All’inizio furono Ludovico Ariosto, Hieronymus Bosch e Walter Scott.
Da ultimi sono arrivati «Il Signore degli Anelli» e «Il Trono di Spade»,
film e videogiochi:
«Dungeons and Dragons», «Ghost Rider», «Dante’s Inferno».
Così sono cambiate la percezione e la fascinazione verso una stagione
che ha rivoluzionato architettura e urbanistica, commerci e professioni,
fino agli studi (universitari) e alla stessa forma mentis della società
Marcello Simoni, "Corriere della Sera - La Lettura", 26 giugno 2016
Se parliamo di Medioevo, l’equivoco più insidioso — quello capace di far rizzare i capelli a qualsiasi storico — consiste nell’attribuire i valori più autentici di quest’epoca alla narrativa fantasy. Accade soprattutto di questi tempi, galeotto il successo di serie televisive e cinematografiche che hanno riportato in auge non solo il fascino dei cosiddetti secoli bui, ma anche una sottocultura popolare basata sulla moda gotica, sulle leggende del Graal e sui giochi di ruolo. Ingigantendo l’equivoco. Benché saghe di grande fascino come Il Signore degli Anelli e Il Trono di Spade si avvalgano di ambientazioni appartenute a epoche passate, le utilizzano infatti per plasmare una fiction in cui la verosimiglianza si indebolisce e i riferimenti storici esprimono soltanto un’idea imprecisa di tempi remoti. Per inciso, i romanzieri e i registi contemporanei non sono i primi ad aver operato un simile esperimento. Basti pensare a Ludovico Ariosto, a Matteo Maria Boiardo, a Luigi Pulci e agli epigoni del ciclo bretone e carolingio. Il conte Orlando con la sua spada incantata, il gigante Morgante, mago Merlino e re Artù vivono nel nostro immaginario da circa ottocento anni, quasi quanto la favola di Cappuccetto Rosso.
Allo stesso modo, i draghi della conturbante Daenerys Targaryen di R. R. Martin e quelli del film post-apocalittico Reign of Fire con Christian Bale nascono dalle remote icone di san Giorgio «cavaliere» intento a trafiggere il draco serpentiforme, dapprima senza ali e poi con quelle di pipistrello, a imitazione dei più antichi demoni cinesi.
Se poi ci allontaniamo dalla fiction e prendiamo come riferimento il quotidiano, ci rendiamo conto che il nostro immaginario collettivo, forgiato da genealogie di figure eroiche e di mostruosità, continua ad attingere senza sosta dalle pitture visionarie di Hieronymus Bosch, per mezzo del quale il bestiario medievale s’intreccia alle diavolerie alchemiche che ancora oggi attribuiamo all’evo di mezzo. Eppure non tutto è vero. Le streghe, per esempio, appartengono più alle ossessioni dell’età moderna che a quelle del Medioevo (durante il quale si bruciavano per lo più gli eretici), mentre l’Inquisizione (romana e spagnola) attraversa il suo periodo più cupo tra il Cinque e il Seicento. Attenzione pertanto a distinguere il Medioevo vero da un suo miraggio idealizzato. E attenzione, per dirla tutta, al carrozzone «protomassonico» dei nuovi Templari, degli Illuminati, del Priorato di Sion e compagnia bella, che per la maggiore consiste in un revival di elementi morti e sepolti, interpolati o addirittura inventati di sana pianta.
Torniamo quindi all’equivoco iniziale, ovvero alle ragioni che oggigiorno sovvertono la percezione del Medioevo, banalizzandolo a una partita di Dungeons and Dragons. Non possiamo ricercarne le origini nel fantasy, né tantomeno nella creatività di un qualsivoglia autore contemporaneo intento a mettere in scena castelli tenebrosi o macabre pestilenze. Più che cause scatenanti, queste sono conseguenze di un effetto farfalla proveniente dall’Ottocento.
È da questo secolo, infatti, che giunge a noi la fascinazione narrativa dell’età feudale, strumentalizzata dal romanzo storico per dare voce agli ideali del Romanticismo. Il capostipite di questa tendenza è Ivanhoe di Walter Scott (1819), seguito da Adelchi di Manzoni (1822) e da Notre-Dame di Victor Hugo (1831). Queste opere rappresentano il punto d’origine di un delta letterario che, aprendosi, sfocia nell’attuale babele dell'historical fiction. E si badi bene, i loro personaggi incarnano la stessa mentalità che vibra nel melodramma wagneriano di Tristano e Isotta e nelle saghe nordiche del popolo germanico. Sono più patriottici che verosimili, più «romantici» che medievali.
Non è soltanto questo, tuttavia, il retaggio che il Medioevo lascia al XXI secolo. Non quello autentico, per lo meno. Potrei dare enfasi a questa affermazione descrivendo l’impianto urbanistico di borghi antichi come Assisi, Urbino o Soncino, alla presenza di edifici portentosi come il Duomo di Ferrara, Castel del Monte, la Sagra di San Michele. Preferisco tuttavia andare alla ricerca di un Medioevo più «sottile», quello che permea la vita di tutti noi ogni volta che ci mettiamo a ragionare. Perché è qui che affondano le radici della nostra forma mentis. Dobbiamo essere grati alle scuole di Toledo e del sud Italia, meritevoli d’aver salvato le opere di Aristotele e di altri filosofi dell’antichità, traducendoli dall’arabo dopo secoli di oblio. Ma siamo grati pure a teologi della levatura di Agostino d’Ippona, Tommaso d’Aquino e Pietro Lombardo, che assimilando quel sistema di pensiero lo trasmisero al Medioevo biblio-monastico — da Montecassino a Cluny, da Pomposa a San Gallo — prosperato fino ai nostri giorni.
