lunedì 15 luglio 2019

Le tre nobildonne decapitate per adulterio




AMEDEO FENIELLO, “La Lettura”, 14 luglio 2019

Italia (poco) rinascimentale Nel giro di 34 anni, dal 1391 al 1425, le mogli di tre potenti signori, che governavano Mantova, Milano e Ferrara, vennero giustiziate per ordine dei loro mariti con l’accusa di averli traditi. Un libro rievoca Agnese Visconti, Beatrice di Tenda e Parisina Malatesta: costrette a subire matrimoni dinastici, si ricamarono spazi di vita fatti di lusso e buone letture. Anche procurarsi un amante, in casi del genere, diventava quasi una scelta di autonomia e di libertà

Agnese Visconti: decapitata nel 1391. Beatrice di Tenda: decapitata nel 1418. Parisina Malatesta: decapitata nel 1425. Tre storie. Un medesimo destino, nell’Italia rinascimentale. Vicende non sconosciute, che anzi hanno goduto, nell’Ottocento, di una certa gloria musicale. Parisina venne cantata da Gaetano Donizetti e poi (su libretto di Gabriele d’Annunzio) da Pietro Mascagni. Beatrice di Tenda è un’opera di Vincenzo Bellini. Mentre Agnese rivive nel melodramma del maltese Antonio Nani. Da allora, però, sono cadute nell’oblio, al quale hanno posto rimedio due storici francesi innamorati dell’Italia, Élisabeth Crouzet-Pavan e Jean-Claude Maire Vigueur, che hanno dedicato a loro il volume Décapitées (Albin Michel), in uscita il 1° ottobre da Einaudi.
L’azione ci rimanda a un tempo particolare, tra la fine del Trecento e il primo ventennio del secolo successivo. All’Italia della formazione degli Stati territoriali, in una situazione magmatica, non ancora ben fissata nella sua intelaiatura politica, raggiunta in seguito con la pace di Lodi del 1454. Il racconto si sviluppa tra le corti di Mantova, Ferrara e Milano, alla ricerca di queste donne, della loro vita e del loro tragico destino. Sono una sorta di cold case da dipanare, dicono gli autori, non per rintracciare un ipotetico serial killer, ma per ricostruire uno scenario unico e originale, legato a un medesimo filo rosso: l’accusa per tutte e tre di adulterio e la condanna alla decapitazione. In un contesto di potere, intrighi, gelosie, rancori, arbitrarietà, alta politica e bassa cucina giudiziaria.
Solo per Agnese Visconti ci fu un processo. Per Beatrice, tortura e sentenza. A Parisina toccò solo un ordine, rapido e glaciale, del marito. Agnese, moglie di Francesco I Gonzaga, signore di Mantova, fu la prima, giustiziata alla mattina presto del 9 febbraio 1391. Era stata sottoposta a un procedimento regolare, con verbali, testimonianze, giudici e una sentenza di morte, per lei e per il suo amante, il valletto di camera Antonio da Scandiano: Agnese, che era una nobildonna, ottenne l’onore della decapitazione; per lui, un semplice servitore, ci fu l’umiliazione dell’impiccagione. Più complessa è la storia di Beatrice, che fino alla fine giurò di essere stata fedele al marito e di non
avere avuto nessun amante. Nonostante ciò, venne costretta a posare la testa sul ceppo e ad affidare l’anima a Dio il 13 settembre 1418. Sulla sua presunta colpa, nessuna testimonianza diretta, ma tutte di seconda mano, lontane dagli avvenimenti, come il racconto dell’umanista Pier Candido Decembrio, autore della Vita del marito di Beatrice, il duca di Milano Filippo Maria Visconti. La donna era innocente o no? I più dicono di sì e aggiungono che la storia dell’adulterio fu inventata di sana pianta da Filippo, per sbarazzarsi dell’ingombrante presenza di lei.
