista penserà al coniglio dei versi di Festa galante , scritti da Verlaine e ricomposti in altra forma da Rimbaud; il biografo vedrà un lampo del destino di mercante d’armi del Rimbaud adulto; il visionario coglierà un segno nel fatto che si tratta dello stesso modello con cui 17 anni dopo si sarebbe ucciso Vincent van Gogh).
Due colpi esplosi, un terzo colpo minacciato. Verlaine usa l’arma per trattenere Rimbaud, per fissarlo. Il risultato è opposto. Rimbaud si separa dall’amante e si chiude in un granaio della natia Charleville per scrivere Una stagione all’inferno. Ha solo diciannove anni ma è il suo testamento: dopo di esso partirà. Lo troviamo scaricatore a Livorno, soldato e disertore a Giava, poi a Vienna, Colonia, Brema, al seguito di un circo a Amburgo, e ancora a Stoccolma e Copenaghen, a Cipro, nello Yemen e infine in Etiopia, dove si ferma ad Harar facendosi mercante. Ogni momento della sua vita è buono per irradiare storie e le moltissime biografie lo testimoniano, ma il momento dello sparo è quello decisivo — non ne manca infatti una, ottimamente documentata, che parte proprio da lì: Una sconosciuta moralità di Giuseppe Marcenaro, uscita per Bompiani nel 2013 —, è la lacerazione da cui nasce l’abbandono, prima di Verlaine e poi della letteratura: «La mia giornata è compiuta — scrive Rimbaud in Una stagione all’inferno —: lascio l’Europa. L’aria marina mi brucerà i polmoni; i climi remoti mi abbruniranno». Così il poeta, artefice ultimo del proprio destino, si consegna al mito, all’impossibilità di qualunque irreggimentazione, e dona a ogni oggetto che lo riguardi, che sia testo autografo, fotografia o pistola d’amante, un’aura da cui si irradia la sua storia, ogni volta in modo diverso e atto ai tempi — e così sarà per chi si aggiudicherà la Lefaucheux 7mm, ma Rimbaud, a quel punto, sarà già altrove.