domenica 13 dicembre 2015

Tassoni, la rivincita dello sberleffo




Modena celebra il poeta della Secchia rapita 
che fustigò i palloni gonfiati dell’Italia cortigiana 
e nel cupo ’600 rivendicò la libertà del pensiero

Bruno Ventavoli, "La Stampa", 11 dicembre 2015

Se qualcuno fosse preso dall’uzzolo di leggere la Secchia rapita penerebbe a trovarla in libreria. Il paradosso che sia più facile imbattersi in un’edizione spagnola o inglese nel web la dice lunga sull’oblio in cui è caduto il genio della poesia eroicomica. Certo pesa la bocciatura di Croce che considerava il Tassoni un ripetitivo elencatore di personaggi, borghi, colpi di spada. Ma tanta dimenticanza è ingiustissima. Anzi, proprio quel poetare che suonava così monocorde rispetto alla fantasia lunare d’un Ariosto appare satiricamente attuale, quasi che le enumerazioni di gaglioffi, volgarità, viltà di polis padane, fossero tapiri in ottave d’una Striscia la notizia secentesca consegnati ai cortigiani di quell’Italia malmessa, rissosa, mediocre.
A risarcirlo di fama postuma provvede la sua Modena che per i 450 anni della nascita dedica convegni, il restauro della statua ai piedi della pendula Ghirlandina, e la mostra che si apre domani a Palazzo dei Musei (fino al 13 marzo) «Alessandro Tassoni spirito bisquadro» con dipinti ispirati al poema, i bellissimi disegni di Antonio Possenti, antichi volumi - tra cui il Vocabolario della Crusca e un Orlando furioso - postillati a mano dal poeta stesso. E poi, al centro, la mitica secchia che per l’occasione è stata sottoposta al carbonio 14 come una laica sindone: e (magnifico scoop!) l’esame ha stabilito che la reliquia di legno strappata a chissà quale pozzo risale davvero al ’300, ed è quindi autenticissima e non una millanteria mutinense.
Intellettuale poliedrico
La divertente esposizione (curata da Cristina Stefani, Grazia Biondi, Francesca Piccinini, Maria Cristina Cabani, Gabriele Bucchi), più che celebrare, illumina i vari aspetti di quell’intellettuale poliedrico, cortigiano, erudito, e soprattutto spirito beffardo. «Bisquadro», appunto, come egli stesso si definì quando entrò nell’Accademia degli Umoristi a Roma, di cui fu Principe tra il 1606 e il 1607, alludendo al suo essere «fuori di squadra», sempre irregolare e liberissimo. Anche a costo d’una vita non fortunata come avrebbe meritato. Con autoironia, e un velo d’amarezza, si fece ritrarre con un fico in mano, a dir per metafora che dalla cultura non ricavò un bel niente.
Nato nella Modena ghibellina, puzzolente per le cloache a cielo aperto, ma pronta a rivestirsi di splendore dopo che gli Estensi sfrattati da Ferrara la elessero capitale del Ducato, Tassoni fu segretario a Roma del cardinale Colonna, poi in Spagna, e a Torino con Carlo Emanuele I di Savoia, nel quale riponeva grandi speranze antispagnole. Ma fallì ogni tentativo di vincere la «contraria fortuna»: «come leggista, come segretario, filosofo, istorico, politico, poeta... e sempre mi sono ritrovato peggio che prima». Al crepuscolo della vita (morì nel 1635 a Modena), dopo aver scampato la peste ma non i veleni delle corti, si rinchiuse a coltivare fiori, il proprio animo, vendendo la preziosa biblioteca per far su qualche scudo.
Il suo capolavoro, la Secchia rapita, narra sì delle sanguinose guerre che gli emiliani si combatterono appoggiati gli uni dall’imperatore e gli altri dal Papa, concluse con la fulgida sconfitta, a Zappolino, inferta ai bolognesi dai modenesi, che presero per trofeo la «vil secchia di legno». Ma è soprattutto una vendetta su alcuni nemici con i quali aveva ingaggiato una violentissima contesa partita dal Petrarca e trascesa in violenti insulti pubblici. Uno, Maiolino Bisaccioni, pedina piccola, finì in galera. Il più odiato però era Alessandro Brusantini, accusato di aver usato arti negromantiche per estrarre un tesoro da una montagna, e noto perché sua moglie, irrequieta ferrarese, l’aveva tradito con un cavaliere di dubbia fama (e aveva pure cercato di ucciderlo).
Il Culagna alla berlina
Quel che Tassoni non ricevette dalla giustizia, perché il signore vantava amicizie potenti e girava con bravacci violenti pronti a ferir di spada, lo ottenne con la Secchia, ove lo derise immortalandolo nel conte di Culagna, gran fenomeno a parole, ma codardo, vanitoso, ribaldo, che ninfeggia con le donne nonostante sia sposato. La demolizione è totale. Non solo vien respinto dalla bellicosa Renoppia di cui s’è invaghito, ma anche cornificato dalla piacente moglie con un romanaccio più esperto d’un Siffredi, che «or la strigne or la morde or la rimira, ed ella cupida, dolente, languida» pare soddisfatta. A coronar lo scherno, vien preso da una colossale «cacarola» che impuzzolentisce la città, e si rinchiude in casa pieno di fifa quando dovrebbe finire il duello con il rivale.
Tassoni scrisse e riscrisse il suo poema in 12 canti per dribblare le censure e lo sdegno di chi trovava eccessiva la sua satira. Perché, oltre al Culagna, fustigò l’avarizia dei Papi che vendevano indulgenze, la stolidità di chi comprava con prosciutti titoli fasulli per vantare nobiltà, la crudeltà dei signorotti (che squartavano o eviravano i vinti), la poesia d’Omero, i capitani di ventura, gli eruditi, insomma tutto il mondo padano, le corti europee, e pure l’Olimpo degli dei. Per converso celebrò osterie, mostarde di Carpi, maioliche faentine, e la superiorità dei modenesi sui vicini, rammemorando che esiste una sentenza duecentesca per la quale una «testa quadra reggiana», qualora incontri un modenese, è «ubbligato» a levargli scarpe o coturni e a pulirli per rendergli onore.
L’immensa geniale erudizione risplende anche nei dieci libri dei Pensieri, opera ancora più dimenticata della Secchia, che in un periodo non certo felice per la ragione (Bruno fu arso vivo e Galilei costretto ad abiurare), annuncia la modernità, mettendo in discussione Aristotele e le conoscenze indiscusse: «se non resta l’intelletto convinto» occorre rifiutare qualsiasi verità per non lasciarsi mai portare dal «torrente delle opinioni comuni come pezzo di legno».
E così, con una bulimica, zibaldonesca fame di sapere, discetta sull’arte della guerra, la medicina, le virtù dei principi, sul perché il cielo e il mare paiono azzurri, sul perché da un padre grande può nascere un figlio idiota o viceversa (dipende dalla foga dell’amplesso)… insomma affronta curioso qualsiasi branca della cultura in centinaia di quesiti.
Il becco e il cornuto
Certo, scambia lucciole per lanterne. E in tema di cosmogonia dà torto a Copernico a sostenere che il Sole sta al centro dell’universo. Ma lo afferma non con la prona obbedienza alla Verità indiscutibile delle Scritture, bensì con brillanti deduzioni. Come a insegnarci che la ragione può dire castronerie, l’importante è che - appunto - ragioni, non s’inchini mai alle autorità. E non disdegni l’umanissimo brodo di vizi, bassezze, debolezze in cui sguazziamo.
Con la stessa solennità con cui discute dei corpi celesti, ad esempio, si prende la briga di discettare sulla differenza tra «becco» e «cornuto». Ebbene, dir cornuto non è villania, perché le corna in origine erano segno di nobiltà e grandezza. Becco, invece, è offensivo perché si riferisce a quell’animale «il quale ha quest’ignominiosa proprietà che, dove tutti gli altri maschi combattono per la femmina e guerreggiano col rivale, egli l’accarezza e lo lecca. E il dir becco ad un ammogliato significa ch’egli si compiace et ha gusto che altri si giaccia colla sua moglie».
Conviene saperle ’ste sottigliezze lessicali, e non per accademica pignoleria da Crusca (che peraltro Tassoni bacchettò). In un mondo ove i Culagna, pur se becchi, imbelli, voltagabbana, rimangono sempre a galla come «palloni di vento pregno», bisogna balestrare la quadrella giusta per sgonfiarli. Almeno a parole.

