Maurizio Ferraris
"La Repubblica", 8 maggio 2015
La più seria obiezione nei confronti di una ricetta per la felicità è che non sarebbe molto diversa dalla ricetta per l’eleganza. Subito si dovrebbe chiedere: eleganza di chi, in quale occasione, in quale condizione sociale e in quale epoca?
Per la felicità le cose non vanno diversamente, e i filosofi sono stati i testimoni, spesso inconsapevoli, di questa circostanza. Chi, per esempio, oggi, in una cultura dominata dall’imperativo faustiano dell’agire, sarebbe disposto a pensare davvero che la felicità, come sosteneva Aristotele (seguito in questo da molti suoi contemporanei e connazionali) consiste nella contemplazione?
E non bisogna dimenticare che, mentre Aristotele, o molto tempo dopo Averroè e Dante, scrivevano di felicità mentale, molti dei loro contemporanei non ne avevano la minima idea, né la più remota aspirazione. E certo non potevano immaginare che un autorevole filosofo contemporaneo, Stanley Cavell, avrebbe intitolato La ricerca della felicità (1981) uno studio sui film americani che parlano dei secondi matrimoni.
Posto che la felicità sia un accordo tra il nostro stato interno e lo stato del mondo in cui viviamo, non è difficile concludere che ci sono tante versioni della felicità quante sono le storie e le geografie che le circondano. Questa considerazione può apparire un po’ facile ed eccessiva, ma per saggiarne la verità basterà ricordare i molti momenti della nostra vita in cui ci siamo annoiati in un contesto in cui gli altri erano felici. Per esempio: una cena di adulti quando siamo bambini. Loro scherzano e ridono, sembrano felici, ma perché? Se quegli adulti, come spesso accade, sono i nostri genitori, non apparirà sorprendente che le ragioni della felicità di un romano antico, di un mercante medioevale, di un membro di una cultura radicalmente diversa, possano non assomigliarsi in alcun modo.
Oggi ci appare retorico pensare che la semplice osservanza delle leggi possa essere fonte di felicità, eppure è in definitiva l’argomento con cui Socrate dà ragione del suo andare volontariamente alla morte. Quando i kamikaze giapponesi si davano volontariamente la morte il mondo occidentale è rimasto sconvolto, dimenticando però che c’era stato un tempo, neppure troppo lontano, in cui quella morte sarebbe apparsa una fonte di felicità anche in Occidente.
Da questo punto di vista, le indagini che si fanno sulle ragioni della felicità sono uno strumento non tanto per imparare a essere felici (è una delle arti più problematiche e dubbie che esistano), né per stabilire che cosa sia la felicità (è uno dei concetti meno definibili, a differenza del suo contrario, l’infelicità, che è quasi sempre certa) quanto piuttosto per capire quali sono i valori che contano in una società, e i totem e tabù che la guidano.
Per esempio, siamo certi che la tripletta del 1938 “sicurezza, conoscenza e religione” riveli davvero le supposte cause di felicità dei nostri nonni e non invece l’idea che fosse disdicevole aspirare anzitutto al buon umore e al tempo libero?
Nessun commento:
Posta un commento