Armando Massarenti
"Il Sole 24 ore - Domenica", 30 agosto 2015
«Puoi rimanere casta come il ghiaccio, candida e pura come la neve, ma non potrai sfuggire alla calunnia. Perciò ti dico: vattene in convento. O, se proprio hai bisogno di sposarti, prenditi uno sciocco, perché quelli avveduti sanno fin troppo bene quali mostri sapete far di loro. Va’, chiuditi in convento». Queste gelide e raggelanti parole appartengono al principe di Danimarca, il tormentato Amleto shakesperiano, ma potremmo immaginarle senza difficoltà anche sulla bocca di un altro seduttore altezzoso e infelice. Un personaggio realmente esistito (qualche secolo prima di Shakespeare): il filosofo Abelardo (1079-1142), la mente logica forse più acuta di tutto il Medioevo che, ironia della sorte, non capiva assolutamente nulla della logica dell’amore. E delle relazioni in generale, si potrebbe aggiungere!
Che Abelardo fosse un grande seduttore non lo si può dubitare, almeno se si presta fede alle parole di Eloisa, sua allieva e poi amante, da lui “spedita” in convento quando la storia d’amore stava degenerando in tragedia. La bella Eloisa, giovane donna straordinariamente colta e sensibile, accese il filosofo di una passione così intensa da fargli perdere il sonno, la testa, e poi un’altra parte del corpo – in modo non poco doloroso, secondo quanto vuole la tradizione (lo zio della ragazza, il canonico Fulberto, per nulla contento di quell’amore illegittimo e clandestino, per filosofico che fosse, organizzò una spedizione punitiva e lo fece evirare).
Ma torniamo alle arti seduttive del giovane Abelardo, dotato secondo la sua Eloisa di così tanto carisma da far accorrere folle di scolari e “fan” «da ogni luogo». «Quale regione, citta o paese non ardeva dal desiderio di vederti? Quale donna non languiva per te quando eri assente e non ardeva di desiderio alla tua presenza? Quale regina, quale donna potente non invidiava le mie gioie, il mio letto?»
Con sguardo meno generoso (e innamorato) di quello d’Eloisa, potremmo dire che il vero talento di Abelardo era di essere una calamita per l’invidia. Ma l’aspetto più rilevante è che non faceva nulla per evitarlo. Anzi! In un certo senso, Abelardo è il più perfetto seguace ante litteram dello psicologo Paul Watzlawick, il geniale studioso che, nelle Istruzioni per rendersi infelici, svela con notevolissimo acume e ironia tutti i disparati (e disperanti) modi in cui noi esseri umani spesso ci regaliamo da soli abbondanti dosi di infelicità. Pensiamo alla strategia che Watzlawick battezza come “ancora lo stesso”. «Dietro questa semplice espressione si cela una delle più efficaci e funzionali ricette per le catastrofi che sia apparsa sul nostro pianeta in milioni di anni.» E, anche tralasciando l’incidente dell’evirazione, Abelardo di catastrofi – auto-inflitte – era davvero un grande esperto! Non a caso la sua prima lettera autobiografica è passata alla storia con il titolo di «Storia delle mie disgrazie». Dunque, per come ripercorre la sua vicenda, Abelardo sbaglia a ripetizione, sottovaluta i suoi avversari, cade in disgrazia, si provoca ferite di ogni tipo ma più forte di lui è il continuare a fare, ancora e ancora, “lo stesso”.
Dovunque vada, con tutta la sua fine intelligenza e capacità dialettica, il talentuoso filosofo proprio non riesce a resistere alla tentazione d’accumulare nemici. E passi il conflitto generazionale con il suo primo magister, Guglielmo di Champeux: «all’inizio bene accetto, gli divenni poi assai molesto, quando cercai di confutare alcune sue proposizioni e presi sempre più spesso ad argomentare contro di lui». Stupisce forse che «questa condotta generasse in quelli tra i discepoli che erano considerati più bravi tanta stizza»? Ed ecco – che strano – «l’invidia continua a divampare» contro Abelardo. Non contento, il giovane logico si inimica anche il maestro del maestro, niente meno che Anselmo di Laon: «Poiché disertavo sempre più spesso le sue lezioni, qualcuno dei suoi discepoli eminenti se ne ebbe a male». Ma non è finita qui. Anche dopo il terribile incidente di Fulberto, Abelardo, presi i voti, si scontra ripetutamente con l’autorità ecclesiastica fino a essere scomunicato da papa Innocenzo II. Per non parlare della “disgrazia” forse più notevole, quella che ai lettori non può che sembrare una manifestazione esemplare di un bizzarro complesso di persecuzione (o per lo meno di ciò che Watlawick chiamerebbe “profezia che si autoavvera”): Abelardo è nominato a capo di un’abbazia, ma solo per iniziare a lamentarsi, di lì a poco, dei ripetuti tentativi di avvelenamento degli altri monaci ai suoi danni.
Insomma, per citare ancora una volta le Istruzioni per rendersi infelici, Abelardo è un vero maestro nel perseverare nella stessa condotta, continuando «a utilizzare la stessa “soluzione”, col solo risultato di incrementare il disagio». Disagio per sé e per la povera Eloisa, sensibile e fin troppo intelligente, come mostrano chiaramente le lettere attribuite a lei. Rileggendo attentamente la loro infelice storia, Eloisa si rivela come la sola tra i due a essere dotata di un po’ di logica, oltre che di intuito psicologico e di spiccata intelligenza pratica. L’unica da cui avrebbe senso prendere delle lezioni d’amore.
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