La rivincita filosofica delle sit-com sulle serie tv



Gabriele Romagnoli

"La Repubblica", 11 dicembre 2015

Come in Nietzsche o in Borges l’eterno ritorno di “Friends” continua ad appassionarci. Mentre “Mad Men” invecchia...
Se il filosofo Friedrich Nietzsche, lo scienziato Hugh Everett e perfino lo scrittore Jorge Luis Borges prima di perdere la vista potessero sedersi su un divano, azionare il telecomando e assistere a un’ennesima replica della sit-com “Friends”, sorriderebbero felici. Non alle battute dei sei ragazzi di New York, ma alla conferma delle loro teorie: l’eterno ritorno, gli universi paralleli, la vita come fiction. Tutto (ri)comincia in questa fine 2015. Il canale satellitare Fox decide di ritrasmettere in alta definizione la famosa serie americana che debuttò nel 1994 e si protrasse per dieci stagioni fino al 2004: 236 episodi di 20 minuti ciascuno, quasi 79 ore di vita per sei personaggi e i loro autori. In teoria. In realtà la loro esistenza si è estesa nello spazio e nel tempo, non è terminata, non ha seguito uno svolgimento lineare, si è arrotolata su se stessa, riprodotta, sovrapposta e confusa. Già alla fine degli anni Novanta, dato il successo planetario del programma, era possibile fare un esperimento: bastava avere un televisore in grado di captare qualche centinaio di canali nel mondo e si poteva assistere a Friends da mattina a sera. Alle otto in Perù, a mezzogiorno in Francia, verso sera in Polonia. Cambiavano le lingue dei doppiatori (unico per tutti quello est europeo), ma anche la condizione dei protagonisti. Nel sovrapporsi dello spazio e del tempo Chandler era magro, poi improvvisamente grasso, fidanzato con la terribile Janice o con Monica.
L’estenuante storia d’amore tra Rachel e Ross viveva una schizofrenia simile a quella della progressione delle puntate e l’inversione cronologica poco cambiava, come nel virtuosistico romanzo a ritroso di Martin Amis La freccia del tempo. In ventun anni è (ri)successo di tutto e tutto continua a (ri)succedere. Gongolerebbe Nietzsche, sostenitore di un’ontologia circolare per cui l’universo rinasce e rimuore secondo cicli temporali necessari (i palinsesti) ripetendo in eterno un determinato corso (la trama prestabilita). Ma altrettanto soddisfatto sarebbe Everett, lo scienziato che ha teorizzato il multiverso, più noto come sistema di universi paralleli, in cui ogni evento si può ripetere infinite volte, è già accaduto e riaccadrà. Infatti infinite volte Rachel e Ross si lasciano e si riprendono. E infinite sono le varianti che infinitamente accadranno: si detestano, si vogliono bene ma non al punto di tornare insieme, si ignorano. E se una cosa accade qui e ora, l’altra accadrà in Canada domani. Esulterebbe Borges: la vita è pura finzione, menzogna raccontata infinite volte, sino al punto da renderla vera. Perché se è vero questo, lo è anche il contrario: la fiction è vita. O meglio: lo è la sit-com.
Il dubbio si è insinuato lentamente. Siamo da anni così impegnati a celebrare la grandezza delle serie televisive, quelle a lunga gittata, un’ora per dodici episodi per sei stagioni o più, da non esserci accorti che il segno del tempo (e la sua distorsione) stava nelle sit-com. La traccia era in una frase così ricorrente da diventare luogo comune: le serie sono il nuovo romanzo. Appunto: letteratura, non vita. Le serie guardano indietro: Mad men è ambientata negli Anni Sessanta, 1992 si retrodata già dal titolo. Fuggono dalla realtà come Lost o la prefigurano apocalittica come Walking dead. Le sit-com si radicano nel qui e ora, entrano in casa, in una famiglia, in un gruppo di amici e non ne escono più. Se vuoi sapere come era l’America in un certo periodo della sua storia guardi All in the family: pregiudizi, conformismo e nazionalismo. Se vuoi sapere com’è oggi guardi Modern Family: il nonno ricco ha sposato una colombiana formosa, la coppia gay ha adottato una bambina vietnamita, i figli “regolari” sono quelli strani.
Chuck Lorre, il più prolifico e temibile autore di sit-com d’America, ha con ironia rivendicato il potere di creazione del genere dando all’ultimo successo globale il titolo di Big Bang Theory. Qui l’origine dell’universo deflagra, inevitabilmente, in due appartamenti sullo stesso pianerottolo, ritrovo di sei personaggi, ma uno è indiano, uno ebreo, uno ha la sessualità repressa e fuori, invisibile e immanente come i genitori dei Peanuts, c’è l’America di Obama. Tanto consapevole Lorre è del potere della sit-com di registrare e affermare le svolte sociali da aver deciso di concludere Due uomini e mezzo, costruita sugli eccessi del protagonista Charlie Sheen e sopravvissuta alla sua morte scenica, con un matrimonio tra i due protagonisti al sol fine di poter divenire padri, pur restando etero.
Così va, qui e ora. Destinato a essere qui e allora, ma in un eterno presente in cui quel che è accaduto non cessa mai di ripetersi e per questo può continuare a fornire un punto di riferimento. Come potrebbe altrimenti il presidente del consiglio Matteo Renzi citare Happy Days? Può farlo perché, tra la potenza esplosiva della prima trasmissione e l’eterno ritorno di Richie e Fonzie, quell’universo non è mai svanito dall’immaginario e tornerà, ancora. Riguardare una sit-com è un atto di nostalgia per come si era e di attenzione per capire un particolare dell’episodio che non si era colto. Difficile riguardare, in parte o per intero, I Soprano o Breaking bad: l’investimento di tempo non è ripetibile, soprattutto sapendo già come va a finire. La sit-com non finisce veramente, anche se per l’ultima puntata di Friends o Seinfeld si è fermata l’America. Semplicemente si conclude un ciclo destinato a ripetersi in quell’ontologia circolare di universi , famiglie, amici, nati dal big bang e vissuti per sempre, sia uguali a se stessi che in infinite variazioni. Fino all’istante in cui ci chiederemo se non sia piuttosto vero che sei ragazzi di New York, seduti davanti al divano nel loro appartamento, stiano guardando le nostre vite che scorrono. E ancora. E ancora.

La storia non si fa col calendario

Si pensi a Carlo Magno o a Giulio Cesare: le loro scelte incisero sui successivi secoli
Nel valutare lo spessore degli eventi la durata lunga o breve è un criterio molto debole

Giuseppe Galasso

"Corriere della Sera", 12 dicembre 2015

Torniamo a parlare della «durata», la categoria che tanta parte ha avuto, e continua ad avere, negli studi storici dalla metà del Novecento in poi. Non per parlare, però, ancora una volta, del peso che l’adozione di questa categoria ha avuto rispetto alla storia politica e alla massiccia «invasione» (come alcuni la definiscono) del suo campo da parte delle discipline sommariamente (e approssimativamente) indicate come «scienze umane». Un peso certamente non fausto, e ancor più fuorviante, se si considera il dato incontestabile che quella che si intende per «storia politica» non ha mai presentato una tipologia unica. Ognuno dei suoi grandi autori differisce dall’altro, in una varietà impressionante e altamente istruttiva di moduli euristici e narrativi, che formano l’incommensurabile ricchezza, non solo culturale, della storiografia occidentale (per stare solo a essa) dai tempi di Erodoto a oggi. Quando si parla quindi della storia politica come pura storia degli eventi, dei fatti militari, politici, diplomatici, istituzionali e simili, bisognerebbe, quindi, avere ben chiaro che questa storia è stata l’opera di autori che nei loro rispettivi moduli storiografici e letterari, e per i valori e le idee che li hanno ispirati, rappresentano ciascuno un mondo diverso. Tanti storici politici, insomma, tanti tipi o casi di storia politica.
Ma — ripetiamo — non è di questo che vogliamo parlare qui, bensì della famosa «durata». La sua distinzione in breve e lunga è di immediata percezione. L’alternativa posta dai due aggettivi sembra non lasciare spazio alcuno a una composizione della loro così netta antinomia. A guardare le cose più da vicino si scopre, però, che non è del tutto così, e per almeno due serie di ragioni.
La prima serie dovrebbe essere di più semplice approccio. Si tratta della facile constatazione che lunga e breve durata non sono due universi chiusi in se stessi, incomunicanti e incomunicabili nella loro azione e proiezione storica. In altre occasioni ho parlato di Alessandro Magno, di Giulio Cesare, di Carlo Magno, ma sono innumerevoli gli esempi possibili di condottieri, guerre, conquiste, dominazioni che dimostrano quanti e quali possano essere i rapporti, non sospettabili di primo acchito, tra lunga e breve durata. In questi casi l’azione di breve durata — una guerra, una conquista, l’avvio o le variazioni di dominazioni e imperi o regni di nuova istituzione, l’imposizione di determinate leggi e ordinamenti, e così via dicendo — pone le premesse e stabilisce le condizioni per svolgimenti e realtà della lunga durata.
Bisogna, inoltre, precisare che, quando parliamo qui di lunga durata, non ci riferiamo, come dovrebbe essere ovvio, alle lunghe durate di imperi e di Stati o di determinati equilibri politici. Ci riferiamo ai processi strutturali, antropologici etc. che in quei dati politici hanno solo una premessa o condizione. Tali processi — nella teorizzazione più autentica della lunga durata — si svolgono, infatti, sostanzialmente per propria natura e con propria logica; e sono essi a imporsi, in ultima analisi, nel fluire sotterraneo di mentalità e atteggiamenti, ai quadri politici in cui si ritrovano.
Più complessa e, soprattutto, più importante è la seconda serie di ragioni. La durata, lunga o breve che sia, è sempre un elemento temporale. Il tempo storico non è, però, il tempo del calendario. Non si misura, cioè, solo con il numero dei secoli o degli anni o dei giorni. Il tempo storico ha misure ancora più essenziali nella densità, nella qualità, nella velocità, nella complessità, negli effetti, nel tono, nella rilevanza degli eventi che in esso hanno luogo e nella sensibilità e mentalità con la quale il tempo è percepito e vissuto.
Perciò anche nel linguaggio corrente si dice spesso che certi giorni contano più di molti anni. Perciò uno storico del valore di Jacques Le Goff distinse acutamente fra il «tempo della Chiesa» e il «tempo del mercante». Perciò Adolfo Omodeo amava parlare di «primavere storiche». Perciò parliamo immaginosamente di «secoli bui» e di «secoli d’oro». Perciò la mentalità economica moderna ha introdotto la massima che «il tempo è denaro». Perciò una volta si sproloquiava sulla differenza fra la concezione orientale del tempo (incline più alla meditazione che all’azione) e quella occidentale (attivistica, rapida, frenetica: si ricordi il persiano di Montesquieu a Parigi).
Sono modi — questi, e gli altri, numerosissimi, citabili al riguardo — più o meno stringenti e pertinenti di considerare ed esemplificare questa materia. Valgono, comunque, indubbiamente, a darne un’idea schietta e sintetica. Soprattutto, poi, permettono di affermare e provano che l’antinomia di breve e lunga durata è più parziale e meno sostanziale di quanto si pensi. In quell’antinomia irrompe sempre, sottomettendola a sé, la forza discriminante del tempo storico in tutta la complessità degli aspetti che sono suoi.
Ciò significa, in ultima analisi, che il tempo non è determinato dal calendario, ma dalla storia. E non soltanto questo. Anche per il tempo storico vale, infatti, ciò che del tempo ci hanno detto da due secoli a questa parte filosofi come Kant, scienziati come Einstein e coloro che hanno sviluppato o modificato le loro vedute (non molto, comunque, né sostanzialmente, a mio sommesso avviso). In altri termini, e un po’ alla grossa, il tempo storico è puramente e semplicemente tempo, ma diventa un tempo particolare non tanto perché è teatro di «quella guerra illustre contro il tempo», che, secondo lo pseudo-anonimo manzoniano, impone alla caducità del tempo nella sua successione calendariale la memoria imperitura della storia. Lo diventa perché è una dimensione essenziale e primaria, costitutiva e imprescindibile — non calendariale e non filosofico-scientifica — del mondo umano nel suo divenire storico.
Da questo punto di vista l’antinomia di breve e lunga durata è un criterio di merito e di metodo assai debole rispetto alla essenzialità del tempo storico, che le compenetra entrambe, ed entrambe piega alle sue logiche e alle sue dinamiche. Né, con ciò, quell’antinomia perde tutto il suo senso e la sua utilizzabilità. Viene soltanto ricondotta nei limiti che sono suoi, mentre una terza durata non c’è, e terza durata non è in alcun senso il tempo storico in cui sia la breve che la lunga sono inscritte.

domenica 15 novembre 2015

Amori e cavalieri, Medioevo sui muri


Dal Trecento le immagini degli eroi cortesi 
riempiono chiese, palazzi, castelli. E scalzano i santi

