MASSIMO RECALCATI
"La Repubblica", 24 aprile 2016
Chi non ha mai fatto l’esperienza traumatica dell’incontro con la muraglia insuperabile della pagina bianca? Nelle scuole coi primi temi, nelle prove degli esami, nella lettera inviata a un padre, a un figlio o all’amata. Ogni volta la pagina bianca si è eretta di fronte a noi come una montagna impervia che non si lascia scalare. Gli scrittori, i pittori e i musicisti conoscono forse meglio di tutti la dimensione spietata di questa muraglia. Van Gogh scrive al fratello Theo che può passare ore di fronte al ghigno feroce e beffardo della tela bianca sentendosi paralizzato, incapace di agire. Flaubert, Kafka o Beckett hanno descritto l’esperienza del trovarsi schiacciati di fronte alla nudità impossibile da violare della pagina bianca. Philip Roth ne L’umiliazione descrive la fine di una magia che ha caratterizzato il rapporto di un attore di teatro col palcoscenico. Il suo declino è iniziato quando, prima di recitare, comincia a pensare di recitare. L’impeto che gli consentiva di superare la parete insidiosa del silenzio perde così il suo vigore per lasciare il posto a una sequela di dubbi: «Non ce la farò, non ne sarò capace, mi hanno dato una parte sbagliata, sto facendo il passo più lungo della gamba, sono un impostore, non so nemmeno recitare la prima battuta».
Perché la pagina, la tela bianca o il silenzio di un teatro possono trasformarsi in incubi, in tabù impossibili da violare? In realtà noi sappiamo che la pagina, la tela e il silenzio non sono luoghi vuoti, puri spazi insaturi da riempire. Noi sappiamo che questi luoghi sono strapieni, farciti di segni, di storia, di sapere, di tutto ciò che è già avvenuto prima. Come si può scrivere ancora dopo Proust? Come si può dipingere ancora dopo Picasso o dopo Burri? È un fenomeno che in forma meno altisonante intercettiamo nelle storie di quei giovani che pur avendo avuto percorsi scolastici brillanti si schiantano di fronte al compito di scrivere la loro tesi di laurea. Qualcosa impedisce loro di oltrepassare le colonne d’Ercole della pagina bianca. Cosa? Quale è il nome di questo spettro paralizzante?
Freud e Lacan hanno ricondotto l’inibizione intellettuale che impedisce il gesto della creazione a una fissazione libidica allo “stadio anale”. Nella fase anale il bambino fa esperienza della possibilità per lui inedita di trattenere o rilasciare le proprie feci. Questo potere decisionale rovescia il rapporto di subalternità che aveva sino a quel momento condizionato i rapporti con i suoi genitori. Trattenendo le feci egli scopre che la madre aspetta il prodotto dei suoi sforzi con trepidazione. Mentre nella fase orale il bambino appare subordinato alla madre alla quale domanda quello che gli manca e che desidera — il seno — , in quella anale è la madre che invoca la cacca del suo bambino. Rilasciare le feci significa allora dare soddisfazione alle attese dell’Altro. «Ma che bella la tua cacca! Davvero speciale! Sembra oro!». Così una madre (o un padre) possono gratificare il proprio cucciolo nell’atto davvero “prodigioso” — il primo in assoluto — di creare qualcosa da sé, con le sue proprie forze. Ma rilasciare le proprie feci significa anche per il bambino sottoporsi al giudizio dell’Altro, ovvero perdere tutto quel potere che il trattenerle gli attribuisce, innanzitutto quello di coltivare una immagine ideale di sè. Inizia così il tempo della ruminazione dubbiosa: «E se poi non fosse davvero “oro”?». È questo il tarlo che affligge il bambino che resta fissato alla fase anale e che ritorna a scuoterci quando ci troviamo di fronte allo spazio placido e orribile della pagina bianca.
Una volta che scrivo, una volta che rompo il ghiaccio e decido di prendere la parola, una volta che rinuncio al privilegio di trattenere il mio prodotto presso me stesso, sono obbligato ad entrare nello scambio e nel commercio con l’Altro. Non potrò più evitare di essere sottoposto al suo giudizio. In questo senso restare inchiodati al di qua della soglia della pagina bianca permette all’allievo inibito come al grande scrittore, di preservare l’illusione infantile di generare delle feci d’oro. Infatti, sino a che si asterrà dall’atto creativo, egli potrà coltivare il sogno di produrre un materiale unico, impeccabile, ovvero di trasformare, come un novello re Mida, i propri escrementi in oro coltivando una immagine ideale di sé. Se invece cedesse si esporrebbe alla dimensione senza rete dell’atto e la sua intera vita potrebbe davvero correre il rischio di essere scoperta come una misera cosa. Ma è proprio nel disperato tentativo di evitare il sortilegio maligno che il creatore inibito finisce per restare imprigionato in una cella. In questo senso più si è vittima della propria immagine ideale più cresce l’inibizione intellettuale. Servirebbe allora assumere la verità scabrosa con la quale Lacan traumatizzò positivamente Umberto Eco: «Mangia il tuo Dasein!», gli disse una volta di fronte a uno strano dessert, ovvero mangia le feci di cui sei fatto, non restare prigioniero della tua immagine ideale. In fondo, come recita Fabrizio De André, dai diamanti non nasce niente; è dal letame che nascono i fiori.
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