sabato 27 luglio 2013

Libri per l'estate 2013: rassegna


Mille libri per l’estate, "L'Espresso", 1 agosto 2013


C’è un libro per tutte le estati, "il Fatto Quotidiano",  27 luglio 2013

Libri sotto l'ombrellone"L'Indice dei Libri del Mese", 2 agosto 2013

Holiday reading: The best books to pack this summer, "The Guardian", Saturday 29 June 2013

Time Lists: What to read this summer

Les coups de coeur du "Monde des livres" pour l'été, 21 giugno 2013


Lectures d'été: de l'or en poches!, "L'Express", 4 luglio 2013


Libros criminales para verano, "EL Pais", 19 luglio 2013

D.T. Max: una versione di Wallace



Intervista a DT Max, autore di Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi
prima biografia dello scrittore americano David Foster Wallace (1962 - 2008)
Gianluca Didino
Scrivendone la biografia, non deve essere stato semplice fare i conti con il suicidio di Wallace. Si correva il rischio di ricostruirne la vita in funzione di quel gesto, di interpretare tutta la storia attraverso la lente di quel finale. Credo che tu sia riuscito a evitare questo rischio come meglio non si poteva. Come hai fatto?
Non so bene cosa dire ma hai ragione: questo rischio era sempre in agguato. Ci ho pensato molto e ho dovuto fare non pochi sforzi per evitarlo. Lo stile del libro in parte ha aiutato, nel senso che la piattezza della voce narrante e l’assenza voluta di qualsiasi dettaglio melodrammatico mi è servita come strumento per scongiurare il rischio di presentare la morte di Wallace come un evento in qualche modo predestinato. Comunque sia, scrivendo ho sempre dovuto tenere a mente che il suicidio non era l’unica maniera in cui le cose avrebbero potuto finire, che in un’altra versione della storia Wallace avrebbe potuto essere ancora vivo oggi. Adesso avrebbe avuto solo cinquantuno anni, praticamente la metà della vita davanti a sé.
Credi che il compito di un biografo sia quello di scomparire per lasciare spazio all’oggetto del proprio racconto? In tutto il libro mi sembra che l’unica considerazione personale riconducibile alla tua voce sia la frase di chiusura (“non era l’epilogo che ci si aspettava da lui, ma è l’epilogo che ha scelto”), e anche questa è una dichiarazione di sospensione del giudizio.
Penso che sia vero in parte. Da un lato è importante per un biografo non occupare tutta la scena a propria disposizione, ma dall’altro lato è anche vero che un biografo è pur sempre uno scrittore, vale a dire un essere imperfetto con i suoi pregiudizi, e che di conseguenza non giudicare è impossibile. La frase che citi è un esempio, ma credo che la mia presenza in quanto scrittore si riveli anche in altre parti del libro. Ad esempio penso alla scena in cui Franzen e Wallace vanno in macchina verso Swarthmore, e in cui Franzen si stupisce della quantità di liquido tergicristalli utilizzato da Wallace. Ecco, dettagli di questo tipo di solito non si trovano in questo genere di libri. È più, direi, il tipo di dettaglio che apprezza un romanziere.
Essere il primo biografo di Wallace comporta anche una responsabilità: la tua versione della storia diventerà quella con cui fare i conti. Penso anche a Marguerite Yourcenar, che sosteneva che ogni biografia “costruisce” un essere umano. Come è riuscito a fare i conti con questa responsabilità?
Mettiamola così: preferisco sempre essere il primo piuttosto che fare i conti con una tradizione. Da un certo punto di vista è più facile, perché non c’è nessuno che ti possa contraddire, ma sicuramente è anche più rischioso. Naturalmente c’è molta più paura di fare degli errori, perché appunto non hai una tradizione con cui confrontarti. Ma è stato stupendo, una sensazione davvero piacevole, essere presente nel momento esatto in cui una delle persone che ho intervistato ha trovato per la prima volta la sua versione della storia, il suo sguardo sugli avvenimenti. Man mano che passerà il tempo queste persone cominceranno a ripetere la loro storia, che andrà via via stabilizzandosi, facendosi statica. Adesso è ancora tutto fresco, fluido, in movimento.
Per il libro hai scelto un titolo bellissimo, che a mio parere si ricollega con quanto dice nella sezione dedicata ai ringraziamenti riguardo alla biografia come “opera collettiva”: si sente il peso di tutte queste voci che definiscono quella che in fondo è un’assenza, una vita che non c’è più. Anche una biografia è una storia di fantasmi, in fondo?
Sì, credo che in fondo il compito del biografo sia un po’ quello del cacciatore di fantasmi. La cosa interessante è che per quel che mi riguarda questo è vero anche a livello letterale. Ho già detto diverse volte che di solito il computer portatile si apre solo dopo la chiusura della bara, nel senso che nella maggior parte dei casi le biografie sono quei libri che vengono scritti su persone ormai morte. E sì, credo sia giusto dire, come hai detto tu, che la pluralità di voci che si sente parlare nel libro ha lo scopo preciso di sottolineare l’assenza del centro, quella cosa che è, o dovrebbe essere, Wallace.
Dal tuo libro scopriamo che da ragazzo Wallace “affisse un’immagine di Kafka trovata in un giornale alla lavagnetta di sughero dedicata alle star del tennis, corredandola della didascalia: ‘La malattia è la vita stessa’”. Cosa lega Wallace a Kafka? Sappiamo del suo rapporto con l’umorismo kafkiano, ma anche il culto della malattia mi sembra un fattore importante.
Sicuramente Wallace aveva un’immaginazione molto attiva, e poi aveva un sacco di fobie: due caratteristiche che lo accomunano a Kafka. Tuttavia a me pare importante anche ricordare il debito letterario che Wallace aveva nei confronti di Pynchon e Barthelme. Non ha mai apprezzato davvero la letteratura realista e questo, ne sono quasi certo, perché non percepiva il mondo come “realistico”: “la realtà non è più reale“, erano queste le sue parole d’ordine. Per questo poteva parlare di Infinite Jest come di “un melodramma contemporaneo alla Henry James” in quella importantissima lettera che scrisse al grande critico Sven Birkerts dall’aeroporto nel novembre del 1993, mentre aspettava un volo da Chicago, quando aveva scritto poco più della metà del romanzo.
Nella prima fase della sua produzione Wallace parla spesso di se stesso come di una macchina a cui vengono richieste elevatissime performance. Credi che il conflitto tra performance letteraria e autenticità emotiva possa essere una buona chiave di lettura critica dell’opera di Wallace?
Direi che è sicuramente una lettura possibile e personalmente la condivido. L’ansia da prestazione, un’espressione che non a caso ha una forte implicazione sessuale, è sempre stato un grosso problema per Wallace, e questo è abbastanza evidente non solo a livello della sua vita ma anche nella sua opera. Non voglio implicare che avesse disturbi sessuali, ovviamente: ma fin da ragazzo era molto ansioso, e questa forma di ansia credo traspaia dai suoi libri, soprattutto nella prima fase.
Nel libro si accenna al superamento dell’ironia come strumento epistemologico postmoderno, tuttavia, l’impressione è che Wallace non sia mai riuscito a portare fino in fondo le proprie posizioni, troppo affascinato dalle manifestazioni dell’assurdo contemporaneo (la crociera, il rap, il porno). Crede che in questo paradosso risieda un punto di limite o un punto di forza della scrittura di Wallace?
Sicuramente un punto di forza. Probabilmente a Wallace sarebbe piaciuto riuscire a spiegare la propria opera in termini di un’opposizione binaria tra letteratura ironica e anti-ironica, ma la verità è che una versione così manichea della storia non è sufficiente. Prendi ad esempio Brevi interviste con uomini schifosi, che risale a una fase tarda dell’opera di Wallace, quando stava già lavorando per superare l’approccio ironico postmoderno al mondo e alla letteratura: di sicuro non è un libro anti-ironico. E quindi come dovremmo definirlo? Possiamo dire che è “post-ironico”? Oppure prendi Il re pallido: è pieno di momenti di assoluta sincerità, ma di sicuro non assomiglia a un romanzo di Franzen. Tutto questo per dire che per comprendere un uomo profondo e complesso come è stato Wallace a volte le categorie della critica letteraria non solo si rivelano poco funzionali, ma andrebbero decisamente ignorate.