La terza è forse la storia più tragica: una donna di 21 anni, Parisina Malatesta, che viene fatta decapitare, il 22 maggio 1425, da un momento all’altro, di notte, di sorpresa, dal marito, Niccolò III d’Este, signore di Ferrara, insieme al suo amante. Che però non è uno qualsiasi, un valletto, un cameriere, un musico. No.  È addirittura il figlio del precedente matrimonio di Niccolò, Ugo, il «bel Ugo», di appena un anno più giovane della ragazza. Condannati anch’essi a morire insieme. Tre storie, una medesima faccia tragica della medaglia. E un retroscena ricco di particolari, a partire dagli esecutori, i maschi, i mariti.
Perché tutte e tre le donne furono spose di grandi signori italiani, appartenenti a dinastie di primo piano come i Gonzaga, i Visconti e gli Este. E, per la prima volta in assoluto, vennero punite per un reato di adulterio con la pena più grave possibile, la morte per decapitazione. Perché? Che cosa spinse i mariti a prendere una decisione tanto grave? A queste domande, gli autori rispondono con una spiegazione oltremodo complessa, che coniuga un insieme di motivi, sotterranei, intimi, irrazionali, legati alla personalità delle tre donne e dei mariti, alle loro emozioni, alle passioni, ai rancori, con tanti altri fattori che, pur tuttavia, pesarono: i vincoli sociali, il senso dell’onore offeso, i calcoli politici, i giochi di potere.
Tutte e tre le donne appartenevano al medesimo ambiente aristocratico. Agnese era figlia del grande Bernabò Visconti, signore di Milano. Beatrice era la meno prestigiosa, ma la più ricca e potente, ereditiera del suo primo marito, Facino Cane, tra i più temuti signori della guerra italiani. Parisina era una Malatesta, e il suo zio e tutore, Carlo, le permise di fare un gran bel matrimonio con il più vecchio e titolato Niccolò d’Este. Donne, insomma, che non scelgono il matrimonio ma lo subiscono, con decisioni a priori, fredde e senza sentimenti, secondo strategie precise di una logica politica che passava molto al di sopra delle loro esistenze. Costrette a una vita separata, nelle loro stanze, nelle loro dimore, nei loro palazzi, lontane da mariti spesso indifferenti se non brutali, come Niccolò—uomo dalle mille amanti—o lo stesso Filippo Maria, evidentemente omosessuale.
Sono ridotte in una condizione di strumentalità, all’interno della quale esse si ricamano spazi di vita personali, distaccati, attorniate dal lusso, in un clima di cultura, di buone letture, di toni musicali. Donne capaci anche di esprimere il proprio carattere, come nel caso di Beatrice, tanto da tener testa al marito e forse, proprio per questo, odiata. Dove forse, ed è una delle chiavi di lettura del libro, l’adulterio si trasforma quasi in una scelta consapevole di autonomia e di libertà, l’unico spazio di vita non scandito da altri, ma costruito da loro e per loro. Tre donne, rivelate nel loro destino in questo libro. Che rivivranno ancora il prossimo settembre nel corso del festival del Medioevo (dal 25 al 29 a Gubbio), che avrà come tema Donne. L’altro volto della storia.


