Poeta, filosofo, ma anche maestro di compassione
Il filologo Antonio Antonio Prete: troppo a lungo ridotto a «pessimista»
intervista di Paolo Di Stefano
"Corriere della Sera - La Lettura", 25 gennaio 2015
Non ci si stanca mai di tornare a Giacomo Leopardi. Lo sa bene Antonio Prete, che da oltre trent’anni studia quel particolare rapporto tra meditazione e poesia che fa dell’opera leopardiana un unicum pressoché labirintico. Da Il pensiero poetante (1980) a Il deserto e il fiore (2004), Prete (che ha insegnato Letteratura comparata a Siena per lungo tempo) ha indagato nel laboratorio di Leopardi, insieme frammentario e progettuale, mettendone a fuoco l’incessante mobilità attorno a motivi ricorrenti come il desiderio, il piacere, la ricordanza, la critica alla civiltà, la finitudine e l’infinito, il rapporto con gli antichi, la lontananza dalla natura e la sua evocazione. Il giovane favoloso, il film di Mario Martone, ha portato sulla scena il poeta e l’uomo, secondo alcuni semplificandone la complessità quasi biologica.
Che cosa ne pensa, professore?
«Aver contribuito a mettere in dubbio lo stereotipo scolastico del pessimismo è un merito del film, che ha anche mostrato come in Leopardi l’abito critico, non rassegnato, fosse insieme vitale e corrosivo, affabile e ironico. La formuletta del pessimismo ha impedito di cogliere come la scrittura di Leopardi sappia tenere insieme la rappresentazione del tragico e la musica del verso, lo sguardo sulla finitudine del vivente e l’apertura costante del desiderio, oltre che la necessità dell’immaginazione. E tutto questo accompagnato da un amore sconfinato per il sapere. Un amore non astratto, ma rapportato sempre all’esistenza individuale, al respiro dei viventi, uomini e animali, al legame profondo che unisce tutte le forme della natura, dalle piante alla luna, dal ritmo della nostra vita quotidiana allo spalancarsi delle galassie».
Ciò non toglie che nel film ci siano alcuni elementi caricaturali.
«Il film non va considerato come un saggio critico o una ricerca biografica, ma appunto come film, nel ritmo del suo linguaggio, della sua finzione. Se ci si mette dal primo punto d’osservazione è facile mostrare alcune riserve, tra cui l’eccessivo indugio sulla deformità di Giacomo o la scarsa veridicità di personaggi come Silvia o Fanny o Ranieri».
A più di trent’anni dal suo «Pensiero poetante», com’è cambiata la prospettiva sulla poesia filosofica o filosofia poetica di Leopardi?
«Il proposito che m’ero posto scrivendo Il pensiero poetante era motivato dalla scena degli studi leopardiani come si presentava ancora negli anni Settanta, quando poesia e filosofia apparivano due cammini separati. Mi interessava invece leggere in Leopardi il reciproco interrogarsi di filosofia e poesia. Volevo cogliere la dimensione conoscitiva dentro la forma poetica e la presenza del poetico nel definirsi di un pensiero, dei suoi modi. Lo Zibaldone era il luogo, il mirabile “labirinto”, in cui quel pensiero, sempre in movimento, andava disegnando una mappa della conoscenza insieme corporale e fantastica, fisica e poetica. Oltre che una morale inappropriata alla sua epoca, fragile, disutile, fantasiosa. E una critica della civiltà, dei suoi aspetti di astrazione e di violenza. Una morale, e una critica, per la nostra epoca. Ma in tutta la scrittura leopardiana respira una conoscenza della condizione umana che non separa il tragico dalla leggerezza, la disillusione dal “sorriso” della poesia, il sapere del limite dal desiderio “illimitato”. Negli ultimi trent’anni la scena è cambiata moltissimo».
Gli studi su Leopardi si sono sempre divisi tra visioni opposte: non solo il poeta versus il filosofo, ma anche il romantico versus l’illuminista, il pessimista storico versus il pessimista cosmico, il progressivo versus il nichilista... Oggi?
«Gli studi sul pensiero leopardiano hanno avuto una grande fioritura: si sono indebolite le interpretazioni diciamo “a tesi”, cioè preoccupate di privilegiare un Leopardi materialista piuttosto che esistenzialista, neoilluminista piuttosto che romantico. Tutto questo ha lasciato il campo a indagini ravvicinate su aspetti e temi e figure del pensiero. Le tante traduzioni in lingue straniere hanno favorito e allargato le indagini. In un certo senso Leopardi ha cessato di essere solo un classico della letteratura: antropologi, linguisti, scienziati ne interrogano le idee. Diversi filosofi hanno attraversato la sua opera».