PER APPROFONDIRE: Foster Wallace, Eugenides, Franzen. Just Kids, by Evan Hughes, "New York Books", ottobre 2011




Tradurre

venerdì 26 luglio 2013

Infografica: gli eroi del poliziesco


Clicca sull'immagine per ingrandire (da http://www.telerama.fr).

Bookerprize Longlist 2013 announced

Jeffrey Eugenides: Aujourd’hui, Anna Karénine obtiendrait la moitié des biens et la garde des enfants



Avec son «Roman du mariage», 

Jef­frey Euge­ni­des vient de décro­cher le prix Fitz­gerald. 

De pas­sage en France, il nous parle d’amour, de French Theory, 

de Detroit, de Mère Teresa


"Nou­vel Obser­va­teur", 14 luglio 2013


Votre «Roman du mariage» se situe au début des années 1980. Le mariage, s’il était un objet roma­ne­sque dans la lit­té­ra­ture du XIXe siè­cle (et par­ti­cu­liè­re­ment Jane Austen) et un enjeu social pour les fem­mes, ne l’était plus après la révo­lu­tion des mœurs des années 1960 et 1970. Aujourd’hui, à l’heure du mariage pour tous, le mariage redevient-il un enjeu?
Jef­frey Euge­ni­des Il est inté­res­sant de con­sta­ter à quel point le mariage con­serve une impor­tance et une signi­fi­ca­tion aussi bien roma­ne­sques que socia­les, même après cette période où il sem­blait avoir perdu tout son sens. Ce roman vise à explo­rer ce qu’il en reste et s’il est encore pos­si­ble d’en faire le cœur d’une intri­gue, alors que tant de bou­le­ver­se­ments nous ont éloi­gnés de ce qu’il repré­sen­tait au XIXe siècle.
Le com­bat pour le mariage gay pour la liberté d’avoir non seu­le­ment un/e par­te­naire mais un mari ou une femme, de se lier par con­trat à l’être aimé, prouve le pou­voir que le mariage con­ti­nue d’exercer dans nos vies. Aupa­ra­vant, je croyais que c’était une chance pour les homo­se­xuels de pou­voir se situer hors de l’économie du mariage, d’échapper à cette idée fixe. Or il n’en est rien. Même si je pense qu’ils devra­ient réflé­chir avant de s’engager dans cette voie !
Mais à mesure que les Etats amé­ri­cains léga­li­sent le mariage gay j’ai pu con­sta­ter que les homo­se­xuels et les lesbien­nes se sen­tent ras­su­rés, plus à l’aise pour expri­mer publi­que­ment leur affec­tion, sou­la­gés de pou­voir dire qu’ils ont un mari ou une femme. Cela peut para­î­tre stu­pide et ana­chro­ni­que en 2013, mais le mariage per­met aux gens de se pré­sen­ter comme un cou­ple, d’être recon­nus par la société comme une force en son sein. Et je ne crois pas qu’on puisse com­pren­dre plei­ne­ment l’esprit du mariage et son poids sym­bo­li­que si on n’a pas été con­fronté direc­te­ment à l’interdiction de se marier.
Qu’est-ce qui a changé fon­da­men­ta­le­ment dans le mariage et qu’est-ce qui reste identique?
Je n’essayais évidem­ment pas de repro­duire un roman de Jane Austen. Je vou­lais sim­ple­ment étudier com­ment le mariage affecte la men­ta­lité d’un indi­vidu, ses atten­tes affec­ti­ves, sa vision de l’amour. Comme Mme Bovary, on gran­dit en lisant des romans et on se met à nour­rir des idéaux et des fan­ta­smes romantiques. Au départ, je ne me posais pas vrai­ment cette que­stion des chan­ge­ments ou des simi­li­tu­des entre deux époques, mais en écri­vant j’ai décou­vert que cer­tains éléments demeu­ra­ient tout à fait per­ti­nents et actuels, le pre­mier d’entre eux étant évidem­ment l’argent.
Tous les grands «romans de mariage», de Jane Austen à «Por­trait de femme» de Henry James, tour­nent autour de cette que­stion: com­ment trou­ver un mari ? Et quelle est sa for­tune ? Si une femme trouve un homme suf­fi­sam­ment riche et qu’il se révèle bon et affec­tueux, elle est parée pour la vie. Inver­se­ment, dans «Por­trait de femme», c’est elle qui est riche, ce qui devrait lui pro­cu­rer liberté et indé­pen­dance et la dispen­ser de l’obligation de se marier ; mais sa for­tune attire les hom­mes, notam­ment celui qu’elle épouse et qui se révèle être un mau­vais mari.
Cette dispa­rité de for­tune se retrouve encore dans les per­son­na­ges de mon roman: Leo­nard a un com­plexe d’infériorité, il se sent finan­ciè­re­ment et socia­le­ment indi­gne de l’aristocratique Made­leine, et va jusqu’à mani­pu­ler le trai­te­ment médi­cal qu’il suit pour ses trou­bles bipo­lai­res afin de sur­mon­ter cet obstacle.
Inver­se­ment, il est beau­coup plus facile aujourd’hui d’échapper à un mariage malheu­reux. On ne pour­rait plus écrire «Anna Karé­nine»: lorsqu’elle décide de divor­cer, la société la rejette et l’ostracise, on lui inter­dit de voir son fils, elle perd tout hor­mis son amant. De nos jours, une femme peut divor­cer en con­ser­vant la moi­tié des biens du cou­ple et la garde de ses enfants. C’est un chan­ge­ment fon­da­men­tal. Je parle ici de chan­ge­ments qui affec­tent l’intrigue d’un roman de mariage.
Dans la vie, les prin­ci­paux chan­ge­ments por­tent sur la répar­ti­tion des rôles au sein du cou­ple. Pour la géné­ra­tion de mes parents, ces rôles étaient bien tran­chés: mon père gagnait l’argent du ménage, ma mère était femme au foyer. Aujourd’hui, on assi­ste à un brouil­lage des rôles, et c’est cette que­stion désor­mais qui con­sti­tue le vrai champ de bataille au sein du mariage: com­ment répar­tir les tâches ména­gè­res, l’éducation des enfants, l’implication dans la vie pro­fes­sion­nelle ? Il n’y a plus de règles.
Nous vivons donc une période de tran­si­tion, voire de crise, mais c’est exal­tant car tout est à réin­ven­ter. Dans «Un homme amou­reux», l’un des volu­mes de son auto­bio­gra­phie fleuve, l’écrivain nor­vé­gien Karl Ove Knau­sgaard raconte com­ment il tente à la fois d’écrire et d’élever son fils en Suède, un pays qui impose un strict égali­ta­ri­sme entre les parents. Intel­lec­tuel­le­ment, il y croit, mais en fait il le vit très mal, il a l’impression de ne plus être un homme. C’est un tableau très drôle et très franc du mariage actuel et de la place de l’homme au sein du cou­ple, forcé d’y jouer un rôle dont il ne veut pas néces­sai­re­ment. Voilà pour moi le plus grand chan­ge­ment qu’a connu le mariage dans la réa­lité sociale.
Quel est le meil­leur «roman de mariage» jamais écrit ?
