Armando Torno
"Il Sole 24 Ore- Domenica", 10 maggio 2015
Velocità: è una parola dalla storia infinita. Che conosciamo però approssimativamente, evocando il “piè veloce Achille” di Omero o chiedendo Internet rapido (per taluni “un diritto”). Ci sfugge, tuttavia, la molteplice gamma dei suoi significati. La velocità, per fare un esempio stranoto, è una grandezza fisica che gli scienziati, almeno con gli attuali sistemi di riferimento, rapportano al tempo e allo spazio; nel calcolarla ossequiano in ogni loro formula quella della luce. Il Codice della Strada, invece, si preoccupa dei nostri movimenti, fulminando con multe chi non rispetta i controlli diventati più numerosi dei girini in uno stagno.
I filosofi non ne parlano e la voce “velocità” non ha trovato credito nei repertori della categoria. I letterati, invece, la conoscono da millenni e le hanno tributato onori, come quegli iconoclasti dei futuristi che le dedicarono liriche; negli sport era e resta fondamentale, anzi a volte è tutto: per questo è idolatrata. Si vorrebbe eguagliare il campione di pugilato Cassius Clay, poi noto con il nome di Muhammad Ali, il quale ebbe a dichiarare in un’intervista: «Ero così veloce che potevo alzarmi dal letto, attraversare la stanza, girare l’interruttore e tornare a letto prima che la luce si fosse spenta».
La velocità gode di ottima salute, anzi trova sempre più credito. In politica, almeno nell’ultimo secolo, è diventata essenziale: le vicende del governo Renzi andrebbero spiegate tenendo conto, appunto, della notevole velocità con cui l'attuale presidente italiano sa muoversi. Anche l’economia ne ha sempre più necessità; la comunicazione ne ha fatto addirittura una ragione di vita. Si potrebbe aggiungere che l’industria la scoprì allorché ebbe bisogno di svelta manodopera per alimentare la produzione e battere la concorrenza. Inutile fissare una data, ma è certo che i primi film comici di inizio Novecento – osservava con arguzia un sottile critico come Beniamino Placido – erano montati con una velocità artificiale per abituare le masse rurali ai celeri ritmi che sarebbero stati necessari nella nuova industria. Coloro che erano cresciuti nella civiltà contadina ne ridevano, ma pagavano l’ingresso allo spettacolo e si preparavano ad accelerare i loro movimenti adattandoli alle richieste. Insomma, il film muto caratterizzato dal buffo agitarsi del mitico Larry Semon, noto come Ridolini, oltre a creare profitti va considerato una trovata geniale.
Ma è proprio sulla velocità, anche se la filosofia non la degna di uno sguardo, che si gioca il futuro. Hartmut Rosa, professore a Jena e direttore del Max-Weber-Kolleg a Erfurt, ha analizzato l’utilizzo del tempo nella tarda modernità in un saggio dal titolo “Accelerazione e alienazione” appena tradotto da Einaudi (pp. 136), evidenziando alcune verità che si potrebbero utilizzare quali leggi di un’ipotetica fisica sociale. Proviamo a riassumerne una con parole semplici: nelle civiltà occidentali le persone soffrono per mancanza di tempo e, per tale motivo, sentono il dovere di correre ancora più in fretta, non per riuscire a raggiungere un determinato obiettivo ma per non perdere posizioni. La velocità, per dirla in soldoni, si è trasformata in sinonimo di sopravvivenza. Un’aspirazione antica, aggiungerà qualcuno, divenuta il denominatore comune del presente. O forse ha questa fortuna nei momenti di crisi? D’altra parte, il grande Ralph W. Emerson ne “Il carattere e la vita umana” (si legge nei suoi magnifici “Saggi di filosofia americana”) osserva in pieno Ottocento: “Quando si pattina su ghiaccio sottile, la salvezza sta nella velocità”.
Hartmut Rosa parla dei mutamenti in corso evidenziando alcuni punti. Basta soltanto citarli e ci si accorge della rivoluzione innescata dalla velocità. Per esempio, parlando di accelerazione nota che essa sta colpendo la stessa tecnologia, i mutamenti sociali, il ritmo di vita. La decelerazione, caldeggiata a volte dalle comunità tradizionali, è in un angolo. Di più: il professore di Jena nota che l’accelerazione è “una nuova forma di totalitarismo”. Perché? Lasciamogli per qualche riga la parola: “La progressione dell’accelerazione sociale, trasformando il nostro regime spazio-temporale, può a buon diritto essere definita onnipervasiva e onninclusiva: essa esercita la sua pressione inducendo la paura permanente di poter perdere la battaglia e di non essere più capaci di tenere il ritmo, ovvero di soddisfare in modo adeguato le richieste (sempre più numerose) che ci si trova a fronteggiare; il timore, quindi, di aver bisogno di una pausa e di rimanere per questo esclusi dalla gara. O, per chi è disoccupato o malato, la preoccupazione di non riuscire più a rientrare in gara, di essere già rimasti indietro”. Insomma, la velocità non è innocente. Anche se inevitabile.
PER APPROFONDIRE vedi anche QUI.
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