Dagli schermi dei tablet ai monitor negli aeroporti:
così la nostra vita ha perso il senso della profondità
M. Niola
“La Repubblica”, 18 giugno 2015
La superficie non va mai trattata con superficialità. Lo dice Nietzsche nella Gaia scienza, quando riconosce ai Greci la superiore capacità di «arrestarsi animosamente alla superficie» delle cose.
Senza mai cadere nella trappola della profondità, della verità invisibile, del significato nascosto. La grandezza della civiltà di Omero stava insomma nel saper trovare il senso della vita arrestandosi all'increspatura, alla scorza delle cose. Forme, suoni, parole. Ovvero lo scintillante Olimpo dell'apparenza. Quell'Olimpo oggi riaffiora come un millenario fiume carsico in piena civiltà dell'immagine.
E, sospinto dalle correnti della tecnologia, si installa saldamente nel nostro immaginario. Aggiornando un'applicazione che la nostra cultura, a dispetto di duemila anni di Cristianesimo, non ha mai veramente eliminato dal suo menu cognitivo, etico ed estetico.
E che la crucialità della superficie torni ad essere un pensiero dominante, nel bene e nel male, lo prova perfino il fatto che l'Onu ha proclamato il 2015 anno internazionale del suolo. In altri termini, il vero problema del pianeta è la scorza, per dirla con Nietzsche. Che si tratti di terre vulnerabili, coltivabili, edificabili, riciclabili, accaparrabili è sempre questione di superfici. Estensioni sensibili. Non mere distese inerti, dunque, ma interfaccia comunicanti tra uomo e natura.
Il fatto è che oggi, forse per effetto della digitalizzazione della realtà, torniamo a pensare la vita come superficie e non come profondità. Come una dimensione orizzontale. Senza trascendenza. Una immanenza sconfinata, densa, porosa, connettiva. Insomma, ridiventiamo Greci, ma virtualmente.
E che la superficie sia una password per entrare nel presente lo dice a chiare lettere Giuliana Bruno, professore di Visual and Environmental Studies ad Harvard. Che dedica al tema un bellissimo libro, intitolato, Surface: matter of aesthetics, materiality, and media (Superficie: questioni di estetica, materialità e media, University of Chicago Press, pagg. 277 pagine, dollari 45) che sta avendo un grandissimo successo in tutto il mondo. Secondo Bruno, la nostra vita è tutta un gioco di superfici. Dalla pelle alla pellicola, passando per gli abiti che rivelano chi siamo a noi stessi e agli altri. Fino agli schermi, ormai onnipresenti nella nostra vita, pubblica e privata. Dal cinema alla televisione, dal tablet allo smartphone. E a tutti i monitor di cui sono pieni aeroporti, stazioni, supermercati, ospedali. Senza dire di quei dispositivi che portiamo addosso e che registrano tutto di noi, dai passi al battito cardiaco.
Questi schermi, grandi o piccoli, sono la vera superficie materiale della vita contemporanea. E adesso, con l'evoluzione del touch screen, la reificazione delle immagini smette di essere una metafora per ritrovare una dimensione fisica. Una concretezza magicamente tangibile. É l'avvento della svolta tattile, già annunciata da Marshall McLuhan negli anni Cinquanta, che fa dei sensi i drive dell'intelligenza e del tatto il supersenso.
Non è un caso che il tocco, come dicono molti scienziati cognitivi, sia il senso del presente, quello che ha l'immediatezza del pensiero nei polpastrelli, recettori che accendono simultaneamente sensazioni, rappresentazioni, visioni, passioni, emozioni. Con uno straordinario cortocircuito tra superficialità e profondità, tra finitudine del supporto e infinitudine delle funzioni, fra cosa e rappresentazione. Molto vicino a quello che i Greci chiamavano percezione aptica. Cioè il riconoscimento multisensoriale degli oggetti che passa attraverso la mano. E che, tiene a precisare Giuliana Bruno, «è molto più del tatto. È con-tatto». É comunicazione. Sinestesia che fa lavorare insieme tutti i sensi e apre nuove porte della conoscenza. Questo era vero per la scultura antica, che era tutta un trionfo della superficialità sensibile, dell'apparenza densa, della forma eloquente. Ed è altrettanto vero per l'architettura e le arti contemporanee, che lavorano sempre di più su lamine di cose, veli di luce, muri che diventano schermi e schermi che diventano muri, tessuti, textures. Andando al di là del limite tra animato e inanimato. Tra forma architettonica e forma vivente. Come nel caso della ristrutturazione del Lincoln Center di New York, realizzata da Elizabeth Diller, Ricardo Scofidio e Charles Renfro. Che hanno rivestito l'intero edificio della corteccia di un solo albero. Una pellicola inconsutile, una materia subtilis, una membrana schermo che si accende di luce soffusa e sembra quasi che arrossisca. E del resto, aggiunge Bruno, «sulla superficie della nostra pelle abbiamo sempre fatto affiorare sensazioni ed emozioni, affetti e sentimenti.
Non a caso i nuovi strumenti tecnologici fanno sempre più leva sull'interazione aptica. E perfino quando sfioriamo il simulacro di un tasto, gratificano la nostra aspettativa corporea, restituendoci la sensazione di una breve vibrazione.
Così vedere e toccare, sentire e pensare diventano una sola cosa. E le superfici si fanno sensibili come link, punti di connessione tra luoghi, storie, umanità. Mentre gli schermi trasformano il tempo in spazio, in cosa. Ne fanno una "materia che si consuma", come dicevano gli Inca. Stiamo assistendo insomma all'ultima metamorfosi della superficie. Che non è più il luogo sul quale proiettare le ombre del nostro pensiero. Come il fondo della caverna platonica. O come il cinema. Che, non per nulla, nasce negli stessi anni in cui Freud scrive L'interpretazione dei sogni inventando di fatto il proiettore dell'inconscio. Oggi invece le superfici retroilluminate dei nostri schermi invertono il fascio di luce della proiezione. E noi quelle immagini le introiettiamo. Sono loro a venire verso di noi.
Proprio come gli eidola del mondo antico, parvenze create dalla fantasia degli uomini che prendevano corpo per una sorta di magia. Al tempo della tecnologia gli eidola sono fatti della stessa sostanza di cui sono fatti gli schermi. Superfici intelligenti che trasformano il pensiero in materia. La res cogitans in res extensa.
Dall'introduzione a Surface: matter of aesthetics, materiality, and media, di Giuliana Bruno
There exist what we call images of things,
Which as it were peeled off from the surfaces
Of objects, fly this way and that through the air. . . .
I say therefore that likenesses or thin shapes
Are sent out from the surfaces of things
Which we must call as it were their films or bark.
T. Lucretius Caro, De rerum natura
For Lucretius, the image is a thing. It is configured like a cloth, released as matter that
flies out into the air. In this way, as the Epicurean philosopher and poet suggests to
us, something important is shown: the material of an image manifests itself on the
surface. Lucretius describes the surface of things as something that may flare out,
giving forth dazzling shapes. It is as if it could be virtually peeled off, like a layer of substance,
forming a “bark,” or leaving a sediment, a veneer, a “film.” This poetic description and its philosophical
fabrication go to the heart of my concern in this book as I approach materiality in the
virtual age, seeking to show how it manifests itself on the surface tension of media in our times.
What is the place of materiality in our contemporary world? In this age of virtuality,
with its rapidly changing materials and media, what role can materiality have? How is it
fashioned in the arts or manifested in technology? Could it be refashioned? These are some
foundational questions asked in this book, which investigates the surface as it embodies
the relation of materiality to aesthetics, technology, and temporality.
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