«Por­trait de femme» de Henry James. Mon héroïne Made­leine a beau être une incon­di­tion­nelle de Jane Austen, je ne par­tage pas sa pas­sion à ce point. Ce que j’apprécie dans les romans de mariage plus tar­difs, à par­tir du milieu du XIXe siè­cle, c’est qu’ils ne s’achèvent pas sur le mariage mais accom­pa­gnent l’héroïne dans sa vie con­ju­gale. «Madame Bovary» entre évidem­ment dans cette caté­go­rie. Que se passe-t-il quand le mariage devient com­pli­qué voire tra­gi­que, quand inter­vient l’adultère ? Je trouve ces enjeux bien plus intéressants.
Les romans de mariage tar­difs ont plus de pro­fon­deur psy­cho­lo­gi­que, ce qui les rend plus moder­nes. «Por­trait de femme» est un roman incroya­ble par ce qu’il dit de la société et de la place qu’y occupe la femme. Il con­serve les éléments arché­ty­pi­ques d’un roman de Jane Austen (qu’on retrouve jusque dans «le Jour­nal de Brid­get Jones»), comme la pro­li­fé­ra­tion de sou­pi­rants entre lesquels il faut choi­sir, mais il s’aventure ensuite en ter­ri­toire beau­coup plus som­bre. Les per­son­na­ges y com­met­tent de ter­ri­bles erreurs. Ce roman n’a rien d’une comé­die, alors que ceux de Jane Austen, dans la mesure où ils se ter­mi­nent par un mariage, sont fon­da­men­ta­le­ment des comédies.
Les trois héros de votre livre sont étudiants à l’université de Brown (à Pro­vi­dence, Rhode Island) en 1982, en pleine vogue de la «French Theory». A la même époque, vous avez étudié à Brown Uni­ver­sity la lit­té­ra­ture et la sémiologie…
Je n’y ai suivi qu’un cours de sémio­ti­que lit­té­raire, où j’ai étudié Bar­thes, Der­rida, Umberto Eco. C’est de là que vient ma mai­gre com­pé­tence sur le sujet. J’y suis venu assez tard. Brown était une uni­ver­sité pion­nière en ce domaine. Lor­sque j’y étudiais, les sémio­ti­ciens étaient en train de se con­sti­tuer en dépar­te­ment à part entière, alors qu’avant ils étaient rat­ta­chés au dépar­te­ment d’anglais, ou d’études ciné­ma­to­gra­phi­ques par exemple.
Cela a con­sti­tué une vraie bataille. Beau­coup d’universitaires reje­ta­ient les théo­ries de la décon­struc­tion, qui leur sem­bla­ient détruire toute leur con­cep­tion de la lit­té­ra­ture. Le débat était assez hou­leux entre ces deux fac­tions, et un étudiant novice en théo­rie lit­té­raire se trou­vait dans la même posi­tion qu’un enfant dont les parents divor­cent: il fal­lait choi­sir son camp, et com­ment choi­sir entre deux per­son­nes égale­ment appré­ciées, un pro­fes­seur à l’ancienne qui ensei­gnait Sha­ke­speare et un autre plus auda­cieux qui nous fai­sait décou­vrir Bar­thes. On se sen­tait écartelé.
J’étais plus à l’aise face au moder­ni­sme, à la méta­fic­tion et autres expé­rien­ces lit­té­rai­res d’avant-garde. Et sans que je m’en rende compte à l’époque, tous ces pen­seurs m’ont beau­coup influencé, car ils lança­ient un défi à l’aspirant écri­vain que j’étais. Je savais déjà que je vou­lais con­sa­crer ma vie à la lit­té­ra­ture, et ils sem­bla­ient affir­mer que la lit­té­ra­ture était dans une impasse. La théo­rie de la mort de l’auteur me fai­sait crain­dre que ma voca­tion ne soit mort-née, que la seule voie d’écriture encore pos­si­ble ne réside dans la théo­rie lit­té­raire plu­tôt que dans la fic­tion romanesque.
Je n’aimais pas cette idée, mais j’étais très frappé par leurs con­cep­tions de la lit­té­ra­ture et de son destin, par leur dénon­cia­tion d’une cer­taine fic­tion réduite à un ensem­ble de codes figés. Je res­sens encore leur influence. Mais j’ai tou­jours voulu con­ci­lier leurs vues et mon atta­che­ment au roman, à la cohé­rence nar­ra­tive, en m’efforçant d’aller de l’avant. J’ai trouvé très utile de devoir me défi­nir en oppo­si­tion à cette vision pes­si­mi­ste. Mais j’ai eu des moments de doute et de découragement.
De tous les théo­ri­ciens fra­nçais de la lit­té­ra­ture que vous évoquez dans ce livre, avec lequel vous sentez-vous le plus d’affinités ?
Roland Bar­thes a tou­jours été mon pré­féré. Pour être franc, c’est le seul que je pre­nais plai­sir à lire — quoi­que iné­ga­le­ment selon les livres. Les autres théo­ri­ciens, je devais lut­ter pour les com­pren­dre. Mais Bar­thes est non seu­le­ment un grand pen­seur mais un mer­veil­leux écri­vain, au style plein de charme et de viva­cité. Voilà pour­quoi il joue un tel rôle dans mon roman.
Eprouvez-vous de la nostal­gie pour vos années pas­sées à la Brown University?
En Europe, on me demande sou­vent pour­quoi les années d’université inspi­rent tant les écri­vains et les cinéa­stes amé­ri­cains. Si nous éprou­vons une telle nostal­gie, c’est parce que notre entrée à l’université con­sti­tue notre pre­mière expé­rience de la liberté. On quitte le foyer fami­lial pour un envi­ron­ne­ment com­plè­te­ment arti­fi­ciel où l’on vit entouré d’autres jeu­nes gens sou­dain libres et encore inex­pé­ri­men­tés. On décou­vre des livres, des dro­gues, le sexe, la vie. Et ensuite, on doit plon­ger dans la vie professionnelle.
L’université con­sti­tue donc une paren­thèse enchan­tée que l’on n’oublie jamais. Le con­texte géo­gra­phi­que joue aussi un rôle: vivre en vase clos sur un cam­pus, ce n’est pas comme habi­ter Paris et sui­vre des cours à la Sorbonne !
A 20 ans, vous avez beau­coup étudié la théo­lo­gie à Brown. Qu’est-ce que cela vous a apporté?
J’ai été bap­tisé selon le rituel ortho­doxe grec, sans doute pour faire plai­sir à ma grand-mère, mais je n’ai pas reçu d’éducation reli­gieuse, et je suis allé à l’école publi­que. Mes parents n’étaient pas pra­ti­quants, ils étaient même agno­sti­ques sinon athées. Lors de mon pre­mier séjour à Paris, à 20 ans, j’ai visité des cathé­dra­les, et je me suis inter­rogé sur cette foi col­lec­tive qui avait non seu­le­ment engen­dré de tels monu­ments mais façonné une bonne part de l’histoire de l’Occident, mais qui m’était com­plè­te­ment étran­gère. Je vou­lais donc com­bler mon ignorance.
Par ail­leurs, beau­coup des écri­vains que je lisais ava­ient été des chré­tiens fer­vents. Com­ment com­pren­dre «le Para­dis perdu» de Mil­ton sans une con­nais­sance de ses enjeux théo­lo­gi­ques ? J’ai donc étudié la reli­gion pour pou­voir mieux appré­cier la lit­té­ra­ture. Et je me suis pris au jeu ! Et cela fai­sait écho à mes inter­ro­ga­tions de jeune homme sur le sens de la vie et l’origine du monde. J’éprouve encore le tour­ment exi­sten­tiel de cette interrogation.
