domenica 6 gennaio 2013

Niccolò Machiavelli: tanto nomini nullum par elogium


L'investigatore Machiavelli L'edizione nazionale e un'enciclopedia
Detective story, manuali per manager, videogiochi 
Il segretario fiorentino brilla di nuovo in libreria

Ranieri Polese

"Corriere della Sera - La Lettura",  6 gennaio 2013

Cinquecento anni fa, nel 1513, dal suo ritiro in campagna nel podere dell'Albergaccio vicino a San Casciano, Niccolò Machiavelli dava notizia all'amico Francesco Vettori di «uno opuscolo De Principatibus» composto in quei mesi di ozio forzato. Perduto, l'anno prima, con il ritorno dei Medici a Firenze, il posto di segretario che aveva tenuto per 15 anni, costretto a pagare una pesantissima multa e addirittura imprigionato e torturato per il sospetto di aver preso parte a una congiura contro il cardinale Giovanni, Machiavelli è tornato libero grazie all'amnistia concessa per l'elezione di Leone X, il primo Papa Medici.
Ma l'inattività lo logora, così scrive il breve trattato che vorrebbe inviare a Giuliano de' Medici, consapevole del fatto che le sue riflessioni sull'arte di governo possono essere utili, «massime a un principe nuovo». (Morto Giuliano nel 1516, l'opera sarà dedicata a Lorenzo). Vorrebbe, scrive all'amico, poter avere di nuovo un incarico e il suo opuscolo dovrebbe provare «a questi signori Medici» la sua conoscenza delle cose della politica. Ma Il Principe, come normalmente sarà chiamato, non gli servì. Machiavelli non avrà più nessun posto nel governo della città. Quel libro, stampato postumo nel 1536, gli darà in cambio una fama che ancora oggi dura.
Una celebrità ambigua, perché, se da un lato lo consacrava come il fondatore della scienza politica moderna, dall'altro avrebbe accreditato l'immagine del cinico consigliere di ogni sorta di nefandezze necessarie per mantenere il potere. Da qui l'aggettivo machiavellico. E da qui anche le moltissime citazioni del suo nome — e del suo Principe — come simboli di diabolica malvagità. Secondo alcuni, addirittura, il modo popolare inglese di chiamare il diavolo, «Old Nick», deriverebbe proprio da Niccolò.
Insomma, il Segretario fiorentino avrebbe continuato a vivere nell'immaginazione dei posteri come un personaggio nero e criminale (Bertrand Russell definiva Il Principe un «manuale per gangster»). E così compare nel 1864 nel pamphlet scritto dal democratico Maurice Joly contro il tiranno Napoleone III, Dialogue aux enfers entre Machiavel et Montesquieu, dove un diabolico Machiavelli illustra i mezzi — il controllo della stampa, l'alleanza con il potere finanziario ecc. — necessari per consolidare il proprio potere. (Per un capriccio della storia, il Dialogue servirà come base per I protocolli dei savi di Sion, il falso documento compilato in Russia agli inizi del Novecento, manifesto del moderno antisemitismo). Il vero Machiavelli non aveva niente di così sinistro e malvagio, anzi fu «burlone, irriverente, dotato di una intelligenza finissima; poco preoccupato dell'anima, della vita eterna e del peccato; affascinato dalle cose e dagli uomini grandi» (Maurizio Viroli, Il sorriso di Niccolò, Laterza). Ma la leggenda, come si sa, ha sempre la meglio, insomma print the legend. Soprattutto quando si associa all'altra grande leggenda nera di quel periodo, i Borgia, da sempre oggetto di romanzi, film, serie tv (solo nel 2011 ne sono state prodotte due). Una associazione inevitabile vista l'ammirazione di Machiavelli per Cesare, il duca Valentino: «Io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua» (Il Principe, VII).
Segretario & detective
