Risuscitò la grandezza di Roma ma fu durissimo con i cristiani
Luciano Canfora
"Corriere della Sera", 7 giugno 2014
Il nome di Diocleziano (il quale regnò dal 284 al 305 d.C.) è legato, nell’immaginario di chi serba ancora ricordi degli studi ginnasiali, all’ultima persecuzione anticristiana più che all’editto sui prezzi o al riordino amministrativo e militare dell’impero. D’altra parte, il governo di Diocleziano sul piano amministrativo, militare, economico ha suscitato in genere rispetto tra gli storici moderni, a parte qualche ironia fatuamente liberista verso l’editto sui prezzi. La trovata di «sminuzzare» l’estensione geografica delle province al fine di ridurre il potere militare dei singoli governatori era la risposta più razionale al caos prolungato del decennio successivo alla morte di Aureliano. La scelta di non chiedere nemmeno l’avallo - o la legittimazione - del Senato era un modo drastico, ma efficace, di far comprendere all’aristocrazia senatoria il cambio d’epoca in atto. Ormai era l’esercito - in tutta la sua amplissima estensione e articolazione - il fondamento politico-sociale del potere imperiale. I soldati restavano nel servizio per decenni: erano il ceto sul cui crescente peso e sulla cui lealtà si fondava lo Stato. Diocleziano veniva dal basso, suo padre era stato schiavo, poi liberto, di un senatore romano (fonte Giovanni Zonara); il suo culto e la sua assoluta dedizione all’impero e all’idea stessa di potere imperiale venivano proprio di lì, da quelle origini e da quella tenace e fortunata sua ascesa tutta all’interno dell’esercito e mai immemore del punto di partenza. La biografia scritta da Umberto Roberto, Diocleziano (Salerno, pp. 387), mette bene in luce questo aspetto. E si fa apprezzare per l’efficacia narrativa oltre che per la documentazione.
Invece la svolta anticristiana ha sconcertato i moderni interpreti. «Non è ben chiaro - scrisse Luigi Pareti - per quale motivo, dopo ben diciotto anni di tolleranza per il Cristianesimo (285-303), Diocleziano a nome dei tetrarchi infierisse contro i cristiani con quattro editti fierissimi» (Storia di Roma, 1954). Il sovietico Kovaliov scelse un’altra strada: «Al suo Stato riformato - scrisse - Diocleziano volle assicurare, oltre che una base materiale, anche una base ideologica. Tuttavia la sua perspicacia non era sufficiente a scegliere tale base. Base ideologica della nuova monarchia poteva essere soltanto la nuova religione, il Cristianesimo, che a quel tempo era diventato un’enorme forza, soprattutto in Oriente» (Storia di Roma, 1948). Analoga la posizione di Momigliano: «L’essere caduto nell’errore di portare all’estremo inutilmente la persecuzione contro i cristiani indica quale fosse il difetto intrinseco al regime: una rigidezza che invano tentava di imprigionare il corso dei fenomeni» (Sommario di storia delle civiltà antiche , 1934). Per Mazzarino invece «il genio di Diocleziano aveva intuito l’inutilità della lotta» contro il Cristianesimo, ma «gli uomini di cultura d’intorno a lui pensavano che ancora si potesse e si dovesse tentare»; e indica nel Contro i cristiani di Porfirio il loro «Manifesto» (Trattato di storia romana. L’impero, 1956).
Consideriamo più da vicino la cruciale vicenda. Una fonte insospettabile, il padre della Chiesa Cecilio Firmiano Lattanzio (250-325 d.C.) riversa soprattutto su Galerio, «Cesare» di Diocleziano, la responsabilità della persecuzione. Narra Lattanzio con dovizia di dettagli, nei capitoli 10 e 11 del De mortibus persecutorum, che Galerio - spronato a ciò da sua madre Romula, seguace di riti pagani degli «dei delle montagne» - si installò per tutto l’inverno del 303 presso Diocleziano, in quel momento nella sua residenza di Nicomedia (in Bitinia), e, nonostante la riluttanza del vecchio e malandato imperatore (senex vanus lo chiama), lo piegò, alfine, ad avallare lo scatenamento della persecuzione.