Comme votre héros Mit­chell, vous avez pris une année sab­ba­ti­que à 21 ans pour aller en Inde comme béné­vole au foyer créé par Mère Teresa pour les mou­rants. Qu’a été votre expérience?
Ce fut une expé­rience brève mais mémo­ra­ble. Je vou­lais me met­tre à l’épreuve en m’exposant à un con­texte dif­fi­cile. Je n’avais jamais rien vécu de tel, jamais eu à m’occuper de quelqu’un, jamais vu per­sonne mou­rir. Je vou­lais mieux me con­naî­tre, savoir si j’étais capa­ble de sur­mon­ter mon nar­cis­si­sme et mon égoï­sme, de faire pre­uve de dévoue­ment envers un inconnu misé­ra­ble et ago­ni­sant. Cela n’a pas été tota­le­ment con­cluant: j’étais sujet à l’auto-apitoiement, et il y avait une part de nar­cis­si­sme à rela­ter ensuite cette expé­rience en la dramatisant.
Mais je me suis mon­tré tout de même moins indi­gne que je ne le crai­gnais. A cet âge, j’étais tota­le­ment inex­pé­ri­menté, je me deman­dais ce que je ferais de ma vie, et j’étais en quête d’une expé­rience extrême. Or il me sem­blait plus radi­cal et plus rebelle de m’intéresser à la reli­gion et de rejoin­dre Mère Teresa que d’arborer une crête punk verte comme cer­tains de mes cama­ra­des de fac !
Je n’ai fait qu’apercevoir Mère Teresa à la messe, je l’ai sur­tout con­nue par per­son­nes inter­po­sées. Appa­rem­ment, elle avait un côté très carré, très brut. Une jeune Amé­ri­caine de 19 ans, qui avait passé pas moins de six mois à tra­vail­ler dans ce foyer, lui a demandé la per­mis­sion de pren­dre une semaine de vacan­ces en Thaï­lande. Et Mère Teresa a répondu: «La cha­rité ne prend pas de vacances!»
Votre père était un fils d’immigrés grecs. Dans votre jeu­nesse, étiez-vous perçu comme «eth­ni­que­ment différent»?
Un peu, oui, mais c’était le cas de tout le monde. Au lycée, il y avait encore un cli­vage entre les WASP d’une part, qui se con­si­dé­ra­ient comme des ari­sto­cra­tes sous pré­texte que cer­tains étaient appa­ren­tés aux gran­des famil­les indu­striel­les de Detroit comme les Ford, et d’autre part, les descen­dants d’immigrés ita­liens, liba­nais, grecs, polo­nais venus tra­vail­ler dans les usi­nes auto­mo­bi­les. Mon grand-père tenait un bar où les ouvriers vena­ient man­ger et boire. La géné­ra­tion sui­vante s’était un peu embour­geoi­sée, et nous vivions dans les mêmes quar­tiers rési­den­tiels que les WASP. Un cer­tain sen­ti­ment d’exclusion per­si­stait dans cette société stra­ti­fiée, mais il ne faut pas oublier qu’à Detroit le véri­ta­ble fossé était celui sépa­rant les Blancs des Noirs.
Vous avez des ori­gi­nes mi-grecques mi-irlandaises. Quel Amé­ri­cain êtes-vous?
Comme tous les Amé­ri­cains, je suis bâtard ! Ma lignée irlan­daise, du côté mater­nel, s’est établie dans le Ken­tucky dès le XIXe siè­cle. Ils appar­tien­nent à un monde de petits Blancs, por­tés sur la bou­teille et sou­vent sur la reli­gion, à l’accent sudi­ste très pro­noncé, et que per­sonne ne per­ce­vrait autre­ment que comme pro­fon­dé­ment amé­ri­cain. Je me con­si­dère comme pro­fon­dé­ment amé­ri­cain. J’ai beau­coup d’affinités avec l’Europe, j’y suis peut-être même plus à l’aise qu’aux Etats-Unis, mais je reste un Amé­ri­cain du Middle West.
Vous êtes né à Detroit en 1960 et y avez passé votre enfance et ado­le­scence. Vous avez vu la crise frap­per la ville.
Dans ma petite enfance, Detroit était la qua­trième ville des Etats-Unis, et elle bouil­lon­nait de vie et d’activité. C’était une ville pro­spère, même si elle n’avait pas la déme­sure de New York ou de Chi­cago. Quand j’allais ren­dre visite à mes parents sur leur lieu de tra­vail au centre-ville, j’aurais pu me croire à Boston. Il y avait des insti­tu­tions cul­tu­rel­les très dyna­mi­ques, de mer­veil­leux musées, des sal­les de concert.
Après les émeu­tes de 1967, on a vu la ville lit­té­ra­le­ment s’effondrer: des immeu­bles brû­lés, murés, rasés. Le taux de cri­mi­na­lité a monté en flè­che, les gens démé­na­gea­ient ou n’osaient plus s’aventurer dans le centre-ville. Cette déli­que­scence a coïn­cidé avec mon enfance, et à cet âge je n’ai pas com­pris ce que ce phé­no­mène avait d’aberrant. Je croyais que c’était la norme.
Mais cette jeu­nesse à Detroit m’a mis en con­tact avec des réa­li­tés amé­ri­cai­nes: la puis­sance et l’automatisation de l’industrie auto­mo­bile, la pré­sence de la guerre à tra­vers l’industrie de l’armement, la cul­ture popu­laire avec la musi­que des arti­stes de Motown… Avant d’être célè­bres, Ste­vie Won­der et les Supre­mes ava­ient joué dans un restau­rant tout près de chez moi ! C’était l’Amérique dans tous ses aspects. Et comme l’Amérique tout entière, Detroit a ensuite connu le déclin de son indu­strie, mais aussi des anta­go­ni­smes raciaux crois­sants. On avait beau être loin du Sud, de ses plan­ta­tions et des champs de bataille de la guerre de Séces­sion, les retom­bées de l’esclavage se fai­sa­ient encore sen­tir à ma porte, en plein Middle West.
Aujourd’hui, Detroit est dépeu­plée, au bord de la fail­lite, et désor­mais sous tutelle de l’Etat. Ses admi­ni­stra­teurs pro­vi­soi­res veu­lent la ren­flouer en ven­dant tous ses actifs. Ils envi­sa­gent même de ven­dre les col­lec­tions d’art du Detroit Insti­tute of Art, un des plus beaux musées américains !
Quels sont les trois livres que vous empor­te­riez sur une île déserte ?
Le pre­mier qui s’impose, c’est évidem­ment «Anna Karé­nine», car c’est le roman que je relis le plus sou­vent. Sur une île déserte, il vaut mieux empor­ter de gros romans ! Je pren­drais aussi la Bible. Pour le reste, le choix varie selon l’humeur du moment. Aujourd’hui, je serais tenté de sélec­tion­ner l’œuvre auto­bio­gra­phi­que de Karl Ove Knau­sgaard, car c’est un énorme cycle de six volu­mes ! J’ai sou­vent aussi envi­sagé «Her­zog» de Saul Bel­low, que j’aime à relire. Mais j’opterais peut-être pour une antho­lo­gie de poé­sie anglaise, à cause de son abon­dance et de sa diversité.
Pro­pos recueil­lis par Fra­nçois Armanet