Gli autori

Nata a Parigi nel 1953, Élisabeth Crouzet-Pavan insegna storia alla Sorbona ed è una specialista di vicende della Repubblica di Venezia e più in generale del tardo Medioevo. Jean- Claude Maire Vigueur, nato nel 1943, insegna Storia medievale all’Università di Roma Tre. Si occupa principalmente dei Comuni italiani. Tra i suoi libri usciti nel nostro Paese: L’ altra Roma (traduzione di Paolo Garbini, Einaudi, 2011); Cavalieri e cittadini (traduzione di Aldo Pasquali, il Mulino, 2004). Con Enrico Faini ha pubblicato Il sistema politico dei Comuni italiani (Bruno Mondadori, 2010)
Inoltre Maire Vigueur ha curato il volume a più voci Signorie cittadine nell’Italia comunale (Viella, 2013) L’epoca Le vicende ricostruite nel libro Décapitées risalgono alla fase in cui si andò delineando un equilibrio tra le signorie italiane, ormai strutturate come entità statali. Il nuovo assetto venne sancito con la pace di Lodi, firmata il 9 aprile 1454 tra le due principali potenze del Nord: il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia .

venerdì 14 giugno 2019

C’è un velo su Bisanzio


Paolo Mieli, "Corriere della Sera", 11 giugno 2019

Un saggio di Tommaso Braccini (Salerno) sulle antiche vicende della città che  poi divenne Costantinopoli e oggi è Istanbul. Un nodo strategico essenziale per i traffici di ogni tipo sulle cui origini non esistono fonti davvero affidabili
Nel IV secolo a. C. lo storico Teopompo di Chio riferiva di come ai suoi tempi Bisanzio fosse già molto conosciuta. Conosciuta anche come città del vizio, dal momento che gli abitanti si accalcavano per l’intera giornata al porto e al mercato tra postriboli e bettole, in cui affluiva il vino delle navi dirette verso il Mar Nero. Il commediografo Menandro in un frammento riferisce di «mercanti tutti ubriachi». Lo storico Filarco sosteneva che i Bizantini erano soliti affittare agli stranieri le loro stanze da letto, «mogli comprese». Stratonico di Atene alla metà del IV secolo a. C. raccontava che Bisanzio era soprannominata l’«ascella della Grecia» per i cattivi odori che la città emanava, con un probabile riferimento al grande commercio di pesce fresco ed essiccato. Si può dire che all’epoca l’odierna Istanbul fosse già famosissima. In ogni senso.
La colonia greca Byzantion aveva mille anni di età allorché Costantino, all’inizio del IV secolo dell’era cristiana, fondò la Nuova Roma (questo il nome ufficiale che fu dato a Costantinopoli) sul Bosforo, fa notare Tommaso Braccini, in apertura di Bisanzio prima di Bisanzio. Miti e fondazioni della Nuova Roma, che sta per essere pubblicato da Salerno. Dopo la fondazione di Costantinopoli, «Byzantion, oltre che una città è diventata», sostiene Braccini, «un laboratorio mitografico in piena regola e non ha ancora smesso di esserlo». Ad alimentare questo «laboratorio mitografico» è stata innanzitutto quella che potremmo definire la propaganda ufficiale, ma nel corso dei secoli ha giocato un ruolo importante anche «il bisogno dei suoi abitanti di superare il trauma di una serie di rifondazioni radicali che talora li hanno fatti sentire come alieni in una terra incognita e potenzialmente ostile».
Le «rinascite», secondo le leggende medievali, «non hanno azzerato quel che c’era prima, ma hanno progressivamente portato a compimento quel che era previsto da sempre». Ragion per cui quello delle origini di Bisanzio-Costantinopoli-Istanbul è un vero rompicapo per gli storici alle prese con un difficile lavoro di distinzione e di integrazione, tra impronte storiche vere e proprie (poche), ricostruzioni mitologiche e tracce archeologiche. A questo proposito Braccini riprende alcuni elementi già presenti nel libro da lui scritto con Silvia Ronchey, Il romanzo di Costantinopoli, edito da Einaudi. Ma qualcosa si può ritrovare anche nello straordinario L’impero che non voleva morire. Il paradosso di Bisanzio (640-740 d.C.) di John Haldon (Einaudi) e nel libro del turco Tursun Bey, La conquista di Costantinopoli, pubblicato da Mondadori.