Carlo Bertelli, "Corriere della Sera - La Lettura", 15 novembre 2015

«Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse». Così ha inizio, nella Commedia, il toccante racconto di Paolo e Francesca. I romanzi cavallereschi parlavano di amore e di passioni e proponevano modelli di comportamento liberi dalle convenzioni. Il loro successo si dimostra nell’onomastica del Tre e Quattrocento, dove i nomi di Ginevra, Lionello, Arturo s’intrecciano e cacciano gli usuali santi patroni. Nel suo nuovo libro Storie al muro. Temi e personaggi della letteratura profana nell’arte medievale (pubblicato da Einaudi) Maria Luisa Meneghetti, sollevato lo sguardo dalla lettura delle carte, che conosce in modo mirabile, guida il lettore a scoprire gli echi dei romanzi nelle loro rappresentazioni in figura, come una «letteratura parallela di testi iconici». Da ritrovare nei manoscritti, naturalmente, ma anche in immagini monumentali su muro o in pietra, le quali hanno prodotto un rapporto quasi quotidiano con la nuova mitologia, i cui eroi sono così presenti da apparire persino sui muri delle chiese, come Rolando e Oliviero, che accolgono i fedeli dagli stipiti del portale di San Zeno a Verona.
Stando all’Entrée d’Espagne, un testo che si conserva alla Biblioteca Marciana di Venezia in un codice allestito e miniato alla corte dei Gonzaga, e secondo altrui testimoni, come la poco più antica Cronaca dell’arcivescovo Turpino, prima di uccidere il musulmano Ferracutus, Rolando gli snocciola i punti essenziali del credo niceno, mentre la stessa rotta di Roncisvalle aveva ormai assunto il tono mistico di un sacrificio. Non sempre era però possibile conformare le leggende alle norme. Sui muri della cattedrale di Borgo San Donnino (Fidenza), la storia di Rolando comprende, oltre alla raffigurazione della sua infanzia selvaggia nei boschi presso Sutri, l’adulterio della madre, Berta, con Milon, che la fruga sotto la gonna, mentre lei, sorridente, stringe un fiore al seno.
Avveniva che nella trasmissione orale, i cicli cavallereschi subissero adattamenti e cambiamenti, che ora solo un occhio molto esperto è in grado di riconoscere e ricondurre alle fonti, ma anche pittori e scalpellini intervenivano ad arricchire il racconto.
Il luogo prediletto per la rappresentazione di storie di dame e cavalieri era, evidentemente, il castello. A Gradara non vi è nessuna sala decorata con le storie di Lancillotto, come avviene altrove, dove le storie dipinte sui muri potevano apparire come gesta di quasi antenati, o per lo meno di personaggi-modello, come c’insegna la frequenza con cui i rami degli alberi genealogici delle grandi famiglie nobili accolgono eroi troiani e romani o delle saghe nordiche. Esemplare, per il culto di Lancillotto, la raccolta di circa una quindicina di scene già in una sala del castello di Frugarolo nei pressi di Alessandria, oggi trasferite nel museo del capoluogo. Tutto l’insieme era in una sola «camera Lanziloti». Con mano maldestra, ma fedele al testo, vi è narrato per esteso il famoso romanzo di Lancilot du Lac, a cominciare da quando l’infante è adottato dalla misteriosa e luminosa Dama del Lago. Fortunatamente questa stessa storia ispirò uno dei più alti capolavori della miniatura lombarda al servizio di Barnabò Visconti.
È appunto su questi incanti della pittura, dovuti specialmente a Gentile da Fabriano e Pisanello, che si è costruita la nostra visione dorata del mondo cavalleresco, trasferito poi ai libri per l’infanzia del XIX e XX secolo. Più che nell’inseguimento di una trama narrativa, era nell’invenzione di miti come quello della Fonte della Giovinezza che i pittori cristallizzavano gli ideali del mondo aristocratico, come avviene negli affreschi di Aimone Duce nel castello della Manta o nello splendore d’un torneo, come negli affreschi di Pisanello nel palazzo ducale di Mantova. Ma che aspetto avevano i cantori di questi racconti insieme avventurosi e commoventi? In un’iniziale del celebre codice Manesse, il più ricco e famoso canzoniere tedesco, Walther von der Vogelweide si presenta da solo umilmente seduto: «Io sono sopra una pietra»; Inghifredi da Lucca s’inginocchia e prega devotamente Amore; Guido delle Colonne, che in un’iniziale miniata appare cavalcato da Amore, si dichiara: «Amor ke lungamente m’a’ menato a freno strecto, sença riposança».

domenica 1 novembre 2015

Sinestesia audiovisiva. La musica che ispira Kandinsky


V. Kandinsky, Composition VII, 1913
Arnaldo Benini

"Il Sole 24 ore - Domenica", 1 novembre 2015

Edgar Allan Poe, nel 1844, scrisse che quando sentiva il ronzìo di una zanzara vedeva un raggio arancione, e viceversa. È il primo resoconto della sinestesia, sovrapposizione di una stimolazione vera e di una, di qualità uguale o diversa, che in realtà non c’è. L’esperienza di Poe era inconsueta, perché, di regola, la sinestesia é unidirezionale. È l’incrocio involontario di due sensazioni diverse, provocato da una stimolazione sola. Della doppia esperienza sensoriale in seguito ad una sola stimolazione sono capaci non più del tre-quattro per cento degli esseri umani. Fra i sinestetici d’entrambi i sessi, ci sono molti musicisti, poeti, scrittori, pittori e persone sensibili. La sinestesia, a differenza dell’immaginazione, è involontaria e insopprimibile. Si sente, ad esempio, un suono e si vede una macchia, o si percepisce un odore. Un numero, una lettera o una parola, letti, sentiti o anche solo pensati, sono associati costantemente ad un colore, o una sensazione tattile è provocata da un odore. La sinestesia più frequente è la cromestesia: si vedono colori sentendo suoni, il colour (o coloured) hearing degli autori anglofoni. La sensazione illusoria è semplice: sentendo un suono si vedono macchie di uno o più colori, mai un volto, un’azione o un panorama. Una mamma vedeva macchie gialle sgradevoli quando il figlio neonato piangeva. Franz Liszt sconcertava gli strumentisti di Weimar, di cui era Kapellmeister, con incitazioni come «più rosa, qui», «questo è troppo nero» oppure «ora voglio tutto azzurro»: la musica che aveva in testa era comunicata come colore. Il compositore Alexander Skrjabin vedeva un colore se l’emozione della musica era intensa. Il colore, diceva, accentua la tonalità. Egli richiedeva che il suo Prométhée Le Poème du feu fosse accompagnato da luci con colori cangianti, per sottolinearne le tonalità. Seduto accanto a Rimsky Korsakov a Parigi, Skrjabin gli disse che la musica che stavano ascoltando gli appariva gialla. Per Korsakov era dorata. Un brano successivo era violetto per l’uno e verde per l’altro. 
Le sinestesie, certamente su base genetica (molti sono i casi familiari), sono così varie che non si può pensare ad un meccanismo nervoso omogeneo. La causa potrebbe essere un collegamento particolarmente intenso fra o all’interno dei meccanismi percettivi. La visualizzazione del cervello durante le sinestesie mostra l’attivazione delle aree primarie dello stimolo (ad esempio le aree sopra e sotto la fessura di Silvio in caso di parole, di aree parietali in caso di numeri, di aree temporali superiori in caso di suoni) e aree della sensibilità indotta. Nella cromestesia l’area visiva primaria (compresa quella specifica dei colori) è attiva senza stimolo visivo esterno. Inoltre sono attive l’insula, intensamente connessa al sistema limbico, anch’esso assai attivo, e la corteccia prefrontale destra, probabile tramite alla coscienza. Esiste una connessione strutturale e funzionale intensa fra aree della sensibilità acustica, particolarmente attive ascoltando musica, e visiva. La base genetica non è stata identificata con certezza.
Paul Klee, Landschaft im Paukenton, 1920, Staatliche Museen zu Berlin, Nationalgalerie
La pittura astratta nasce in Wassily Kandinsky che fino al 1910 dipinge meravigliosi panorami di piccolo formato con colori intensi come sinestesia della musica. Kandinsky descrive un’esperienza cromestetica impressionante. A Mosca, nel 1895, durante il Lohengrin di Wagner al teatro di Corte, «I violini, i bassi profondi, e soprattutto gli strumenti a fiato scriverà nel 1913 incorporarono per me tutta la forza del tramonto. Vidi nella mente tutti i colori, che avevo davanti agli occhi. Linee selvagge e fantastiche s’incrociavano di fronte a me. Non osai dire che Wagner aveva dipinto musicalmente “la mia ora” [...] ma mi convinsi che la pittura può sviluppare la stessa forza della musica». Commentando la scenografia per Quadri di un’esposizione di Modest Mussorgsky a Dessau nel 1928 (uno dei suoi capolavori), Kandinsky riferisce di forme che «mi stavano davanti agli occhi ascoltando la musica». Forme astratte trasmettono emozioni altrimenti inaccessibili: l’analogia con la musica è che entrambe suscitano emozioni intense senza linguaggio e riflessione. «Il tono musicale scrive Kandinsky ha un tramite diretto con l’anima». Nella cromestesia le aree cerebrali del linguaggio e della razionalità non sono attive. L’impressione del Lohengrin, racconterà la moglie Nina, assieme alla vista, a Mosca nello stesso anno, di un Covone di fieno di Claude Monet, di colori senza forma, non lo lasciò più. Fu, dice Nina, l’alba dell’astrazione. Über das Geistige in der Kunst del 1911 e Rückblicke del 1913 sono la summa delle sue riflessioni. La prima opera astratta (un acquerello con figure di più colori in un movimento vorticoso) è del 1910. Nel 1911, dopo un concerto di Arnold Schönberg a Monaco, Kandinsky dipinse una delle sue opere più famose, Impression III(Konzert), straordinaria opera sinestetica di un’esperienza musicale. Quadri come Fuga del 1914, e i grandiosi Gedankenklänge (Suoni del pensiero) e Gegenklänge (Controsuoni) del 1924, Drei Klänge (Tre suoni) del 1926 e Klangvoll (Sonoro) del 1929, assieme a varie Komposition e Improvisation e alla scenografia per l’opera di Mussorgsky del 1928, confermano l’ispirazione musicale di Kandinsky, verosimilmente spesso nella forma della sinestesia. «Il colore esercita un influsso diretto sull’anima. Il colore è il tasto. [...] L’anima è il pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che ora con uno, ora con un altro tasto, fa vibrare l’anima umana», scrive in Über das Geistige in der Kunst. Non si conoscono esperienze cromestetiche dell’altro artefice dell’arte astratta, Paul Klee. L’affinità della sua pittura con la musica è però evidente, nonostante sia così diversa, per regolarità e disciplina, dalla libertà di tante opere di Kandinsky, suo collega al Bauhaus a Dessau fino al 1933 e amico di tutta la vita. Klee era un violinista provetto già da bambino. Amava soprattutto Bach e Mozart ma non disdegnava la musica contemporanea. Era amico di Ferruccio Busoni e a Dessau frequentò Béla Bartók, Paul Hindemith e Igor Strawinsky. 
Quadri come Im Bachschen Stil (Nello stile di Bach), e i meravigliosi Landschaft im Paukenton (Panorama al suono dei timpani), Polyphone Strömungen (Correnti polifoniche), Fuge in Rot (Fuga in rosso) e Notturno für Horn (Notturno per corno), dipinti fra il 1919 e 1929, furono composti probabilmente non per esperienza sinestetica (di cui non parlò), ma per analogia con l’emozione della musica. 