giovedì 25 luglio 2013

Unterberg Poetry Center: Martin Amis, Ian McEwan, Salman Rushdie


“…the literary equivalent of a concert by the Three Tenors — or perhaps a friendlier version of the Yalta conference,” wrote The New York Times, “with three longtime allies jostling to carve up whatever territory might still be controlled by big-dude British literary novelists of a certain age.” The evening “included wry and often unprintable reminiscences about 1970s London literary life and the trio’s late and still-lamented friend Christopher Hitchens". 

Il VIDEO: CLICCA QUI

martedì 23 luglio 2013

Illuminations: giugno 2012 - luglio 2013

Laocoonte superstar La prima icona pop nella storia dell'arte


Dal capolavoro fumetti e gadget

Francesca Bonazzoli 

"Corriere della Sera", 18 luglio 2013

Quando nel 1988 Roy Lichtenstein trasformava il Laocoonte in un'icona pop, rivisitando la statua greca come un fumetto dai colori accesi, arrivava solo buon ultimo. Il Laocoonte è infatti forse la più antica in assoluto delle immagini pop, quelle cioè fatte proprie dall'immaginario collettivo e trasformate dalla popolarità attraverso la parodia, la dissacrazione, la verniciatura con altri colori, la deformazione delle dimensioni, l'uso e il consumo come immagini riproducibili e vendibili a basso costo. Insomma, quando un'opera d'arte si trasforma in un poster, in un gadget o un souvenir, allora siamo di fronte a un capolavoro e nello stesso tempo a un'opera pop. Anche Basilewsky, in quella che considerava a buon diritto la sua prestigiosa collezione, conservava, probabilmente senza saperlo, un souvenir del Laocoonte. Precisamente un piatto realizzato a Urbino nel primo trentennio del Cinquecento. L'immagine del sacerdote troiano, assalito da grossi serpenti assieme ai due figli, vi appare dipinta in modo approssimativo, per nulla ossequioso della statua originale: insomma un prodotto a uso divulgativo, di cui all'epoca c'era grande smercio e richiesta.
La statua del Laocoonte, alta più di due metri e scolpita in marmo Pario, era stata ritrovata solo pochi anni prima a Roma, precisamente il 14 gennaio 1506, in una vigna vicino alla basilica di Santa Maria Maggiore. Fra i primi ad accorrere al dissotterramento di quella che si annunciava una grande scoperta, ci fu Michelangelo, spedito da Giulio II, avido di antichità, per verificare di cosa si trattasse. Ma non c'erano dubbi: la statua era talmente bella che non poteva essere che il Laocoonte di cui aveva scritto Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia affermando che si trovava nella villa dell'imperatore Tito. Il prestigio di tale fonte, in un'epoca che aveva appena riscoperto lo studio e il collezionismo dei testi classici da parte degli umanisti, conferì subito alla statua un'aura quasi mitica. L'eccitazione per il suo ritrovamento è testimoniata nella corrispondenza di ambasciatori, prelati, letterati; registrata attraverso disegni, stampe, dipinti e celebrazioni poetiche. Tale fu la risonanza che persino il popolo analfabeta fu coinvolto e pare che durante il trasporto della statua dal colle Esquilino a quello Vaticano, la folla festante lanciasse fiori. Il Papa riuscì ad aggiudicarsi il marmo promettendo un vitalizio al proprietario del terreno in cui era stato scavato e lo collocò, assieme ad altre statue antiche, nel cortile del Belvedere che Bramante stava realizzando. Con tali proprietari (l'imperatore Tito e il Papa), tale storia (narrata nientemeno che da Plinio) e tale collocazione (il Belvedere) la statua era consacrata. 
La Laocoonte-mania doveva essere talmente diffusa e stucchevolmente di moda che Tiziano, in visita a Roma, non resistette dal farne una caricatura con tre scimmie (alter ego degli artisti, ma anche dei collezionisti) al posto del sacerdote e dei suoi figli. Il foglio fu inciso e stampato in molti esemplari ma dovunque, anche nelle bancarelle di strada, si potevano trovare repliche di ogni dimensione e materiale: in cera, come soprammobile per le case più povere; in stucco, bronzo, terracotta, pietre dure, porcellana e naturalmente anche in versione bidimensionale, dipinte in piatti come quello acquistato, secoli dopo, da Basilewsky per la sua collezione parigina. Non a caso, fu proprio nella Parigi di Napoleone che il Laocoonte ebbe un grande revival di popolarità: il generale fu infatti l'unico sovrano che riuscì a sottrarre il capolavoro ai papi e a portarlo nel 1798 a Parigi con un corteo trionfale. Ma la conquista fu effimera perché, dopo la Restaurazione, il Laocoonte riprese la strada di Roma. Entrambi i viaggi regalarono però alla statua una nuova enorme visibilità e, da simbolo per eccellenza del dolore, il Laocoonte si trasformò, nell'immaginario popolare, in un simbolo politico, sostenuto dal revanchismo alterno di francesi e italiani. Uno slittamento semantico che persisteva ancora nel Novecento quando, in una vignetta americana, il presidente Nixon veniva disegnato mentre combatteva contro i serpenti di un nastro magnetico, allusione allo scandalo Watergate che, evidentemente, la rendeva da tutti compresa. Diceva Italo Calvino che un testo è classico quando non finisce mai di dire quel che ha da dire.

Vita Sackville-West, e il giardinaggio divenne poesia (in magnifica prosa)


Raccolte in volume le Rubriche della scrittrice inglese 
con i consigli per far sbocciare un eden domestico

Rossella Sleiter

"Il Venerdì di Repubblica", 19 luglio 2013

Facciamo due conti: per quindici anni, ogni settimana, 810 in tutto, Victoria Sackville-West - subito ribattezzata «Vita» dalla madre - una donna che amava le donne, scrisse di giardini e piante il sabato, sulle pagine del quotidiano Observer. Riceveva un compenso straordinario per l'epoca, 19 guinee, che nel 1946, quando iniziò la rubrica, nell'Inghilterra ancora razionata per gli effetti della guerra, erano tante. Nella sua corrispondenza privata Vita citava fiori con naturalezza e con ogni pretesto. Spesso raccontava di paesaggi visti nei suoi viaggi, o del suo giardino, il celebre Sissinghurst. A Virginia Woolf, la più importante scrittrice del circolo di Bloomsbury, che si innamorò perdutamente di lei, scrisse che stava preparandole un piccolo giardino in una ciotola da semi, con rocce lillipuziane. «Devi tenerlo sempre umido» si raccomandò. Virginia rimase incantata.
Quell'aristocratica bellezza, alta, gambe bellissime, che a Virginia ricordavano i faggi, «esili colonne a sostegno del tronco piatto come quello di un corazziere», un corpo «che assomiglia a un grappolo di uva matura », per rubare sempre le parole di Virginia, baffi visibili, lasciati con noncuranza sulle labbra sottili, «una Lady Chatterly e il suo amante riuniti in una sola persona», come la descrisse un conoscente in visita, si dedicò alla rubrica con un sentimento misto. Era accurata, generosa nelle informazioni - non c'era pianta che crescesse nel suo giardino di Sissinghurst che non condividesse con i lettori, non c'era trucco giardiniero che non raccontasse in dettaglio, come quello di coltivare calle nel terreno sfruttato dei pomodori per averne di magnifiche. Però tutto questo parlar di bulbi e erbacee, di rose e arbusti da fiore, in fondo in fondo lo considerava l'avanzo del suo mestiere di scrittrice e di poetessa. Aveva dedicato gli anni della sua gioventù a produrre romanzi e versi. E aveva vinto un prestigioso premio con la raccolta The Land, nel 1927, a 35 anni: finalmente celebre, contava così di rimanere nella storia della letteratura inglese una volta per tutte.
Oggi Vita Sackville-West (1892-1962) è per il grande pubblico prima di tutto una straordinaria scrittrice di giardini, e la nuova edizione italiana della quinta raccolta delle sue fatiche giornalistiche, Il libro illustrato del giardino, a cura di Robin Lane Fox (Elliot edizioni, pp. 223, traduzione di Marta Suatoni, illustrazioni di Freda Titford, fotografie realizzate a Sissinghurst di Ken Kirkwood) è una di quelle perle librarie che non bisogna perdere, che si sia o meno appassionati di piante.
Il successo di Vita, la fama di Sissinghurst, che rimane, imbattuto, il giardino più visitato d'Inghilterra con 200 mila presenze l'anno, sono legati indissolubilmente a questo mistero: da una parte botanici, giardinieri, vivaisti, pollici verdi della domenica considerano Vita ora una dilettante ora un guru imprescindibile, da un'altra chi non ha neanche un vasetto di basilico sul davanzale si precipita nel Kent a vedere la sua creazione fiorita o si gode la sua prosa. Magari sognando un giorno di poter coltivare il garofano Chabaud. «Monsieur Chabaud era un botanico di Tolone che, all'incirca nel 1870, ottenne questi ibridi dall'antico garofano perenne e dal tipo annuale. Ne abbiamo due specie, quello annuale e quello perenne. 
Gli annuali si dividono in Giant Chabaud, Enfant de Nice, e Compact Dwarf. Devono essere seminati in febbraio o in marzo in contenitori riempiti di un composto ben amalgamato di pacciame, terra e sabbia fine. Non richiedono riscaldamento, ma nel caso di temperature particolarmente rigide i semi devono essere protetti. Non bagnateli eccessivamente. Manteneteli all'asciutto. Piantateli all'aperto piuttosto radi, in un punto soleggiato e con buon drenaggio (personalmente li preferisco da soli non associati ad altre piante). La loro gamma di colori è ampia: giallo, bianco, rosso, porpora, rosa e screziati. Si propagano facilmente, e seminandoli a febbraio, saranno in fiore da luglio in poi». Fu sommersa da tante lettere che per due settimane non fece altro che rispondere personalmente a ognuna di loro.
Fu così fin dall'inizio, quando, spinta dal senso pratico che mai le fece difetto, dovendo mantenere insieme al marito Harold Nicolson, diplomatico, quell'immenso parco nel Kent e il castello in stile Tudor dove la sua abilità di raffinata padrona di casa risplendeva solenne, accettò il contratto con l'Observer. Non era il suo primo debutto nel mondo dei media; aveva già partecipato a diverse trasmissioni radiofoniche della Bbc e scritto su altre testate, ma questo fu il suo impegno continuativo più gravoso e stabile.
Vita riguardava i suoi appunti presi al tempo del primo impianto di Sissinghurst, acquistato nel 1930, quando, con Harold, si erano divisi i compiti. Lui disegnava le famose «stanze», le siepi che come pareti immaginarie delimitavano gli spazi, lei le riempiva di fiori, bulbi, rose e alberi da frutto a proprio piacimento. Seguiva il lavoro dei suoi quattro giardinieri, si consultava con il loro capo, John Vass, correggeva gli insuccessi, trapiantava, spostava, studiava i colori e gli abbinamenti. Il famoso «giardino bianco», dove la Nicotiana e la Rosa Iceberg convivono con decine di altre essenze diverse, disordinate, alte e basse, ma rigorosamente color latte, le era nato così, per tentativi.