Il principale tra gli elementi che contraddistinguono Bisanzio fin dai suoi albori è costituito sicuramente dalla cornice naturale della città, a cavallo tra due continenti: il Bosforo, il Corno d’Oro, il promontorio Bosporio. A questa eccezionale collocazione geografica sono strettamente collegati altri elementi: l’importanza del commercio, la menzione dei viaggiatori (a partire dai mitici Argonauti) e anche gli assedi «che scandiscono di pari passo la storia reale e quella mitica della città». Su questo palcoscenico ideale si susseguono l’uno dopo l’altro i personaggi a cui viene attribuito il merito di aver fondato quella che sarà una «capitale imperiale». All’inizio — in varie fonti antiche come Dionisio — non ci sono «personalità dominanti». Viene evocato «un vero e proprio pulviscolo di colonizzatori provenienti da ogni parte della Grecia», oppure si fa cenno, forse più plausibilmente, a «un gruppo di fondatori megaresi, che si muovono lungo un Corno d’Oro e un Bosforo minutamente ricostruiti in tutti i loro anfratti, nelle calette e negli scogli». Si tratta spesso «di microtoponimi e riferimenti a piccole entità topografiche, che però significavano qualcosa nella vita di chi li vedeva ogni giorno e che, pertanto, nella ricostruzione di Dionisio, sono tutti collegati con miti e storie che spesso sono solo la variante locale di trame ben più diffuse, nell’antichità e oltre».
In passato, scrive Braccini, si è oscillato tra due interpretazioni contrapposte dei miti di fondazione di questa città, miti «che sono una componente fondamentale di ogni identità pubblica»: in una prima fase, «secondo una prospettiva positivistica, si è creduto che conservassero in ogni caso un nucleo di verità storica e che andassero accuratamente setacciati in cerca di questa sorta di pagliuzze d’oro». Successivamente, con un approccio definito «costruttivistico», si è asserito che si trattasse di mere invenzioni finalizzate a «corroborare e illustrare peculiari istanze sociali e politiche proprie delle epoche e dei contesti culturali nei quali tanti miti furono di volta in volta elaborati».
Entrambi gli elementi — sostiene Braccini — possono tranquillamente convivere: «Gli scampoli di realtà storica, spesso decontestualizzati e ridotti ai minimi termini, costituiscono altrettanti mattoni che, a fianco di veri e propri “motivi” mitici e folklorici ampiamente diffusi», contribuiscono a edificare una costruzione che non è certo neutra o oggettiva, «ma veicola volutamente l’immagine di sé vagheggiata» da chi l’ha costruita. Anche i «miti di fondazione» della colonia greca di Byzantion e l’«archeologia» relativa al passato di Costantinopoli precedente alla sua conquista da parte di Costantino «si adeguano al contesto nel quale vengono concepiti e raccontati». Alcuni temi o figure («non necessariamente attinenti alla realtà storica», specifica Braccini) si rivelano più resistenti e risultano attestati dall’antichità fino all’epoca ottomana. Altri invece sono più transitori e spesso attingono al patrimonio delle «leggende migratorie» che circolano «nel tempo e nello spazio, al contempo paradigma prestigioso e comodo serbatoio per corroborare e ampliare il passato di una città divenuta improvvisamente capitale di un impero, e successivamente, dopo il trauma di una conquista, di un altro».
Per orientarsi tra le testimonianze, spesso pochissimo note, di storici, poeti, cronisti ed eruditi distribuiti in oltre un millennio e mezzo, è pressoché obbligatorio attingere alla Patria Costantinopolitana, una collezione di opere storiche compilata attorno al 995, ai tempi del regno di Basilio II. La Patria Costantinopolitana contiene il testo sulla storia di Bisanzio scritto dal pagano Esichio di Mileto nel VI secolo. Quella incentrata sulle antichità di Bisanzio era perlopiù «una microstoria locale, trovatasi inopinatamente su una ribalta mondiale»: troppo «gracile, frammentaria e provinciale perché potesse sostenere da sola il peso di elogi all’altezza del nuovo ruolo». Il problema che si trovarono di fronte i suoi panegiristi, in prosa e in poesia, fu dunque quello «di corroborare questi miti delle origini (anche ricorrendo a “prestiti” più o meno disinvolti) e renderli presentabili». Da un lato si cercò il più possibile di «sganciare le leggende da una madrepatria greca abbastanza oscura e insignificante»; dall’altro «di riorganizzarle e rileggerle sulla falsariga della storia romana… per enfatizzare come il destino di diventare una nuova Roma fosse già fatalmente scritto nell’origine e nella storia di Bisanzio». Discorso di cui si trovavano anticipazioni già nel libro di Gilbert Dagron, edito da Einaudi, Costantinopoli: nascita di una capitale (330-451).
