giovedì 28 agosto 2014

Troppe parole intraducibili. L'Europa è lost in translation



Raffaella De Santis

 “La Repubblica”, 23 agosto 2014

ORMAI si tengono in inglese gli incontri ufficiali tra uomini politici e le conferenze scientifiche internazionali. L'inglese è il nuovo esperanto, la lingua ufficiale della comunità europea, ma ci sono parole che appartengono alle nostre culture nazionali difficili da tradurre. Ci sono concetti nati in determinate fasi storiche per i quali è complicato cercare equivalenti, e forse inutile. Il tentativo di rendere in altre lingue il tedesco Kitsch ha prodotto scarsi risultati. Tutti conosciamo la parola Pravda, certo. Sappiamo anche che ebbe un discreto successo nell'Unione Sovietica, ma poi ogni paese europeo l'ha tradotta a modo suo: verità o giustizia? Dieci anni fa in Francia la filosofa e filologa Barbara Cassin ha curato un Dictionnaire des intraduisibles per le Éditions de Seuil proprio per sondare affinità e differenze dentro i confini linguistici europei.
Ora questo vocabolario delle parole intraducibili ha la sua versione inglese, grazie al lavoro di Emily Apter, Jacques Lezra e Michael Wood (Dictionary of Untranslatables. A Philosophical Lexicon, Princeton University Press). Nell'introduzione Barbara Cassin spiega che "intraducibili" vuol dire "traducibili all'infinito", cioè suscettibili di tante versioni, tutte quasi esatte ma non completamente esatte. Il risultato mostra che anche da un punto di vista filosofico e concettuale l'Europa non è unita o meglio volendola mettere in positivo – che la sua essenza è nelle differenze, nelle contraddizioni, proprio a partire dalle lingue nazionali. Le voci di questa cartografia filosofica della nostra diaspora linguistica, affidate a oltre 150 collaboratori, tra cui Alain Badiou, Étienne Balibar, Remo Bodei, Rémi Brague, Judith Butler, Gayatri Chakravorty Spivak, partono dalle parole per mostrare come anche le più comuni (stato o governo, ad esempio) di paese in paese abbiano sfumature diverse di significato, legate al fatto che il linguaggio è l'espressione più immediata e sedimentata della cultura di un popolo: quanti tipi di "giustizia" incontriamo spostandoci nello spazio e nel tempo e qual è il concetto di bene legato a lemmi come good, right o bien? Quante facce può avere la verità (aletheia, vérité, truth)? Si può tradurre mind con mente o geist con esprit?
Perfino l'amore non è per tutti lo stesso, anche se la parola love imperversa nelle opere di Jeff Koons e sulle copertine dei bestseller. Naturalmente il modello di questo viaggio filosofico attraverso il lessico rimane il lavoro di Émile Benveniste, Vocabulary of Indo European Institutions. In Italia abbiamo invece il progetto dell'Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee-Cnr, diretto oggi da Antonio Lamarra ma fondato da Tullio Gregory con la collaborazione di Tullio De Mauro nel 1964, che ha dato vita a una collana arrivata oggi al volume numero 122 (edizioni Olschki).
Ogni traduzione è "tradimento" e "trasgressione": a volte per tradurre un termine bisogna ricorrere a una perifrasi perché non esiste un equivalente. Altre volte è difficile rendere parole cadute in disuso e appartenenti ad altri contesti culturali. Non solo da una lingua all'altra ma anche all'interno di una stessa lingua: complicato oggi parlare di "sprezzatura", un tipo di grazia che evita l'affettazione, per lo meno da quando l'eleganza di corte è stata sostituita dalla bellezza da copertina e Mona Lisa rimane solo un ideale da fotografare al Louvre. È vero, il globish, l'inglese semplificato diffuso a livello globale, è leggero, pratico, facilmente ma spesso così lontano dalla lingua inglese reale che i primi a non capirlo sono proprio gli anglosassoni. In rete impazzano i video con l'inglese dei nostri politici, tra cui l'intervento di Matteo Renzi al Digital Venice, che è diventato un video musicale sulle note di Surfin Bird di The Trashman. Ma fuori dai confini di questo inglese incerto continua a esistere una pluralità semantica ineliminabile, una molteplicità di lingue, ognuna portatrice di una visione. La sfida di un dizionario del genere è mostrare che la resistenza alla traduzione di alcuni lemmi può costituire un arricchimento. Scrive Michael Wood nell'Introduzione al Dictionary of Untranslatables : «La Babele può essere un'opportunità, fornendo più prospettive delle stesse cose». Un'Europa lost in translation può diventare dunque una ricchezza, se non pratica almeno cognitiva.