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La bellezza del tempo che passa, l’emozione dove nasce l’arte


Massimo Recalcati

"La Repubblica", 21 luglio 2013

La nostalgia è una risorsa o una malattia dell’anima? Dal punto di vista della psicoanalisi la nostalgia non deve essere confusa con la tristezza cronica che affligge la vita del depresso. Nella depressione noi assistiamo a un’alterazione profonda del senso soggettivo del tempo: il passato diventa un incubo che occupa il presente e che risucchia l’avvenire rendendolo impossibile. Per il depresso tutto è già avvenuto, la vita è vita morta, senza futuro, senza speranza, priva di slancio, pietrificata nel passato, divenuta come una stazione ferroviaria, secondo un’immagine efficace proposta da Binswanger, dove non passano più treni.
Diversamente dalla depressione, la nostalgia non rende la vita prigioniera del passato. Quando siamo colpiti dal guardare anche dei semplici oggetti che hanno accompagnato la nostra vita in una stagione passata, o quando ripercorriamo luoghi un tempo frequentati o evochiamo nella memoria immagini di persone che non fanno più parte della nostra vita, siamo presi da un sentimento nostalgico che però, diversamente dall’affetto depressivo, non chiude la porta della vita. La nostalgia ci fa certamente affondare nel passato e da questo punto di vista implica sempre uno sguardo che si rivolge all’indietro. Ma questo sguardo non svuota la vita né del suo presente, né del suo futuro. Mentre per il depresso tutto è già accaduto ed egli resta letteralmente incatenato all’ombra di un passato che sbarra la strada a ogni possibile avvenire, nella nostalgia c’è ancora fame di vita.
Non c’è rifiuto della vita, ma amore insaziabile della vita. Di tutta quella vita che si è sedimentata nelle cose, nei luoghi, nei volti, nei profumi, nei suoni, nelle immagini del nostro passato.
La nostalgia non è una malattia – come forse vorrebbe farci credere il recente DSM V lestissimo a tradurre in forme patologiche tutti gli aspetti non chiaramente performanti della nostra vita – ma una risorsa. È un modo positivo di afferrare il senso della caducità della vita che, come affermava Freud, non rende una rosa meno bella per il solo fatto che è destinata a sfiorire. La nostalgia è questo sentimento della bellezza della vita che sa conservarsi nonostante sia destinato ad essere corrotto dalla caducità fatale del tempo.
Per questa ragione la psicoanalisi associa frequentemente (Melanie Klein, Jacques Lacan) la nostalgia alla sublimazione propria di ogni creazione artistica.
L’artista lavora attorno alla memoria – quella propria e quella del mondo – per aprire all’inedito, al non ancora visto, al non ancora conosciuto. Mentre la vita depressa è vita bloccata dal passato, vita fissata ad un tempo che è per sempre morto, l’azione nostalgica dell’artista – come quella che vibra potentemente nelle celebri bottiglie di Giorgio Morandi – consiste nell’elevare la polvere del tempo alla dignità di un mistero, alla forza di un assoluto. Non si tratta di rimanere incollati passivamente ai nostri ricordi ma di attingere ai ricordi attivamente per fare emergere un nuovo senso della realtà. Le bottiglie di Morandi non sono più allora solo cose, ma indici di un altrove, di una trascendenza che abita il mondo.
È il grande insegnamento che troviamo in Cézanne: «Tutto quello che vediamo dilegua; la natura è sempre la stessa, ma nulla di essa resta. La nostra arte deve dare il brivido della sua durata, deve farcela gustare eterna». La nostalgia sottrae le cose del mondo dalla loro dissoluzione rendendole per sempre vive, anche se perse in una lontananza che non possiamo ridurre. È quello che realizza forse in modo insuperabile la poetica di Giorgio Morandi, ma che accade più in generale nel miracolo dell’arte:i fiori, le bottiglie, le caffettiere, le teiere, le strade impolverate diventano immagini senza tempo, eterne, presenze silenziose sullo sfondo di una assenza.
È lo stesso paradosso che circonda l’esperienza più comune del lutto. La persona a noi cara non c’è più, è scomparsa, ma prima di poter accettare psichicamente la sua assenza siamo costretti ad un lavoro doloroso della memoria. Ripensiamo a lei, la ricordiamo, percepiamo il vuoto che ha lasciato. Nondimeno al termine di questo lungo e doloroso lavoro, la sua assenza non paralizza più la nostra vita – come invece accade negli stati depressivi che indicano sempre un fallimento del lavoro del lutto – perché siamo riusciti, per così dire, a incorporare l’oggetto perduto,a farlo nostro. La nostalgia sarà allora il sentimento positivo che senza annientare la nostra vita, la manterrà in un contatto invisibile con quella di chi ci ha lasciato.