Lo storico Polibio ricordava come i Bizantini «abitassero un luogo che, per quanto ubicato in maniera non ottimale dalla parte di terra, godeva invece di una posizione invidiabile per sicurezza e prosperità rispetto al mare». Infatti, proseguiva, «la città dominava l’imboccatura del Ponto, al punto che non si poteva né entrare né uscire da esso senza il suo benestare». Dal Ponto giungevano merci utili e pregiate (Polibio le elenca: bestiame, schiavi, miele, cera, pesce secco) e ne conseguiva che i Bizantini ne erano i veri padroni. Lo stesso peraltro si poteva dire dell’olio e del vino che dal Mediterraneo passavano al Mar Nero e del grano che «era soggetto a flussi commerciali alterni».
Se Bisanzio avesse deciso di bloccare il transito o si fosse schierata con i Galati e soprattutto i Traci, o se non fosse mai stata fondata e il controllo dello stretto fosse stato lasciato ai barbari, ipotizza l’autore, i Greci ben difficilmente avrebbero potuto godere di tali fondamentali commerci. Per questo motivo, conclude Polibio, era giusto considerare i Bizantini benefattori comuni di tutti e non limitarsi a essere loro grati, ma «mostrarsi anche pronti ad aiutarli nel caso di minaccia da parte dei barbari». A proposito dei Traci va aggiunto che sulle origini di Bisanzio ha a lungo gravato il sospetto (Braccini lo definisce lo «spettro») che avesse avuto una parte fondamentale proprio quel popolo considerato bestiale e incivile. Ciò che aveva spesso indotto «a minimizzare (anche se mai a eludere completamente) l’apporto locale alla nascita della futura colonia». Sarebbe stato imbarazzante attribuire ai Traci un ruolo di un qualche rilievo nella fondazione di quella che era destinata a diventare la capitale dell’impero.
Ma torniamo ai traffici mercantili. Certo è, scrive Braccini, che a partire dal V secolo i diritti riscossi dalle navi in transito lungo il Bosforo costituirono una fonte di rendita sempre più importante al punto da fare gola agli Ateniesi e ad altri. I Bizantini, «liberisti ante litteram», ironizza l’autore, cercarono di ricorrervi il meno possibile, ma talora «finirono per cedere a questa tentazione soprattutto in circostanze di emergenza in cui c’era necessità di “fare cassa” rapidamente come in occasione della crisi causata nel III secolo dalla minaccia dei Galli stanziati nella vicina Tylis».
Bisanzio fu sottoposta a numerosi assedi. Il primo, riferisce Esichio, fu quello di Odrise, re degli Sciti respinto con il lancio di rettili sull’esercito degli assalitori (dopodiché i Bizantini non fecero mai male ai serpenti come ricompensa per il «servigio reso»). Il più storicamente documentato fu quello di Filippo II di Macedonia (338 a.C.) di cui si parla ampiamente nel saggio di Luisa Prandi Taverne e bevitori di Bisanzio greca: a proposito delle vicende di Leone (pubblicato dalle Edizioni universitarie di Trieste). Il Leone di cui al titolo di questo studio sarebbe stato un oratore di Bisanzio che, da un’improvvisata discussione con il sovrano macedone, ne intuì le intenzioni aggressive e poté aiutare la sua città a resistergli. Il figlio di Filippo, Alessandro Magno, avrebbe poi collocato trombe alimentate dal vento per spaventare i «popoli impuri» di Gog e Magog (i Tatari) e tenerli lontani dalla città.
L’ultimo assedio sarebbe stato quello di Settimio Severo (sul trono di Roma dal 193 al 211 d.C.). Ne parla Cassio Dione e, secondo Braccini, «il trauma della distruzione e della sanguinosa conquista della futura capitale dell’impero da parte di un imperatore romano rimase sempre vivo al punto che talora, in maniera fantasiosa, si cercò di negare» l’accaduto. Braccini da tutto ciò trae l’impressione «che le costruzioni di poeti, storici ed eruditi in merito al passato più remoto di Istanbul e, ancor prima, di Costantinopoli, siano simili alla nebbia che, nelle testimonianze di tanti viaggiatori, avvolgeva impenetrabile la città». Dal punto di vista dello storico tutto gli è parso come «un velo di affabulazioni, leggero, impalpabile, perennemente mutevole» che «sembra avviluppare gli edifici e il terreno». Qualche elemento naturale o architettonico «pare emergere, più o meno stabilmente, dalla coltre opaca»; ma a volte quello che sembrava concreto «non è che l’ennesimo miraggio». Molto meglio affrontare la «leggenda di Bisanzio» come «una costruzione culturale, spesso consapevole» che cerca di conciliare i racconti mitici «con le specificità in alcuni casi davvero notevoli, dell’antica colonia greca poi divenuta capitale mondiale». Che però conteneva tutta la sua grandezza quando era una colonia greca famosa per la promiscuità sessuale e i mercati maleodoranti.