Pietro Citati
"Corriere della Sera", 29 aprile 2013
«Canta e suona con la lira, affascina uomini, belve e alberi» Orfeo è nominato per la prima volta dal poeta Ibico, che parla di «Orfeo dal nome famoso»: per Pindaro è «il citarista padre dei canti per virtù di Apollo»; per Eschilo, è «colui che incanta la natura intiera con i suoi carmi». A partire dal quinto secolo, le sue immagini si moltiplicano: lo vediamo su una barca, mentre suona la lira e incanta con la voce e la musica: circondato dagli uccelli e dagli animali selvaggi: mentre sale in cima a un monte, per adorare il Sole-Apollo, suo padre; o discende agli Inferi per accompagnare o farne uscire la moglie Euridice; finché le Menadi lo dilaniano e la testa, staccata dal corpo, continua a cantare i versi di un oracolo. Sebbene sia greco, Orfeo non appartiene alla tradizione omerica, né a quella mediterranea: risale indietro nel tempo, nel mondo magico preellenico. La sua biografia di musico e di cantore ricorda quella di uno sciamano: fondatore di misteri, iniziazioni e purificazioni, che conosciamo sotto il nome di «orfismo».
Secondo Orfeo e gli orfici, l'anima, per punizione di un crimine primordiale, viene rinchiusa nel corpo come in una tomba. La morte costituisce il principio della vera vita: l'anima si incarna una seconda volta, e poi si reincarna sempre di nuovo, condannata a trasmigrare fino alla liberazione definitiva. Gli orfici favoriscono questa liberazione, astenendosi dai sacrifici cruenti, obbligatori nel culto ufficiale, e rifiutando il sistema religioso greco, inaugurato dal primo sacrificio sanguinoso di Prometeo. Così, ritornando alle abitudini vegetariane, espiano la colpa ancestrale e sperano di recuperare la beatitudine originaria, quando tutto il mondo viveva in una condizione orfica.
Attorno alle origini del mondo, l'orfismo raccoglie una serie di miti. Il primo grande dio è Eros: scaturisce dall'Uovo primordiale, che è stato formato dal Tempo nell'etere, ed è il principio della creazione degli altri dèi e dell'universo. Oppure la Notte genera Urano e Gaia: o il Tempo emerge dall'Oceano; o l'Uno partorisce il conflitto. Un altro grande mito racconta che i Titani, figli della Terra, si gettarono su Dioniso bambino, lo uccisero e banchettarono con la sua carne. Zeus li folgorò con un fulmine, e da queste ceneri si generò la razza umana. Noi siamo dunque composti di natura divina e terrestre: nostro dovere è coltivare in noi il divino elemento dionisiaco e sopprimere quello titanico e terrestre, partecipando a riti di iniziazione e di purificazione.
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La Fondazione Lorenzo Valla e l'editore Mondadori stanno per pubblicare il quinto volume delle Metamorfosi di Ovidio sotto la direzione di Alessandro Barchiesi: testo critico di Richard Tarrant, commento di Joseph P. Reed. Tra i molti episodi, questo volume comprende una lunga e bellissima versione del mito di Orfeo, che una fitta serie di rapporti collega all'infinita e imprendibile totalità delle Metamorfosi.
Ovidio ama moltissimo tutto ciò che è iniziatico e misterico: tutto ciò che è nascosto e segreto: quindi dovrebbe amare questo aspetto di Orfeo; eppure non rivela la minima parte delle iniziazioni e purificazioni predicate dall'orfismo. Orfeo è, per Ovidio, sopratutto un narratore di metamorfosi: un suo doppio, proiettato nel mondo del mito, nel quale talvolta si affaccia il volto di un secondo narratore. Questi racconti discendono da quelli di Ulisse nell'Odissea: mentre Ulisse narra ai Feaci e ad Eumeo, attrae, ammalia, incanta, affascina; e come lui affascinano le voci di Ermes, delle Sirene, di Circe e di Calipso. Chi viene sottoposto al fascino perde il controllo di sé: posseduto, stregato, ridotto al silenzio; addormentato, diventato una cosa, costretto alla morte.