martedì 5 agosto 2014

Gli antichi sono falliti di successo


Canfora spiega perché latini e greci sono attuali, al di là della retorica sui valori. 
Posero temi scottanti, senza cercare nessuna consolazione

Antonio Carioti

"Corriere della Sera", 4 agosto 2014


Di solito, quando si pongono in appendice a un libro brani di studiosi illustri, lo scopo è invocare la loro autorità in appoggio alla tesi sostenuta dall’autore. Ma a Luciano Canfora non piace essere banale. Quindi fa il contrario: nel pamphlet Gli antichi ci riguardano (Il Mulino, pagine 104) offre ai lettori
Una breve antologia d’interventi che a suo avviso risultano inefficaci nel difendere la causa, da lui caldeggiata con vigore, del mantenimento di un ruolo rilevante per gli studi classici nel sistema scolastico italiano. LEGGI TUTTO...

domenica 3 agosto 2014

L'infelicità digitale


Nell’antica Roma era già nota Petrarca la chiamava malinconia 
Il dottor Faust “il fuoco che consuma il cuore”. 
La consapevolezza di essere singoli, separati, insoddisfatti 
non sembra essersi perduta 
Nonostante i social network

Con la tecnologia siamo sempre connessi agli altri 
Ma abbiamo davvero sconfitto la solitudine?