Chi invece ne privilegia le eccezionali doti di ingegno e l'acume nel comprendere gli uomini e il perché delle loro azioni, sono gli scrittori di thriller, come il fiorentino Leonardo Gori — Le ossa di Dio e La città del sole nero (entrambi Rizzoli) — che ci presenta un Machiavelli che indaga su strani delitti, spesso di matrice esoterica. Gli anni sono il 1504 e il 1505; vicino a lui c'è sempre Leonardo da Vinci, in veste più di scienziato che di artista. La strana coppia — in realtà si conobbero e furono in qualche modo amici — ricompare adesso in La congiura Machiavelli, che esce in questi giorni da Newton Compton. L'autore, l'americano Michael Ennis, ha già al suo attivo due romanzi storici, La duchessa di Milano (Tea) su Beatrice d'Este e Bizantium. Nel nuovo libro racconta gli ultimi mesi del 1502, a Imola, dove Cesare Borgia tiene il suo esercito. Machiavelli è lì inviato da Firenze per saggiare le vere intenzioni del Valentino, che i suoi ex alleati, i condottieri Vitelli e Orsini, vorrebbero spingere alla conquista dei territori della Repubblica fiorentina; Leonardo invece è stato assoldato come ingegnere esperto di fortificazioni e macchine da guerra. C'è anche una donna a Imola, Damiata, amante di Juan de Gandia, il figlio prediletto del Papa Borgia, ucciso misteriosamente qualche anno prima: il Papa l'ha mandata a Imola per capire chi fu il mandante e l'assassino.
Fino a qui si tratta di personaggi veri, ma poi entra in gioco la fiction: in città si aggira un mostro (un serial killer diremmo oggi) che ammazza donne e le squarta, lasciandone i pezzi in luoghi diversi. Le indagini sul delitto di Juan si saldano con quelle sul massacro delle donne, perché per Machiavelli all'origine dei diversi misfatti c'è una sola mente criminale... Frutto di anni di ricerche e documentazioni — in una postfazione sono indicate scrupolosamente le fonti consultate — questa Congiura si presenta come «una specie di Csi (Crime Scene Investigation) del Rinascimento» in cui Leonardo, esperto anatomista, fa la parte del medico legale e Machiavelli quella del profiler, il criminologo che traccia l'identikit dell'assassino. Suspense, scene di sangue, l'amore romantico e appassionato fra Niccolò e Damiata, sabba di streghe; ma quel che conta di più per Ennis è l'accuratezza della ricostruzione. Uno scrupolo che già traspare dal titolo originale, The Malice of Fortune, che traduce alla lettera Machiavelli quando, parlando di Cesare Borgia, scrive: «Se gli ordini sua non li profittorono, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria et estrema malignità di fortuna». Uno degli scopi del suo romanzo, dice Ennis, è quello di invitare a leggere gli scritti di Machiavelli per cambiare finalmente il giudizio corrente su di lui: «Scoprirete un uomo che non aveva niente di machiavellico, fu un onestissimo servitore dello Stato, un amico fedele. E un inguaribile romantico».
Il principe dei videogame
Mentre c'è chi continua ad associare il nome di Machiavelli a crimini e cospirazioni (Allan Folsom, La regola di Machiavelli, Longanesi poi Tea, immagina l'esistenza di una setta diabolica che ai nostri giorni segue ancora i precetti contenuti in un'appendice segreta del Principe) messer Niccolò ha naturalmente un posto assicurato nei romanzi sui Borgia, come The Family (La famiglia, Sonzogno), l'ultima opera dell'autore del Padrino Mario Puzo, che descrive il Papa e i suoi figli come un perfetto clan mafioso. E certo ritroveremo Machiavelli anche nel romanzo di Sarah Dunant, Blood and Beauty, in uscita a maggio. Ci sono ancora manuali per manager ispirati al Principe (Management and Machiavelli di Antony Jay, Machiavelli on Management di G.R. Griffin) ma la novità che certifica la popolarità del Segretario fiorentino presso le giovani generazioni sono i videogame. A cui, comunque, non bisogna chiedere scrupoli filologici né esattezza storica. Così nel gioco Assassin's Creed, che mette in scena la lotta fra il Bene (la Setta degli Assassini) e il Male (i Templari). Nel terzo episodio, Brotherhood (2010), il fiorentino Ezio Auditore, discendente dagli Assassini, ha come alleato, contro il Papa Borgia, Niccolò Machiavelli.
È un videogame anche The Secret of the Immortal Nicholas Flamel, che nasce però dai sei volumi sfrenatamente fantasy dell'irlandese Michael Scott. A Machiavelli è dedicato il quinto capitolo della serie, The Warlock («Lo stregone»), dove Niccolò è addirittura in compagnia del pistolero Billy the Kid. E così torna a essere un personaggio diabolico, seguace del perfido alchimista elisabettiano John Dee contro cui combattono i buoni Immortali. Insomma, nonostante tutto, print the legend.


