Gabriele Romagnoli
"La Repubblica", 11 dicembre 2015
Come in Nietzsche o in Borges l’eterno ritorno di “Friends” continua ad appassionarci. Mentre “Mad Men” invecchia...
Se il filosofo Friedrich Nietzsche, lo scienziato Hugh Everett e perfino lo scrittore Jorge Luis Borges prima di perdere la vista potessero sedersi su un divano, azionare il telecomando e assistere a un’ennesima replica della sit-com “Friends”, sorriderebbero felici. Non alle battute dei sei ragazzi di New York, ma alla conferma delle loro teorie: l’eterno ritorno, gli universi paralleli, la vita come fiction. Tutto (ri)comincia in questa fine 2015. Il canale satellitare Fox decide di ritrasmettere in alta definizione la famosa serie americana che debuttò nel 1994 e si protrasse per dieci stagioni fino al 2004: 236 episodi di 20 minuti ciascuno, quasi 79 ore di vita per sei personaggi e i loro autori. In teoria. In realtà la loro esistenza si è estesa nello spazio e nel tempo, non è terminata, non ha seguito uno svolgimento lineare, si è arrotolata su se stessa, riprodotta, sovrapposta e confusa. Già alla fine degli anni Novanta, dato il successo planetario del programma, era possibile fare un esperimento: bastava avere un televisore in grado di captare qualche centinaio di canali nel mondo e si poteva assistere a Friends da mattina a sera. Alle otto in Perù, a mezzogiorno in Francia, verso sera in Polonia. Cambiavano le lingue dei doppiatori (unico per tutti quello est europeo), ma anche la condizione dei protagonisti. Nel sovrapporsi dello spazio e del tempo Chandler era magro, poi improvvisamente grasso, fidanzato con la terribile Janice o con Monica.
L’estenuante storia d’amore tra Rachel e Ross viveva una schizofrenia simile a quella della progressione delle puntate e l’inversione cronologica poco cambiava, come nel virtuosistico romanzo a ritroso di Martin Amis La freccia del tempo. In ventun anni è (ri)successo di tutto e tutto continua a (ri)succedere. Gongolerebbe Nietzsche, sostenitore di un’ontologia circolare per cui l’universo rinasce e rimuore secondo cicli temporali necessari (i palinsesti) ripetendo in eterno un determinato corso (la trama prestabilita). Ma altrettanto soddisfatto sarebbe Everett, lo scienziato che ha teorizzato il multiverso, più noto come sistema di universi paralleli, in cui ogni evento si può ripetere infinite volte, è già accaduto e riaccadrà. Infatti infinite volte Rachel e Ross si lasciano e si riprendono. E infinite sono le varianti che infinitamente accadranno: si detestano, si vogliono bene ma non al punto di tornare insieme, si ignorano. E se una cosa accade qui e ora, l’altra accadrà in Canada domani. Esulterebbe Borges: la vita è pura finzione, menzogna raccontata infinite volte, sino al punto da renderla vera. Perché se è vero questo, lo è anche il contrario: la fiction è vita. O meglio: lo è la sit-com.
Il dubbio si è insinuato lentamente. Siamo da anni così impegnati a celebrare la grandezza delle serie televisive, quelle a lunga gittata, un’ora per dodici episodi per sei stagioni o più, da non esserci accorti che il segno del tempo (e la sua distorsione) stava nelle sit-com. La traccia era in una frase così ricorrente da diventare luogo comune: le serie sono il nuovo romanzo. Appunto: letteratura, non vita. Le serie guardano indietro: Mad men è ambientata negli Anni Sessanta, 1992 si retrodata già dal titolo. Fuggono dalla realtà come Lost o la prefigurano apocalittica come Walking dead. Le sit-com si radicano nel qui e ora, entrano in casa, in una famiglia, in un gruppo di amici e non ne escono più. Se vuoi sapere come era l’America in un certo periodo della sua storia guardi All in the family: pregiudizi, conformismo e nazionalismo. Se vuoi sapere com’è oggi guardi Modern Family: il nonno ricco ha sposato una colombiana formosa, la coppia gay ha adottato una bambina vietnamita, i figli “regolari” sono quelli strani.
Chuck Lorre, il più prolifico e temibile autore di sit-com d’America, ha con ironia rivendicato il potere di creazione del genere dando all’ultimo successo globale il titolo di Big Bang Theory. Qui l’origine dell’universo deflagra, inevitabilmente, in due appartamenti sullo stesso pianerottolo, ritrovo di sei personaggi, ma uno è indiano, uno ebreo, uno ha la sessualità repressa e fuori, invisibile e immanente come i genitori dei Peanuts, c’è l’America di Obama. Tanto consapevole Lorre è del potere della sit-com di registrare e affermare le svolte sociali da aver deciso di concludere Due uomini e mezzo, costruita sugli eccessi del protagonista Charlie Sheen e sopravvissuta alla sua morte scenica, con un matrimonio tra i due protagonisti al sol fine di poter divenire padri, pur restando etero.
Così va, qui e ora. Destinato a essere qui e allora, ma in un eterno presente in cui quel che è accaduto non cessa mai di ripetersi e per questo può continuare a fornire un punto di riferimento. Come potrebbe altrimenti il presidente del consiglio Matteo Renzi citare Happy Days? Può farlo perché, tra la potenza esplosiva della prima trasmissione e l’eterno ritorno di Richie e Fonzie, quell’universo non è mai svanito dall’immaginario e tornerà, ancora. Riguardare una sit-com è un atto di nostalgia per come si era e di attenzione per capire un particolare dell’episodio che non si era colto. Difficile riguardare, in parte o per intero, I Soprano o Breaking bad: l’investimento di tempo non è ripetibile, soprattutto sapendo già come va a finire. La sit-com non finisce veramente, anche se per l’ultima puntata di Friends o Seinfeld si è fermata l’America. Semplicemente si conclude un ciclo destinato a ripetersi in quell’ontologia circolare di universi , famiglie, amici, nati dal big bang e vissuti per sempre, sia uguali a se stessi che in infinite variazioni. Fino all’istante in cui ci chiederemo se non sia piuttosto vero che sei ragazzi di New York, seduti davanti al divano nel loro appartamento, stiano guardando le nostre vite che scorrono. E ancora. E ancora.
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