Nella grandiosa mostra di 200 opere di Kandinsky e Klee, che dal Centro Paul Klee di Berna è stata portata dal 21 ottobre alla Städtische Galerie im Lendbachhaus a Monaco di Baviera, una sala è riservata alla musica, dove si vede quanto l’ispirazione che muove i due artisti all’origine della pittura astratta sia l’espressione pittorica del trasporto musicale.
Klee & Kandinsky, fino al 24 gennaio 2016, Lenbachhaus, Monaco di Baviera

domenica 25 ottobre 2015

La falsa scienza


La necessità di un’etica comune contro gli impostori
Il documento del Cnr è un importante riferimento da cui partire per definire un modello di condotta standard

Elena Cattaneo, "La Repubblica",  25 ottobre 2015

Se si svolge un’attività dove le cose che si rendono pubbliche non sono opinioni, ma intendono descrivere fatti e aspirano a cambiare il modo di vedere il mondo, si rischia di sbagliare. Le conquiste scientifiche sono sempre enormi ma l’errore può essere in agguato, soprattutto se si esplora l’ignoto. La frode nelle pubblicazioni scientifiche è invece tutt’altra cosa. È difficile capire cosa spinge uno scienziato a barare sui dati che raccoglie. Forse è presunzione intellettuale o desiderio di notorietà. E la convinzione (errata) che barare su come stanno le cose in natura non sia un modo di delinquere. Senza trascurare l’errata percezione di restare impuniti.
Che fare per correggere la scienza? Esistono almeno due modi. Il primo consiste nell’utilizzare, ancora una volta, il metodo scientifico. Dal 2001 al 2010 sono stati pubblicati circa il 44% in più di articoli scientifici, mentre il numero di quelli ritirati per errori o frodi è aumentato di 10 volte. Preoccupante, certo. Ma in valori reali, nel 2010 sono stati pubblicati circa 1.500.000 di articoli peer reviewed, quelli ritirati sono stati 339, contro i 122 del 2001. Questi numeri rappresentano solo una parte di un fenomeno più vasto anche perché il numero di pubblicazioni è in continuo aumento.
Circa un terzo degli articoli ritirati contengono una frode e quasi i due terzi dei casi indagati per cattiva condotta riguardano la manipolazione di immagini. L’aumento delle ritrattazioni risale alla seconda metà degli anni Novanta e si collega alla diffusione di programmi come Photoshop. Di pari passo la tecnologia aiuta però anche a smascherare gli impostori. Esistono software che in una notte analizzano migliaia di immagini e rivelano “incongruenze” quasi invisibili all’occhio umano. Talvolta però basta solo un po’ di attenzione da parte del ricercatore. Recentemente, io stessa, studiando alcuni articoli di un professore audito in Senato sugli Ogm, ho notato vistose anomalie nelle immagini. Dopo aver atteso invano i chiarimenti dell’autore, non ho potuto non segnalare la circostanza agli editori delle riviste in cui quegli articoli erano stati pubblicati. La scienza funziona così. Ciascuno di noi è sentinella, controllore e controllato del lavoro proprio e altrui. Ecco perché sono bastati due mesi per scoprire la frode presente nell’articolo della giovane ricercatrice giapponese pubblicato lo scorso anno su Nature. Lei perse il posto. Uno degli autori, Yoshiki Sasai, rigoroso scienziato, autore di scoperte che hanno scolpito la storia dell’embriologia, non poté perdonarsi di non essersi accorto che la collega aveva manipolato dati e figure. Si suicidò. Non si scherza con la scienza.
Anche le riviste open access hanno contribuito all’esplosione dei casi di cattiva condotta con la moltiplicazione di editori e riviste anche in paesi per ora meno sviluppati scientificamente. Queste riviste offrono pubblicazioni a pagamento di fatto senza peer review. Nel 2013 questo sistema si è dimostrato altamente permeabile alle frodi. Un giornalista di Science, ad esempio, ha ottenuto l’accettazione di un manoscritto completamente inventato da ben il 60% delle riviste cui era stato inviato.
Il secondo modo per dare forza alla buona scienza, oltre alla vigilanza e all’uso sistematico di software di controllo da parte degli editori, prevede la condivisione di regole e procedure per marginalizzare – osservate le dovute garanzie di difesa – chi, con condotte fraudolente, rompe il patto che lo lega alla comunità scientifica.
La rivista Lancet nel 2013 segnalava come l’Italia fosse tra le poche nazioni europee prive di legislazione in materia o di linee guida. Lo scorso marzo l’Accademia dei Lincei ha dedicato un’intera giornata all’etica della ricerca e, da poco, il CNR ha licenziato delle linee guida dedicate all’”integrità della ricerca”. Diverse Università stanno lavorando in una simile direzione. Oggi il documento del CNR è un importante riferimento da cui partire per definire un modello di standard italiano per la valutazione delle condotte dei ricercatori. La condivisione di metodi, regole e obiettivi, deve essere vincolante. Tutto ruota intorno a semplici passaggi che definiscono la nostra polizza assicurativa più importante: il rapporto con la società. Alla quale non si può mentire. Mai.

L’autrice è docente dell’Università degli Studi di Milano e senatrice a vita


Tra articoli smentiti e studi ritrattati 
il mondo della ricerca finisce sempre più spesso sotto accusa 
anche grazie al controllo sul web
La pubblicazione su “Nature” oppure su “Science” a volte decide il destino di una carriera Questo alimenta la pressione e il rischio di comportamenti scorretti che oggi possono essere scoperti attraverso blog tematici

Massimiano Bucchi

Publish or perish, “pubblica o muori”, questa la brutale sintesi che spesso si fa del destino di un ricercatore. Lo scienziato giapponese Yoshiki Sasai purtroppo ha fatto entrambe le cose. Esperto di cellule staminali di fama internazionale, Sasai si è impiccato il 5 agosto 2014 nel proprio studio all’istituto Riken, dopo che due articoli di cui era co-autore era stati “ritrattati” dalla prestigiosa rivista scientifica Nature alcuni mesi dopo la loro pubblicazione. Gli articoli annunciavano la sensazionale scoperta di un metodo per trasformare normali cellule in cellule staminali pluripotenti – sarebbe stato “il sacro Graal della medicina rigenerativa”. Peccato che riciclassero immagini della tesi di dottorato della sua collega Haruko Obokata, che risultò anche aver pesantemente manipolato i dati dell’esperimento.
Anche se per fortuna l’epilogo non è sempre così tragico, la ritrattazione (retraction) è una delle cose peggiori che possano accadere ad un ricercatore e ad una pubblicazione scientifica, una sorta di “lettera scarlatta” impressa sul bene più prezioso di chi lavora nel mondo della scienza: la reputazione. Purtroppo simili casi non possono più essere liquidati come vicende eccezionali, né limitati a studiosi e pubblicazioni marginali o di dubbia reputazione. I principali database di pubblicazioni scientifiche, PubMed e Web of Science, indicano infatti come negli ultimi dieci anni il numero di pubblicazioni ritrattate sia cresciuto del 1000%, mentre nello stesso tempo il numero di articoli pubblicati è aumentato del 44%. Da circa 30 casi nel 2002 si è passati a quasi 400 nel 2014. Il fenomeno, come nel citato caso giapponese, investe sempre più frequentemente il gotha delle pubblicazioni scientifiche: si contano oltre trenta ritrattazioni tra il 2001 e il 2010 per la rivista
Science e poco meno per la stessa Nature ; venti casi solo nell’ultimo quinquennio per la non meno influente Proceedings of the National Academy of Sciences .
Una tendenza così evidente non può non portare ad interrogarsi sulle sue cause, anche perché le pubblicazioni ritrattate sono solo la punta dell’iceberg. Non tutti gli errori o le manipolazioni vengono scoperte, né conducono effettivamente a ritirare l’articolo; le riviste sono riluttanti a ritrattare studi pubblicati, e soprattutto a rivelare i motivi della ritrattazione. Secondo un’approfondita analisi svolta con alcuni colleghi da Ferric Fang della University of Washington School of Medicine nell’ambito della biomedicina e delle scienze della vita, solo una ritrattazione su cinque è dovuta alla genuina ammissione di errori. Oltre due casi su tre, invece, sono dovuti a plagio (10%) o vere e proprie frodi (oltre il 40% dei casi). Tre quarti dei comportamenti fraudolenti vengono da ricercatori attivi tra Stati Uniti, Germania, Cina e Giappone, mentre Cina e India messe insieme producono più casi di plagio degli Stati Uniti (e per una volta, ci dà sollievo trovare l’Italia agli ultimi posti di una classifica del settore scientifico).
Dunque nella maggioranza dei casi non si tratta di sviste, ma di comportamenti deliberati che vanno probabilmente inquadrati nel contesto di una pressione sempre maggiore nei confronti dei ricercatori per ottenere risultati rapidi e clamorosi. Pressioni per ottenere finanziamenti e visibilità non solo scientifica, ma anche mediatica per singoli e istituzioni di ricerca, aspettative di ritorno economico o perfino di stampo nazionalistico. L’enfasi con cui era stata accolta in Giappone la scoperta di Sasai e Obokata assomiglia molto a quella che accompagnò il caso Hwang una decina di anni fa in Corea del Sud: acclamato come eroe nazionale con francobolli a lui dedicati già in stampa, Hwang dovette ammettere di aver falsificato i dati del proprio esperimento.
La preoccupazione nella comunità scientifica è tale che il blog Retraction Watch, creato cinque anni fa da due esperti di editoria medico-scientifica, è divenuto rapidamente uno dei più popolari nel mondo scientifico con oltre 15 milioni di visualizzazioni. I più pessimisti lo considerano un deprimente bollettino giornaliero di guerra; i più ottimisti un’espressione della capacità della scienza di riconoscere e affrontare apertamente i propri errori. Il blog offre tra l’altro una singolare “hit parade” degli scienziati più “ritrattatori del mondo”. Al primo posto, l’inarrivabile (si spera) record dell’anestesiologo giapponese Yoshitaka Fujii, autore di ben 183 papers ritrattati. Roba da far impallidire perfino il mitico Diederik Stapel, star della psicologia olandese poi divenuto tristemente celebre per aver inventato, perlopiù di sana pianta, oltre cinquanta ricerche che trovavano regolarmente spazio sulle pubblicazioni scientifiche e nei media generalisti sapendo vellicare sapientemente le aspettative di colleghi e lettori.
Ma secondo Ivan Oransky, uno dei fondatori del blog, l’esplosione delle ritrattazioni segnala anche problemi ormai strutturali nel mondo delle pubblicazioni scientifiche e nelle stesse modalità di verifica dei risultati. È di questi giorni la notizia che uno dei colossi dell’editoria scientifica, Elsevier, ha dovuto ritrattare nove articoli approvati dopo revisioni rivelatesi “fasulle” (probabilmente concordate con gli stessi autori); in precedenza, ben 120 articoli erano stati ritirati da riviste di informatica del gruppo Springer poiché generati automaticamente, si è scoperto, utilizzando un software. È addirittura emerso che lo sciagurato articolo giapponese sulle cellule staminali era stato respinto da tre riviste, tra cui la stessa Nature che poi l’ha pubblicato!
Una simile crisi non riguarda ormai solo gli addetti ai lavori ma investe potenzialmente anche lo stesso statuto delle conoscenze e delle loro applicazioni, delineando scenari inquietanti soprattutto in settori come quelli legati alla salute e alla medicina. L’impatto di articoli e riviste smentiti infatti talvolta non si ferma neppure dopo la ritrattazione: Scott Reuben, definito da Scientific American “il Madoff della medicina”, è finito addirittura in carcere, ma una dozzina dei suoi studi ritrattati continuano ancor oggi imperterriti ad accumulare citazioni da parte dei colleghi.
Come si esce da una situazione che rischia di innescare una perdita di fiducia generalizzata nelle stesse modalità di produzione e validazione dei risultati di ricerca? Molti ritengono che si debba mettere innanzitutto in discussione il potere smisurato di alcune pubblicazioni e gruppi editoria-li, divenuti veri e propri “oligopoli epistemici”. Un articolo su Nature o Science può decidere il destino di una carriera di ricerca, alimentando la pressione e il rischio potenziale di comportamenti scorretti. Con risvolti in certi casi perfino comici. Nel 1987, stanco di vedersi rifiutare un articolo, il fisico americano William Hoover decise di rimandarlo al Journal of Statistical Physics cambiando solo il titolo e aggiungendo un inesistente co-autore: la rivista accettò immediatamente di pubblicarlo.
Sarebbe bastato un revisore italiano per svelare subito la burla dello scienziato: il fantomatico coautore era infatti un certo esponente del fantomatico “Institute of Advanced Studies di Palermo”, tuttora presente nei database scientifici e citato 143 volte.

