giovedì 1 maggio 2014

I Greci e noi, in viaggio per scoprire


Omero ed Erodoto: due modi contemporanei di guardare l’altro
Utet pubblica Ippopotami e sirene della giurista e antichista Eva Cantarella

Nuccio Ordine

"Corriere della Sera", 29 aprile 2014

«Pensa a Itaca, sempre,/ il tuo destino ti ci porterà./ […]Non sperare ti giungano ricchezze:/ il regalo di Itaca è il bel viaggio,/ senza di lei non lo avresti intrapreso./ Di più non ha da darti./ E se ti appare povera all’arrivo,/ non t’ha ingannato./ Carico di saggezza e di esperienza/ avrai capito un’Itaca cos’è»: questi bellissimi versi di Constantinos Kavafis mostrano, a distanza di secoli, come il mito di Itaca e di Ulisse continui ancora a far vibrare le corde del cuore di poeti e di lettori. 
Certo, le peregrinazioni dell’eroe omerico narrate nell’Odissea hanno rappresentato uno dei modelli costitutivi della letteratura occidentale: metafora della conoscenza, dell’esplorazione dell’ignoto, dell’incontro con l’«altro», dell’autonomia della coscienza, dell’autodeterminazione, della sfida del limite, della punizione divina, il viaggio — attraverso il movimento continuo delle strutture linguistiche e narrative — ha finito anche per diventare esso stesso immagine della scrittura letteraria. 
Alle avventure cantate da Omero e alle esplorazioni «antropologiche» di Erodoto, ha dedicato recentemente un bel libro Eva Cantarella (Ippopotami e sirene. I viaggi di Omero e di Erodoto, Utet). Studiosa di fama internazionale, i suoi saggi sul mondo antico sono stati tradotti in varie lingue, ci offre ora, con la sua consueta chiarezza, un affascinante itinerario in sette capitoli, dove l’Odissea e le Storie vengono analizzate alla luce dei numerosi racconti elaborati dai due grandi autori, l’uno padre dell’epica e l’altro della storiografia. 
Alla lettura comparata dei due testi, balzano subito agli occhi le differenze. Omero fa del viaggio uno strumento per marcare il divario tra la civiltà greca e la barbarie degli altri popoli: Polifemo rappresenta una socialità pre-politica, priva di valori religiosi, dove mancano leggi e assemblee e dove è assente l’agricoltura; Circe e Calipso (entrambe dedite al canto e alla tessitura) incarnano modelli femminili negativi fondati sull’inganno, che nulla hanno a che vedere con le virtù greche della moglie, della madre e della sorella; i Lotofagi esemplificano il rischio di perdere nei paesi stranieri la memoria della propria patria (mangiare il loto significava, infatti, «scordare il ritorno»). 
Per Erodoto — nato in Asia Minore, probabilmente da padre persiano e madre greca — il viaggio diventa, invece, occasione di confronto con l’«altro» (con coloro che Greci non sono), senza aver paura di riconoscere i «debiti» contratti con le culture vicine: le descrizioni di Babilonia, per esempio, o le riflessioni sulla regina Nitocri o su Artemisia mostrano una sincera simpatia per alcuni aspetti della vita politica di questi popoli stranieri; le pagine dedicate agli animali conosciuti (i gatti) o a quelli sconosciuti (coccodrilli e ippopotami) rivelano un’attenzione per le tradizioni locali e per gli stretti legami intessuti con i riti religiosi; e, perfino, nella vendita all’asta delle mogli, l’autore riesce a cogliere gli aspetti positivi di una legislazione che pensava anche alla sopravvivenza delle donne brutte e storpie (i soldi ricavati, infatti, dalla vendita delle future consorti più belle andavano in dote a coloro che sposavano quelle destinate a restare senza marito). 
Dal raffronto tra i testi omerici e le Storie, insomma, appaiono due cartografie diverse dei viaggi: Omero, lasciando da parte le tanto discusse questioni sui possibili riferimenti a luoghi del Nord Europa, naviga in Occidente, tra la Sicilia e le coste tirreniche dell’Italia, e in Oriente, lungo le coste dell’Anatolia; mentre Erodoto esplora i territori dell’Iran orientale, del nord del Mar Nero, il basso Nilo e l’Africa. Ma appaiono, soprattutto, due concezioni pedagogiche opposte dell’ignoto: se per l’epos l’avventura tra popoli sconosciuti è destinata a compiersi nel «ritorno» (nostos), per il racconto dello storico si concretizza, al contrario, in acute riflessioni sulla grandezza del mondo e sulle diverse culture delle genti che lo abitano. 
Le pagine di Eva Cantarella invitano, a loro volta, a far viaggiare il curioso lettore tra luoghi reali e immaginari. E solo alla fine del libro si capirà che altri viaggi ci aspettano perché, come ricordava T. S. Eliot, ogni «finire è cominciare».

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