domenica 8 marzo 2015

François Villon è diventato un rapper


La Parigi stremata del ’400 e la rabbia del Bronx di oggi 
Il gesto sovversivo del «briccone» unisce mondi lontani

Sandro Modeo

"Corriere della Sera - La Lettura",  8 marzo 2015

François Villon come antefatto remoto dei rapper? Il legame, accennato en passant nella folta introduzione di Aurelio Principato a Il testamento e altre poesie (Einaudi) può suonare spericolato. In effetti, ci si domanda, c’è qualcosa che possa avvicinare paesaggi tra loro alieni come la Parigi di metà Quattrocento — la stessa di Notre-Dame di Hugo — e il South Bronx di metà anni Settanta, fucina dell’hip-hop? Qualcosa che vada oltre il semplice rispecchiarsi depressivo tra una capitale stremata dalla guerra dei Cent’anni, dalle epidemie e dal gelo — le case circondate da lupi che «si nutrono di vento» — e un ghetto nel ghetto, concentrato di degrado e di violenza? Ed è davvero possibile sentire risuonare nelle rime baciate di certi rapper quel «germe di deviazione e provocazione» contenuto in quelle alternate di un poeta molto più sofisticato di quanto vorrebbe la rilettura romantica, tesa a esaurirlo solo nella matrice «maledetta»?
Per provare a rispondere, bisogna risalire alla fonte del fiume-Villon e vederne le sterminate ramificazioni globali, estese a ogni campo: alla letteratura (Stevenson e Osamu Dazai ne fanno personaggio di racconto); alla scultura (la Bella Elmiera di Rodin); al teatro (le ballate nell’Opera da tre soldi di Brecht); al cinema hollywoodiano (che vede Villon interpretato da attori opposti come John Barrymore o Errol Flynn); alla musica «alta» (il libretto operistico di Ezra Pound) e a quella folk-rock (dalle influenze su Bob Dylan agli omaggi di Brassens e De André); fino ai recenti richiami in giochi di ruolo e serial tv, che collocano Villon — un po’ come succede a Dante — lungo le tante location falso-medievali.
Di tutte queste ramificazioni, la più interessante — non solo in ottica italiana — è forse quella di De André, in quanto anche la più efficace per seguire quel «germe di deviazione e provocazione». Autore di un’intensa prefazione all’edizione Feltrinelli delle Poesie (’66), De André fa di Villon la stella polare della propria visione, molto oltre la ripresa esplicita della Ballata degli impiccati in Tutti morimmo a stento, disco del ’68, lo stesso anno in cui porta in musica anche S’i fosse foco di Cecco Angiolieri, il «gemello» toscano di Villon. Certo, non si può negare che quel contesto storico-sociale faciliti e acuisca un’interpretazione anarco-ribellista come quella del Villon di De André; né che questo rientri in parte in quell’uso «ideologico» del Medioevo analizzato da Tommaso di Carpegna Falconieri nel recente Medioevo militante (Einaudi) e pronunciato tanto a sinistra (vedi Dario Fo) quanto a destra (le caricature leghiste), pur con evidenti asimmetrie di livello culturale. Ma è altrettanto indubbio che la componente anarco-ribellista sia carattere oggettivo e «in lunga durata» della poesia di Villon; così come il fatto che De André ne colga — con intuito «filologico» — anche il rigore della sottostante tessitura ritmico-metrica.