Pound, eruzione infinita di contraddizioni


Ezra Pound in Piazza San Marco, Venezia, foto di David Lees

La monumentale biografia «Ezra Pound: poet» di David Moody, dalla Oxford University Press. Senza perdere mai di vista i testi, a cui dedica analisi puntuali, Moody conserva flemma e adesione critica davanti a un’enorme massa di materiale biografico, non di rado sconcertante

Massimo Bacigalupo, "Il manifesto", 25 ottobre 2015

Alla vigilia del 130° della nascita di Ezra Pound (Hailey, Idaho, 30 ottobre 1885), il critico inglese A. David Moody pubblica il terzo volume della sua poderosa biografia del vate americano, dedicata al periodo complicatissimo della guerra, detenzione eccetera. Il titolo è infatti Ezra Pound: Poet The Tragic Years 1939–1972 (Oxford University Press, pp. XXII+654). Studioso accreditato, Moody è anche biografo efficace e riesce a restituire tutta la complessità fascinosa e sconcertante dell’argomento, sicché si giustifica la monumentalità dell’impresa, quasi senza confronto per i coetanei innovatori di Pound.
I tre massicci tomi di Moody si intitolano rispettivamente The Young Genius 1885–1920, The Epic Years 1921–1939 e appunto The Tragic Years 1921–1939. Il titolo complessivo Ezra Pound: Poet è significativo perché nonostante tutto il clamore intorno ai fatti e misfatti di Pound, Moody dedica molta attenzione ai testi e non dubita, come annuncia già il titolo The Young Genius, che Pound sia fra i maggiori poeti (non solo personaggi) del Novecento. Volentieri dedica sezioni della biografia ad analisi ravvicinate delle opere più significative e a singoli volumi dei Cantos, che cominciarono a uscire nel 1925 per (non) concludersi solo nel 1968. In questo terzo volume ha il destro di parlare della sezione più memorabile dell’intero poema, i Canti pisani scritti nel 1945 durante la detenzione a Metato presso Pisa in un campo di prigionia dell’esercito Usa per migliaia di reclusi americani che dovevano essere «rieducati» e in taluni casi giustiziati. E le analisi di Moody di questi 11 canti (che portano i numeri 74–84), come anche di quelli successivi, sono convincenti e serrate. Chiaramente l’argomento gli è caro e anche lui ha passato decenni su questi fogli e ha le loro felici battute nell’orecchio e nel cuore.
Una partecipe ricostruzione fra fantasia e realtà dei Canti pisani e della loro genesi si trova anche nel breve romanzo La spia di Justo Navarro (Voland). Qui l’autore-narratore si mette sulle tracce di Pound e delle sue frenetiche attività letterarie e politiche in tempo di guerra, quando registrò le infauste trasmissioni da Roma rivolte a inglesi e americani che gli costarono l’imputazione per tradimento e tutti i guai che ne seguirono, ma che lo costrinsero anche a una decisiva resa dei conti e a scrivere quella confessione-apologia-diario di prigionia che sono appunto i Canti pisani. Navarro si diverte a immaginare che Pound fosse una spia doppiogiochista. Cosa senz’altro non vera, ma ben trovata, visto che fra i discepoli che visitarono Pound a Rapallo era quel James Jesus Angleton che diverrà un dirigente particolarmente delirante della CIA…
Insomma, Moody ha della bella materia di cui occuparsi, e lo fa con pacatezza, senza perdere il filo come si dice facesse Pound. In questi giorni infatti esce anche una ristampa di un volumetto poundiano quantomai sintomatico, Jefferson e Mussolini (a cura di Luca Gallesi, Bietti, pp. 125), scritto nel 1933 in inglese dopo che Pound ebbe il suo unico colloquio col Duce, e dallo stesso Pound assai ben tradotto (magari con qualche revisore amichevole) ed edito nel 1944 a Venezia dalla Casa Editrice delle Edizioni Popolari, ovvia emanazione della R.S.I. Sintomatico libretto per il suo vaneggiare ispirato fra letteratura, storia, economia, vita privata, quello che mi capitò a Excideuil, quanto faceva Gigi a due anni, i misfatti dei «mercanti di cannoni»… Perché talvolta Pound vede giusto. «E la vendita d’armi conduce ad ulteriore vendita d’armi, non c’è saturazione» ripeterà nei Pisani. E i banchieri, il credito sociale del maggiore Douglas… Questo diverrà un’ossessione e condurrà Pound alle sue perniciose dichiarazioni antiebraiche, ma evidentemente nasce da saeva indignatio, qui condita ancora da umorismo e distacco. Il tormentone delle banche e del controllo del credito non è certo meno attuale nel 2015 che nel 1932, quando Pound pensava (con qualche riserva) che Mussolini (e Lenin: li cita quasi sempre insieme) avessero trovato una via d’uscita.
Libro divagante, questo Jefferson e Mussolini è tutto sommato un autoritratto appassionato di Pound alle prese col mondo che vuole e non vuole cambiare. I lettori coscienziosi lo apprezzeranno come un commento ai Cantos XXXI-XLI, scritti nello stesso periodo, e che appunto iniziano con citazioni di Jefferson e finiscono con detti di Mussolini. Si possono trovare nel Meridiano I Cantos, curato dalla figlia Mary de Rachewiltz. La quale nel 2015 ha festeggiato 90 anni, spesi in buona parte ad amministrare l’eredità di un padre straordinario e ingombrante, ma anche a scrivere un suo proprio notevole diario poetico, riunito in tutta una serie di volumetti italiani e inglesi: «Ma la tua casa sarà bella e vuota / se abiterai col sole linda e candida, / l’uomo di ghiaccio ti ha donato il seme…» («Monumenti», in Polittico, Scheiwiller 1996).
Di Mary, nata dalla relazione di Pound con la violinista americana Olga Rudge che poi gli fu vicina negli ultimi anni, e di Dorothy Shakespear Pound, l’algida moglie britannica, e del figlio di lei e altro padre che ebbe nome Omar Pound, e dunque risultò a tutti gli effetti legittimo, Moody si occupa a lungo con la necessaria puntualità, fornendo nuovi importanti documenti. Dai quali si apprende per esempio che Pound, pur nella sua abituale scombinatezza, fece di tutto per riconoscere Mary come unica erede ed esecutrice testamentaria, firmando persino un atto notarile durante la guerra e altri documenti successivi. Che però furono ignorati in seguito alla dichiarazione di infermità mentale del 1945, sicché l’eredità rimase contestata fra la figlia di Ezra e Olga e il figlio di Dorothy e «R».
Si sa che, rimpatriato sotto accusa di tradimento, Pound non fu mai processato in quanto gli psichiatri convocati dal giudice Laws furono d’accordo nel ritenerlo incapace di intendere. Da ciò la lunga reclusione a St. Elizabeths, grande ospedale sulle alture di Washington dove Pound scrisse e brigò finché nel 1958 si decise di sanare la faccenda lasciando cadere l’imputazione e rilasciandolo sotto tutela della moglie. Donde poi nuove avventure, il ritorno in Italia, le passeggiate romane al Colle Oppio, la malattia, il decennio di silenzio fino alla morte.
Secondo Moody fu un grave errore della difesa scegliere la soluzione dell’incapacità mentale, e di Pound accettarla, poiché un processo difficilmente avrebbe portato a una pena detentiva o addirittura capitale come Eliot e altri amici temevano (e i nemici auspicavano). Ma è difficile nel 2015 ricostruire gli stati d’animo del 1945. Era tutta ovviamente una questione politica, e questo Pound lo sapeva: «Mi faranno uscire quando vorranno loro». Del resto Moody parla spesso di paranoia a proposito delle affermazioni farneticanti di Pound all’epoca di St. Elizabeths. Gli psichiatri dunque non mentirono, e il loro parere aveva il vantaggio di andare bene a tutti, compreso l’imputato. Le interviste di Pound con gli psichiatri dell’ospedale riportate da Moody offrono uno spettacolo surreale, dove non si sa chi sia più pazzo, Pound che si presenta a torso nudo e fa come stesse morendo di stanchezza, o lo psichiatra che compìto osserva, giudica e manda.
Moody ha raccolto un’enorme massa di materiale ed è straordinario che abbia saputo conservare tanta flemma e partecipazione critica in mezzo a quella che sembra un’eruzione infinita di contraddizioni.

domenica 18 ottobre 2015

«Einstein, la scoperta più bella»


Non c’è una formula per fare un best-seller

È la prima delle 7 brevi lezioni. 