Tra i suoi interessi critici ci sono alcuni sentimenti, come la nostalgia, che derivano dalla lettura assidua non solo di Leopardi, ma anche di Baudelaire. Come vengono declinati in letteratura?
«Sono stato anche attratto dalla riflessione su alcuni sentimenti, sul loro linguaggio, sulla loro rappresentazione. Per la nostalgia mi interessava seguire, oltre che il passaggio da malattia a sentimento, il suo trasformarsi in lingua della narrazione e della poesia: in effetti la scrittura trasmuta l’impossibilità del ritorno, del nostos, che è l’assillo del nostalgico, e il suo algos, il suo dolore, in un nuovo tempo e ritmo, insomma dà presenza a quel che non ha più presenza, riesce a portare nella lingua una vita, e un sentire, che erano confinati nell’impossibile. La nostalgia nasce dal fatto che il tempo è irreversibile. Si può tornare a un luogo, ma non al tempo vissuto in quel luogo. Noi stessi siamo cambiati quando torniamo in un luogo, e quel luogo stesso non è più quello che abbiamo abitato. Ma questo impossibile ritorno invece, nella scrittura, si dischiude con una sua energia di vita e di rappresentazione: il tempo che non c’è più si fa tempo del raccontare, le immagini cancellate prendono movimento e lingua. Ecco perché bisogna tener vivo il senso della nostalgia, e non piegarlo nel rimpianto, ma liberarlo nella narrazione, anche orale. Siamo fatti di quel che non c’è più. Evocare quello che non c’è più dilata l’esistenza, il suo tempo e il suo spazio. Il suo linguaggio. Alla nostalgia regressiva si deve opporre una nostalgia creativa, attiva».
E la lontananza? Oggi sembrerebbe cancellata dalla tecnologia...
«Oggi è resa domestica, prossima, fruibile in ogni istante sul monitor e sul display (l’avverbio greco teēle , lontano, va a comporre la tecnica del nostro tempo, la telematica, la televisione, il telefono). Ho cercato di riflettere su figure come l’addio, l’orizzonte, il cielo, ma anche sulla nascita della cartografia fantastica, sul “vedere da lontano”, sulla domanda leonardesca relativa al come dipingere la lontananza. E questo per mostrare come la letteratura e le arti tengano aperto il tempo e lo spazio della lontananza, ne attraversino la profondità e l’estensione. Mentre il rischio oggi è che ci si illuda di vivere la lontananza, mentre semplicemente la si consuma. Non sopprimere la lontananza mi sembra un compito all’altezza della nostra epoca. Il che vuol dire tenere viva l’immaginazione, non subire la fascinazione oleografica del lontano esotico e mercantile. E televisivo».
Nell’ultimo suo libro, lei si concentra sulla compassione. Non le sembra un sentimento fuori moda?
«La compassione è un grande tema leopardiano: la relazione con il dolore dell’altro. Un sentimento che si svolge nella grande scena in cui tutti i viventi sono uniti dalla loro finitudine, dunque dalla sofferenza, ciascuno con la sua singolarità — di individuo, di specie — e con i suoi desideri, o con le sue ferite. Se la filosofia ha spesso mostrato gli aspetti ambigui, ipocriti, compiaciuti della compassione, la letteratura e le arti hanno invece rappresentato i modi del suo manifestarsi, hanno descritto la lingua, i gesti, la tensione conoscitiva propria di questo sentimento. Hanno mostrato come nel cuore del tragico — pensiamo alle guerre — e contro il furore dell’annientamento, contro la spietatezza, si possa levare, proprio a partire dallo sguardo sul dolore altrui, il tu di una prossimità o fraternità».
La letteratura dunque ci aiuta a essere più compassionevoli?
«Certo, la letteratura e le arti aiutano a percepire l’altro nella sua singolarità vivente e senziente, e dunque anche nel suo dolore. La compassione diventa riconoscimento del legame che trascorre tra tutti gli esseri viventi, compresi gli animali. Anzi proprio l’animale, con la sua innocenza, denuncia l’immensa rimozione che l’uomo ha compiuto nei confronti della sua presenza, del suo dolore. L’assenza di pietà è radice della violenza. La pietà è invece percezione dell’altro, e di sé. Oggi la spietatezza torna in campo in molte forme. È urgente opporle il senso della compassione».