La chiave di quella componente consiste nell’incidenza di due figure-archetipi, sfumanti l’una nell’altra. La prima è il fowl (il fool shakespeariano, il francese sot), cioè il «buffone»: a questa figura, Villon non delega solo una denuncia-irrisione contro la borghesia ascendente (commercianti, usurai, evasori) che ricorda la furia dantesca contro «la nova gente e i subiti guadagni»; ne fa anche il campo di tensione tra piacere e angoscia, tra un vitalismo da Carmina Burana (taverne, dadi, puttane) e la permanente danza macabra che corrode corpi e oggetti: un memento mori che ha impressionanti coincidenze con quello delle Stanze di Jorge Manrique, contemporaneo spagnolo di Villon. Da questo campo di tensione se ne irradiano molti altri, come quello tra la vera fede (vedi la toccante Ballata alla Vergine Maria, dove il poeta si immedesima nella madre che prega) e una Chiesa così ottusa da rinsaldare le tentazioni di una latente miscredenza (se davanti ai nonsense della vita, «Nostro Signore se ne sta ben zitto/ Che a rispondere avrebbe la peggio»).
La seconda figura è il trickster (il «briccone»), archetipo mitico-religioso universale (dio come Loki, titano come Prometeo, animale come la volpe Renart) che si declina anche in «tipi» del folklore (da Pulcinella al Malandro brasiliano) accomunati da astuzia, inganno e strategie amorali, sempre nel segno dell’insubordinazione all’ordine costituito. Spesso, il trickster è anche un ladro, ma in accezione «redistributiva» (vedi Robin Hood): così come ladri sono Villon stesso o Geordie, il giovane bracconiere portato alla forca (nonostante l’intercessione dell’amata) in una ballata inglese del Cinquecento che De André volge in una struggente versione italiana modulata su quella di Joan Baez.
Non solo. Il trickster riesce anche a riportarci al rap. Una delle sue molte incarnazioni è infatti l’Anansi, il dio-ragno dell’Africa occidentale che accompagna gli schiavi in Giamaica; e il big bang dell’hip-hop nel South Bronx si realizza proprio partendo da ritmi e riti giamaicani. Se quindi tra Villon e certo rap (per esempio i Padri Fondatori Public Enemy) risaltano analogie esterne (i nomi propri nelle invettive, il gergo criptico, più di un’ombra di misoginia) il nucleo comune consiste nel gesto amorale e sovversivo del trickster : nella «grande povertà» — dice Villon — che «poco si impegola con l’onestà» e osa «parole sferzanti». In quest’ottica, il «germe di deviazione e provocazione» trova senz’altro una sua continuità.
Dopo di che, la suggestione deve essere filtrata da differenze e distinzioni. Sul piano formale, sia Villon che i rapper lottano con le forme chiuse dei loro codici: ma è incolmabile la distanza tra un contrappunto di ottave che converte anche l’osceno e il blasfemo in geometrie rarefatte da Messa di Josquin e le soluzioni segmentate-sincopate della ritmica hip-hop. Così come, sul piano delle implicazioni sociali, l’insofferenza individuale del «bon follastre» è lontana anni luce dalle rivendicazioni collettive (prima di razza, poi di classe) che innervano il ribellismo rap.
Anche se, resta inteso, leggere Villon non significa ripiegarsi sulla rivolta come semplice testimonianza. Se «il mondo è un’illusione», altrettanto lo è la possibilità di correggerlo («questo mondo, sappiamo, è una prigione/ per chi coltiva pazienza e virtù»); e un’illusione, alla fine, è anche la poesia, come quella di Villon, che pretende a ogni verso di contrastare quell’impossibilità. Ma il modo in cui la contrasta — anche solo con una rima o un’assonanza — ne fa una delle poche illusioni davvero necessarie, una di quelle illusioni di cui — scrive Proust — «vorremmo essere le vittime».