ALBERTO MANGUEL, "La Repubblica", 3 agosto 2014


TUTTI i nostri plurali sono in fin dei conti singolari. Che cosa ci porta, dalla fortezza del nostro io, a cercare la compagnia e la conversazione con altri esseri che ci rispecchiano all’infinito nello strano mondo in cui viviamo? Il mito platonico sugli esseri umani che, all’origine del mondo, avrebbero avuto una doppia natura poi divisa in due dagli dèi, spiega fino a un certo punto la nostra ricerca: cerchiamo con nostalgia la nostra metà perduta. E tuttavia, abbracci, discussioni, sport di contatto non sono mai sufficienti a infrangere la nostra certezza di individualità. I nostri corpi sono burqa che ci schermano dal resto del genere umano, e non c’è bisogno che Simeone lo Stilita salga in cima a una colonna nel deserto per ritrovarsi isolato dai suoi simili. Siamo condannati alla singolarità.
Ogni nuova tecnologia, tuttavia, offre un’ennesima speranza di ricongiungimento. Le pitture nelle caverne riunirono i nostri antenati a discutere le memorie collettive di caccia al mammut, le tavolette di argilla e i rotoli di papiro permisero loro di dialogare con i lontani e con i morti. Gutenberg creò l’illusione che non siamo unici e che ogni copia del Don Chisciotte sia uguale a ogni altra (un trucco che non ha mai del tutto convinto la maggior parte dei lettori del Don Chisciotte). Riuniti davanti ai nostri televisori, abbiamo assistito al primo passo di Armstrong nello spazio e, non contenti di far parte di quell’immensa folla contemplativa, abbiamo inventato nuovi dispositivi elettronici che creano e raccolgono amici immaginari ai quali confidiamo i nostri segreti più delicati e per i quali postiamo i nostri ritratti più intimi.
In nessun momento del giorno o della notte siamo inaccessibili: ci siamo resi disponibili agli altri nel sonno, durante i pasti, mentre viaggiamo, siamo in bagno o facciamo l’amore. Abbiamo reinventato l’occhio di Dio che tutto vede. La silenziosa amicizia della luna non è più nostra, come lo fu per Virgilio, e abbiamo abbandonato «le assise del dolce silenzioso pensiero» (the sessions of sweet silent thought) di cui godette Shakespeare. Solo il rispuntare su internet di vecchie conoscenze risveglia in noi il ricordo delle cose passate. Gli amanti non possono restare assenti per sempre, o gli amici lontani: con il tocco di un dito li possiamo raggiungere, così come essi possono raggiungere noi. Soffriamo il contrario dell’agorafobia: siamo ormai perseguitati da una presenza costante. Sono sempre tutti qui.
Quest’ansia di essere circondati dalle parole e dai volti degli altri permea tutte le nostre storie. Nella Roma di Petronio, Encolpio vaga in un museo per vedere le immagini degli dèi nei loro intrecci amorosi e sapere di non essere il solo a provare le pene dell’amore. In Cina, nel secolo VIII, Du Fu scrisse che un vecchio studioso vede nei suoi libri il popoloso universo vorticare come un vento d’autunno. Al-Mutanabbi, nel decimo secolo, paragonò la carta e la penna che aveva davanti al mondo intero: al deserto con le sue trappole e alla guerra con le sue esplosioni. Per Petrarca, il museo era la sua biblioteca. «Sono posseduto da una passione inesauribile che finora non ho potuto né voluto frenare. Non riesco a saziarmi di libri », dice. «I libri ci danno un diletto che va inprofondità, discorrono con noi, ci consigliano e si legano a noi con una sorta di famigliarità attiva e penetrante; e il singolo libro non insinua soltanto se stesso nel nostro animo, ma fa penetrare in noi anche i nomi di altri, e così l’uno fa venire il desiderio dell’altro».
Werther, al contrario, vuole solo un libro: il suo Omero, che è, dice, un Wiegengesang [«ninna nanna»] che lo culla. Per Emma Bovary, i libri sono tutta la compagnia di cui ha bisogno per riflettere sulla propria passione erotica. Per il Capitano Nemo, la sua biblioteca possiede le uniche voci umane che meritano di essere risparmiate dalla distruzione. In ogni caso, l’individuo è ossessionato dalla ricerca di altri che gli dicano chi sono. “Only connect!”, devi solo cercare le connessioni, dice Margaret in Casa Howard di Forster.
Ma anche la connessione deve avere i suoi limiti. La quinta edizione del DSM (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), pubblicato nel 2013 dalla American Psychiatric Association, elenca l’Internet Gaming Disorder, la dipendenza dai giochi in rete, come una patologia che porta a «un significativo disturbo o disagio clinico». Ciò che Petrarca avrebbe chiamato malinconia, e il dottor Faust «das Herzverbrennen», [«un fuoco che consuma il cuore»], il DSM lo definisce depressione associata a sindrome da astinenza (quando la tecnologia si rompe) e a un senso di insoddisfazione (quando non si riesce a concludere). Il risultato finale è lo stesso.
La ricerca degli altri — per giocare insieme, per mandargli un messaggio, o una email, per telefonargli o contattarli via Skype — stabilisce le nostre identità. Noi siamo, o diventiamo, perché qualcuno riconosce la nostra presenza. Il motto dell’era elettronica è quello che riassume la filosofia di Berkeley: «esse est percipi» , «essere è essere percepiti». Tutti i nostri sforzi per essere — pienamente, assolutamente, felicemente — con gli altri, falliscono. «Noi viviamo insieme, agiamo l’uno sull’altro, e reagiamo l’uno all’altro », ha scritto Aldous Huxley in Le porte della percezione, «ma sempre e in ogni circostanza siamo soli con noi stessi. I martiri quando entrano nell’arena si tengono per mano, ma sono crocifissi da soli. Abbracciati, gli amanti cercano disperatamente di fondere le loro estasi isolate in una singola autotrascendenza; invano. Per la sua stessa natura, ogni spirito incarnato è condannato a soffrire e a godere in solitudine».
La folla di amici promessi da Facebook, le moltitudini di corrispondenti che vogliono collegarsi con noi nel cyberspazio, i mercanti di promesse che offrono fortune in terre straniere, partner in orge virtuali, allungamenti del pene e ingrandimenti delle mammelle, i sogni più dolci e una vita migliore, non possono far nulla contro la malinconia essenziale per cui Platone immaginò la sua storia.
«Post coitum omne animal est triste», «dopo un rapporto sessuale, ogni animale è triste », avrebbe detto Aristotele, aggiungendo: «tranne il gallo, che poi canta». Forse tutti i rapporti — con le immagini, con i libri, con la gente, con gli abitanti virtuali del cyberspazio — generano tristezza perché ci ricordano che, alla fine, essenzialmente e irrimediabilmente, siamo soli. Traduzione di Luis E. Moriones