domenica 1 febbraio 2015

Il tempo ha ripreso a scorrere


Un fisico sovverte le teorie di Einstein, una psicologa e un neurobiologo
 sembrano descrivere il fluire delle ore come un’illusione del cervello. 

Ma una convergenza è possibile

Sandro Modeo

"Corriere della Sera - La Lettura",  25 gennaio 2015

Fino a poco tempo fa, le prospettive della scienza sul «mistero del tempo» si diramavano in due direzioni alternative. Da una parte avevamo la fisica, tendente a presentarlo come un’illusione dei sensi e quindi a negarlo: se per Einstein e Minkowski il tempo non è altro che una dimensione del palcoscenico cosmico (la quarta, inseparabile dalle tre dello spazio), alle invisibili scale quantistiche — a maggior ragione — non esistono direzioni spaziotemporali: l’euritmica «danza delle Ore» del mito greco si frange qui nel brulichio casuale degli atomi. Dall’altra parte, avevamo la biologia, surrogata dall’esperienza, in cui il tempo scandisce le sequenze degli organismi (nascita-sviluppo-riproduzione-morte) in un senso irreversibile: la sequenza retrograda è possibile solo in certe fiction, come nel Philip K. Dick di In senso inverso, dove i morti («bussando» dall’interno delle bare) regrediscono in adulti, bambini e poi feti accolti da ventri materni a loro volta in regressione temporale, fino all’implosione completa.
Ma adesso il quadro sembra complicarsi e — in apparenza — capovolgersi. Un fisico teorico autorevole e originale come Lee Smolin propone un libro «militante»  La rinascita del tempo) in cui sovverte il paesaggio della fisica, reimmettendovi il fluire del tempo come svolta metodologico-filosofica; mentre le scienze cognitive e le neuroscienze (pensiamo a un libro recente della scrittrice-psicologa Claudia Hammond, Time Warped, tempo «piegato» o «distorto» e a uno prossimo del giovane neurobiologo Dean Buonomano, The Brain Is a Time Machine) sembrano descrivere il «senso del tempo» nel cervello come uno spettro di variazioni illusorie nella nostra rappresentazione del mondo esterno.
Per argomentare la sua ambiziosa proposta-break, Smolin costruisce il libro in due «movimenti». Nel primo (più breve) riassume forza e suggestione della visione dominante: quell’«universo-blocco» in cui le leggi fondamentali — dal moto alla gravitazione — preesistono alla materia istruendone le dinamiche. È un universo simile a una rete astratta e immutabile, dove il tempo è traducibile in geometria atemporale e dove (seguendo la cosmologia quantistica di Julian Barbour, l’autore della Fine del tempo ) ogni oggetto o evento è simile a un’istantanea in una «vasta collezione di momenti congelati», dissolvendo — col prima e il dopo — anche i nessi causali tra i fenomeni. Nel secondo movimento (risalendo a intuizioni di Dirac, Wheeler e Feynman), Smolin mostra invece le leggi fisiche soggette allo stesso processo evolutivo («temporale») degli organismi viventi, e in quanto tali inseparabili dalla materia e dalle sue proprietà fisico-chimiche.
In questo modo, le leggi si mutano da fondamentali in «approssimate» ed «emergenti», sempre penultime rispetto ad altre «più» fondamentali: al punto che la loro efficacia, paradossalmente, consiste nell’applicarsi a dinamiche locali (Smolin parla di «troncamenti di natura»), a porzioni perimetrate di universo piuttosto che all’universo intero.
Non tutto, in questo re-ingresso del tempo in fisica, è convincente. Per esempio, l’analogia tra evoluzionismo biologico e cosmologico appare, al momento, sfocata e spericolata: vedi il paragone tra la selezione naturale nelle specie (per mutazioni-variazioni genetiche) e quella tra universi in competizione attraverso i buchi neri e le loro «discendenze» (ce ne sono, nell’universo conosciuto, un miliardo di miliardi), anche se proprio quest’ipotesi è stata di recente vagliata dallo zoologo di Oxford Andy Gardner. Si tratta però di sfocature, sia chiaro, in un libro che ha il merito non trascurabile di riportare nella disciplina una ventata di realismo adulto, dopo lunghe infatuazioni metafisiche, dalle «teorie del Tutto» al multiverso.