È la bellezza della fisica, 
che non ha nulla da invidiare a quella dell’arte, della musica e della letteratura

Carlo Rovelli, "Il Sole 24 ore -Domenica", 18 ottobre 2015


Da ragazzo, Albert Einstein ha trascorso quasi un anno a bighellonare oziosamente. Era a Pavia, dove aveva raggiunto la famiglia, dopo avere abbandonato gli studi in Germania. Se non si perde tempo non si arriva da nessuna parte, fatto che spesso dimenticano i genitori degli adolescenti. Era l’inizio della rivoluzione industriale, e il padre, ingegnere, installava le prime centrali elettriche in Italia. Poi Albert si era iscritto all’Università di Zurigo e si era immerso nella fisica. Pochi anni dopo, nel 1905, aveva spedito tre articoli in un’unica busta alla principale rivista scientifica del tempo, gli «Annalen der Physik». Ciascuno dei tre valeva un Nobel. Il primo mostrava che gli atomi esistono davvero. Il secondo apriva la porta alla Meccanica dei Quanti, di cui spero di dire qualcosa in futuro su questa pagina. Il terzo presentava la Teoria della Relatività (oggi chiamata «relatività ristretta»), che chiarisce che il tempo non passa eguale per tutti: due gemelli si ritrovano di età diversa, se uno dei due ha viaggiato velocemente. Einstein diventa un fisico rinomato e riceve offerte di lavoro da diverse università. Ma qualcosa lo turba: la sua Teoria della Relatività non quadra con quanto sappiamo sulla gravità. Se ne accorge scrivendo un articolo di rassegna sulla nuova teoria, e si chiede se la vetusta e paludata «gravitazione universale» del grande padre Newton non debba essere riveduta anch’essa, per renderla compatibile con la nuova relatività. S’immerge nel problema. Ci vorranno dieci anni per risolverlo. Dieci anni di studi pazzi, tentativi, errori, confusione, idee folgoranti, idee sbagliate. Finalmente, nel novembre del 1915, manda alle stampe un articolo con la soluzione completa: una nuova teoria della gravità, cui dà nome «Teoria della Relatività Generale», il suo capolavoro. La «più bella delle teorie» l’ha chiamata il grande fisico russo Lev Landau.
Ci sono capolavori assoluti che ci emozionano intensamente, il Requiem di Mozart, l’Odissea, la Cappella Sistina, Re Lear... Coglierne lo splendore può richiedere un percorso di apprendistato. Ma il premio è la pura bellezza. E non solo: anche l’aprirsi ai nostri occhi di uno sguardo nuovo sul mondo. La Relatività Generale, il gioiello di Albert Einstein, è uno di questi.
Ricordo l’emozione quando cominciai a capirne qualcosa. Era estate. Ero su una spiaggia della Calabria, a Condofuri, immerso nel sole della grecità mediterranea, al tempo dell’ultimo anno di università. Studiavo su un libro un po’ rosicchiato dai topi, perché l’avevo usato per chiudere le tane di queste bestiole, di notte, nella casa un po’ malandata sulla collina umbra, dove andavo a rifugiarmi dalla noia delle lezioni universitarie di Bologna. Ogni tanto alzavo gli occhi dal libro per guardare lo scintillio del mare: mi sembrava di vedere l’incurvarsi dello spazio e del tempo immaginati da Einstein. Era come una magia: come se un amico mi sussurrasse all’orecchio una straordinaria verità nascosta, e d’un tratto scostasse un velo dalla realtà, per svelarne un ordine più semplice e profondo. Da quando abbiamo imparato che la Terra è rotonda e gira come una trottola pazza, abbiamo capito che la realtà non è come ci appare: ogni volta che ne intravediamo un pezzo nuovo è un’emozione. Un altro velo che cade. Ma il salto compiuto da Einstein è un salto forse senza eguale.
Perché? Per prima cosa, perché una volta capito come funziona, la teoria è di una semplicità mozzafiato. Provo a riassumerne l’idea. Newton aveva cercato di spiegare perché le cose cadono e i pianeti girano. Aveva immaginato una «forza» che tira tutti i corpi l’uno verso l’altro: l’aveva chiamata «forza di gravità». Come facesse questa forza a tirare le cose da lontano, senza che ci fosse niente in mezzo, non era dato sapere. Newton aveva anche immaginato che i corpi si muovessero nello spazio, e lo spazio fosse un grande contenitore vuoto, uno scatolone rigido per l’Universo. Un’immensa scaffalatura nella quale corrono diritti gli oggetti, fino a che una forza non li faccia curvare. Di cosa fosse fatto questo «spazio» contenitore del mondo, neppure era dato sapere. Ma pochi anni prima della nascita di Albert, due grandi fisici britannici, Faraday e Maxwell, avevano aggiunto un ingrediente nuovo al freddo mondo di Newton: il campo elettromagnetico. Il campo è un’entità reale diffusa, che porta le onde radio, riempie lo spazio, può vibrare e ondulare come la superficie di un lago, e “porta in giro” la forza elettrica. Einstein, affascinato fin da ragazzo dal campo elettromagnetico, che faceva girare i rotori delle centrali elettriche che costruiva papà, capisce che anche la gravità, come l’elettricità, deve essere portata da un campo: ci deve essere un «campo gravitazionale»; e cerca di capire come possa essere fatto e quali equazioni lo possano descrivere.
E qui arriva l’idea straordinaria, il puro genio: il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio, il campo gravitazionale è lo spazio. Lo «spazio» di Newton, nel quale si muovono le cose, e il «campo gravitazionale», che porta la forza di gravità, sono la stessa cosa. È una folgorazione. Una semplificazione impressionante del mondo: lo spazio non è più qualcosa di diverso dalla materia; è una delle componenti «materiali» del mondo. Un’entità che ondula, si flette, si incurva, si storce. Non siamo contenuti in una invisibile scaffalatura rigida: siamo immersi in un gigantesco mollusco flessibile. Il Sole piega lo spazio intorno a sé e la Terra non gli gira intorno perché è tirata da una misteriosa forza, ma perché sta correndo diritta in uno spazio che si inclina. Come una pallina che rotoli in un imbuto: non ci sono forze misteriose generate dal centro dell’imbuto, è la natura curva delle pareti a fare ruotare la pallina. I pianeti girano intorno al Sole e le cose cadono perché lo spazio si incurva.
Come descrivere questo incurvarsi dello spazio? Il più grande matematico dell’Ottocento, Carl Friedrich Gauss, «principe dei matematici», aveva scritto la matematica per descrivere le superfici curve bidimensionali, come la superficie delle colline. Poi aveva chiesto a un suo bravo studente di generalizzare il tutto a spazi curvi di dimensione tre o più. Lo studente, Bernhard Riemann, aveva prodotto una ponderosa tesi di dottorato, di quelle che sembrano completamente inutili. Il risultato era che le proprietà di uno spazio curvo sono catturate da un certo oggetto matematico, che oggi chiamiamo la curvatura di Riemann e indichiamo con R. Einstein scrive un’equazione che dice che R è proporzionale all’energia della materia. Cioè: lo spazio si incurva là dove ci sia materia. È tutto. L’equazione sta in una mezza riga, non c’è altro. Una visione e un’equazione.
Ma dentro quest’equazione, c’è un universo rutilante. E qui si apre la ricchezza magica di questa teoria. Una successione fantasmagorica di predizioni che sembrano i deliri di un pazzo, e invece sono state tutte verificate dall’esperienza. L’equazione descrive come si curva lo spazio intorno a una stella. A causa di questa curvatura, la luce devia. Einstein predice che il Sole devii la luce. Nel 1919 viene compiuta la misura, e risulta essere vero. Non è solo lo spazio a incurvarsi, ma anche il tempo; ed Einstein predice che il tempo passi più veloce in alto e più lento in basso, vicino alla Terra. Si misura, e risulta essere vero. Di poco, ma il gemello che ha vissuto al mare ritrova il gemello che ha vissuto in montagna un poco più vecchio di lui. È solo l’inizio. Quando una grande stella ha bruciato tutto l’idrogeno, si spegne e quanto resta viene schiacciato sotto il proprio stesso peso, fino a curvare lo spazio così fortemente da sprofondare dentro un vero e proprio buco. Sono i famosi buchi neri. Quando studiavo all’università, erano poco credibili predizioni di una teoria esoterica. Oggi sono osservati nel cielo a centinaia. Ma non basta. Lo spazio intero può distendersi e dilatarsi; anzi, l’equazione indica che non può stare fermo, deve essere in espansione. Nel 1930, l’espansione dell’Universo viene effettivamente osservata. E la stessa equazione predice che l’espansione debba essere nata dall’esplosione di un giovane universo piccolissimo e caldissimo: è il Big Bang. Ancora una volta, nessuno ci crede, ma le prove si accumulano, fino a che nel cielo viene osservata la radiazione cosmica di fondo: il bagliore diffuso che rimane dal calore dell’esplosione iniziale. E ancora, la teoria predice che lo spazio si increspi come la superficie del mare, e gli effetti di queste «onde gravitazionali» sono osservati nel cielo sulle stelle binarie, e combaciano con le previsioni della teoria con la sbalorditiva precisione di una parte su cento miliardi. E così via.
Insomma, la teoria descrive un mondo colorato e stupefacente, dove esplodono universi, lo spazio sprofonda in buchi senza uscita, il tempo rallenta abbassandosi su un pianeta, e le sconfinate distese di spazio interstellare si increspano come la superficie del mare... e tutto questo, che emergeva pian piano dal mio libro rosicchiato dai topi, non era una favola raccontata da un idiota in un accesso di furore, o l’effetto del sole della Calabria, un’allucinazione sul baluginare del mare. Era realtà. O meglio, uno sguardo verso la realtà, un po’ meno velato di quello della nostra offuscata banalità quotidiana. Una realtà che sembra anch’essa fatta della materia di cui son fatti i sogni, ma pur tuttavia più reale del nostro annebbiato sogno quotidiano. E tutto questo, il risultato di un’intuizione elementare: lo spazio e il campo sono la stessa cosa. E di un’equazione semplice, che non resisto a ricopiare qui, anche se il lettore non potrà certo decifrarla, ma vorrei che almeno ne vedesse la semplicità: Rab - ½ R gab = Tab . Tutto qui.
Certo, ci vuole un percorso di apprendistato per digerire la matematica di Riemann e impadronirsi della tecnica per leggere quest’equazione. Ci vuole un po’ d’impegno e fatica. Ma meno di quelli necessari per arrivare a sentire la rarefatta bellezza di uno degli ultimi quartetti di Beethoven.