lunedì 22 luglio 2013

Il Museo del mondo: l'enigma di Munch davanti alla Sfinge


Melania Mazzucco

"La Repubblica", 21 luglio 2013

La vita è nemica delle ambizioni e si affretta a spegnerle. Solo i giovani osano concepire progetti smisurati, perché non si preoccupano delle difficoltà, degli ostacoli o della resistenza inerziale che opporranno la tradizione, i pregiudizi, il mondo. Fragile di salute, Munch si credeva braccato dalla morte: temendo di avere poco tempo fu da subito audace. A meno di trent'anni, mentre in Francia con una borsa di studio si perfezionava nel mestiere della pittura, concepì un ciclo di quadri che poi intitolò il Fregio della Vita: in essi intendeva raccontare ogni aspetto di quella battaglia tra uomo e donna chiamata amore. La vita di ogni anima, ma in primo luogo la sua. Credeva nell'arte come esame di coscienza, comprensione della realtà attraverso la rielaborazione delle esperienze personali: insomma, autobiografia.
Il Fregio della Vita lo realizzò nei febbrili anni successivi: includeva le sue opere più celebri - fra cui Madonna, Il Bacio, Vampiro, L'Urlo. Munch sperava che qualche istituzione lo acquistasse per decorare un edificio pubblico, ma incontrò solo scherno e disprezzo. Quando lo espose nel 1902, a Berlino, inserì Sphinx fra Gelosia e Malinconia, nel capitolo "Fioritura e declino dell'Amore". Lo aveva dipinto nel 1894 - un anno turbolento di indigenza, intossicazioni alcoliche, dispute filosofiche e spiritistiche con gli amici della bohème di Berlino, scrittori come Strindberg e Przybyszewski, donne votate al libero amore, satanisti e anestetisti che sperimentavano fluidi al cloroformio con cui lui voleva spegnere le tinte dei suoi quadri.
Sphinx è un modello di semplificazione e sintesi. Gli esseri umani e i tronchi formano linee verticali, come colonne. La frontalità rende le figure solenni e remote. Solo l'onda sinuosa della spiaggia rompe la staticità della composizione e suggerisce lo spazio. Ma la natura è diventata astrazione e simbolo. Il quadro, dai colori smorti, è diviso radicalmente in due dalla luce - di qua il chiarore di un'estiva notte boreale, di là ombra e tenebra fitta. È da questa che bisogna partire: a destra, contro un tronco, c'è un uomo pensoso e melanconico. La colatura rossa allude al suo cuore sanguinante. È l'Edipo al bivio, che come l'eroe mitico per salvarsi deve rispondere al quesito della Sfinge. Nel suo caso: cos'è, la donna? Le tre figure femminili rappresentano la sua risposta. «Quella scura che sta frai tronchi degli alberi», spiegava Munch, «è la suora - sorta di ombra della donna - tristezza e morte - e la nuda è una donna col gusto per la vita. La pallida bionda che cammina verso l'oceano, l'eternità - è la donna dello struggimento». Dunque la fanciulla sulla riva del mare è la donna angelo, idealizzata. Il bianco dell'abito e il mazzolino di fiori segnalano l'innocenza, la purezza; l'assenza di volto la sua funzione archetipica. La nuda sfacciata dai capelli rossi che campeggia al centro, le braccia incrociate dietro la testa (come nel quadro Le Mani, per cui posò l'affascinante Dagny Juel, femme fatale del circolo del Porcellino Nero, e in Ceneri, laica rilettura della caduta di Adamo ed Eva),è la donna erotizzata, forza primigenia della sessualità. È l'unica che ci guarda. La nera figura con le palpebre abbassate, ieratica come un idolo di Gauguin, è la donna-dolore.
Santa, puttana, vittima. Sono tre donne, colte in diverse epoche della vita - ma anche una sola, negli aspetti molteplici della sua psiche. Perché «tutte le altre sono una, tu sei mille», recitava il sottotitolo che Munch appose al quadro nella mostra di Stoccolma. Era tratto dal Balcone, dramma di Gunnar Heiberg, in cui una donna mostrava tre differenti personalità ai tre amanti.
La donna come Sfinge, enigmatica custode della vita e della morte, avrebbe rappresentato il tema ossessivo dell'arte di Munch - e anche della sua vita. Quando nel 1895 fu esposta a Christiania (oggi Oslo), Sphinx suscitò la riprovazione dei benpensanti e, insieme al resto del Fregio della Vita, scatenò un dibattito pubblico sulla sanità mentale del pittore. Munch avrebbe voluto essere uno scrittore. Il Fregio della Vita era stato pensato come opera letteraria. Ma già a 7 anni disegnava a carboncino sulle ricette del padre, medico militare; a 17 dipingeva e poco dopo esponeva in pubblico: la pittura divenne presto il fulcro della sua esistenza. La famiglia Munch era prediletta dalla morte e dalla follia: la madre morì di tubercolosi quando lui aveva 5 anni, la sorella Sophie quando ne aveva 14, la sorella Laura fu internata per malattia mentale, il padre vedovo soffriva di depressione, il fratello Andreas morì giovane.
Munch stesso flirtava con la follia - almeno fino al ricovero in una clinica psichiatrica. Ma la sua era anche una famiglia di lettori. Agli inizi, posarono per i suoi ritratti il padre, la sorella Inger, il fratello, la zia. Tutti in poltrona, con un libro in mano. I Munch leggevano di tutto - la Bibbia, i giornali, storie di fantasmi, romanzi di Dostoevskij. In seguito Munch ripudiò il "ritratto con libro", sterile prodotto del naturalismo borghese, incapace di cogliere le pulsioni che ribollono nelle persone. Ma la letteratura continuò ad alimentare la sua immaginazione, e lui seminava parole sui fogli caotici dei suoi diari. Quei frammenti di narrazioni, le epifanie,i dialoghi, i ricordi, gli aforismi, i versi - che accompagnavano la creazione delle sue opere e ne fissavano la genesi - rivelano un talento. Lo scrittore Munch era notevole quanto il pittore. E non per caso il primo estimatore di Sphinx fu Ibsen. Incompreso e denigrato in Norvegia per il suo teatro "immorale", Ibsen si era inflitto un lungo esilio. Nel 1895 visitò la mostra di Munch e lo incoraggiò a resistere: nel connazionale bistrattato in patria, più giovane di 35 anni, rivedeva se stesso.
Guardarono i quadri insieme, uno per uno. Ibsen trovò particolarmente interessante Sphinx, e Munch glielo spiegò (con le parole sopra citate). Nel 1899, notò che Ibsen se ne era servito per concepire Quando noi morti ci destiamo. Le tre donne del quadro erano diventate le protagoniste del dramma. Munch invece non aveva più bisogno delle parole. Aveva trovato un altro modo per narrare la vita. Ma anche in pittura «voler raccontare non è un errore», osservò: «tutto sommato il racconto è lo scopo di ogni arte».

Turismo letterario: il giro del mondo in 80 noir


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Geografia del giallo: infografica. CLICCA QUI.