Così accade nelle Metamorfosi. Quando Orfeo canta e suona la lira, affascina gli uomini, gli uccelli, le belve, le pietre, sopratutto gli alberi: molti di essi hanno dietro di sé una storia umana. Il fascino accompagna ed avvolge le metamorfosi, che percorrono, dall'inizio alla fine, il libro di Ovidio. Il mondo non è semplice ed unico, come sembra: ogni figura contiene in sé un'altra figura, ogni apparenza contiene in sé un'altra apparenza. La morte colpisce il mondo, ma viene immediatamente abolita, e trasformata in un'altra esistenza, obbedendo ad una fluidità senza fine. Con arte sottilissima, Ovidio-Orfeo si china sul minimo, l'impalpabile, il leggerissimo: fissa il luogo dove le due figure si fondono; ma resta incerto se le sensazioni evocate appartengano alla figura che muore o alla figura che nasce, o alla doppia figura che nasce dal loro incontro.
Ecco il fanciullo Cipresso che diventa l'albero di cipresso: «Le sue membra, rese esangui dal pianto infinito, / presero a mutare tingendosi di verde, / e quei capelli, che un attimo prima scendevano / sulla candida fronte, a farsi ispida chioma: irrigidito, / ma gracile in cima, si protende verso il cielo stellato». Ecco il ragazzo Giacinto, che muore e diventa il fiore di giacinto. «Come quando qualcuno, in un giardino irriguo, stronca / viole, papaveri o gigli da cui sporgono fulvi pistilli, e quelli / subito appassiscono, chinano il capo diventato troppo pesante, / non stanno più ritti e con la corolla guardano il suolo, / così il volto del morente si abbandona, il collo, / perso ogni vigore, è di peso a se stesso e ricade sulla spalla.../ Il sangue, che sparso al suolo aveva macchiato l'erba, / cessa di essere sangue: spunta un fiore più fulgido / della porpora tiria e prende una forma simile al giglio: / solo che il giglio è d'argento, mentre questo è di porpora».
Non c'è limite alla morbidezza: mai, credo, racconto fu morbido come quello di Pigmalione innamorato della sua creatura di avorio e di miele. «Un giorno scolpì con arte stupefacente dell'avorio, / bianco come la neve, gli diede una bellezza che nessuna / donna reale potrebbe avere, e si innamorò del suo capolavoro. / Sembra una fanciulla vera, crederesti sia viva / e, se non fosse che è timida, in grado di muoversi: / è un'arte così grande che non si vede. È incantato, / Pigmalione, e nel petto prende fuoco per un corpo non vero. / Spesso accarezza la statua per capire se è carne, / oppure avorio, e non riesce a decidere per l'avorio, / le dà dei baci, gli sembra che siano ricambiati, le parla e l'abbraccia / e gli sembra che le dita affondino nelle membra / lì dove tocca, e teme premendo di lasciare dei lividi negli arti. / ... Di nuovo la bacia, e con le mani le accarezza il petto: / l'avorio accarezzato si ammorbidisce, perduta la durezza / cede e si infossa sotto le dita, come la cera dell'Imetto / si fa duttile al sole e plasmata col pollice si piega / assumendo le forme più varie, e più è usata più cede. / Stupito, e incerto se esultare o temer di fallire, / più e più volte l'innamorato tasta l'oggetto del suo desiderio: / è proprio di carne. Le vene pulsano alla pressione del pollice».
Intanto il tempo passa e trascorre su queste figure che si muovono: il tempo, la cosa più leggera e impalpabile dell'universo. Ovidio-Orfeo si fa tempo. Allunga e protrae gli enjambements: corteggia la prosa, emula il parlato, gioca con l'ironia, e mai come qui la sua arte è meravigliosa.
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Il canto instancabile di Orfeo
E. Bencivenga
"Domenica- Il Sole 24 Ore", 25 novembre 2012
Il poeta crea, portando ordine nel caos, rischiarando le tenebre, calmando l'ansia e l'orrore. Un mondo inerte si anima al suono dei suoi canti e acquista una forma più armonica, meno foriera di minacce: le onde del mare si quietano, i pendii addolciscono la loro ruvidezza, l'erba che li ricopre danza a un ritmo sereno. Le pietre si sollevano e spontaneamente compongono un tempio. Si ammansiscono fiere; acqua zampilla dalle rocce; si smuovono foreste. La materia greve che fa di tanti esseri umani ottusi e inconsapevoli bruti, pronti solo alla violenza e all'oltraggio, diventa spirito: ragione e comunicazione, conoscenza e progetto. I barbari arano campi e edificano torri e piazze; il vate con la lira in mano, uomo e donna insieme, pulsante d'amore e di potenza generativa, svela loro i misteri benefici dell'accordo e della cooperazione.