Le tre regole della buona divulgazione
Entusiasmare, chiarire, portare lontano

Luciano Maiani

Sette brevi lezioni di fisica, di Carlo Rovelli è il libro che ognuno di noi avrebbe voluto scrivere. Entrare in una libreria a caso e vedere il libro esposto in prima linea, tra le novità della settimana, ha suscitato in me un misto di entusiasmo e di invidia.
Comunicare le idee e le scoperte che animano il nostro lavoro è il desiderio reale di noi che dedichiamo alla scienza la nostra vita, per vedere riflesso negli altri lo stupore e l’entusiasmo che avevano suscitato in noi quando le abbiamo apprese per la prima volta. Ahimè, il più delle volte lo scopo fallisce, i nostri argomenti si fanno complicati (anche per la preoccupazione del: che diranno i colleghi?) e l’attenzione del lettore si volge ad altro.
Una trappola che Rovelli evita accuratamente, è voler trasformare il lettore in un novello matematico (o fisico o chimico), suggerendo tracce di ragionamenti che dovrebbero fargli ricostruire, partendo da zero, i nostri bellissimi risultati. Che so, la formula di Bohr per l’atomo di idrogeno o la legge di Keplero. Qui già Hawking ci aveva messo in guardia, dicendoci che l’unica formula da usare è E=mc², incomprensibile ai più ma tanto famosa da non suscitare la caduta immediata dell’attenzione del lettore. Innovando su questo, Rovelli lancia un’altra formula di Einstein: Rab -1/2 R gab =Tab , meno famosa e altrettanto incomprensibile, ma è alla fine del capitolo e non fa danno.
Però, proprio qui forse sta il segreto. I libri (o articoli, o lezioni) che molti di noi fanno (o, almeno, che io faccio) sono volti a creare dei proseliti. A suscitare nel giovinetto o nella giovinetta il desiderio di intraprendere la strada che, da giovane, mi fu indicata dai libri di divulgazione del passato (primo fra tutti il libro di Einstein e Infeld, edito da Einaudi, Dio lo benedica, che sta ancora nella mia libreria). È qui che serve (forse) far vedere la forza del pensiero che trasforma le idee in formule concrete da applicare poi al mondo intorno a noi.
Rovelli non cade neanche in questa trappola. Il suo libro è rivolto al lettore colto che vuole farsi un’idea di quello che succede nella scienza. Proprio come noi, scienziati, vogliamo ogni tanto curiosare nella storia o nella filosofia, senza perderci nei dettagli della ragion pratica o del De Bello Gallico.
Regola aurea di ogni seminario (ma vale anche per i libri) è di essere entusiasmanti all’inizio, chiari nel seguito, e di sentirci autorizzati, alla fine, a parlare di cose che neanche noi forse capiamo a fondo. Rovelli segue questa regola e coglie pienamente nel segno. Complimenti.


domenica 11 ottobre 2015

Social solitudine


Siamo tutti schiavi di un Io idealizzato e virtuale, che oscura il nostro Io reale e ci allontana da ogni legame autentico pur di non rinunciare alla pigra “comodità” di Google o Facebook 
È la condizione umana dell’era digitale


Jonathan Franzen, "La Repubblica", 11 ottobre 2015

Sherry Turkle è una voce a sé nel dibattito sulla tecnologia. È una scettica con un passato da credente, una psicologa clinica in mezzo a imbonitori aziendali e cassandre letterarie, un’empirica in mezzo ad aneddotisti selettivi, una moderata in mezzo a estremisti, una realista in mezzo a sognatori, un’umanista ma non luddista: un’adulta. Ha una cattedra sovvenzionata al Mit e lavora a stretto contatto con gli esperti di robotica e affective computing che lavorano da quelle parti. A differenza di Jaron Lanier, che si porta dietro il pesante fardello di essere un dipendente Microsoft, o di Evgenij Morozov, che ha una prospettiva bielorussa, la Turkle è un’insider fidata e rispettata, e questo ne fa una sorta di coscienza del mondo high-tech.
Il suo precedente libro (Insieme ma soli: perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, pubblicato in Italia da Codice) era uno spietato rapporto sulle relazioni umane nell’epoca digitale. Osservando le interazioni delle persone con i robot, e intervistandole sul loro rapporto con computer e telefonini, raccontava come le nuove tecnologie rendano obsoleti i vecchi valori. Quando sostituiamo i badanti umani con dei robot, o parliamo attraverso i messaggini, cominciamo dicendo che i surrogati sono «meglio di niente», ma arriviamo a considerarli «meglio di qualsiasi altra cosa»: più puliti, meno pericolosi, meno esigenti. Parallela a questo mutamento corre una preferenza crescente per il virtuale rispetto al reale. I robot non provano sentimenti di affetto per le persone, ma i soggetti intervistati dalla Turkle arrivavano ad accontentarsi, con sconvolgente rapidità, della sensazione di essere accuditi, e allo stesso modo arrivavano a preferire il senso di comunità che i social media trasmettono, perché non è accompagnato dai rischi e dagli impegni di una comunità reale. Nelle sue interviste la Turkle osservava ripetutamente una profonda delusione nei confronti degli esseri umani, imperfetti, distratti, bisognosi, imprevedibili come le macchine sono programmate per non essere.
Il suo nuovo libro, Reclaiming Conversation, estende la sua analisi critica, spostando l’attenzione dai robot all’insoddisfazione verso la tecnologia espressa dalle persone che ha intervistato di recente. La Turkle interpreta questa scontentezza come un segnale di speranza, e il suo libro rappresenta una vera e propria chiamata alle armi: la nostra entusiastica sottomissione alle tecnologie digitali ha portato a un’atrofizzazione di capacità umane come l’empatia e l’introspezione, ed è arrivato il momento di riaffermare noi stessi, comportarci da adulti e rimettere la tecnologia al suo posto. Come in Insieme ma soli , la forza della tesi della Turkle deriva dall’ampiezza della ricerca e dall’acume delle sue osservazioni psicologiche. Le persone intervistate hanno adottato nuove tecnologie perché ricercavano un maggior controllo, ma hanno finito per sentirsi controllate dalle tecnologie.
L’io amabile e idealizzato che hanno creato con i social media lascia ancora più isolato il loro io reale. Comunicano incessantemente, ma hanno paura delle conversazioni faccia a faccia; sono preoccupati, spesso in modo nostalgico, di tralasciare qualcosa di fondamentale. La conversazione è il principio organizzativo della Turkle, perché gran parte degli elementi costitutivi dell’umanità è a rischio quando la sostituiamo con la comunicazione elettronica. La conversazione presuppone solitudine, per esempio, perché è nella solitudine che impariamo a pensare per conto nostro e sviluppare un senso stabile dell’io, elemento essenziale per accettare gli altri così come sono. (Se non riusciamo a separarci dai nostri smartphone, dice la Turkle, consumiamo le altre persone «a spizzichi e bocconi: è come se le usassimo alla stregua di pezzi di ricambio per sostenere il nostro fragile io».) Attraverso l’attenzione conversativa dei genitori, i bambini acquisiscono un sentimento duraturo di connessione e l’abitudine di parlare dei loro sentimenti, invece di limitarsi ad agire sulla base di essi. (Turkle è convinta che conversare regolarmente in famiglia contribuisca a «immunizzare» i bambini dal bullismo.) Quando parli a qualcuno di persona, sei costretto a riconoscere la sua piena realtà umana, ed è qui che inizia l’empatia. (Uno studio recente dimostra un drastico calo dell’empatia, misurato con test psicologici standard, fra gli studenti universitari della generazione degli smartphone.) E la conversazione si porta dietro il rischio di noia, la condizione che gli smartphone ci hanno insegnato a temere sopra ogni altra cosa, ma anche la condizione in cui si sviluppano la pazienza e l’immaginazione.
La Turkle esamina ogni aspetto della conversazione – da soli con se stessi, con parenti e amici, con insegnanti e partner, con colleghi e clienti, con la società in generale – e racconta l’erosione elettronica di ciascuno di essi. Facebook, Tinder, i Mooc, i messaggini compulsivi, la tirannia delle mail di lavoro e la vuotezza dell’attivismo sociale online finiscono tutti nel mirino dell’autrice.
Ma la parte più commovente e rappresentativa del libro riguarda la scomparsa delle conversazioni in famiglia. Il circolo vizioso funziona in questo modo, secondo i giovani intervistati dalla Turkle: «I genitori regalano ai figli il telefono. I figli non riescono a distogliere i genitori dal loro telefono e allora si rifugiano nel loro. Poi i genitori interpretano il fatto che i figli siano assorbiti dal loro telefono come un’autorizzazione a usare a loro volta il telefono quanto vogliono». Secondo la Turkle la responsabilità è tutta dei genitori: «Il modo più realistico per spezzare questo circolo è fare in modo che i genitori si assumano la loro responsabilità di mentori». Riconosce che può essere difficile, che i genitori hanno paura di rimanere tecnologicamente indietro rispetto ai figli, che per conversare con dei bambini ci vuole pazienza e pratica, che è più facile dimostrare amore genitoriale scattando tonnellate di foto e pubblicandole su Facebook. Ma a differenza di Insieme ma soli, dove si accontentava di diagnosticare, in Reclaiming Conversation la Turkle usa un tono terapeutico ed esortativo. Invita i genitori a capire cosa c’è in gioco nelle conversazioni familiari – «lo sviluppo della fiducia e dell’autostima», «la capacità di provare empatia, amicizia, intimità» – e a riconoscere la propria vulnerabilità rispetto agli incanti della tecnologia. «Accettate la vostra vulnerabilità», dice. «Rimuovete la tentazione».
Reclaiming Conversation può essere visto come un sofisticato manuale di autoaiuto. Sostiene con argomenti convincenti che i bambini si sviluppano meglio, gli studenti imparano meglio e i dipendenti hanno un rendimento migliore quando i loro mentori danno il buon esempio e ritagliano spazi per interazioni faccia a faccia. Ma suona meno convincente quando esorta all’azione collettiva. È convinta che sia possibile e doveroso progettare una tecnologia «che ci imponga di usarla in modo più consapevole». Invoca un’interfaccia per smartphone che «invece di incoraggiarci a stare connessi il più a lungo possibile ci incoraggi a staccarci». Ma un’interfaccia del genere metterebbe a rischio quasi tutti i modelli di business della Silicon Valley, dove capitalizzazioni di mercato smisurate sono fondare proprio sulla capacità di tenere i consumatori inchiodati ai loro apparecchi. La Turkle spera che la domanda dei consumatori, che ha costretto l’industria alimentare a creare prodotti più sani, possa alla fine costringere l’industria high-tech a fare altrettanto. Ma l’analogia è imperfetta: le aziende del comparto alimentare guadagnano vendendo cose essenziali, non inserendo pubblicità mirate in una braciola di maiale o sfruttando i dati che fornisce una persona mentre la addenta. L’analogia è anche politicamente inquietante: dal momento che una piattaforma che scoraggia il coinvolgimento è meno redditizia, per guadagnare dovrebbe far pagare un sovrapprezzo che solo consumatori benestanti e istruiti, del genere di quelli che fanno la spesa nei negozi di prodotti bio, sarebbero disposti a pagare.
Reclaiming Conversation si sofferma sugli aspetti politici della privacy e sui robot che fanno risparmiare lavoro, ma la Turkle si tiene a distanza dalle implicazioni più radicali delle sue scoperte. Quando fa notare che a casa di Steve Jobs tablet e smartphone erano vietati quando si cenava e la famiglia era incoraggiata parlare di libri e di storia, o quando cita Mozart, Kafka e Picasso sull’importanza di una solitudine senza distrazioni, sta descrivendo le abitudini di individui altamente efficaci.
E sì, la famiglia che se la passa abbastanza bene da comprare e leggere il suo nuovo libro forse riuscirà a limitare l’esposizione alla tecnologia e vivrà ancora meglio. Ma che ne sarà della gran massa delle persone, troppo ansiose o troppo sole per resistere alle attrattive della tecnologia, troppo povere o sovraccariche di impegni per sfuggire ai circoli viziosi? Matthew Crawford, in The World Beyond Your Head, mette a confronto il mondo di una sala aeroportuale per «poveri» (saturata di pubblicità, stracolma di schermi magnetici) con il mondo sereno e senza pubblicità di una sala d’aspetto business: «Per dedicarsi a riflessioni allegre e creative, e magari creare ricchezza per se stessi durante quelle ore inoperose trascorse in aeroporto, c’è bisogno di silenzio. Ma la mente degli altri, giù nella sala d’aspetto dei poveri (o alla fermata dell’autobus), può essere trattata come una risorsa, una riserva deambulante di potere d’acquisto». Le nostre tecnologie digitali non sono politicamente neutre. Il giovane che non riesce a stare o non sta mai da solo, non riesce a conversare con la famiglia, a uscire con gli amici, ad andare a una conferenza o a svolgere un compito senza controllare il suo smartphone è l’emblema di un’economia attaccata come una sanguisuga al nostro corpo. La tecnologia digitale è il capitalismo a velocità iperspaziale, che inietta la sua logica del consumo e della promozione, della monetizzazione e dell’efficienza in ogni minuto che trascorriamo da svegli.
È forte la tentazione di correlare l’ascesa della «democrazia digitale» con il forte incremento della disuguaglianza economica, di vederci qualcosa di più di un semplice paradosso. Ma forse l’erosione dei valori umani è un prezzo che la maggioranza delle persone è disposta a pagare per la comodità «gratuita» di Google, la confortevolezza di Facebook e la compagnia affidabile degli iPhone. Il fascino di Reclaiming Conversation sta nell’evocazione di un’epoca, non molto lontana, in cui la conversazione, la privacy, le sfumature nelle discussioni non erano beni di lusso. Non è colpa della Turkle se il suo libro può essere letto come un manuale per privilegiati. Si rivolge a una classe media in cui lei stessa è cresciuta, evocando una profondità di potenziale umano che un tempo era diffusa. Ma il medio, come sappiamo, sta scomparendo.
© The New York Times 2015 (Traduzione di Fabio Galimberti)