Il Mediterraneo è un mare nero

Maurizio De Giovanni

"La Lettura - Corriere della Sera", 21 luglio 2013

C’è qualcosa, nel mare. Qualcosa di oscuro.
Non mi riferisco alle chiazze di carburante lasciate dalle petroliere, né agli scarichi inquinanti delle fabbriche e degli antiquati impianti fognari: qui si discute di narrativa, e specificamente di narrativa nera.
Il mare e la narrativa nera sembrano fatti l’uno per l’altra. Il mare è fatto di vicoli, di cattiva illuminazione, di stradine tagliate ametà dalla luce del sole; di aria appestata da pesce e alghe in decomposizione, dal sapore di legno umido e ammuffito; dal rumore equivoco delle onde sulla scogliera, dalle grida di gabbiani a caccia di topi, da una massa buia nella notte, in perenne oscuro movimento. Il mare è un obbligo, un richiamo: conosciuto e sempre ignoto.
Il romanzo nero, da parte sua, è l’indagine della parte buia; è lo spauracchio della violenza, il fantasma della propria rabbia che il lettore vede emergere da una storia altrui, che potrebbe benissimo essere la sua. È il fascino dell’altro da sé, lontano eppure così vicino da essere sovrapposto. È il mistero dell’eroe oscuro, e delle vicende che comunque vadano a finire non finiscono mai.
Eppure la violenza non è certo lesinata dalla cronaca; di questi tempi la realtà offre avvenimenti che sono più efferati e illogici di quelli che si trovano nei romanzi. Possibile che la gente non sia stanca, e che cerchi anche nella fiction le stesse cose che trova nei giornali e in tv? Possibile, evidentemente. Possibile che il pubblico non voglia abbellimenti, possibile che per completare il processo di immedesimazione che la lettura richiede abbia bisogno di storie che sembrino vere, che ti gettino in fretta in un contesto così simile al tuo da farti sentire protagonista della vicenda che raccontano. D’altra parte cos’è un libro, se non un biglietto per un viaggio? Per una passeggiata in un altro posto, in un altro tempo, che consenta di andare altrove senza muoversi, di sentire altre passioni e altre emozioni?
Il romanzo nero, perciò, costituisce il più veloce dei viaggi: dipingendo una realtà assolutamente verosimile, proponendo il lato oscuro dell’animo umano senza cercare di immaginare rassicuranti catarsi. Una storia nera non finisce bene, almeno non necessariamente: il lettore non sa mai come si chiuderà e spesso, come accade nella realtà, la conclusione prelude a un nuovo inizio e riserva brutte sorprese.
In questo contesto si può tentare di ritrovare alcune atmosfere comuni, elementi di somiglianza tra gli autori più amati di un genere che per sua natura è polifonico e incline alla ricerca a volte ossessiva dell’originalità. Uno di questi elementi è, forse, proprio il mare. La costruzione di una realtà verosimile, un cardine della narrativa nera, parte dall’ambientazione. Strade, suoni, aria, clima: un vento insistente, profumi di cucina, morbide musiche e canzoni dolenti, notti calde o gelide. Descrizioni necessarie di un contenitore che conserva e orienta la storia che viene raccontata. I paesaggi innevati e la natura ostile del grande Nord sono un elemento costitutivo della narrativa svedese, islandese e norvegese e determinano un aspetto non certo secondario del fascino che gli autori di quelle lande mantengono, e del loro successo. Si può dire lo stesso del nostro Mediterraneo, per restare nel Vecchio Continente?
Il nuovo romanzo nero europeo ha molti padri; tra essi devono essere certamente annoverati Manuel Vázquez Montalbán e Jean-Claude Izzo. È con loro che il genere giunge in riva al mare, abbandonando le nebbie oscure della Parigi di Simenon e della Londra gotica e l’illusoriamente tranquilla campagna inglese della Christie; e il nero assume nuove sfumature, immergendosi negli odori e nelle luci abbaglianti di Marsiglia e Barcellona.
Pepe Carvalho, l’investigatore privato che percorre le ramblas tenendo per mano il suo creatore Vázquez Montalbán, è così intimamente connesso con la propria realtà da risultare ormai una vera e propria risorsa turistica di Barcellona. La progressiva immedesimazione dello scrittore col personaggio, evidente fin dal principio con la corrispondenza della data di nascita immediatamente successiva alla fine della guerra civile e con la detenzione per antifranchismo, raggiunge l’estremo con la previsione della morte dell’autore stesso (Pepe Carvalho, l’addio, del 2003, anno della morte di Vázquez Montalbán). I romanzi con Carvalho protagonista si connettono intimamente con la città attraverso molti canali, primo fra tutti la gastronomia: passeggiamo con il fantastico Biscuter, cuoco e aiutante del detective, per botteghe e mercati di una Barcellona magmatica e sotterranea, in perpetuo movimento portuale, coi traffici impliciti ed espliciti tipici delle città di mare. Il piatto che delizierà Carvalho non è uno strumento narrativo, e nemmeno una nota di colore: è una precisa finalità, la conclusione di un processo che corrisponde alla costruzione di un’ambientazione assolutamente indistinguibile dalla storia stessa.
Così come connaturata alla storia è la Barcellona nera di Alicia Giménez-Bartlett e della sua Petra Delicado, ispettrice di polizia il cui nome stesso è un ossimoro e rappresenta la duplicità della sua natura, e della città che percorre. Una città femmina, accogliente e misteriosa, mai univocamente interpretabile, bellissima e infida; piena di contraddizioni che la stessa autrice, castigliana della Mancia, sembra indagare, romanzo dopo romanzo, con il proprio personaggio, attraverso storie che propongono una perenne dialettica tra l’evoluzione del crimine e quella dell’educazione sentimentale della protagonista. E il mare, col suo movimento, il suo rumore e le attività che sostiene, ne è la costante colonna sonora.
Lo stesso mare che bagna Marsiglia, palcoscenico delle storie di Izzo e soprattutto vero e proprio personaggio principale della trilogia che ha come protagonista Fabio Montale. La narrazione di Izzo, partecipe e accorata in ogni singolo rigo, è tra le più poetiche e delicate del genere e propone l’autore come uno scrittore tout court, narratore di razza che non ha mai difficoltà a immergere il lettore in un paesaggio e in una vicenda lasciandolo con un senso di straniamento al termine della lettura, attanagliato da un’inspiegabile nostalgia per qualcosa che rimane comunque irrisolto, come dev’essere in una storia nera che si rispetti. Il crimine non viene mai sanato, e Izzo lo sa più di chiunque altro: la ferita sociale non può che essere mal ricucita, e lascerà un’orribile cicatrice in ricordo del male dal quale è nata. Il secondo romanzo della trilogia di Montale, Chourmo (Ciurma), descrive il cuore di Marsiglia (che non a caso è il sottotitolo) meglio di ogni altro. La compresenza della prima e della terza persona conferisce al romanzo una pluralità di punti d’osservazione che lo rende corale, profondo, mobile come il mare; e dal mare, che ospita le riflessioni di un protagonista che passa il proprio tempo a pescare, viene la storia stessa, introducendo una tematica che è diventata una costante della narrativa mediterranea: i flussi migratori.
In Izzo prima e in moltissimi autori successivamente, il confronto tra culture diverse, il differente peso della religione, dell’onore, dell’orgoglio, le necessità economiche, il degrado e la povertà, il fantasma dei campi profughi, sono spesso all’origine dei crimini sui quali gli investigatori sono chiamati a indagare; così l’indagine, e i tortuosi percorsi all’interno del ventre delle città e dei sentimenti che si intrecciano fino a diventare una matassa inestricabile, sono anche il modo degli scrittori di analizzare la società. Il solo fatto di mettere certe situazioni al centro della storia diventa un giudizio di merito.
Non a caso è proprio Marsiglia la capitale del noir mediterraneo, fin dagli anni Settanta di Jean-Patrick Manchette: in bilico tra il Sud in rincorsa e il ricco Nord, diventa il territorio di una guerra interculturale prima ancora che economica. E lo stesso Massimo Carlotto ambienta a Marsiglia gran parte del suo Respiro corto, a dispetto del titolo un romanzo di respiro ampio e internazionale, dove i grandi interessi economici incontrano le terribili storie di degrado personale e sociale del nostro tempo. Il mare; lo stesso mare sul quale si affaccia, per venire al nostro Paese che è diventato un luogo «istituzionale» della narrativa nera mediterranea, la Genova di Bruno Morchio e del suo Bacci Pagano, investigatore sofferente e sensibilissimo che porta attraverso i carruggi della città vecchia uno sguardo apparentemente cinico e invece tormentato e dolente. E, con un salto di molti chilometri, l’avvocato Guerrieri di Gianrico Carofiglio, che con una scrittura raffinata e innovativa porta il legal thriller in casa nostra, adeguando il genere a mentalità e a modalità di dialogo calde e appassionate, lontane da quella freddezza procedurale e dai tecnicismi che caratterizzano i romanzi d’oltreoceano.
È come se la nostra narrativa sentisse la necessità del mare, l’essenza di un simbolo del disordine, dell’inaffidabile, del mobile e dell’incertezza, pur nella enorme diversità dei linguaggi: Marco Malvaldi, col suo irresistibile Bar-Lume, che fa molto sorridere emolto riflettere sulla piccola provincia partendo dal litorale pisano, impreziosito dalla pineta che dialoga ininterrottamente con le onde. E naturalmente il grande Andrea Camilleri, lo scrittore che ha dato inizio all’età dell’oro del romanzo di genere italiano, sdoganando una narrativa fino a lui ospitata, pur con grandissime eccezioni come Scerbanenco, Veraldi, Fruttero e Lucentini, negli scaffali nascosti delle librerie. L’autore siciliano, con la voce inconfondibile dall’immaginaria e assolata Vigata, ha una scrittura fatta di mare; quel mare nel quale il suo Montalbano va a nuotare per trovare e schiarire le idee, come se volesse, lui catanese in trasferta, ritrovare un liquido amniotico che è casa sua più di ogni altro luogo.
Mare che è anche isolamento, introspezione, tradizione di solitudine e talvolta di violenza, come testimoniato dalla narrativa sarda di Fois, Todde, Murgia, Niffoi. Mare che sa diventare una cortina impenetrabile, mare che copre luoghi mortalmente affascinanti e poco disponibili a essere compresi, mare che racconta nella propria lingua, senza porsi il problema di piacere a chi ascolta. Mare che diventa una necessità narrativa anche per chi non ce l’ha, come lo scrittore tedesco Veit Heinichen che fa adottare da Trieste il suo poliziotto salernitano Proteo Laurenti, che insieme ai delitti analizza la storia e la tradizione di un luogo che fa del vento e dell’acqua la propria identità.
Verso Oriente la scottante, violenta attualità dell’ateniese Petros Markaris, che con una narrazione vertiginosa e rapidissima in prima persona e al presente si serve del veicolo del commissario Kostas Charitos per squarciare il velo sugli effetti della crisi sul popolo e sulla nazione che hanno costruito la nostra cultura, e nei confronti dei quali costantemente dimentichiamo l’enorme tributo dovuto. Il caso di Markaris è paradossale: greco di padre armeno, ha studiato in Germania e scrive romanzi e saggi, oltre che nella lingua madre, in turco, tedesco, inglese e francese.
Il più europeo degli scrittori è anche quello che la congiuntura corre il rischio di estromettere dall’unità economica continentale. Nel suo ultimo romanzo, Resa dei conti, immagina appunto un gennaio 2014 in cui Spagna, Italia e Grecia devono tornare a peseta, lira e dracma perché espulse dall’euro; uno scenario drammaticamente realistico, in cui il crimine percorre come un demonio le strade di una città straziata da conflitti generazionali e manifestazioni di piazza, da una sopraggiunta condivisa povertà e dall’orgoglio ferito di una nazione che porta il peso della propria storia. La materia di un saggio di macroeconomia resa fruibile e incredibilmente interessante, riferita attraverso le storie delle persone, il loro sangue, la loro dannazione. Uno svelamento, attraverso il linguaggio quotidiano, di ciò che sta avvenendo di là dal nostro mare, a tiro di traghetto: e che ci può dire di noi stessi molto più di quanto siamo disposti ad ammettere.
La funzione del romanzo nero è del resto questa: raccontare in termini concreti, individuali e familiari la ricaduta sulla gente dei grandi disagi collettivi; e il mar Mediterraneo è teatro e tessuto connettivo dell’incontro tra popoli diversi. Un confronto, a volte scontro, frutto di un’astrazione politica ed economica che si chiama Europa e che di fatto è sempre più lontana da se stessa; ma che il mare ha raccontato, e continuerà a raccontare com’è, attraverso i suoi autori neri, senza alcun tributo all’etica e all’estetica.