L’artista andò a Roma per la sua fama, ma anche per la vorticosa politica di quei decenni in cui il volto di Firenze e della città eterna cambiò sotto i suoi occhi
Massimo Firpo, "Il Sole 24 ore - Domenica", 15 ottobre 2017
Fiorentino tutto d’un pezzo, come risulta anche dalla lingua in cui scriveva, grande ammiratore di Dante Alighieri, allevato alle arti sotto l’egida di Lorenzo il Magnifico, Michelangelo Buonarroti trascorse larga parte della sua vita a Roma, dove lasciò i suoi massimi capolavori: la Pietà scolpita per il cardinale francese Jean de Bilhères alla fine del Quattrocento, firmata «MICHELANGELVS BONAROTVS FLORENTINVS»; i grandiosi affreschi della volta nella cappella Sistina commissionatigli da Giulio II tra il 1508 e il 1512; il Mosè e i Prigioni per la tomba di quest’ultimo, i cui lavori lo tormentarono per anni; e poi sotto Paolo III il Giudizio universale dipinto ancora nella Sistina tra il 1536 e il ’41, la piazza del Campidoglio, palazzo Farnese, gli affreschi della cappella Paolina, la Pietà Bandini e la Pietà Rondanini, la basilica di San Pietro con il disegno della sua immensa cupola; fino ai progetti per la chiesa di San Giovanni dei fiorentini, per Porta Pia, per la risistemazione di Santa Maria degli angeli sotto Pio IV, prima di morire novantenne nel 1564.
Non v’è dubbio che a condurlo a Roma fu la sua precocissima fama artistica, ma fu anche la vorticosa politica di quei decenni, in cui Firenze e Roma furono al centro della storia europea, tra le «guerre horrende» d’Italia inaugurate dalla calata di Carlo VIII e l’esplosione della Riforma protestante, tra gli splendori del Rinascimento e le origini della Controriforma. Le convulse vicende di quei decenni mutarono profondamente il volto delle due città sotto gli occhi di Michelangelo. Firenze passò dal crollo del regime mediceo all’effimera repubblica savonaroliana, dal gonfalonierato a vita di Pier Soderini alla restaurazione medicea del 1512, quando a governare la città furono Leone X e Clemente VII, al secolo Giovanni e Giulio de’ Medici. E poi ancora la nuova stagione repubblicana seguita al sacco di Roma tra il ’27 e il ’30, il definitivo ritorno dei Medici con Alessandro, investito da Carlo V del titolo ducale, il suo assassinio nel 1537 e la precaria successione di Cosimo, capace tuttavia di estinguere in breve tempo le residue resistenze antimedicee, di costruire un potere assoluto fondato su un’efficiente macchina amministrativa, di conquistare Siena e di ottenere infine da papa Pio V la corona granducale di Toscana. Non meno convulse furono le vicende di Roma, dove la secolarizzazione del potere papale, la corruzione di una curia simoniaca, le sconcezze di papa Alessandro VI, la bellicosa politica di Giulio II, le dilapidazioni festaiole di Leone X furono bruscamente interrotte dalla calata dei lanzi nella primavera del ’27, con un seguito inenarrabile di orrori, violenze, stupri, saccheggi, in un provocatorio inneggiare a Lutero il cui nome fu inciso dalla punta di una spada sugli affreschi di Raffaello nella stanza della Segnatura. Solo vent’anni dopo, tra continue incertezze e aspri scontri interni si sarebbe infine imboccata la strada del concilio di Trento, apertosi nel 1547 e conclusosi nel ’63, l’anno prima della morte di Michelangelo, che in tutti questi eventi fu coinvolto in prima persona.