Nel «Principe» diverse modernità si sono specchiate
Da Richelieu a Gramsci. Interpretazioni opposte

Giuseppe Galasso

La prima idea che si ebbe di Machiavelli fu quella del don Ferrante manzoniano nei Promessi sposi: «Mariuolo, ma profondo». Ossia un pensatore malandrino, ma che penetra nel profondo delle cose. La condanna della Chiesa non poteva mancare per uno scrittore che indicava la volpe (astuta, subdola) e il leone (violento, prepotente) come i poli fra cui si muove la politica. Un pensatore per il quale la religione, sentita o non sentita che sia, è sempre uno strumento dell'azione politica. Un pensatore per il quale i nemici debbono essere o spenti o vezzeggiati per sopraffarli in qualche modo. Insomma, un vero manuale del contrario di una filosofia cristiana della politica e dello Stato. La condanna arrivò quindi puntuale e totale e le opere di Machiavelli furono poste già nel 1559 all'Indice dei libri proibiti. I gesuiti combatterono una vera crociata antimachiavelliana. A Ingolstadt, in Baviera, Machiavelli nel 1615 fu bruciato in effige come «uomo subdolo e astuto, ottimo artefice di pensieri diabolici, collaboratore del demonio». Né diversa fu l'accoglienza prevenuta e ostile delle Chiese protestanti. In Inghilterra vi furono commedie su Machiavel and the Devil (Robert Daborne) e sulla contesa fra Machiavelli e sant'Ignazio per contendersi all'inferno il favore di Satana (John Donne).
Senonché, la riflessione di Machiavelli era profonda, e segnava una data nella storia del pensiero europeo. Non vi si poteva facilmente rinunciare. Così, per ovviare alle proibizioni ecclesiastiche, si usò contrabbandarne le idee sotto i nomi di altri autori, come Tacito (e il «tacitismo» divenne quindi vicario del machiavellismo) e perfino Aristotele. Né era solo il problema morale a essere in questione. Machiavelli aveva anche pensato, da buon fiorentino, alla libertà repubblicana, così radicata nelle città dell'Italia comunale, e in specie a Firenze. Il suo «principe» l'aveva vagheggiato soprattutto per un'azione volta a sottrarre l'Italia al destino di soggezione agli stranieri a cui la condannavano le sue divisioni. E né l'idea repubblicana, né quella italiana potevano avere fortuna nell'Italia dell'assolutismo e del predominio spagnolo.
Machiavelli continuò, tuttavia, a essere meditato in quella Italia anche nel modo più paradossale: se ne esponevano e discutevano le tesi, che così circolavano, anche se poi, salvo qualche parziale eccezione (il Sarpi, il Boccalini), le si condannava aspramente (perfino Tommaso Campanella, così poco ortodosso, parlò di Machiavelli, nel suo Atheismus triumphatus, come ateo e immorale).
Fuori d'Italia fu frequente, invece, l'apprezzamento per il realismo machiavelliano. Così in Francia, dove il cardinale Richelieu commissionò una Apologie pour Machiavel, rimasta inedita. Così in Inghilterra, dove pensatori di rilievo, come Bacone e Harrington, videro in Machiavelli un autore fondamentale per una visione realistica e moderna dei problemi politici.
Un così lungo e pregiudiziale ostracismo non poteva, però, durare. Nel Settecento si fece strada una soluzione molto lambiccata per superarlo. Machiavelli — si disse — aveva svelato il volto torbido e oscuro della politica non per esaltarlo, bensì per illustrare al mondo la natura demoniaca del potere e prevenirla (come poi nei Sepolcri avrebbe detto il Foscolo: «quel grande/ che, temprando lo scettro ai regnatori,/ gli allor ne sfronda ed alle genti svela/ di che lacrime grondi e di che sangue»). Non che così ne svanisse la cattiva fama. Federico II di Prussia, ossia uno dei maggiori esperti della politica come opera di volpi e di leoni, scrisse un Antimachiavel, che ebbe una certa eco. Non era, secondo Thomas Mann, ipocrisia, quella di Federico, ma solo letteratura (non per nulla era scritto in francese). Anche la letteratura dice, però, qualcosa, se spinge un sovrano così geniale a scrivere una filippica contro un autore alle cui massime la sua azione era così conforme.