La forma mentis di cui parlo, tuttavia, vanta anche un’origine laica sviluppatasi in seno al Duecento, di pari passo all’affermazione di un nuovo ceto, «borghese», rappresentato da schiere di mercanti, notai, medici e banchieri sempre più istruiti e consapevoli di sfilacciare le maglie del vecchio ordinamento sociale fino ad allora suddiviso in chierici, guerrieri e contadini. In un simile contesto — e solo in Occidente — nascono le università, che accrescendo nel corso dei secoli la loro importanza formeranno generazioni di studenti fino a plasmare il volto del mondo odierno.
Non fu da meno l’apporto di singoli pensatori come Michele Scoto, che nel XIII secolo frequentò lo Studium di Bologna, di Parigi e di Oxford per poi diventare magus, medicus e consigliere presso Federico II. Tenendosi sempre in contatto con il mondo arabo, egli fu impegnato a saziare la smisurata curiosità dell’imperatore svevo. A tal fine scrisse un Liber introductorius che descriveva la natura dei vulcani, la profondità dei mari e, al contempo, vagheggiava su macchine in grado di esplorare gli abissi e di innalzarsi fra le nuvole. Il più grande apporto di questo magus al pensiero contemporaneo fu però nel campo dell’astronomia, che all’epoca veniva considerata un tutt’uno con l’astrologia e importante quanto la teologia, dacché insegnava a cogliere i segni di Dio nella disposizione delle costellazioni. Ebbene, Scoto fu il primo a definire il movimento degli astri rigettando lo schema tradizionale delle stelle fisse, paragonandolo a una moltitudine di carri che solcano i cieli seguendo delle orbite ellittiche.
L’evo di mezzo è giunto fino a noi anche sotto altre, impensabili forme. È a quei tempi che appartengono l’invenzione dell’orologio, degli occhiali da vista, del gioco degli scacchi, della polvere da sparo, del rosario, dei tarocchi, del mulino a vento e persino del gioco del calcio (in Francia detto soule). Grazie ad autentici geni come Papa Silvestro II e Leonardo Fibonacci importammo l’uso dei numeri arabi, la geometria e l’algebra. Sempre nel Medioevo si può riconoscere l’infanzia dei comuni (sorti a partire dal Duecento) e, secondo Le Goff, della stessa Europa.
Esiste d’altro canto un Medioevo popolaresco, ancora riconoscibile in famose ricorrenze come il carnevale di Ivrea o la Corsa dei Ceri di Gubbio (tenuta ogni anno il 15 maggio in ricordo dell’assedio di Federico Barbarossa), ma anche un Medioevo sacro. Da quest’ultimo provengono la festività del Corpus Domini, l’impostazione della preghiera a mani giunte, la concezione del Purgatorio e il culto di santi ancora molto venerati, come Francesco d’Assisi, Benedetto da Norcia e Antonio da Padova. E Nicola di Mira, le cui reliquie furono traslate dalla Turchia a Bari nel 1087 in seguito a uno di quegli avventurosi furta sacra descritti nei legendarii vergati dai monaci amanuensi. Da allora la figura del patrono barese si è scissa, dando origine da un lato — per via nordica — alla figura di Santa Claus e dall’altra a quella di Cola Pesce, tanto cara al trovatore tolosano Raimon Jordan e, più di recente, a Italo Calvino.
È proprio Calvino, con il suo Medioevo surreale e fiabesco parallelo a quello di Queneau (I fiori blu), a far approdare sui nostri lidi il volto di un’epoca fatta di curiosità, labirinti e misteri. Si pensi alla trilogia degli «antenati» e al Castello dei destini incrociati, ma soprattutto alle Città invisibili. È proprio tra queste pagine che incontriamo un Marco Polo disincantato e sognatore, un semiologo dell’effimero che racchiude dentro di sé lo spirito del Marco Polo realmente vissuto, insieme all’affabulazione di Rustichello da Pisa, lo scrittore che conobbe in carcere il mercante veneziano e probabilmente lo aiutò a mettere nero su bianco, nel Milione , le sue esperienze e le sue fantasie.
È precisamente da questo, dall’ambizione narcisistica di scrivere di noi stessi tramutando l’io vero in io narrativo, consapevoli che ciascuno di noi sia diverso dal prossimo, proprio da questo, dicevo, che scaturisce la rivoluzione antropologica del pensiero medievale. Quella che più di ogni altra cosa sopravvive dentro di noi contemporanei: la libertà di essere ciò che vogliamo, a costo di reinventarci, di mentire, di scavalcare i confini che separano il reale dalla fantasia. Oppure di calarci nei baratri più profondi e spaventosi dell’oltretomba come fece Dante, padre delle visioni più sublimi, dell’arte del simbolo ma anche delle nostre paure ultraterrene. Neppure l’Alighieri, d’altro canto, è sfuggito all’odierno gusto del kitsch che fagocita ogni cosa e la sputa trasmutata, o riciclata, quasi ci trovassimo davanti a uno di quei Gorgoneion intenti a masticare i dannati nei Giudizi Universali. Risorto infatti in un celebre videogame, Dante’s Inferno, fa il verso a un Medioevo visionario, ferocissimo e tutto sommato godibile.
Del resto, in un gioco distorto che ha visto cadere quest’epoca tanto bistrattata persino nelle mai di Sam Raimi (L’armata delle tenebre), non ci si stupisca troppo di veder comparire tra gli albi a fumetti anche i cavalieri delle apocalissi gotiche. Ora cavalcano destrieri d’acciaio rombante e si fanno chiamare Ghost Rider, ma non lasciatevi ingannare: come accade da secoli, sono avvolti dallo zolfo delle leggende medievali.
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