Lo storico che più ha dato rilievo a questa scena onde ridimensionare le responsabilità di Diocleziano è stato Edward Gibbon, nel celebre capitolo XVI della Storia della decadenza e caduta dell’impero romano: è il capitolo che tratta con spirito critico il problema delle persecuzioni, in contrasto spesso con le iperboli della «storia sacra» degli autori cristiani. Gibbon solleva anche la questione: come faceva Lattanzio a conoscere minuti e segreti dettagli dei colloqui tra l’«Augusto» Diocleziano e il suo «Cesare» Galerio? D’altra parte è significativo che Gibbon non tratti questa vicenda nel capitolo (il XIII), molto ammirativo, dedicato a Diocleziano, ma nel capitolo sulle persecuzioni, e nei termini che abbiamo ora ricordato. È una strategia narrativa che consente a Gibbon di non turbare con ombre sgradevoli il tono generale del capitolo su Diocleziano: lascia al lettore l’onere di connettere i due resoconti.
La scena del lungo incontro di Nicomedia viene ripresa, con efficacia narrativa, dal testo di Lattanzio e inserita nel capitolo intitolato «La spirale dell’odio» da Umberto Roberto nel suo Dioclezian o . Egli non si pone però la domanda di Gibbon, semmai ribalta il racconto di Lattanzio asserendo che Galerio «appoggiò con solerzia le misure contro i cristiani».
La vicenda della lunga persecuzione (durata ben oltre l’abdicazione di Diocleziano, avvenuta il 1° maggio 305, e protrattasi per altri sette anni, quando ormai Galerio da «Cesare» era diventato «Augusto») ha importanza soprattutto sul piano della storia politica. Soccorre il paragone, certo alquanto enfatico, di Gibbon, il quale accostava senz’altro Diocleziano ad Augusto. «Al pari di Augusto - scrisse Gibbon - Diocleziano può essere considerato come il fondatore di un nuovo impero». E soggiungeva, non senza un’accentuazione oleografica: «Questi due principi non impiegarono mai la forza ogniqualvolta potevano conseguire lo scopo con la politica». Se dunque nei confronti dei cristiani Diocleziano accettò di adottare la maniera forte, è necessario chiedersi perché ciò sia accaduto.
La premessa fattuale è che il proselitismo cristiano aveva raggiunto la gran parte delle province dell’impero ed era penetrato in profondità nell’esercito, cioè nell’unica e fondamentale base del potere imperiale sotto la tetrarchia, dopo quasi un secolo di crisi e convulsioni dinastico-militari. Al pari di Augusto, Diocleziano era profondamente convinto della necessità di una salda unificazione religiosa dell’impero quale vero e stabile cemento della compattezza della compagine statale. L’azione svolta da Augusto su questo terreno è ben nota: essa poté dispiegarsi secondo il modello inclusivo caratteristico della prassi di governo romana, allora in grado di coniugare controllo e tolleranza. Ma all’inizio del IV secolo la questione si poneva, dal punto di vista dei rapporti di forza, in termini diversi rispetto a tre secoli prima: la repressione - già materia di discussione tra Plinio e Traiano al principio del II secolo - appariva ora lo strumento, certo aspro ma, si riteneva, pur sempre efficace, per riportare anche questo culto così pervasivo nell’alveo dell’unità imperiale.
Non va trascurato un elemento che più d’ogni altro denota il cambio d’epoca: Augusto fa «dio» il suo padre adottivo (divus Iulius), Diocleziano pone ormai se stesso come «divino» di fronte a masse militari pronte a recepire una tale grossolana proiezione del potere. E dunque l’attrito con la componente cristiana diveniva inevitabile: a meno di non compiere il salto sommamente realpolitico dell’accettazione del nuovo credo da parte dello stesso imperatore. Ciò che farà di lì a poco Costantino dinanzi al fallimento dell’altra opzione.
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