Ipocrisia, invece, certo non vi era in Rousseau che definiva Il Principe come «il libro dei repubblicani», secondo un'idea che allora si diffuse e fece del Machiavelli il fautore dello Stato moderno contro il feudalesimo e altri avversari.
Era, comunque, ormai, il tempo del riscatto. In Italia il Risorgimento, in un percorso culminato con Francesco De Sanctis, esaltò il politico realista, che aveva combattuto le idee trascendenti e spiritualistiche della tradizione cristiana medievale (un Lutero italiano!), e riscoprì il fautore della democrazia comunale e repubblicana e, soprattutto, il patriota che aveva auspicato l'unione degli italiani contro lo straniero.
In Germania Hegel lesse nel pensiero di Machiavelli un fondamento storico e un'idea della politica quale scienza. L'immoralità del pensiero machiavelliano, esaltata anche da Nietzsche, nella logica del suo uomo superiore e postmoderno, era, però, ancora deprecata da Pasquale Villari, che vi contrapponeva il severo moralismo di Savonarola.
Si giunse così nel Novecento a riconoscere senz'altro, da Croce a Isaiah Berlin, che Machiavelli aveva in sostanza definito l'autonomia della politica come dimensione dell'uomo nel mondo e nella società: una dimensione che è in rapporto con tutte le altre, ma, sempre salda sui suoi fondamenti e nelle sue esigenze, non si risolve mai del tutto in nessun'altra. Gramsci lesse nel Principe i fondamenti di una teoria moderna del partito rivoluzionario. Meinecke vi lesse la scoperta della «ragion di Stato». Con Chabod e con altri si è posto in piena luce il profondo rapporto genetico tra la storia italiana del suo tempo e la riflessione machiavelliana.
Insomma, Machiavelli è finito con l'essere generalmente visto come uno snodo decisivo del pensiero e della coscienza moderna, come una spinta forte e fondamentale alla laicizzazione e alla modernizzazione dell'idea di politica. Lo si studia perciò in tutte le discipline attinenti alla molteplice e ribollente materia dei suoi scritti, anche se, forse, con un eccesso analitico che rischia di perderne più di qualcosa. Sul monumento in Santa Croce, eretto con pubblica sottoscrizione nel 1787, è detto bene quel che in ultimo, e non solo in Italia, si è pensato di lui e delle sue dottrine: tanto nomini nullum par elogium (a un nome così grande nessuna lode è pari).

Teoria e pratica di un battagliero
Niccolò Machiavelli (Firenze, 1469 — 1527) visse da protagonista tutte le battaglie del suo tempo. Da segretario del governo fu al servizio della Repubblica fiorentina dal 1498, dopo la condanna al rogo di Savonarola. Guidò molte missioni diplomatiche in Italia e in Europa e fu a capo delle milizie cittadine nella guerra vittoriosa contro Pisa (1509). Con il ritorno dei Medici in città, fu mandato al confino, subì carcere e torture. Amnistiato, si ritirò nel podere dell'Albergaccio in val di Pesa, dove scrisse «Il Principe» (1513) e molte opere, dai «Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio» alle «Istorie». Dopo un parziale recupero dei suoi incarichi politici, morì nel 1527 

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