domenica 7 settembre 2014

Ecce Nietzsche, dal mito alla storia

Anche gli occhi di Jim Morrison si illuminavano 
quando parlava di apollineo e dionisiaco
 
«Spettri di Nietzsche», una storia della fortuna e dei malintesi 
cui andò incontro il filosofo tedesco, scritta da Maurizio Ferraris. 

Dagli esordi come critico della cultura 
alla metafisica dell'Eterno Ritorno e della volontà di potenza

Stefano Catucci

"Il manifesto", 7 settembre 2014

Scriveva Nietzsche a Lou Salomé in una lettera del 1882: «mia cara Lou, il suo pensiero di una riduzione dei sistemi filosofici agli atti personali dei loro autori è veramente il pensiero di un’anima sorella: io stesso ho spiegato a Basilea la storia della filosofia antica in questo senso e dicevo volentieri ai miei ascoltatori: “Questo sistema è morto e sepolto, ma la persona dietro ad esso è incancellabile, la persona non si può affatto seppellire”». Nel pubblicare un saggio sul pensiero di Nietzsche, più di dieci anni dopo, Lou Salomé avrebbe rinunciato a tener fermo questo principio, finendo anzi per separare la filosofia e l’autore al punto da prendere estremamente sul serio anche le idee di cui aveva riso, quando se le era sentite esporre a voce, prima fra tutte quella dell’Eterno Ritorno.
Il nuovo libro di Maurizio Ferraris, Spettri di Nietzsche (Guanda, pp. 250) si inoltra invece proprio nello spazio sottile in cui i filosofemi diventano espressione di una personalità e questa, a sua volta, sintomo di un’epoca, così che per sbrogliare la matassa e comprendere l’influenza esercitata da Nietzsche lungo più di un secolo occorre seguire passo dopo passo non solo i movimenti del pensiero, ma anche quelli dell’autore.
Certo, per compiere un’operazione critica di questo tipo non si può rimanere nella cornice accademica di un’osservazione neutrale, «scientifica». Bisogna invece mettersi in gioco in prima persona e farsi carico del valore filosofico di un doppio inseguimento che pone in questione, inevitabilmente, anche una parte di sé. Ferraris affronta questo nodo fornendoci anche la cronaca di un rapporto di lunga data che lo ha portato, nel corso degli anni, non solo all’interno dei testi di Nietzsche e delle grandi costellazioni dei commenti, ma anche nei luoghi nei quali il filosofo tedesco ha vissuto o è passato, a cominciare dalle sue numerose tappe italiane. Per questo il testo si dispiega su più livelli e tiene insieme documenti di carattere molto diverso, tutti accreditati di una identica dignità narrativa e testimoniale: interpretazioni filosofiche, canzoni, poesie, guide turistiche, dichiarazioni politiche, iscrizioni incise sulle targhe che segnalano le case in cui Nietzsche ha dimorato, in un continuo contrappunto fra un pensiero, il suo sfondo esistenziale, la storia delle sue origini e quella dei suoi effetti.
L’argomentazione è tipicamente digressiva, come lo era quella dei romanzi filosofici di Diderot, che in Jacques il fatalista aveva come unico collegamento fra un episodio e un altro la domanda ricorrente che il padrone rivolgeva al suo facondo servitore: «raccontami dei tuoi amori». Qui è Ferraris a raccontarci di un amore filosofico, che ha pedinato lungo tutti i luoghi da cui prendono il titolo
i capitoli del libro: Torino, Sils Maria, Lenzerheide, Nizza, Rapallo, Orta, Silvaplana, Sorrento, Basilea, passando per Berlino, per Röcken e per altre località che occupano ciascuna un proprio rilievo, come Recoaro, stazione termale in cui Nietzsche soggiornò brevemente nel 1881 e che fu teatro, cent’anni dopo, di un grande convegno internazionale organizzato dall’Istituto Gramsci.
Poiché il libro non vuole tessere la trama di una biografia di Nietzsche, ma disegnarne una mappa, l’articolazione dei capitoli non segue un andamento cronologico. Si passa di stazione in stazione attraverso associazioni di idee, risalendo una traccia apparentemente irrilevante, oppure fermandosi a approfondire un tema portante chiamando in causa gran parte della letteratura critica, come se la tecnica della scrittura volesse riprodurre il ritmo di un ipertesto.
Accanto alle pagine che ricostruiscono geografia e idiosincrasie della filosofia di Nietzsche troviamo così analisi magistrali di snodi decisivi: la dipendenza di alcune intuizioni giovanili dalla divulgazione scientifica del suo tempo, a cominciare dalla Storia del materialismo di Friedrich Albert Lange; la derivazione scientifico-mistica della teoria dell’Eterno Ritorno, nutrita anche dagli studi sulla natura delle comete di Frank Zöllner; l’apologo del Crepuscolo degli idoli sul «mondo vero» ormai ridotto a «favola», ovvero – come osserva Ferraris – «la chiave di volta del postmoderno», quella per cui «la realtà è socialmente costruita, nulla esiste al di fuori del testo, il sapere è solo un effetto di potere, il mondo si guarda da infinite prospettive che corrispondono ai nostri bisogni vitali in conflitto tra loro» e «non ci sono cose in sé, ma solo in relazione a osservatori».