martedì 6 ottobre 2015

"Povera e nuda vai, Filosofia - dice la turba al vil guadagno intesa..."


Se la scuola volta le spalle alla filosofia

In Spagna l’ultima riforma rende la materia facoltativa,
 tra le proteste del mondo culturale
Ma il dibattito resta aperto. In tutti i paesi europei

Alessandro Oppes

"La Repubblica", 6 ottobre 2015

Le hanno tentate tutte, professori, filosofi, esperti di pedagogia, docenti di discipline umanistiche. Ma niente da fare. Non c’è posto nella scuola modello Rajoy — quella che ha ripristinato la religione obbligatoria e ha abolito l’educazione civica, troppo “ideologica” forse perché voluta dal socialista Zapatero — per la filosofia come pilastro del sapere. L’ultima riforma dell’educazione, la Lomce, imposta dall’ormai ex-ministro José Ignacio Wert (sempre in coda nei sondaggi sul gradimento dei politici) dopo una lunga battaglia a suon di scioperi in cui studenti, presidi e genitori si presentavano uniti, relega la materia a un ruolo da comprimaria. Finora alle superiori si insegnavano tre discipline legate tra loro, filosofia, valori etici e storia della filosofia. Ora solo la prima sarà obbligatoria nel primo anno di “bachillerato”, il biennio che precede l’accesso all’università. Per il resto, saranno gli assessorati all’educazione delle 17 regioni a decidere al principio che la legge definisce “libre configuración”, la libertà degli istituti di impartire corsi sui temi che preferiscono. La conseguenza paradossale è che in questo modo, nonostante una religiosità nettamente in calo, l’iscrizione ai corsi di religione ha subito un aumento 150 per cento perché alternativi alla disciplina dei “valori etici”, impartita da professori di filosofia ma considerata molto più ostica.
Nel corso dell’elaborazione della legge ci sono stati numerosi incontri tra rappresentanti del Ministero e delegazioni di insegnanti, ma senza alcuna concessione alle esigenze dei docenti. Il mondo della cultura non rinuncia però a mobilitarsi. Una lettera dal titolo La belleza de las humanidades, inviata al quotidiano El País, è stata condivisa da 200mila utenti Facebook. Parla di una filosofia «seppellita nell’oscuro baule dove sono già state relegate le sue sorelle musica, pittura, letteratura, storia». Sullo stesso giornale Antonio Campillo, presidente della Red Española de Filosofía, ricorda che «perfino le scuole per manager sanno che economisti e ingegneri hanno bisogno delle materie umanistiche ». Il dibattito continua.

Perfino in Germania patria di Kant e Hegel 
non è più nei programmi degli istituti superiori

Oggi piacciono i guru del pensiero, i life coach 
“Ma così diventa un fenomeno pop”

La Spagna cancella la filosofia? «È la testimonianza che hanno vinto i manager, i fautori del pensiero monetizzabile». Roberto Esposito difende la «disciplina che ci allena a pensare e a sviluppare le nostre capacità logiche », e dice: «Non mi stupisco. Tutto questo fa parte di un processo di economicizzazione del sapere avviato da anni». Massimo Cacciari è ancora più duro: «Si vogliono formare persone disarmate dal punto di vista culturale, per le quali conta solo il risultato».
Un destino curioso quello della filosofia. Ha fondato la nostra civiltà ma si deve difendere da chi vorrebbe considerarla inutile. Il rischio anche nel nostro paese è vederla relegata tra le materie facoltative che lo studente può decidere se studiare o meno. Anche se finora “resistono” le tre ore settimanali nei licei classici, scientifici e delle scienze umane, ridotte a due negli altri licei, tra cui il musicale e l’artistico. Il processo di marginalizzazione procede però a grandi balzi in altri paesi europei. In Germania, la patria dei filosofi, è sparita da tempo dalle scuole superiori, in Francia le ore di insegnamento sono state ridotte, mentre nelle nostre università si tende a relegarla ad una disciplina ancellare di altre materie. Emanuele Severino critica le mosse dei governi europei: «Più che una povertà filosofica si tratta di una povertà concettuale. Si sta imponendo la cultura di carattere tecno-scientifico. La scienza è oggi convinta di poter andare al di là di ogni limite, ma è la filosofia a dare valore alla scienza. La potenza della tecnica è dovuta a un teorema filosofico: che di limiti non ce ne siano». Dobbiamo dunque abituarci a un processo irreversibile? «Sì, almeno fin quando non ci si renderà conto che il paradiso della tecnica dà una felicità ipotetica. Che quel paradiso è in realtà un inferno».


L’allarme degli studiosi italiani
“Non è una disciplina da yes-men per questo vogliono cancellarla”

Raffaella De Santis

Un impoverimento che non ci è estraneo: «Negli anni ho notato un progressivo deterioramento — racconta Esposito — Nelle università c’è ormai la tendenza ad inserire i corsi di filosofia dentro quelli di pedagogia. Conta più il pedagogo che lo studioso ». Eppure, come fa notare Remo Bodei «la filosofia serve a creare la nostra personalità, ci aiuta a costruire l’identità, ci dà le coordinate per orientarci nel mondo. Senza essere un fautore della bottega filosofica, credo sia un errore ciò che sta accadendo in Europa. In Germania si studia filosofia solo nelle scuole di élite, mentre sono i valori umanistici a darci uno sguardo non specialistico».
Qualche anno fa abbiamo assistito ad un’improvvisa rinascita di interesse. Il filosofo d’un tratto ha preso il posto dello psicologo, è diventato un life coach, un guru, un maestro di vita. Per Esposito è proprio lì il segno dei tempi: «Il pensiero implica un lavoro, l’incontro con un ostacolo, non può essere usato per risolvere problemi. Ma oggi piace di più la pop filosofia».
Un senso comune piuttosto riduttivo associa la filosofia a ciò che è astratto (la classica immagine del filosofo con la testa fra le nuvole). Come se il sacrificio avvenisse in nome di un sapere più pratico e pragmatico. I filosofi sanno che non è così. Massimo Cacciari è preoccupato e spiega bene le implicazioni pro- fonde dello studio filosofico: «La filosofia è una ricerca sulla nostra storia, sul nostro destino, indaga le ragioni profonde della storia della civiltà. È molto concreta, tutt’altro che astratta». E Maurizio Ferraris, poco incline al postmoderno e sostenitore di un “nuovo realismo” filosofico, ne parla come di un «antidoto contro dogmatismi, integralismi e intolleranze. Una nazione che sappia di filosofia — dice Ferraris — è una nazione che a livello diffuso è più aperta di una che non ne sappia niente. Detto questo, togliere la filosofia dai licei non comporterà la riduzione dei filosofi, come mostra il caso della Germania».
Poi su come la filosofia vada insegnata nelle scuole secondarie, i filosofi non si trovano sempre d’accordo. Per Ferraris l’approccio storico è quello più utile: «Meglio insegnare la storia della filosofia piuttosto che fare come i francesi che procedono per problemi filosofici. Così come è meglio insegnare la letteratura raccontando Dante, Petrarca e Boccaccio (e facendo leggerne i testi) piuttosto che invitando gli studenti a comporre endecasillabi su problemi teologici ».
Ma Cacciari avverte: «Se viene insegnata come una marcetta trionfale, passando da filosofo a filosofo, inanellando una catenina di opinioni, è un disastro. Altra cosa se la filosofia è una riflessione critica sul vocabolario della cultura europea, anche quella tecnico-scientifica ». Perché non è vero che scienza e filosofia sono antitetiche, è un altro luogo comune pensarle nemiche e credere di poter sacrificare la filosofia, ritenendola meno al passo con i tempi. Paolo Zellini, studioso che nei suoi libri ha indagato il rapporto tra matematica e filosofia, lo spiega bene: «Anche le formule filosofiche si capiscono meglio se si collegano alle formule matematiche. Quando Aristotele sostiene che l’ideale etico dell’uomo è nel giusto mezzo tra eccesso e difetto, sta utilizzando due categorie che tornano continuamente nei calcoli matematici». E tanto basta a vanificare anche l’argomento scienza contro discipline umanistiche.
Si può vivere senza filosofia? Giulio Giorello risponde: «Si può, certo, ma sarebbe una vita molto squallida. Da Platone ad Heidegger, la filosofia è un grande esercizio di libertà. E a chi fa notare che ci sono materie più “utili”, rispondo che è vero, ma la filosofia è utile proprio come esercizio superfluo dell’intelletto. Come diceva Re Lear “toglietemi tutto, ma non il superfluo”». La conclusione di Cacciari è però amara: «Sta diventando opzionale tutto ciò che dà una prospettiva critica. La classe politica diventa ogni giorno più ignorante. È una tendenza generale, non solo italiana. Un processo irreversibile, non mi faccio nessuna illusione».