Di qui l’importanza del tema affrontato in questo denso saggio di Giorgio Spini, che a oltre cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione resta ancora fondamentale per capire gli orientamenti e le passioni politiche che animavano Michelangelo. La storia dei Buonarroti fra Tre e Cinquecento delineata in queste pagine aiuta a comprendere il senso di appartenenza al suo casato e alla sua città che animò quel sublime «scalpellino», che amava definirsi «cittadino fiorentino, nobile e figliolo d’omo dabbene» e che tale si sentiva intus et in cute. Ad accentuare l’identità e orgoglio che egli ne traeva contribuiva la stessa decadenza, talora ai limiti della povertà, di una famiglia non più in grado come in passato di accedere alle risorse e al prestigio garantito dall’esercizio delle cariche pubbliche, e quindi dalla capacità di muoversi con sagacia tra regimi sempre instabili e frequenti rivolgimenti.
Quelle forti passioni politiche, del resto, hanno lasciato tracce profonde sulla produzione artistica di Michelangelo. Basti pensare al David posto nel 1504 (in età soderiniana) a guardia dell’antico palazzo comunale, così diverso dalle precedenti raffigurazioni fiorentine di Donatello e Verrocchio, con il giovinetto trionfante sul capo di Golia ai suoi piedi: un gigante che non ha ancora scagliato la sua pietra, ma si accinge a farlo contro chiunque si azzardi a violare la libertà repubblicana. O al tirannicida Bruto commissionato a Michelangelo da Donato Giannotti e destinato al cardinale antimediceo Niccolò Ridolfi. Ancor più significativo è il fatto che, dopo aver lavorato per i papi medicei alle tombe della basilica di San Lorenzo, alla notizia della nuova restaurazione repubblicana dopo il sacco di Roma Michelangelo accorresse nella sua Firenze per dedicarsi anima e corpo alla progettazione delle difese militari. Fu solo la sua ineguagliabile fama artistica a indurre Clemente VII a perdonarlo, per affidargli i lavori della Biblioteca Mediceo-Laurenziana. Ma dopo il ’34, quando ormai Alessandro de’ Medici era stato proclamato duca di Firenze, egli non mise più piede nella sua amatissima patria per lavorare invece per papa Farnese, nemico giurato di Cosimo de’ Medici e pronto ad accogliere a Roma ogni sorta di fuoriusciti fiorentini, ripagato di ugual moneta dal giovane principe mediceo, che non perdeva occasione di sfogare la sua collera contro «quel traditore del papa».
Inutilmente Cosimo sollecitò Michelangelo a lavorare per lui, desideroso di appropriarsi dei suoi talenti e della sua fama, nel quadro di una politica di conciliazione e riassorbimento della tradizione repubblicana. E quando morì ne fece trafugare il corpo a Roma e ne celebrò le solenni esequie in San Lorenzo, per affidare poi il compito di costruirne il monumento funebre in Santa Croce a Giorgio Vasari. Quest’ultimo nelle sue Vite ne fece il culmine dell’arte tosco-romana, presentandolo come il sommo artista che proprio con il David di piazza della Signoria era riuscito a raggiungere e superare la bravura degli antichi. Com’è noto, il pittore aretino si professò sempre ammiratore e amico di Michelangelo, ma quando arte e amicizia confliggevano con la sua vocazione cortigiana, il servile «Giorgetto Vassellario» (così lo definì Benvenuto Cellini) non aveva dubbi da che parte stare. Per questo quando gliene venne l’occasione, in un monocromo all’interno di palazzo Vecchio ormai diventato corte medicea, egli raffigurò quella statua in una scena con l’ingresso di Leone X a Firenze nel 1515. Ma la raffigurò con un basamento tanto alto che la testa (quella di David simbolo della libertà, non quella di Golia!) risultasse tagliata, e per di più con un cane che deposita placidamente i suoi escrementi davanti ad essa. Un insulto triviale, tale tuttavia da dimostrare come anche dopo la morte Michelangelo fosse coinvolto nei conflitti e nelle passioni politiche dell’età sua, sia pure degradato a strumento dell’adulazione vasariana.
Giorgio Spini, Michelangelo politico, prefazione di Tomaso Montanari, presentazione di Valdo Spini, Edizioni Unicopli, Milano, pagg. 148
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