Se si pensa al percorso compiuto da Maurizio Ferraris verso l’approdo al «nuovo realismo», si comprende come questo libro sia soprattutto un gesto di commiato nei confronti di Nietzsche, con l’auspicio che il distacco non sia solo personale, ma corrisponda a una svolta più ampia della filosofia del nostro tempo. Il titolo ricalca volutamente gli Spettri di Marx che Derrida vide aggirarsi fra le macerie del mondo post-comunista, dopo il fatidico 1989. I fantasmi agitati dal pensiero e dalla personalità di Nietzsche sono però di tutt’altro tipo e sono quasi compensatori rispetto alla frustrazione delle rivoluzioni mancate o tradite. Sono gli spettri «di una insofferenza narcisistica, di un ribellismo antiborghese» e «di un attivismo da biblioteca» che ancora percorre il nostro paesaggio culturale e che un altro teorico del realismo, György Lukács, aveva evidenziato con parole oggi recuperate da Ferraris dopo il lungo periodo di discredito in cui sono state gettate dalla riabilitazione filologica, accademica e politica di Nietzsche cominciata negli anni cinquanta.
La «missione sociale» della filosofia nietzschiana, secondo Lukács, consiste nel rendere superflua ogni rottura nell’ordine sociale delle cose facendo appello a una rivoluzione più profonda, «cosmico-biologica», all’annuncio indeterminato di Zarathustra, che può rendere gradito e seducente anche il senso del proprio essere ribelli. Ferraris, dal canto suo, vede nella filosofia del superuomo e della volontà di potenza una paradossale apologia del conformismo travestito con le maschere dell’aristocrazia e della trasgressione.
Nietzsche tentò di presentare la sua vita così malinconica, solitaria, malata, continuamente in bilico sul limite del crollo psicofisico, come l’espressione universale e necessaria di un destino tragico identico a quello di un’epoca intera.
Ferraris vede al contrario, nell’esigenza di distaccarsi da Nietzsche, un passaggio esemplare per la filosofia di oggi, come rivendica nella Postilla che contiene, di fatto, la chiave di costruzione e di lettura dell’intero libro. Per questo ridiscende dal livello del mito, che ossessionò Nietzsche quale specchio della sua stessa esistenza, all’ambito della historia, dove tutto ciò che appariva tragico e straordinario si rivela umanamente fragile e contingente. «Tutto quello che rimane di Nietzsche», scrive allora Ferraris, «non è che lo stile, un idioma, una individualità, l’unicità di una firma, cioè una imperfezione e un errore, e anche un tentativo di seduzione, che aleggia nella prosa, nei simboli, negli effetti». Eppure, insieme a tutto quanto c’è di idiomatico nella vicenda di un filosofo che ottenne l’agognato successo intellettuale solo quando non era più in grado di intendere e di volere, rimane anche un’eredità da cui non ci si distacca mai del tutto, perché somiglia a un rito di passaggio. È il momento dionisiaco, «universo immaginario» in cui Nietzsche proietta le sue mortificazioni ammantandole «di un’aura arcaica e originaria», ma anche «tonalità emotiva fondamentale» del suo pensiero che scompare alla vista e ricompare come un «fiume carsico» che spesso emerge in modo eccentrico e inaspettato.
Nella sua contrapposizione al momento apollineo, che per Nietzsche si identifica con la filosofia dell’Illuminismo, il motivo dionisiaco ha per Ferraris qualcosa di inguaribilmente superstizioso e di retrivo, è ciò che prepara la distruzione del mondo vero in favore dell’idea per cui «non ci sono fatti ma solo interpretazioni». Al tempo stesso il suo radicarsi in esperienze immersive e spontaneamente magmatiche – per esempio nella musica, oppure nell’assunzione di sostanze o farmaci che investono quanto aveva chiamato, all’inizio di Umano, troppo umano, «la chimica delle idee e dei sentimenti» – mostra che il dionisiaco è un elemento potenziale di crescita, un impulso al superamento della fase nichilistica dell’esistenza in favore di una stagione più costruttiva e condivisa, che si può conquistare anche grazie all’intervento correttivo del principio socratico per eccellenza, l’ironia, della quale Ferraris fa largo uso in chiave filosofica.
Racconta per esempio, di essersi recato nel 1972, a sedici anni, al cimitero parigino di Père Lachaise per visitare la tomba di Jim Morrison, il leader dei Doors morto l’anno prima, che si era dichiarato lettore di Nietzsche e aveva affermato come per capire davvero la sua musica bisognasse leggere La nascita della tragedia. «Vidi la tomba coperta di spinelli» ricorda Ferraris, «e un distico eptasillabico scritto con lo spray che prometteva una resurrezione lisergica: “Jim est mort, ne nous importe / car un trip nous le remporte” (Jim è morto, ma non c’importa / perché un trip ce lo riporta”)». Un verso memorabile e irriverente che condensa nella sua tragica leggerezza il «passaggio Nietzsche» che Ferraris indica come un rito da attraversare, nel corso di una vita filosofica; ma per andare oltre, superando il rischio di perdersi, di incantarsi o impantanarsi di fronte alla forza incantatrice dei suoi spettri.

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