lunedì 31 agosto 2015

Lezioni d’amore: Abelardo seduttore e la logica Eloisa


Armando Massarenti

"Il Sole 24 ore - Domenica", 30 agosto 2015

«Puoi rimanere casta come il ghiaccio, candida e pura come la neve, ma non potrai sfuggire alla calunnia. Perciò ti dico: vattene in convento. O, se proprio hai bisogno di sposarti, prenditi uno sciocco, perché quelli avveduti sanno fin troppo bene quali mostri sapete far di loro. Va’, chiuditi in convento». Queste gelide e raggelanti parole appartengono al principe di Danimarca, il tormentato Amleto shakesperiano, ma potremmo immaginarle senza difficoltà anche sulla bocca di un altro seduttore altezzoso e infelice. Un personaggio realmente esistito (qualche secolo prima di Shakespeare): il filosofo Abelardo (1079-1142), la mente logica forse più acuta di tutto il Medioevo che, ironia della sorte, non capiva assolutamente nulla della logica dell’amore. E delle relazioni in generale, si potrebbe aggiungere!
Che Abelardo fosse un grande seduttore non lo si può dubitare, almeno se si presta fede alle parole di Eloisa, sua allieva e poi amante, da lui “spedita” in convento quando la storia d’amore stava degenerando in tragedia. La bella Eloisa, giovane donna straordinariamente colta e sensibile, accese il filosofo di una passione così intensa da fargli perdere il sonno, la testa, e poi un’altra parte del corpo – in modo non poco doloroso, secondo quanto vuole la tradizione (lo zio della ragazza, il canonico Fulberto, per nulla contento di quell’amore illegittimo e clandestino, per filosofico che fosse, organizzò una spedizione punitiva e lo fece evirare).
Ma torniamo alle arti seduttive del giovane Abelardo, dotato secondo la sua Eloisa di così tanto carisma da far accorrere folle di scolari e “fan” «da ogni luogo». «Quale regione, citta o paese non ardeva dal desiderio di vederti? Quale donna non languiva per te quando eri assente e non ardeva di desiderio alla tua presenza? Quale regina, quale donna potente non invidiava le mie gioie, il mio letto?»
Con sguardo meno generoso (e innamorato) di quello d’Eloisa, potremmo dire che il vero talento di Abelardo era di essere una calamita per l’invidia. Ma l’aspetto più rilevante è che non faceva nulla per evitarlo. Anzi! In un certo senso, Abelardo è il più perfetto seguace ante litteram dello psicologo Paul Watzlawick, il geniale studioso che, nelle Istruzioni per rendersi infelici, svela con notevolissimo acume e ironia tutti i disparati (e disperanti) modi in cui noi esseri umani spesso ci regaliamo da soli abbondanti dosi di infelicità. Pensiamo alla strategia che Watzlawick battezza come “ancora lo stesso”. «Dietro questa semplice espressione si cela una delle più efficaci e funzionali ricette per le catastrofi che sia apparsa sul nostro pianeta in milioni di anni.» E, anche tralasciando l’incidente dell’evirazione, Abelardo di catastrofi – auto-inflitte – era davvero un grande esperto! Non a caso la sua prima lettera autobiografica è passata alla storia con il titolo di «Storia delle mie disgrazie». Dunque, per come ripercorre la sua vicenda, Abelardo sbaglia a ripetizione, sottovaluta i suoi avversari, cade in disgrazia, si provoca ferite di ogni tipo ma più forte di lui è il continuare a fare, ancora e ancora, “lo stesso”.
Dovunque vada, con tutta la sua fine intelligenza e capacità dialettica, il talentuoso filosofo proprio non riesce a resistere alla tentazione d’accumulare nemici. E passi il conflitto generazionale con il suo primo magister, Guglielmo di Champeux: «all’inizio bene accetto, gli divenni poi assai molesto, quando cercai di confutare alcune sue proposizioni e presi sempre più spesso ad argomentare contro di lui». Stupisce forse che «questa condotta generasse in quelli tra i discepoli che erano considerati più bravi tanta stizza»? Ed ecco – che strano – «l’invidia continua a divampare» contro Abelardo. Non contento, il giovane logico si inimica anche il maestro del maestro, niente meno che Anselmo di Laon: «Poiché disertavo sempre più spesso le sue lezioni, qualcuno dei suoi discepoli eminenti se ne ebbe a male». Ma non è finita qui. Anche dopo il terribile incidente di Fulberto, Abelardo, presi i voti, si scontra ripetutamente con l’autorità ecclesiastica fino a essere scomunicato da papa Innocenzo II. Per non parlare della “disgrazia” forse più notevole, quella che ai lettori non può che sembrare una manifestazione esemplare di un bizzarro complesso di persecuzione (o per lo meno di ciò che Watlawick chiamerebbe “profezia che si autoavvera”): Abelardo è nominato a capo di un’abbazia, ma solo per iniziare a lamentarsi, di lì a poco, dei ripetuti tentativi di avvelenamento degli altri monaci ai suoi danni.
Insomma, per citare ancora una volta le Istruzioni per rendersi infelici, Abelardo è un vero maestro nel perseverare nella stessa condotta, continuando «a utilizzare la stessa “soluzione”, col solo risultato di incrementare il disagio». Disagio per sé e per la povera Eloisa, sensibile e fin troppo intelligente, come mostrano chiaramente le lettere attribuite a lei. Rileggendo attentamente la loro infelice storia, Eloisa si rivela come la sola tra i due a essere dotata di un po’ di logica, oltre che di intuito psicologico e di spiccata intelligenza pratica. L’unica da cui avrebbe senso prendere delle lezioni d’amore.