Che cos’è che la spinge a scrivere poesie in proprio?
«Il fatto che la poesia è l’esperienza di una lingua intensiva, fortemente interiore, necessaria. E ha a che fare con l’impossibile: è vera, come diceva Baudelaire, “soltanto in un altro mondo”. La poesia, o meglio il poetico, è la sostanza ricorrente delle mie interrogazioni, e forse anche la ragione che mi spinge a scrivere: nella forma del saggio, del verso, del racconto eccetera. E anche nella forma della traduzione. Dove quel che è messo in campo è ancora il rapporto con l’altro. Nasce così un nuovo testo poetico, ma all’ombra dell’altra lingua».
«Nietzsche definì Leopardi «il più grande prosatore del XIX secolo»
Leopardi, il più grande pensatore (e non solo) dell’800
Era uno di noi? No
Emanuele Trevi
Senza mezzi termini, Nietzsche definì Leopardi «il più grande prosatore del XIX secolo». Credo che non si trattasse di una provocazione. Riconosceva in Leopardi qualcosa che gli assomigliava in maniera profonda e vincolante. Una prodigiosa capacità di sovvertire i luoghi comuni e le abitudini del pensiero in entrambi si era sviluppata nella più severa e conservatrice delle palestre mentali: la filologia classica. Un’indefessa attenzione al significato delle parole li aveva trasformati in eretici e in fin dei conti in emarginati. Furono talmente soli che la loro solitudine risalta più sul metro delle amicizie che delle inimicizie, perché anche coloro che li compresero e li ammirarono rimasero molto al di sotto delle vette che avevano raggiunto. Si può immaginare che Nietzsche, quando parla del «prosatore» Leopardi, non lo voglia contrapporre all’amato Stendhal, incapace di scrivere versi, né voglia dichiarare una preferenza per le Operette morali a scapito dei Canti . Il «prosatore», in qualunque maniera si esprima, è colui che antepone la verità dei fatti della vita a ogni forma di consolazione.
Questo amore della verità gli impedisce ogni forma di compromesso con il mondo, nel quale non ha chiesto di nascere e che di sicuro non è stato creato per lui. Ma soprattutto, l’esistenza, se considerata con occhi spogli da illusioni e ottimistiche chimere, non prevede nessun tipo di progresso. La vita naturale è cieca ripetizione, così come tutte le ideologie politiche che aspirano a una felicità collettiva poggiano su una premessa illogica. Come si può immaginare una «massa» di uomini felici, scrive Leopardi in una famosa lettera, se quella «massa» è composta da singoli individui, che non possono che essere infelici? Il 5 dicembre 1831, quando scrive queste parole a Fanny Targioni Tozzetti, Leopardi ha raggiunto il vertice della sua consapevolezza umana e filosofica. È davvero il più grande «prosatore», e pensatore, del suo tempo: un uomo che punta i piedi, che sa che il male è il male e che mai si potrà mischiare al bene in un’improbabile sintesi, religiosa o politica che sia. Che cosa resta da fare? Le soluzioni non possono che variare a seconda dei singoli caratteri.
Quanto a lui, ha deciso di imitare «i Turchi» con la loro sana abitudine «di sedere sulle loro gambe tutto il giorno, e guardare stupidamente in viso questa ridicola esistenza». Bisogna sempre stare attenti all’italiano di Leopardi, così vicino alle più pure sorgenti dei significati delle parole. Così, quando in una poesia definisce la vita «stupenda», significa che la vita suscita stupore. E il contemplare «stupidamente» il ridicolo dell’esistenza sarà tutt’altro che un atteggiamento stupido. Ma come poteva essere tollerato, questo impareggiabile «Turco», finito come un grano di pepe nella marmellata ottimista del suo tempo? E non si tratta solo dell’ingenuo e fervido Ottocento. La realtà è che ancora oggi quell’uomo spietato non lo possiamo tollerare. Continuiamo a interpretarlo tirandolo per la giacca. La gran parte della critica leopardiana è un immane tentativo di razionalizzazione e addomesticamento. In tutte le salse: incredibilmente, non sono mancate la socialista e addirittura la cattolica. Ma non è vero niente: lui non era dei nostri, non era come noi. Non ci teneva minimamente.
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