Il poeta è spinto dalla musa, cera flessuosa nelle sue mani, timido ostaggio in sua balìa, efficace strumento per i suoi scopi. Così pungolato, visita ogni angolo della Terra, ascende al cielo, s'inoltra negli abissi infernali del peccato e del dolore, tacitando anche il loro strazio con i suoi versi. Tradito per un attimo da un'insana curiosità, volge lo sguardo per rimirare l'origine di tanto vigore: in quell'attimo desidera anche lui, come ognuno dei suoi mediocri discepoli, capire, appropriarsi, controllare. Ma proprio allora, mentre si specchia nell'inquieta origine della sua forza e ne coglie l'intima, assoluta necessità, l'immagine svanisce, inghiottita dai medesimi abissi insondabili dai quali egli l'aveva evocata. Bisogna avere il coraggio di guardare sempre e solo avanti.
Il poeta, che combatte la paura, ne è vittima. È respinto dalla società dei vili, aggredito da un mondo che, incapace di suoni, fa tremendi rumori; incapace di reverenza e stupore, insulta e distrugge. È fatto a pezzi, «ucciso perché è diverso, per quel che sapeva e insegnava, per come amava»; ma la sua testa staccata dal corpo, portata a riva dalla marea nell'isola di Lesbo, non cessa di cantare e la sua voce risuona ovunque, instancabile, nel vento, tra le fronde e tra i flutti. Una, mille volte risorgerà; una, mille persone gli faranno onore raccogliendone il retaggio. Perché il poeta non muore: è la vita stessa del cosmo. Sappiamo molto poco di Orfeo, di cui qui sopra ho adombrato la personalità e la storia ammesso che sia davvero esistito. Nel l'antichità gli vennero attribuite numerose opere: fra le altre, un trattato di astrologia, uno sulle piante, libri sulla creazione del cosmo e sui nomi degli dèi. Quasi tutto è perduto. Quel che ancora circola sotto il suo nome, ed è probabilmente apocrifo, sono il suo resoconto del viaggio degli Argonauti, 87 inni e il poema Lithica, sulle proprietà magiche dei minerali. Se la sua produzione è scarsa e incerta, però, il suo nome, la sua figura e il suo messaggio sono onnipresenti nella nostra cultura, e a questa presenza Ann Wroe, storica e giornalista, autrice di biografie di Pilato e Shelley, dedica un testo erudito e appassionato, composto con cura e con grazia: Orpheus: The Song of Life.
Seguiamo dunque alcuni degli innumerevoli echi lasciati dal padre dei poeti, ricordando che «ogni epoca lo reinventa, ma nessuna mette su di lui uno stampo definitivo, perchè il giovane con la lira cambia a seconda di chi lo incontra». Rilke ne scrive, anzi gli scrive: lo provoca e lo interroga. «È facile per un dio», gli dice; ma quando verserai la terra e le stelle dentro di noi? Marsilio Ficino ricostruisce la sua lira e ne canta gli inni appena scoperti per trovare pace. Francesco Bacone giudica la sua morte una metafora delle umane vicende e Carl Gustav Jung lo frequenta nei suoi sogni e nelle sue visioni per scoprire il proprio destino. Jean Cocteau nel film omonimo lo accasa nei sobborghi di Parigi e lo fa innamorare una seconda volta: della morte. Seneca nella tragedia Hercules Oetaeus descrive una scena degna di San Francesco: una folla di uccelli, alberi e monti incantati dalle sue celesti melodie. Giorgione dipinge sé stesso come Orfeo, nell'atto di perdere Euridice trascinata via verso il fuoco eterno da un demonio. Remigio di Auxerre, nel nono secolo, fa di Euridice la musica stessa, il senso più profondo dell'attività di Orfeo. Claudio Monteverdi «chiama a raccolta tutta l'audacia della musica dell'epoca» per restituirci l'avventura soprannaturale dello sposo che cerca la sua compagna negli inferi.
Sono solo esempi, naturalmente: poche tappe offerte qui a illustrazione di un percorso infinito. Bastano però, forse, per dare un'idea della tesi di Wroe, di cui questo libro si fa brillante e suggestivo carico: «Orfeo non ha mai lasciato la coscienza degli uomini. Di lui non ci sono che frammenti: una frase qui, una menzione là, dubia vel spuria, come dicono gli studiosi. Eppure Orfeo spazia per la civiltà occidentale come i cantastorie un tempo viaggiavano per i sentieri d'America e d'Europa. Non ha radici sicure ma continua a ritornare, come se avesse qualcosa di urgente da dirci».
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