giovedì 27 agosto 2015

La triade incantatrice di Baudelaire


Vino, hashish, oppio: 
un viaggio tra le sorgenti di ebbrezza che annullano la volontà dell’uomo

Pietro Citati, "Corriere della Sera", 25 agosto 2015

Pubblicato nel 1851 e nel 1859 I paradisi artificiali (a cura di Giuseppe Montesano, traduzione di Giuseppe Montesano e Milo De Angelis, con uno scritto di Jean-Paul Sartre, Oscar Mondadori) è uno dei capolavori di Charles Baudelaire: un libro di grande ricchezza intellettuale, compattezza, ironia, intensità lirica. Parla di tre droghe, o paradisi artificiali: il vino, l’hashish, l’oppio, e delle condizioni spirituali parallele a queste droghe, studiate e insegnate da un grande medico-filosofo, o filosofo-poeta.
Il medico-filosofo, o filosofo-poeta, è Baudelaire: la prima forma che egli assume è quella di Thomas De Quincey, autore delle Confessioni di un mangiatore d’oppio e di Suspiria de Profundis. De Quincey era uno spirito coltissimo, esercitato negli studi della forma e del colore: un cuore tenero, provato nella sventura e da un oscuro sentimento di colpa: un’intelligenza che si spingeva negli ardui studi della metafisica; un’immaginazione ardente, prematuramente amata dal fertilizzante dolore. Egli era un umorista, mentre Baudelaire non lo era: uno spirito sinuoso e digressivo, un pensiero a spirale, simile a quello di un tirso, mentre la vocazione di Baudelaire aboliva le squisite divagazioni. Le sue ali erano candide come quelle di un angelo, mentre Baudelaire aveva immerso le grandi ali angeliche nelle onde dello Stige e dell’Acheronte.
De Quincey e Baudelaire avevano due cose in comune. La prima era una delicatezza femminea di epidermide, e quella specie di androginia senza la quale il genio più virile resta incompleto. La seconda era un’estrema delicatezza e sottigliezza di sensazioni, che ingrandiva smisuratamente i particolari più comuni della vita. Baudelaire non si accontentò di questa somiglianza naturale. Scrivendo I paradisi artificiali, citava continuamente De Quincey: traduceva, parafrasava e commentava Le Confessioni, al punto che il suo libro è la continuazione e moltiplicazione del primo. Proprio così, annegandosi nell’altro, dimenticando e perdendo la propria natura, Baudelaire diventò robustamente se stesso.