Come si diceva, i libri della Hammond e di Buonomano sembrano invece inquadrare il «senso del tempo» nel cervello come configurazione illusoria, fitta di distorsioni e autoinganni. «Sembrano», perché in realtà il loro obiettivo è mostrare come quel «senso» — innegabile — sia tutt’altro che oggettivo; se lo fosse, non avremmo bisogno di orologi e cronometri.
Tutto parte dal fatto che il «tempo interno» è un’applicazione particolare di schemi mentali adattativi (consci e inconsci) più generali e flessibili, selezionati dall’evoluzione per l’orientamento, la fuga/predazione e la riproduzione. A rigore, in effetti, l’unico vero «orologio biologico» di cui disponiamo è la regolazione del rapporto sonno/veglia rispetto alla luce e alla temperatura, la cui base neurale è nell’ipotalamo: orologio peraltro non esclusivo dei mammiferi, dato che lo posseggono anche piante, fiori e persino batteri (certe proteine-orologio che si autoregolano su cicli di 24 ore). Per sotto-orologi più specifici, ricorriamo a un patchwork funzionale prelevato da un ventaglio di aree e circuiti neurali adibiti ad altre funzioni, spesso linkati tra loro: il cervelletto (che presiede al movimento) per valutare i millisecondi; il lobo frontale (memoria di lavoro) per i secondi; i gangli basali (funzioni motorie ed emotività) per discriminare ritmi e affetti della musica; e soprattutto, di nuovo, l’ipotalamo (coinvolto nella memoria a lungo termine) per visualizzare il futuro e predisporre strategie predittive; anche qui, senza particolari privilegi di specie, come mostra il minuscolo colibrì rosso, capace di valutare i 20 minuti necessari a un fiore per caricarsi di nettare prima di affondarvi il becco.
Decisive, nella modulazione di questo patchwork (che intreccia senso dello spazio e del numero, memoria ed emozione) sono le variabili ambientali-culturali: a popolazioni come gli amazzonici Amondawa (che non hanno parole per le unità di tempo, né calendari) si oppongono le nostre società iper-cronometrate, dove tutti siamo come il Bianconiglio di Alice; mentre la rappresentazione mentale di passato e futuro segue le direzionalità del metodo di scrittura: gli occidentali da sinistra a destra, gli arabi e gli ebrei al contrario, i sinofoni in senso verticale, col passato in alto e il futuro in basso.
E altrettanto contano le variabili soggettive oscillanti tra fisiologia e patologia, che si traducono in una vera fantasmagoria di fattori distorsivi del tempo. Alcuni sono immediati: la paura e la malattia lo rallentano, l’euforia o l’attenzione lo accelerano. Altri sono più sorprendenti, come le visioni sinestetiche, in cui i giorni si associano ai colori, i mesi a cerchi anti-orari o a spirali, gli anni a ellissi imperfette. Altri ancora, sono perturbanti: è il caso delle crono-alterazioni nell’isolamento o in certe lesioni cerebrali, dell’«eterno presente» nei bambini iperattivi, del non-tempo negli psicotici.
Del resto, che il tempo abbia una «forma» lo ricorda anche il codice Morse, dove l’alternanza di punti e linee con i relativi intervalli fa emergere le frasi un po’ come i puntini fanno emergere volti o alberi nei quadri di Seurat.
Alla fine di questo percorso incrociato — tra soluzioni aperte e domande inevase — è possibile almeno reimpostare la rotta concettuale. Condividendo la cerniera evoluzionistica, la prospettiva di Smolin e quella di Hammond-Buonomano convergono anche nel descrivere quella dialettica fluida tra cervello e ambiente (esteso dalla stanza in cui siamo alle vastità dell’universo) di cui l’ordine temporale è solo un aspetto, anche se tutt’altro che secondario. Se, come scrive Putnam, «la mente e la realtà costruiscono insieme la mente e la realtà», anche il tempo deve rientrare in questa costruzione. Separati solo per convenzione — in quanto unica e contigua è la materia che li veicola — il tempo «esterno» della fisica e quello «interno» del cervello cercano una difficile sincronia: ma pensare che il primo possa scorrere senza passare per il filtro del secondo, questa sì è un’illusione, se non un’allucinazione.

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