Non un rivoluzionario. Forse una maschera


François Villon è una leggenda. Il poeta eretico e vagabondo, il poeta delle taverne, dei bordelli, dell’umanità più bassa, calda, oscura, il poeta degli impiccati e condannato, lui pure, all’impiccagione; il primo dei poeti maledetti, il poeta assassino... Del resto, la più convenzionale delle arti, la poesia, ha sempre avuto fame di realtà e d’innesti irregolari, di annettersi il sangue caldo e non ancora addomesticato della vita. Nel caso di Villon tutto sembra aver favorito la creazione del mito, dalla fortissima caratterizzazione tematica e ambientale all’incertezza di molti riferimenti o allusioni a personaggi e fatti dell’epoca, dalla natura a volte criptica dell’argot (il gergo, nel Medioevo chiamato jargon) alla problematicità della tradizione testuale, con le relative attribuzioni, all’incertezza dei dati biografici e del nome stesso del poeta.
Nato verso il 1430 e laureatosi a Parigi, ha frequentato la corte di Charles d’Orléans. Fu condannato a morte nel 1463, ma la pena venne commutata in una messa al bando. Da quel momento di lui non si sa più nulla. Ammesso che si tratti di dati affidabili, è comunque tutto qui. Leggendo la nuova edizione dei componimenti più significativi di Villon, Il testamento e altre poesie , uscita da Einaudi a cura di Aurelio Principato (la traduzione, che mi sembra notevole, è di Antonio Garibaldi), si viene posti una volta di più di fronte all’immagine del poeta che credo molti portino con sé fin dalle prime letture scolastiche: un’immagine che sembra inscalfibile e che coincide perfettamente con quella che la tradizione poetica ha definito via via attraverso i suoi tanti, spesso autorevoli lettori. Di conseguenza la frase con cui ho aperto queste considerazioni ritorna subito a porsi come un problema. Quella di Villon, poeta in ogni senso eslege, fuori dalla legge, è davvero una leggenda?
Giustamente, allora, il curatore ha sottolineato come in questa poesia sia ancora attivo il tipico procedimento allegorico medioevale «che impedisce di prendere i riferimenti troppo alla lettera», o anche, d’altro canto, come la stessa, inusuale ricchezza degli autoriferimenti faccia nascere il sospetto che si tratti di un Io non autobiografico ma stilizzato, convenzionale, come una specie di maschera poetica. Villon, insomma, sembrerebbe un caso rarissimo, forse unico, in cui filologia e poesia, senso dei fatti e immaginazione, si sconfessano a vicenda.
Eppure, come sempre accade, è vero il contrario. Proprio perché è un poeta, e quale poeta, Villon non fa eccezione alle nozze, sempre feconde, tra poesia e filologia. L’estrema padronanza dei mezzi espressivi, la capacità di governare registri, linguaggi, convenzioni formali e figurative, la piena consapevolezza dell’artificio poetico, l’intelligenza della doppiezza e del gioco che la messa in forma della vita inevitabilmente comporta, costituiscono infatti per Villon un formidabile strumento di comprensione e di rappresentazione della figura umana e del suo destino.
Erich Auerbach definì addirittura Villon come «il primo poeta unicamente tale» (Pasolini rettificherà poi questo giudizio sostenendo che in realtà il primo poeta-poeta, manco a dirlo, è stato Dante). Siamo dunque agli antipodi rispetto a una dimensione d’immediatezza espressiva. Se nei versi di Villon prende vita una sorta di grande commedia umana tardo-medioevale — una commedia che comprende il sarcasmo, la rabbia, l’irrisione, l’esuberanza dei sensi, il dolore, il grottesco, la caricatura, la gioia, la pietà, la malinconia, il compianto —, questo accade perché non vi si trova nulla di diretto, di non filtrato dall’intelligenza e dal cuore, e dal mestiere di poeta.
Quanta complicità, quanto distacco, quanta passione e quanta saggezza si trovano anche solo, ad esempio, nella prima quartina di questa Canzonetta? «Appena uscito di dura prigione/ dove quasi ho lasciato la mia vita,/ se Fortuna si vuole mia nemica,/ ditemi voi se lei non ha ragione». A me pare insomma che se la leggenda di Villon ha ben motivo di esistere, questo non sia affatto per la sua presunta esistenza di fuorilegge o di ribelle alle convenzioni del tempo; quanto invece proprio per la sua eccellenza nell’arte poetica e, di conseguenza, in quella particolare, obliqua relazione tra convenzione e innovazione, tra regolarità e irregolarità che questa comporta. Non a caso proprio Auerbach ha visto a ragione come nel «realismo creaturale» di Villon non vi sia alcuna traccia «di forza rivoluzionaria, anzi nessuna volontà di foggiare il mondo terreno diverso da qual è». Ma è vero altresì che proprio la sua capacità di aderire, penetrare e, detto nel senso più pieno, di sentire la materia sensibile del mondo e della vita, esce e anzi rovescia tutto ciò che poteva apparire prescritto: «Qui ci vedete in cinque o sei appesi:/ la nostra carne anche troppo nutrita/ da un pezzo è divorata e imputridita,/ e cenere noi, le ossa, siamo e polvere».

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