***
Come nelle Fleurs du mal, Baudelaire scrive un inno al vino: 
«Voi bevitori malinconici, bevitori gai, voi tutti che cercate nel vino l’aiuto e l’oblio»; «Gioie profonde del vino, chi non vi ha conosciuto? Chiunque abbia avuto un rimorso da assopire, un ricordo da evitare, un dolore da annegare, un castello in aria da costruire: tutti infine ti hanno invocato, dio misterioso nascosto nelle fibre della vite». 
Se vogliamo comporre un’opera buffa, dobbiamo bere vino di Champagne, se vogliamo comporre musica religiosa, dobbiamo bere vino del Reno, se vogliamo comporre musica eroica, dobbiamo bere vino di Borgogna. Coloro che elogiano il vino sono soprattutto quegli esseri misteriosi che vivono nelle deiezioni delle grandi capitali, cercando di catalogare i rifiuti. Tutto ciò che la città ha rigettato, tutto ciò che ha perduto, disdegnato e fatto a pezzi: gli archivi del vizio, il cafarnao degli scarti — tutto ciò è l’ambiente naturale del vino.
A sua volta il vino ci parla: «Uomo, mio beneamato, io voglio levare verso di te un canto pieno di fraternità, un canto colmo di gioia, di luce e di speranza».
 Vino ed uomo diventano, fusi insieme, un solo dio, e volteggiano verso l’infinito, come gli uccelli, le farfalle, i fili di vergine dei campi, i profumi e tutte le cose alate. Il vino amministra oltre misura la personalità dell’essere pensante, generando quello Spirito Santo che è l’uomo superiore. Non dobbiamo tuttavia illuderci. Il vino ha, o può avere, qualcosa di terribile. «Quanto sono spaventose le sue voluttà folgoranti e i suoi snervanti incantesimi».
Gli effetti dell’hashish sono molto più potenti di quelli del vino, sebbene entrambi creino nelle lontananze la figura dell’uomo-dio. Mentre il vino è profondamente umano, l’hashish ci isola dagli altri: mentre il vino è puramente vitale, l’hashish esaspera la personalità umana, procurando la felicità assoluta con tutte le ebbrezze, le follie di giovinezza e l’infinita beatitudine. Appena lo assumiamo, suscita in noi un’ilarità bislacca ed irresistibile: le parole più banali assumono una fisonomia bizzarra: un demone ci invade: ci abbandoniamo ai giochi di parola, ai calembours, agli accostamenti d’idee del tutto improbabili. Conosciamo una meravigliosa intelligenza del comico in tutte le sue forme.
Senza che quasi che ne accorgiamo, percepiamo una sensazione di freddo e una grande debolezza. I nostri occhi si dilatano. La faccia si fa livida. Le labbra si assottigliano. I sensi diventano di un’acutezza e di una sottigliezza estrema. Gli occhi trapassano l’infinito. Cominciano le allucinazioni. Gli oggetti esterni assumono apparenze mostruose: entrano nel nostro essere, e noi entriamo in loro. I suoni hanno un colore, i colori una musica. L’eternità dura un minuto. Viviamo vite nello spazio di un’ora. L’acqua assume un fascino incantatore e terrificante. Amiamo le acque limpide, correnti o stagnanti: gli specchi, i giochi d’acqua, le cascate armoniose, l’immensità azzurra del mare.
A intervalli la personalità svanisce. Il tempo scompare. Scende la felicità assoluta: una beatitudine calma ed immobile. Tutti i problemi filosofici sono risolti. Ogni contraddizione diventa unità. L’uomo è promosso dio. L’amore prende le forme più singolari, e si presta alle combinazioni più barocche. Ma il giorno dopo aver assunto l’hashish, ci accorgiamo che è un perfetto strumento satanico, che ci avvicina rapidamente alla perfezione diabolica, negando la coscienza del peccato. Una voce (la nostra) ci dice: «Tu ora hai il diritto di considerarti superiore a tutti gli uomini. Tu sei un re che i passanti non riconoscono».
Il vero paradiso artificiale, secondo Baudelaire è quello che viene donato dall’oppio — questo carcere, al cui confronto tutte le altre catene dell’amore e del dovere non sono che catene di garza, tessute di ragnatele. Nel tremolio di una foglia, nel colore di un filo d’erba o di un trifoglio, nel ronzio di un’ape si produce un processo magnifico e variopinto di pensieri rapsodici. L’hashish, nei suoi effetti, è molto più veemente dell’oppio: esso è un demone disordinato, mentre l’oppio è un seduttore calmo. I piaceri dell’oppio sono di natura grave e sobria: non ha il carattere dell’allegro, ma quello del pensieroso. Il suo effetto resta uguale a se stesso per otto o dieci ore, con un ardore eguale e sostenuto. Mentre il vino turba le facoltà mentali, l’oppio vi introduce la suprema armonia: il controllo, la calma, la disciplina. Reintegra l’uomo nel suo stato naturale, liberandolo dalle amarezze che lo hanno corrotto. Placa ciò che era stato agitato: concentra ciò era stato sparpagliato.
Tutti i paradisi artificiali negano e annullano la volontà: l’uomo che può procurarsi all’istante, con un cucchiaio di confettura, tutti i beni del cielo e della terra, rifiuta di acquistarne anche una millesima parte con la volontà e il lavoro. Ma proprio questo esaltava in se stesso Baudelaire: la strenua, estrema, crudele forza di volontà, che dominava la sua infinita ricchezza di sensazioni e d’impressioni, dando loro un’unità compatta ed armoniosa.